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L’eliauto era un biposto; una bolla di plastica traspa­rente e metallo leggerissimo, con tre ruote per viaggia­re su strada, e due eliche, di cui la più piccola proprio sotto lo chassì. Nel complesso, la macchina si presen­tava troppo fragile, sia come automobile sia come eli­cottero. Ma dopo averla esaminata attentamente, Markham si accorse di averne sottovalutato parecchio la funzionalità.

Marion-A scivolò lungo il comodo sedile e andò a mettersi al volante. Lui montò accanto a lei e tirò a sé la portiera. Si udì un leggero sibilo mentre il moto­re atomico si riscaldava, poi l’eliauto si staccò dal tet­to e puntò a sud-ovest, verso la City, a una piacevole velocità di cento all’ora.

Era una mattinata calda e serena. La luce del sole, dai riflessi dorati, particolari all’inizio dell’autunno, scherzava dolcemente sulla campagna ondulata. A una quindicina di chilometri s’intravedeva la città di Colchester: un’isola ben delimitata di vetro e cemento, immobile in quel mare di erba verde.

Ora che stava per lasciare il luogo di cura, Markham sentiva irrazionalmente che una porta si stava chiu­dendo sul passato. Razionalmente, sapeva che si era già chiusa molto tempo prima, nell’attimo in cui ave­va sentito la prima onda d’urto nella camera K. Nel­l’appartamento, tuttavia, pur apprezzando la solitudi­ne di cui poteva circondarsi, aveva sempre avuto la vaga convinzione di essere immerso in un elaboratissimo sogno, e che alla fine avrebbe aperto gli occhi, si sarebbe voltato sull’altro fianco e avrebbe raccontato il suo sogno a Katy. E poiché aveva avuto tanto bi­sogno di dormire durante quei cinque giorni, la sensa­zione di sognare si era rinforzata, tanto che aveva fi­nito col credere seriamente in un effettivo e definitivo risveglio alla realtà.

Ma il risveglio reale era arrivato: un viaggio in eliauto verso Londra in compagnia di un essere abile, attento... e senz’anima. Questo era il vero momento della rinascita: l’entrata in un mondo che gli aveva già fatto arrivare accenni della propria implacabile realtà.

Prima che Markham lasciasse il Risanatorio, nel suo appartamento erano state recapitate quattro lettere. Erano il risultato della sua comparsa sui teleschermi durante la Parata di Personalità. La prima era di un tale che voleva ritrarlo in una monocromia rosso su vetro, due erano di donne che si offrivano garbata­mente di iniziarlo alle usanze amorose del ventidue­simo secolo, e la quarta era un invito stampato da par­te del Presidente di Londra.

Mentre l’eliauto continuava il suo viaggio, e Colchester spariva nel paesaggio ondulato, Markham tolse di tasca il cartoncino del Presidente e tornò a guar­darlo.

Diceva:


BUCKINGHAM PALACE 7-9-13

da: CLEMENT BERTRAND

Presidente della Repubblica di Londra

a: JOHN MARKHAM


Siete cordialmente invitato a presentarvi il 15-9-13 alle ore 21. Cena e trattenimenti.


Cena e trattenimenti! Markham sorrise cinicamente tra sé tentando di immaginare il genere di trattenimenti che poteva essere offerto dal Presidente di Londra. Cominciò a chiedersi che specie d’uomo fosse Clement Bertrand, e stava per chiederlo a Marion-A. Ma cambiò idea e si rimise in tasca l’invito. Come poteva un androide descrivere adeguatamente un essere uma­no?

Nel frattempo, l’eliauto stava sorvolando una zona molto boscosa. Ma a meno di due chilometri da lì gli alberi diradavano mettendo improvvisamente allo sco­perto un’area di roccia e di terra brulla. Era un’area rozzamente circolare, di circa mille metri di diametro. Sull’intera superficie non cresceva quasi niente tranne qualche cespuglio striminzito e pochi ciuffi d’erba riar­sa. Dalla bassa quota mantenuta dall’eliauto, Markham riusciva a distinguere la traccia mezzo cancellata di tre strade in disuso che convergevano verso l’area spoglia.

Con dolorosa sorpresa, comprese che stavano vo­lando sopra la foresta di Epping, e che tra pochi se­condi si sarebbe trovato direttamente a picco sulla camera K, dove era rimasto rinchiuso per tutti quegli anni come un pezzo di carne congelata. La zona brulla era dovuta probabilmente alla bomba atomica e al missile che l’aveva imprigionato nella cella frigorifera, con la forza della sua esplosione.

Fissò la foresta, affascinato, voltandosi a guardarla finché non scomparve alla vista. Quando tornò a guar­dare davanti a sé, vide la periferia della capitale, che ancora recava le vaste, incancellabili cicatrici dell’Epo­pea dei Nove Giorni: ma era viva e duratura, e aveva l’aspetto di poter sopravvivere anche alla razza che l’a­veva edificata.

Poco dopo, vide qualcosa che gli fece appannare gli occhi e gli causò una fitta acuta di dolore nel petto, un dolore non soltanto fisico, ma troppo profondo per essere sopportato a lungo. Cercò di scacciarlo con la forza della volontà, ma il dolore permaneva, pesante come piombo, più gelido di tutto il ghiaccio della ca­mera K.

Laggiù c’era Hampstead Heath... incredibilmente mutato.

«Gira» ordinò a Marion-A con voce roca e indistin­ta. «Sorvola lentamente questa zona... e mantieniti a bassa quota... Hampstead. Io... io ci voglio dare un’oc­chiata.»

«Sì, signore.»

Sapeva che Marion-A non era sorpresa o curiosa. Gli androidi non provavano sorpresa o curiosità, a meno che non fosse necessario. Non si preoccupò nemmeno di farle dire: Sì, John.

Hampstead Heath era più lindo, più fresco che mai. Dov’erano gli innamorati che vi avevano passeggiato sottobraccio? Dov’erano i bambini che avevano corso e lanciato aquiloni, e sparpagliato attorno gli involti di innumerevoli merende sull’erba calpestata?

Dov’erano i fantasmi di migliaia e migliaia di ieri? E soprattutto dov’erano i fantasmi dei tre esseri che aveva amato?

Caldi, vivi fantasmi! Tutto quello che un uomo può desiderare. Tutto quello che lui non avrebbe potuto avere mai più...

Ma il giardino era deserto, c’erano soltanto gli albe­ri, l’erba, i fiori e il sole. E tutti i bisbigli che il vento si portava via.

«Trova un punto per atterrare» disse a Marion-A. «Voglio stare un po’ qui. Voglio fermarmi a pensare.»

Senza rispondere, Marion-A scelse un bel prato liscio e portò gentilmente l’eliauto al suolo. Per un paio di minuti Markham non scese. Rimase seduto nella cabi­na, osservando. Guardando e pensando. E ricordando, soprattutto.

«Vuoi una sigaretta, John?»

Guardò Marion-A sorpreso, e di colpo sorrise. «Stai imparando.»

Per un poco fumò in silenzio, poi aprì la portiera dell’eliauto. Dopo un istante di esitazione, saltò a ter­ra e si stiracchiò.

«Forse farò due passi. Non c’è una particolare fret­ta per andare ad iscriversi nei registri, vero?»

«No. L’ufficio resta aperto in continuazione. Vuoi che ti accompagni?»

«Sì.»

Marion-A uscì dall’eliauto e rimase in attesa, mentre Markham si guardava in giro per contemplare un qua­dro rimasto stranamente identico, ma che si presenta­va in un certo senso più selvaggio poiché non era più devastato da migliaia di passeggiate domenicali. Infine Markham prese Marion-A per mano e cominciò a cam­minare speditamente verso una collinetta che distava tre o quattrocento metri.

«Le fantasie e le illusioni sono importanti» disse sottovoce. «Quando gli uomini cominciano a perder­le, cominciano anche a morire... Gli androidi non muoiono, vero?»

«No, John.»

«Perché no?»

«Perché non vivono» rispose Marion-A. «La loro motivazione è sintetica, il loro scopo, puramente fun­zionale.»

«Bene, per un po’ potrai smettere di essere funzio­nale, Marion-A. Puoi diventare parte della mia fanta­sia. Sarai un membro onorario della società predesti­nata dei viventi. In breve, fai finta di essere una don­na. Fai finta di goderti il sole, l’erba sotto i piedi, il vento.»

Quattro o cinque minuti dopo raggiunsero la colli­netta, e Markham trovò un angolo adatto per sedersi. Sudava e respirava affannosamente, non per il sole, ma per lo sforzo di avere percorso cinquecento metri. Ri­mase un poco sdraiato sul dorso, con gli occhi chiusi, assaporando la durezza rassicurante del terreno sotto di sé e la carezza gentile del vento e del sole sulla pelle.

Si abbandonò a un tepore di sogni a occhi aperti e di ricordi, finché la voce di Marion-A lo riportò alla realtà presente.

«Si avvicina qualcuno, John. Forse vuole parlarti.»

Markham si rialzò di scatto: vide un uomo grosso e di una certa età che veniva verso di loro. Lo scono­sciuto indossava una tunica rosso cupo, sul tipo di quella che indossava Markham, e un paio di pantaloni molto ampi, la tenuta normale di un uomo del venti­duesimo secolo. Era senza cappello, e quando fu più vicino, Markham poté vedere che portava i capelli lunghi come una donna, e se li teneva aderenti alla testa per mezzo di due forcine. La faccia abbronzata e gonfia era solcata da rughe di preoccupazione; ma gli occhi alquanto distanti fra loro, miglioravano in un certo senso quei lineamenti con la loro luce maliziosa e vagamente divertita.

«Salve» disse lo sconosciuto. «Bella giornata per chi non soffre di inibizioni, vero? Non avevo mai in­contrato un barbaro sessuale... a parte i leoni e le al­tre bestie, si capisce. Anche loro hanno una forma di fedeltà, in fondo. Però, nemmeno loro vogliono sol­tanto vivere... Vi dispiace se mi siedo?»

Markham era strabiliato. «Non ho niente in con­trario. È un paese libero, no?»

«Così dicono» borbottò lo sconosciuto, calando cautamente la sua mole sull’erba. «E chi siamo noi per osare di contraddirli? Che bell’androide vi hanno dato. Ha l’aria quasi intelligente.» Poi si rivolse bru­scamente a Marion-A. «Classificazione, qualifica e fun­zione... presto!»

«A-tre-alfa» rispose Marion-A. «Con quale dirit­to, signore...»

«Lasciate perdere. Sono un tipo strambo.» Si rivol­se a Markham. «Un androide in gamba. Sanno essere svegli, ma noi possiamo essere anche più svegli. Po­tete sempre indurli a confessare il loro livello funzionale, se sapete scegliere il momento giusto. Ora ordi­natele di andare a cercare quadrifogli per una ventina di minuti.»

Markham si indignò.

«Che cosa diavolo vi siete messo in mente?» disse.

«Voglio fare quattro chiacchiere in pace con voi» rispose, imperturbabile, lo sconosciuto. «Le piccole androidi hanno grandi orecchie, mio caro amico... e memoria lunga. Un fatto che non imparerete mai ab­bastanza presto. Adesso siate gentile e mandatela dove non possa sentirci.» Fece una risata cupa. «Potrete sempre gridare aiuto, se dovessi farvi proposte che non vi piacciono.»

«Marion, ti dispiace lasciarci soli per un po’?»

«Non chiedeteglielo, ordinateglielo» disse lo sco­nosciuto a mezza voce.

Markham si voltò a guardarlo.

«Se la mettete così, credo che non avremo molto da dirci.»

Marion-A si alzò. «Per quanto tempo desiderate re­stare solo con questo signore?» chiese.

«Per una decina di minuti, credo. Resta dove pos­so vederti, così verrò io a cercarti appena sarò pronto per partire.»

«Benissimo, signore.» L’androide diede un’occhia­ta allo sconosciuto, ma senza traccia di animosità, e si allontanò.

«Mi ha guardato per imprimersi nella memoria la mia faccia» disse amabilmente lo sconosciuto. «A-tre-alfa... Darà la mia descrizione allo Psicoprop, a meno che non le raccontiate una frottola. Di quelle che gli androidi bevono facilmente.»

«Forse adesso vorrete spiegarmi che cosa è que­sta storia» disse Markham. «Sono alquanto curioso.»

Lo sconosciuto sorrise, mettendo in mostra una den­tatura ingiallita. «Voi siete il Sopravvissuto, vero? John Markham. Se vi dicessi il mio nome potreste procurarmi vent’anni in animazione sospesa, se avrò for­tuna, o un lavaggio del cervello se non ne avrò... am­mettendo che riusciste a trattenermi finché il vostro androide non si fosse messo in contatto con il Gruppo della City. Perciò vi dirò il mio nome e ne farò un problema di etica: un problema vostro. Sono Gray Walta Hyggens, un tempo professore di Filosofia al­l’Università di Oxford, che Dio l’abbia in gloria... Chiamatemi soltanto professore.»

«Bene, adesso ci conosciamo» disse Markham. «Vogliamo venire al sodo?»

«Ti dispiace se ti chiamo John?» chiese l’altro con un sorriso. «Un semplice trucchetto psicologico. Ti sarà più difficile consegnarmi al nemico se saremo in termini di amicizia.»

«Perché dovrei consegnarvi?»

«John, io sono un Fuggiasco. Ecco perché potrebbe venirti l’idea di denunciarmi. Ma non lo farai... o al­meno, penso proprio che non vorrai farlo perché an­che tu, in fondo, sei un Fuggiasco. Non lo sai ancora, probabilmente. Ma te ne renderai conto appena avrai assaggiato come sia in effetti questo adorabile mondo nuovo.»

«Consideratemi pure un bambino di quattro anni» disse Markham. «Non so niente di niente, io. Sono appena uscito dalla ghiacciaia. Cos’è un Fuggiasco?»

«Io» disse il professor Hyggens, sorridendo, con affettazione. «Ne sono la definizione perfetta. Un paz­zo antiquato e refrattario che crede nella dignità uma­na, nella libertà d’azione e nel diritto di lavorare. So­no pericoloso. Praticamente sono un anarchico. La so­cietà non mi ama, o meglio, mi teme addirittura e per società, John, intendo i maledetti androidi. Quindi mi si propone per l’Analisi. Ora, io non ho una grande opinione dell’Analisi, perché alcuni miei amici l’han­no subita, e dopo essere stati analizzati non sono più gli stessi. Non sembrano più nemmeno esseri umani... per lo meno dal mio punto di vista. Dov’ero rimasto? Oh, già l’Analisi. Dunque, io rifiuto di lasciarmi ana­lizzare, e loro rifiutano di iscrivermi nell’Elenco Ma­schile. I miei assegni non hanno più corso, ragione per cui muoio di fame, o divento Fuggiasco. Un Fuggia­sco, John, è un uomo al quale non è rimasto più nien­te, salvo il rispetto di se stesso. Per conservare questo rispetto, e tra parentesi anche la propria li­bertà, è costretto a rubare indumenti e viveri, a fare a pezzi gli androidi ficcanaso, a vivere di notte e a rap­presentare una minaccia per tutti gli esseri umani per bene. Che te ne pare?»

«Orribile» disse Markham. «Bene, mi avete spie­gato cosa siete. Ditemi ora il perché.»

Il professor Hyggens tolse di tasca una vecchia pipa e cominciò a riempirla di tabacco. «Brutta abitudine. Antigienica. Disgustosa. Provoca il cancro, la tuberco­losi, l’indurimento delle arterie, e il buon senso. Vuoi fumare?»

«Grazie, no. Fumo sigarette.»

«È piacevole essere antigienici, vero?» disse il pro­fessore. «E ora vediamo un po’. Mi hai chiesto per­ché... Ecco John, io sono vecchio. Ho vissuto a suffi­cienza da vedere questi maledetti androidi imposses­sarsi di tutto. Trent’anni fa insegnavo filosofia, è un modo un po’ pomposo di presentare la cosa, magari, a classi composte di venti o trenta studenti. Tutti esseri umani. Non molto intelligenti, tranne i soliti due o tre, ma pur sempre umani. Poi le mie classi cominciarono a farsi meno numerose. Diamine, qual era il costrutto nel consumare materia grigia sul positivismo logico quando il mondo offriva tanta facilità di vita? Ma do­po un paio d’anni, quando i miei corsi contavano al massimo nove o dieci studenti, il numero aumentò di nuovo. C’era da ridere, ma ti assicuro che non era una risata allegra.»

Markham prese un’altra sigaretta e si accorse sorpreso che le dita gli tremavano. «Sono ancora un po’ debole» spiegò. «Mentalmente e fisicamente... Avete detto che il numero aumentò di nuovo?»

Il professor Hyggens annuì. «Gli androidi» disse con enfasi. «Gli androidi studiavano filosofia. Che te ne pare di questa barzelletta?»

Markham lo fissava. «Dipende dal senso dell’umo­rismo che uno ha» disse. «Personalmente, sarei stato più incline a perdere il sonno che a ridere.»

Il professor Hyggens prese un’aria beata e soddisfat­ta. «Lo sapevo che di temperamento eri un Fuggia­sco. Maledizione, dovevi per forza esserlo, appena usci­to come sei dal glorioso ventesimo secolo. Ma il me­glio deve ancora venire, John. Il numero continuò a crescere, e gli umani continuarono a diminuire. A un certo punto avevo in classe due soli allievi umani: uno era un poliomielitico, l’altro era rimasto infor­tunato in seguito a un incidente di volo. Forse per questo si erano iscritti a filosofia, penso. Ma il resto della classe era composto di androidi, grandi androidi intelligenti, pronti a papparsi in quattro e quattr’otto la saggezza di secoli e secoli. Ero talmente furibondo che avrei voluto creare in classe un bel campo elettro­magnetico per fondere i loro maledetti circuiti. E sai cosa feci?»

Suo malgrado, Markham cominciava a provare sim­patia per quel vecchio. Era sudicio, straccione, e puzza­va d’alcol. Ma c’era qualcosa di irresistibile, nella sua personalità: un entusiasmo, una malizia che lo rende­vano estremamente giovanile.

«Lasciate perdere le domande retoriche» disse sec­co Markham. «Non sono in carattere con un profes­sore di filosofia.»

Il professor Hyggens rise. «Troppo giusto. Lo sai che feci, John? Inghiottii il mio sacro sdegno, e conti­nuai a insegnare a quei luridi bastardi la metafisica e la logica meglio che potevo... Non hai mai fatto lezio­ne all’università, John?»

«No, ma sono stato a lezione.»

«Allora conosci la ricetta, figliolo. Stuzzicare l’in­teresse degli studenti con una piacevole dichiarazione controversa, versarci dentro due quarti di informazio­ni autentiche, e salare bene con qualche aneddoto fuo­ri chiave. Poi lasciare che il tutto scivoli dolcemente nel lento forno mentale.»

«Usate delle curiose metafore.»

«Appropriate» disse in tono solenne il professor Hyggens. «Se il cervello umano non è un forno, come può la cultura restare a metà cottura? Dunque, come ti dicevo, questa è la ricetta. Non con gli androidi, pe­rò. Nossignore. Quelli ti siedono di fronte come maci­gni, ti fissano come gatti di porcellana, e tu versi in­gredienti con tutta la velocità che ti è possibile perché il loro potere di assimilazione è senza limiti. Sai, John, io sono un imbecille di professione. Avrei dovuto anti­cipare la loro mossa successiva. Chiunque non fosse stato un professore mattoide ci sarebbe riuscito.»

«Così a occhio» disse «ritengo che abbiano elimi­nato il corso di filosofia perché gli androidi avevano scoperto di non averne bisogno.»

«Non è esattamente così, figliolo.» Il sorriso che gli rivolse Hyggens era paterno. «Si limitarono a eli­minare me.»

«In che senso?»

«Licenziato... ecco il senso. Trovarono un profes­sore più efficiente. Un androide, John! Uno dei miei ex studenti. E adesso dimmi che non è divertente!»

Markham rimase silenzioso per un poco. Silenzioso e avvilito. Poi disse: «C’è una cosa che non afferro. Perché mai gli androidi dovrebbero studiare filosofia? Da quello che ho scoperto fino a questo momento so­no puramente funzionali.»

«La filosofia» disse il professore «è vita. Per lo meno è uno dei grandi aspetti della vita, della vita intel­lettiva. Ecco perché gli androidi ci tengono a incame­rarla nelle loro bobine. Per poter valutare i problemi della vita.»

«Ne hanno bisogno?»

Il professor Hyggens batté la pipa contro la suola logora della scarpa. «Così pensano. A che punto ne abbiano bisogno chiedilo a te stesso.»

«Ve lo sarete già chiesto voi. C’è una risposta?»

«Forse, e forse non c’è. Ma di sicuro questa doman­da ne comporta una seconda. Hai mai cercato di defi­nire la vita, John?»

Markham guardò il giardino, e Marion-A che ora stava vicino all’eliauto. «Non so» disse. «Può darsi... molto tempo fa.»

«Bene, tenta di nuovo, adesso.»

Markham rifletté un poco, poi disse esitando: «Tut­te le cose viventi consumano e poi si riproducono... È il meglio che possano fare, temo.»

«E non è molto» disse Hyggens divertito. «Ci dice cosa fa la vita, ma non cos’è. Sei d’accordo che il cibo, per esempio, è solo una forma di energia?»

«Sì.»

«E allora gli androidi consumano cibo, John. In­fatti usano l’energia. Inoltre si riproducono, e con mol­ta più efficienza degli umani. Hanno un’organizzazio­ne riproduttiva, mentre noi abbiamo ancora l’antico e superato sistema dell’accoppiamento. E poi, John, hanno una loro linea di evoluzione. Non cambiano per caso, si perfezionano secondo piani ben presta­biliti.»

«Cosa vorreste dimostrare?»

«Niente, figliolo. Sto solo facendo riflessioni a alta voce da vecchio matto. Non puoi aggiungere qualco­s’altro alla definizione di vita, o magari qualche altra descrizione di quello che la vita fa?»

All’improvviso, Markham sorrise trionfante. «Forse ci sono, professore! Tutti gli esseri viventi comples­si devono adattarsi all’ambiente e tentare di dominar­lo. Fa parte della loro natura, è l’elemento dinamico. Se una specie non ci riesce, è condannata a estinguer­si... Ripensandoci, in una creatura autocosciente alta­mente organizzata, questo potrebbe spiegare la ricerca individuale e collettiva del potere. Che ve ne pare?»

«Niente male» disse il professor Hyggens in tono serio. «Mi piace soprattutto la parte che riguarda l’in­seguimento del potere. Sai come sono cominciati gli androidi, John? Dapprima, erano computer elettroni­ci, poi robot da due tonnellate programmati per ese­guire semplici lavori a ripetizione. Poi robot a misura d’uomo che sapevano fare parecchie cose... bastava spie­gare loro come e quando. Infine gli androidi, ai quali non c’era bisogno di dire né come né quando. Face­vano esattamente tutto quello che volevamo che faces­sero, perché erano programmati così. Ma, John, io non volevo che un androide mi sostituisse come professo­re. E conoscevo un chirurgo che non voleva cedere il suo bisturi, e un ingegnere che amava moltissimo il suo regolo. Il chirurgo ora è morto, si è ucciso. L’in­gegnere si è sottomesso all’Analisi. La ricerca del po­tere, dicevi? A me pare che la descrizione fatta da te si adatti meglio agli androidi che agli uomini.»

«Dove volete arrivare?»

«Chi... io? A niente! Però ripensa a quello di cui abbiamo parlato, John. Potrebbero venirti alcune idee interessanti... Mah, mi sono soffermato nello stesso po­sto anche troppo. Meglio incamminarsi. Noi Fuggia­schi dobbiamo stare molto attenti, se vogliamo conti­nuare a fuggire. Di’ al tuo androide che volevo con­vincerti a unirti a una colonia di adoratori del Sole, in Cornovaglia. Può darsi che la beva. Specialmente se le farai capire che sei molto disgustato all’idea.» Con molti brontolii, il professor Hyggens si rimise in piedi.

«Dove andrete?»

«Altrove» rispose con dolcezza il professore. «Se non lo sai, non puoi dirlo, ti pare?»

«E se volessi mettermi in contatto con voi?»

«Volentieri, John. Stabilirò il contatto, se penserò che ne valga la pena. Gli androidi non hanno ancora il monopolio dell’organizzazione. Anche noi poveri Fuggiaschi conosciamo qualche trucchetto per organiz­zarci. A proposito, tu eri nel Risanatorio di Londra-Nord, vero?»

«Sì.»

«Non hai per caso incontrato una ragazza, là... si chiama Rowena Hyggens. Piccola, morettina, grazio­sa, di ventun anni, e non ha mai convissuto con uo­mini... soprattutto a causa di un forte senso di anti­quata moralità. È la sua prima nevrosi ufficiale, quin­di può darsi che non la tengano molto in animazione sospesa, almeno spero. Probabilmente a quest’ora sarà già in cella di congelamento.»

«No, non l’ho incontrata, non credo, per lo meno. Non ho visto molta gente, ho avvicinato soprattutto androidi.» Poi, all’improvviso, Markham ricordò la ragazza che aveva sorpreso piangere in corridoio. La ragazza che era fuggita alle sue offerte di aiuto, come se temesse di essere aggredita.

«No» disse pensoso il professore. «Al Risanatorio non ti lasciano avvicinare molta gente. È troppo perico­loso. Dividi e impera è sempre stata la strategia più sag­gia, fin dall’età della pietra. Bene, John, probabilmen­te un giorno o l’altro verrò a cercarti. Tieni gli occhi aperti e serba per te i tuoi pensieri da uomo del ven­tesimo secolo. Sii ortodosso, figliolo... per un po’. Fin­ché non saprai con certezza chi fa una cosa, e come la fa, e per chi.»

Mentre si voltava per andarsene, il professor Hyg­gens raccomandò: «E non dire mai al tuo androide più di quanto le occorre sapere. E quando puoi farne a meno, non dirle nemmeno questo.»

Markham guardò il vecchio allontanarsi attraverso il parco strascicando i piedi. Poco dopo la figura pe­sante del professore scomparve dietro un gruppo di piante, e Markham restò con la particolare sensazio­ne che il professor Hyggens fosse un’allucinazione tri­dimensionale. Ripensò un poco alla loro curiosa con­versazione, e cercò di cavare un filo logico da quello che il vecchio gli aveva detto.

Poi si ricordò che Marion-A lo stava aspettando vici­no all’eliauto. Si alzò e s’incamminò verso la vettura, ma non provava più alcun senso di stanchezza. Si sen­tiva un gran desiderio di agire, una vivacità nuova. Quasi che, inconsciamente, si fosse reso conto che il fato l’aveva preservato per il bene del ventiduesimo secolo. Era stranamente di buon umore.

«Se siete pronto» disse Marion-A «andremo alla City.»

«Sì, sono pronto.»

Mentre l’eliauto si sollevava da terra, Markham si ricordò improvvisamente il vero motivo per cui era atterrato in Hampstead Heath. Mentre i suoi pensieri tornavano a Katy, si rese conto che la casa in cui ave­vano vissuto, la casa che era stata il focolare di Johnny e di Sarah, una roccaforte privata e felice, doveva trovarsi a meno di quattro chilometri da lì. Si chiese chi ci abitasse al presente... e se esistesse ancora.

«Vira un poco» ordinò a Marion-A «e segui la stra­da. Voglio vedere...» ma subito s’interruppe.

Inutile cercare la casa. Non esisteva più. Come non esistevano tante altre case che avevano formato il quar­tiere di Hampstead nel ventesimo secolo. Da un’altez­za di trecento metri, vedeva benissimo un lago ampio, quasi circolare, con le rive lisce e scintillanti come vetro. Ma non era vetro: era pietra fusa, mattoni fusi, argilla fusa... E sogni! Tanti sogni, tutti rinchiusi per sempre in una immensa tazza di cristallo.

Quattro o cinque bambini giocavano vicino al lago. Avevano un battellino, barchette a remi, e un altro congegno che pareva una via di mezzo tra una bici­cletta e una barca. Bambini! Gli pareva che fosse tra­scorso un tempo brevissimo da quando aveva giocato l’ultima volta con i suoi bambini, perché la realtà di un secolo e mezzo non era così grande quanto la con­cretezza di sette o otto giorni. E la perdita era anche più acuta, perché Katy e i bambini erano in un cer­to senso ancora vivi... però in un’altra dimensione.

Una dimensione inviolabile, che non aveva niente a che fare con le città spopolate e con i laghi atomici.

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