12

Nella penombra, pensò Markham, il professor Hyggens aveva un’aria molto solenne. La faccia bruna e gonfia sembrava luccicare un po’ sotto gli ultimi raggi obliqui, gli occhi mandavano lampi quasi riflettendo un fuoco interno, e i lunghi capelli bianchi, tenuti aderenti alla testa per mezzo di forcelle d’argento, lo facevano assomigliare più a un Vichingo predone che a un Fuggiasco di mestiere.

«E per l’eliauto?» chiese Markham. «È prudente lasciarlo qui sul prato?»

«Manderò uno dei miei ragazzi a rimuoverlo» dis­se il professore. Condusse Markham fino a una radu­ra in mezzo a un folto gruppo di alberi, dove cinque o sei uomini stavano radunati attorno a un radiatore portatile che diffondeva un chiarore caldo e invitan­te. Sospesa al ramo di un albero, una lanterna elettrica spandeva una luce pallida sul cerchio di facce in attesa.

«Beviamo prima un po’ di caffè» brontolò il pro­fessore, tirando fuori la sua pipa. «Un uomo non può avere le idee chiare se prima non beve un buon caffè. Signori, sapete tutti come lo so io chi sia John Markham. Inutile quindi presentarlo. Ma poiché lui co­nosce uno solo di voi, sarà meglio che presenti voi a lui.»

Condusse Markham verso un tipo alto e sparuto che si alzò per scambiare con lui una stretta di mano. «Questo è Helm Crispin, John. Secondo le statistiche avrebbe dovuto essere stato catturato parecchi anni fa. Helm è il capo del nostro reparto per la guerra psico­logica. Un tempo era psichiatra, finché gli androidi non meccanizzarono completamente la medicina.»

«Ciao, John» disse Helm Crispin. «Non puoi im­maginare quanto siamo contenti di averti fra noi.»

Markham sorrise. «Il sentimento è reciproco.»

Il professore indicò l’uomo accanto a sé: un tipo piccoletto e agile, con una faccia da uccello e un cor­po muscoloso e scattante. «Ecco Corneel Towne. Chi­mico. Si diverte a fare cose che scoppiano. Dobbiamo addirittura tenerlo a freno. È il nostro sabotatore uf­ficiale.»

Corneel Towne rise. «Non mi terrete a freno an­cora per molto, Prof. Ora abbiamo il Sopravvissuto, e probabilmente ci metteremo al lavoro sul serio.»

«Che incorreggibile» disse il professore. «Ti ostini proprio a usare quella brutta parola. Non si usa più!»

L’uomo accanto era Paul Malloris.

«Grazie d’aver stabilito i contatti, Paul» gli disse Markham. «Nessuna notizia di Shawna?»

«Nessuna che io abbia voglia di sapere» rispose Paul con voce incolore. «Benvenuto nella Legione dei Disperati, John. Mi piace sperare che il tuo arrivo sia di buon augurio.»

Il professor Hyggens sorrise. «Paul dovrebbe esse­re il nostro stratega. Ma finora nessuno può dire quan­to valga.» Poi presentò in fretta Markham agli altri tre individui che, come Crispin, Towne e Paul Malloris, rivestivano cariche irregolari e scombinate nel­l’armata stracciona dei Fuggiaschi.

«E infine» disse Hyggens «ci sono io. Ti sorpren­derà, John, sentire che io sono Generalissimo dei Di­sadattati. Non me ne intendo di rivoluzioni, di com­battimenti e di organizzazione; perciò sono stato elet­to, si capisce... Per la verità, nessuno di noi ne sa mol­to e, prima che tu venissi in scena, non aveva nessuna importanza che i Fuggiaschi fossero guidati da un fi­losofo un po’ svampito. Tra parentesi, sei sicuro che non ti piaccia questo mondo meraviglioso? Sei sicuro di non poterti adattare a essere un obbediente cittadi­no della nostra gloriosa Repubblica?»

Markham prese la tazza fumante che gli veniva of­ferta e si sedette nel circolo di uomini. «Il professor Hyggens» disse «mi chiese un giorno una definizione della vita. Pensai che la risposta fosse facile, ma quan­do tentai di dargliela, il professore mi fece osservare che gli androidi non erano in contrasto con la mia de­finizione. Pensai che fosse un po’ matto, in fondo, fin­ché non riuscii a conoscere meglio gli androidi... Se questi siano realmente vivi, nel vero senso della pa­rola, è un problema che i filosofi» e indirizzò un sor­riso ironico al professore «discuteranno senza dubbio per lungo tempo. Ma è evidente che essi si comporta­no proprio come se lo fossero. Sono decisi a dominare completamente l’ambiente che li circonda. Di questo ambiente facciamo parte noi esseri umani. Questa è una delle tante ragioni per cui mi trovo qui. Sono con­vinto che l’umanità debba lottare per sopravvivere. Sono convinto che, quanto più aspetteremo, tanto più dura sarà la lotta.»

Dal gruppo si levò un mormorio di assenso. Il professor Hyggens soffiò una grossa nuvola di fumo verso la lanterna schermata, poi si tolse a malincuore la pi­pa dalle labbra.

«Dopo i Nove Giorni» disse, «la civilizzazione non fu più in grado di sostenere il suo vecchio schema ba­sato sui cosiddetti paesi altamente industrializzati. L’u­nica soluzione parve quella di decentralizzare, creando piccole comunità che si basavano sull’impiego dei ro­bot e sull’automazione. Fu lo stesso dappertutto: in Europa, in America, in Russia... Dalle ceneri dei Nove Giorni rinacque il sistema feudale, dove ciascun feu­do rappresentava più o meno un’unità economicamen­te indipendente. I problemi che si presentano a noi nella Repubblica di Londra sono gli stessi che il mon­do deve affrontare dovunque. Noi potremmo rappre­sentare un caso-cavia: si vedrà quello che capiterà a noi se inizieremo una rivoluzione, e forse il mondo prenderà esempio. Per quanto ci risulta finora, non ci sono stati altri tentativi di lotta contro gli androidi... Nei tempi antichi, si diceva che l’Inghilterra portasse la fiaccola. Ho un desiderio infantile di sentir dire la medesima cosa della Repubblica di Londra... Ora, che diavolo volevo concludere prima di mettermi a chiac­chierare? Ah, sì, rassegno le dimissioni. Ora abbiamo bisogno di un capo, qualcuno che parli di meno e che faccia di più. Penso che ci occorra un tipo primitivo, signori: uno che, per virtù dell’era in cui è nato, abbia più possibilità di essere intelligentemente spericolato di quanto lo siamo tutti noialtri messi insieme. In bre­ve, credo molto nei simboli, ragione per cui propongo di creare nuovo direttore delle operazioni il Soprav­vissuto, nella sublime speranza che la sopravvivenza sia contagiosa. Quelli che sono d’accordo alzino la mano.»

Le mani si levarono con prontezza unanime.

Markham li fissò incredulo per un attimo, poi dis­se: «È ridicolo!»

«Certo che lo è» rispose il professore. «Personal­mente, adoro il melodramma.»

All’improvviso, Markham si sentì irritato. «Ascol­tatemi! Vengo tra voi per la prima volta. Sapete po­chissimo sul mio conto. Non siete nemmeno sicuri che non sia una spia. Eppure pensate immediatamente di affidarmi la vostra vita. Non siate infantili!»

Scrosciarono risate d’approvazione. Quando si cal­marono, parlò tranquillamente Helm Crispin. «Sì, John, per te siamo come bambini. Ecco perché devi essere il nostro capo. Fisicamente, sei uno dei più gio­vani tra i presenti. Ma spiritualmente sei il più vec­chio, forse anche il più maturo di noi tutti. Appartieni a un’epoca nella quale gli uomini accettavano le re­sponsabilità come un retaggio. Noi apparteniamo a un’epoca in cui le responsabilità ci vengono negate. Ragione per cui, sotto alcuni aspetti, molti potranno essere anche più saggi di te, ma non più maturi. Ti chiediamo di assumerti la maggiore responsabilità, e speriamo in te perché tu possa cambiare il nostro at­teggiamento difensivo in spirito di aggressività.»

Seguì un silenzio. Tutte le facce si rivolgevano spe­ranzose verso Markham. Tutti gli occhi lo osservava­no intenti. E all’improvviso lui capì che per quanto ridicola fosse la situazione, non poteva deludere que­gli uomini. Era consapevole della propria inadegua­tezza, ma la cosa non pareva avere importanza; era certo che cento uomini fiduciosi valgono di più di mil­le incerti. Evidentemente lui poteva generare la fidu­cia necessaria, e forse, alla resa dei conti, questa fidu­cia avrebbe bilanciato tutti gli errori che lui temeva di commettere.

Guardò le facce ansiose dei compagni, e sentì che avrebbe recitato in quella tragicommedia fino in fon­do.

Alla fine parlò:

«Mi avete sopravvalutato. State facendo una scel­ta pericolosa.»

«È pericolosa anche per te» disse il professore im­perturbabile.

«Se accetto» continuò Markham «alcune cose an­dranno concordate dall’inizio. Non me ne intendo mol­to di guerra, ma conosco l’importanza della disciplina. Se diverrò il vostro condottiero, pretenderò che le mie decisioni siano accettate. Se delegate a me le vostre re­sponsabilità, dovete delegarmi anche i pieni poteri.»

«È anche il nostro punto di vista» disse Helm Crispin. «Ti consiglieremo se e quando sarà necessa­rio, ma le decisioni le prenderai tu.»

«Allora» disse Markham, «avete acquistato un generale dilettante. E il mio primo ordine è che non dobbiate più considerarvi Fuggiaschi, signori. Siete l’Esercito di Liberazione Londinese, temporaneamente camuffato da bande di Fuggiaschi.»

«Generale» disse il professor Hyggens con osten­tato rispetto, «ora sai perché ci sembri l’unico adatto a guidarci.»

Markham sorrise. «L’altro mio decreto è quello di abolire tutte le formalità, professore. E di conseguen­za vi nomino vicecomandante.»

In quel momento Markham si accorse che qualcuno stava correndo fra gli alberi. Poco dopo un ragazzo di circa vent’anni apparve nel cerchio di luce respiran­do affannosamente.

«Dieci eliauto, professore!» ansimò. «Deve trat­tarsi di un centinaio di androidi. Si stanno disponen­do in ordine sparso per rastrellare la zona.»

«Qualcuno avrà commesso una imprudenza» disse in tono di rimprovero Hyggens.

«A che distanza sono?» chiese Markham.

«Circa due chilometri.»

Markham guardò i compagni che scattavano in pie­di con aria preoccupata. «Abbiamo armi?» Malediceva la propria avventatezza per aver lasciato a casa la pistola.

Corneel Towne andò verso un albero e tornò con una cassetta che sembrava alquanto pesante. «Ho due pistole mitragliatrici antiquate e circa cinquecento cartucce. Funzionano bene. Le ho provate ieri. C’è anche qualche granata. Sono la mia specialità.»

«Altre armi?» chiese Markham.

«Io ho una pistola» disse Paul.

«Bene... Immagino che gli androidi appartengano alle squadre psichiatriche. Di che armamenti dispon­gono?»

«Gas» rispose Helm Crispin, «e paralizzatori.»

«Portata effettiva?»

«Circa cinquanta metri.»

«Non c’è male. Spegnete la lanterna.»

«Forse dovremmo sparpagliarci» disse con ramma­rico il professore. «Sono in troppi per tenere loro testa.»

«No» disse Markham. «Attaccheremo noi. Tow­ne, prendi tu un mitragliatore e dai l’altro a qualcuno che sappia usarlo. Chi è in grado di lanciare lontano?»

«Io» disse Paul.

«Prendi le granate» ordinò Markham. «Io terrò la pistola... Helm, voglio due bei fuochi qui, presto. Poi ci ritireremo a cento metri, ventre a terra. Trenta metri di intervallo tra un uomo e l’altro. Appena com­parirà un androide nella luce dei fuochi, usare il mi­tragliatore. E voglio due volontari che mettano fuori uso i loro eliauto.»

Appena venne spenta la lanterna, l’oscurità di no­vembre li avvolse come un sudario. In lontananza, si accesero i fari di perlustrazione.

«Non badate a loro, per ora» disse cupo Markham. «Presto, Paul, noi due dobbiamo metterli fuori uso... Sai cosa si fa? Allora sbrigati.»

Con Paul Malloris al fianco, uscì cauto dal folto degli alberi e, aggirata la zona illuminata dai riflettori, si spinse avanti con l’intenzione di spegnerli. Lui e Paul avevano percorso circa quattrocento metri quan­do due vigorose colonne di fuoco si levarono in mez­zo agli alberi dietro le loro spalle. Voltandosi, scorse­ro due figure momentaneamente illuminate che stava­no per scomparire nel buio. Poi, davanti a loro, sentirono dei rumori.

«A terra» bisbigliò Markham.

Giacquero immobili nell’erica umida, mentre la pri­ma squadra di androidi passava loro accanto. Uno qua­si posò il piede sulla mano stesa di Markham, ma non si accorse di niente perché aveva l’attenzione concen­trata sui fuochi.

«E adesso andiamo a spegnere quei maledetti fari» bisbigliò Markham.


La battaglia fu breve e non molto spettacolare, ma per l’Esercito di Liberazione fu incalcolabile.

Gli androidi non si erano aspettati che i fuorilegge, uomini soliti a fuggire, attaccassero. Del resto non se l’aspettavano neanche i Fuggiaschi. Gli androidi, inol­tre, avevano pensato solo in termini di inseguimento. Non era venuto loro nemmeno il sospetto che potesse esserci bisogno di una difesa sistematica, finché parec­chie cose insolite non cominciarono a verificarsi. Ma ormai, era troppo tardi.

Il primo episodio degno di nota fu una sventaglia­ta abile partita dalla mitraglia di Towne. Venne col­pita la pila d’energia di un androide che avanzava: l’androide esplose mandando uno spettacolare baglio­re.

Ci fu un parlottare sommesso. Poi, mentre gli altri androidi avanzavano in gruppo verso i fuochi, le raf­fiche delle due mitraglie li attaccarono da due lati. Nel frattempo Markham e Paul Malloris erano filtra­ti attraverso la seconda linea degli androidi ed erano arrivati a tiro di granata dai fari.

La prima granata di Paul mancò il bersaglio e de­molì due eliauto posti nelle vicinanze. La seconda frantumò un faro prima che gli androidi sorpresissimi potessero raccapezzarsi, e la terza frantumò contempo­raneamente i due fari che restavano. Ma poi gli an­droidi si riebbero e le torce a mano fecero piovere i loro sottili raggi di luce nell’aria immediatamente circostante. Un raggio illuminò Paul, e immediata­mente si udirono due tonfi sordi.

Paul cadde al suolo pesantemente. «Dardo paralizzatore» balbettò. «Braccio sinistro... Lasciami. Atten­to ai gas.»

Freddamente e sistematicamente, Markham comin­ciò a sparare contro gli androidi muniti di torcia. Ma oramai era stato individuato, e i paralizzatori sibila­vano attraverso il buio e crepitavano tra l’erba dove lui si teneva sdraiato vicino a Paul ormai privo di co­noscenza.

La sua unica speranza, si disse, era fingere di essere stato colpito. Smise di sparare, e pregò di non essere la vittima di un dardo fortunato. Ma i tre androidi re­stanti cominciarono ad avanzare: convergevano, e que­sto fu il loro errore. Appena furono sufficientemente vicini, Markham inviò loro la granata che gli rimane­va ancora. Ci fu una triplice esplosione accecante, men­tre la granata faceva saltare due delle capsule di ener­gia degli androidi. Poi tornò l’oscurità, e un breve si­lenzio. Un momento dopo, al di là degli alberi, altre granate cominciarono ad esplodere. Le mitragliatrici non tacevano un istante. Sforzando la vista, Markham credette di vedere altri androidi che si profilavano contro il rosso dei fuochi nel tentativo di sfuggire al­l’imboscata.

Dal modo come si mettevano le cose, era chiaro che tra poco gli androidi rimasti, ammesso che ce ne fos­sero, sarebbero tornati ai loro eliauto. Meglio rimuo­vere dall’area Paul, sempre senza conoscenza. Con uno sforzo, Markham si issò l’amico sulle spalle e si rimise penosamente in piedi.

Dieci minuti dopo la battaglia era finita. Pochi an­droidi se l’erano cavata, i loro mezzi di trasporto era­no stati tutti messi fuori uso. Ci sarebbe voluto parec­chio tempo prima che gli androidi potessero ricevere rinforzi.

Quando Markham arrivò faticosamente, con Paul in spalla, dove c’erano gli altri, il massacro degli an­droidi era stato portato a termine.

C’era soltanto un altro infortunato, Corneel Towne, colpito anche lui da un dardo paralizzatore.

«Resteranno svenuti per un paio d’ore» disse il professor Hyggens «e poi si sveglieranno con un mal di testa mai provato. Allora, John, cosa ne pensi del­la tua Armata di Liberazione?»

«Abbiamo usato troppe munizioni» disse Mar­kham, sorridendo.

«C’è un bel numero di androidi massacrati là fuo­ri» disse Helm Crispin.

«Comunque abbiamo usato troppe munizioni. Ora ho bisogno di sapere alcune cose. Su quanti uomini della Repubblica possiamo contare nel caso in cui de­cidessimo una sollevazione, quante armi sono dispo­nibili, in quanto tempo possono essere distribuite, quanto sono efficienti le nostre linee di comunicazione.»

«Si può contare su settecento uomini» rispose Hyg­gens. «Ma quando si spargerà la voce di questa scara­muccia, il numero raddoppierà. La gente non ha biso­gno d’altro che di fiducia e di un capo. Ora ha l’uno e l’altro.»

«Bene. Professore, voi li organizzerete in gruppi di cento, ciascun gruppo con un capitano che dia affida­mento. E Corneel Towne sarà responsabile del loro armamento. Solo granate e armi leggere. Poi ci occor­rono cinquanta uomini addestrati all’uso degli esplo­sivi.»

«Quanto tempo abbiamo davanti a noi?» chiese Helm Crispin.

«Non ne abbiamo» rispose Markham. «Solomon capirà che ormai facciamo sul serio. E a sua volta or­ganizzerà un esercito, si capisce. Solo che la prossima volta non verranno coi paralizzatori e con i gas. Avran­no armi mortali. A proposito, professore, ho un mes­saggio per voi del Presidente Bertrand. Dice che non potete sperare che i miracoli si ripetano all’infinito. Faccio mie queste parole. D’ora in poi, considerate ogni errore come potenzialmente fatale.»

«E io ho un messaggio per il Presidente Bertrand» disse calmissimo il professore. Sorrise. «Forse la fi­glia glielo porterà da parte tua. Secondo le mie infor­mazioni, Solomon sta riprogrammando tremila androi­di per omicidio. Non credo che Clement lo sappia. Non glielo permetterebbe, se lo sapesse.»

Markham rimase un momento silenzioso. «Speravo che avremmo avuto un intervallo di almeno tre mesi per la preparazione» disse. «Ma ora dovremo lavora­re sui minuti. In quanto a organizzarsi, Solomon può batterci per rapidità e qualità, anche se avessimo a di­sposizione anni.» Un pensiero parve colpirlo. «Il Na­tale è ancora di moda? Lo si celebra ancora?»

Helm Crispin scosse la testa. «Il Natale è sparito da tanto tempo, insieme con la Cristianità. Ora la gran­de festa è il Capodanno, la vigilia e il primo dell’an­no sono riuniti in un’unica grande festa.»

«Abbiamo dunque cinque settimane di tempo» disse Markham deciso. «Perché, signori miei, noi ci solleveremo la notte di Capodanno. Ora, poiché sono l’unico che è ancora iscritto nell’Elenco, potrà farmi comodo restare un cittadino rispettabile ancora per un po’. Sarà meglio fissare un rapido ed efficace mezzo di comunicazione, dopo di che tornerò in Knightsbridge. Potrebbero venire visitatori!»

Ma prima di andarsene, disse loro tutto su Marion-A. Dapprima rimasero increduli, e il professor Hyggens si rifiutò assolutamente di credergli. Asserì anzi che Marion-A stava semplicemente seguendo un piano mol­to sottile per il quale Solomon doveva averla doppia­mente programmata.

Helm Crispin ascoltò in silenzio lo scambio di bat­tute tra Markham e il professor Hyggens, poi disse: «Ho la curiosa sensazione che John abbia ragione. Gli androidi accumulano dati per esperienza, come noi. Se quello che John dice è vero, allora lui ha fornito a Marion-A dati che lei non era in grado di assimilare. Questo potrebbe infrangere l’orientazione di un an­droide.»

«È così» disse Markham. «Sono pronto a giocar­mi il collo per lei.»

Il professore sospirò, stanco. «A quanto pare è quel­lo che dovremo fare tutti.»

«Non è troppo tardi perché vi scegliate un nuovo capo» osservò Markham.

«No, eh?» esclamò il professore. «Sai benissimo che invece è tardi, John. Hai appena dimostrato di es­sere il capo di cui abbiamo bisogno.»

«E allora dovete seguirmi dove dico io.»

«Napoleone!» disse il professore, facendo una smor­fia.

«Appunto.»

«Hai vinto. Ci sei indispensabile.»

«Spero che vinceremo tutti» disse Markham.

L’elianto venne portato sul prato dal nascondiglio dove era stato celato momentaneamente. Markham aprì la portiera, accese i motori aerei e si sedette como­damente ai comandi.

Mentre si levava in volo, gettò un’occhiata al grup­petto di uomini che osservavano la sua partenza. Sor­rise tristemente tra sé. L’Esercito di Liberazione Lon­dinese!

Una raccolta di umanisti in pantaloni laceri!

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