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La faccia riflessa nello specchio del bagno non dimostrava centosettantasei anni. Sembrava su per giù la faccia di un uomo di trentuno. Osservandosi con occhio critico mentre si radeva, John Markham notò che la pelle della fronte era ancora fresca, addirittura gio­vanile. Al di sopra della fronte, la massa spettinata dei capelli neri non accennava a incanutire o a diradarsi. Caso mai era troppo lunga, infatti lui aveva avuto ur­gente bisogno di andare dal parrucchiere, centoquarantasei anni fa, e si era ripromesso di andarci alla prima scappata a casa da Epping.

Si sforzò di non pensare al passato, a Katy come l’aveva vista solo un paio di giorni prima... un paio di giorni che si erano trasformati nell’intervallo senza senso di un secolo e mezzo. Combatté l’improvvisa ag­gressione della nostalgia, del desiderio disperato...

Nel soggiorno lo aspettava la colazione. La colazio­ne, e Marion-A.

«Buon giorno, signore. Avete un’aria molto più ri­posata. Forse, dopo colazione, vi farà piacere passare un’oretta al sole. È una bellissima giornata.»

Lui diede un’occhiata alla luce che penetrava a fiot­ti dalla parete-finestra. Sole e cielo azzurro, le cose pre­ziose, immutabili. Provò dentro di sé una leggera on­data di vitalità: tanto era andato perduto, ma lui era ancora vivo.

Poi scorse alcuni oggetti sul carrello della colazio­ne: il suo portafogli, l’anello delle chiavi, un accen­dino, e un piccolo elefante portafortuna che gli aveva dato Katy.

Improvvisamente, le sue gambe cedettero: poi si rese conto che Marion-A lo stava adagiando sul divano.

«Maledizione!» imprecò irritato. «Sono debole co­me un pulcino. Come... come sono arrivati, fin qui questi oggetti?»

«Ho pensato che vi facesse piacere averli, signore, per motivi sentimentali. Vi chiedo scusa. Se preferite non...»

«No, hai fatto benissimo.» Guardò l’androide e sorrise. «Solo che non me l’aspettavo... Mi dai il por­tafogli, per favore?»

Cercò per vedere se la fotografia di Katy c’era anco­ra. C’era. Un po’ sciupata ma non sbiadita. La con­templò intensamente per qualche minuto, poi la por­se a Marion-A. «Vai a guardarti allo specchio.»

Lei prese la fotografia, la osservò, poi andò ad esa­minare i propri lineamenti. «La rassomiglianza vale poco» dichiarò. «Vostra moglie era bella.»

«Come fai a sapere cos’è la bellezza?» disse lui aspro. «No, non dirmelo... sei programmata col senso estetico incluso.» E sbottò in una risata amara.

«Forse» disse Marion-A «il mio aspetto vi addolora. Posso essere rimodellata, se volete.»

«Non è necessario. Devo imparare a prendere il mondo come mi si presenta. Devo imparare anche a eliminare l’autocommiserazione.» Rimise via la foto. «Bene, cosa abbiamo per colazione? Uova col prosciut­to, nientemeno! Il mondo è ancora civile.»

Sapeva che la sua voce era forzatamente allegra, sapeva che stava solo cercando di dimostrare a se stesso, senza riuscirci, di essere in grado di prendere il mon­do come veniva, ma non gliene importava. Che scopo c’era, si chiese, a inibire le proprie reazioni a beneficio di un androide?

Mentre lui mangiava, Marion-A sedeva immobile sul suo sgabello. Markham tentava di ignorarne la presen­za, ma la cosa strana era che lei una presenza l’aveva. D’accordo, era soltanto una macchina complessa, ma l’umanizzazione esteriore le attribuiva l’illusione di una personalità. Markham non si sarebbe sentito a di­sagio dovendo mangiare di fronte a un registratore, o a una macchina fotografica, o a un cervello elettroni­co. Ma farlo in presenza di Marion-A lo sconcertava. Lei era la somma di tutti quegli oggetti, ma anche qualcosa di più. L’intero era più grande delle parti... Non proprio una macchina, non proprio un essere umano. A titolo di curiosità Markham si chiese se avrebbe provato le medesime impressioni in presenza di un semplice robot.

Dopo un po’, provò il bisogno di fare conversazio­ne. «Verrà un giorno» disse, «in cui gli androidi sa­ranno in grado di mangiare.»

Marion-A sorrise. «Possiamo già, signore... se è neces­sario. La maggior parte degli androidi prodotti duran­te l’ultimo decennio ha uno stomaco artificiale. Dato che fra gli esseri umani mangiare è una funzione non soltanto necessaria ma anche sociale, è sembrato op­portuno creare androidi capaci di prendere posto a tavola qualora la situazione lo richieda... Volete che vi tenga compagnia, signore?»

Markham scosse violentemente la testa. «E cosa ne fate?» chiese.

«Di che cosa, signore?»

«Del cibo.»

«Viene ricevuto da un sacchetto di plastica che può essere rimosso al momento opportuno.»

«Mio Dio!» esclamò lui. «Immagino che il pros­simo passo sarà quello della procreazione.»

«Non direi, signore. Per il materiale non biologi­co, la riproduzione fatta in fabbrica è più pratica e più efficiente.»

Lui si mise a ridere. «Il tuo senso dell’umorismo è davvero sottile.»

Marion-A sorrise di nuovo. «Questa volta non stavo scherzando.»

Dopo colazione, Marion-A lo condusse sul terrazzo e sistemò al sole una poltrona di canapa, in un punto riparato dal vento. Markham si era aspettato di sco­prire che il Risanatorio di Londra-Nord si trovava al­la periferia della città. Ma tutt’attorno, fin dove l’oc­chio poteva arrivare, si vedeva soltanto campagna on­dulata e ricca di boschi e fattorie.

«Dove siamo?» chiese. «Credevo che questo po­sto si trovasse nei pressi della City.»

«Londra è a circa settanta chilometri da qui» spie­gò Marion-A. «La città più vicina è Colchester.»

«Perché, allora, si chiama Risanatorio di Londra-Nord?»

«Perché è nella Repubblica di Londra, signore.»

«Già, avevi detto qualcosa del genere ieri... Voglio uscire da questo posto. Voglio vedere cosa succede nel mondo. Sai, non ho nemmeno idea di che stagione sia. Il tempo è così splendido che potremmo essere in pri­mavera, o all’inizio dell’autunno.»

«Oggi è il tre di settembre, signore.»

Markham sospirò. «Il mese migliore dell’anno. Ri­cordo...» s’interruppe bruscamente. «Oh, al diavolo» guardò Marion-A e sorrise. «Voglio che tu mi faccia un favore. Smettila di chiamarmi signore. Mi sembra di essere un direttore d’azienda.»

«Sì, signor Markham.»

«Peggio che mai... Chiamami semplicemente John.»

Marion-A esitò. «È insolito per un androide persona­le prendersi tanta confidenza.»

«È anche insolito che un uomo resusciti dopo un secolo e mezzo passato in frigorifero. Mi farebbe pia­cere che tu mi chiamassi John.»

«Sarebbe consigliabile, allora, limitare questa con­fidenza alla conversazione privata. Ci sono formalità e convenzioni ben radicate tra esseri umani e androidi.»

Lui sbadigliò. «Probabilmente sono convenzioni inutili. Vorrei non sentirmi così stanco. Maledizione! Eppure ho appena fatto un buon sonno.»

«L’animazione sospesa induce di solito stanchezza e pigrizia. Ecco perché è importante per voi passare al­cuni giorni in convalescenza.»

«Marion.»

«Sì, signore?»

«No... non sì signore.»

Lei sorrise. «Sì... John.»

«L’illusione della tua personalità e intelligenza è affascinante. Per quanto tempo sarai la mia androide personale?»

«Fino a che richiederete un modello diverso, si­gnore.»

«Bene. Allora posso dedicarmi alla tua educazione. Dovrebbe essere interessante.»

«Ho già ricevuto un programma base in scienze e in materie sociali.»

«Non è il genere di educazione al quale mi riferivo.»

Lei rimase silenziosa, e Markham disse irritato: «Se tu fossi un essere umano mi chiederesti una defini­zione.»

«Ti piacerebbe che lo facessi?»

«Sì.»

«Allora definiscimi il tipo di educazione al quale ti riferisci, John.»

«Ora va meglio.» Markham sbadigliò di nuovo e fissò pigramente l’orizzonte. «Indipendenza intellet­tuale e curiosità. Senza queste cose, sei soltanto una scatola di congegni elettronici. Con queste due quali­tà, invece, puoi diventare un individuo autocosciente.»

«Autocoscienza» ripeté Marion-A. «L’autocoscien­za è una astrazione metafisica che posso comprendere ma non apprezzare.»

«L’autocoscienza» disse lui «è un dono di Dio. È anche una astrazione metafisica, valida tuttavia. Dio l’ha data agli uomini. Ora il problema è questo: pos­sono gli uomini darla alle macchine?»

Marion-A gli sistemò un cuscino dietro la testa e una leggera coperta sulle ginocchia. «Credo che a questa domanda possa rispondere solo un essere umano.»

Markham la guardò e sorrise.

«Fino a che gli androidi non cominceranno a chie­dersi la stessa cosa... Tu sei Galatea fatta in serie, e io sono un Pigmalione fuori moda. Chissà quale sarà il risultato?»

«Temo di non conoscere questi termini di paragone.»

Lui rise. «Neanche Pigmalione li conosceva...» Un attimo dopo aveva gli occhi chiusi e dormiva profon­damente.

Dormire e mangiare, passeggiare e chiacchierare. Nei giorni che seguirono questo fu lo schema di vita di Markham. La stanchezza dovuta all’animazione sospe­sa era più grave della stanchezza fisica. I postumi con­sistevano in una breve ma profonda letargia dello spirito.

Lentamente, però, la sua vitalità tornò normale, e già il quinto giorno Markham ardeva dall’impazienza. Voleva uscire ed esplorare il mondo del ventiduesimo secolo.

Proprio il quinto giorno Marion-A lo accompagnò a visitare l’impianto di sospensione. Nel frattempo, durante parecchi esami chimici, Markham aveva fatto la conoscenza di due medici androidi, che sembravano leggermente diversi da tutti gli altri androidi che aveva conosciuti, compresa Marion-A. Venne a sapere che era­no due psichiatri, e dedusse che la loro conversazione con lui, che regolarmente batteva su un tasto molto personale, faceva parte della loro programmazione professionale.

Inoltre, la sera del quinto giorno, ebbe il suo pri­mo incontro col mondo esterno. In realtà fu un in­contro particolare, l’intervista di un giornalista della televisione tridimensionale, ma servì ugualmente a for­nirgli qualche ragguaglio sul mondo al quale doveva assuefarsi.

L’intervista ebbe luogo nel suo appartamento, po­co dopo la cena.

L’androide era alto e con lineamenti particolarmen­te mobili. Quando sorrideva, il sorriso sembrava au­tentico. Possedeva inoltre tutta una gamma di espressioni molto convincenti, senza dubbio studiate a bene­ficio dei telespettatori.

La tri-dicamera era un piccolo barattolo a forma d’uovo, con un sistema di minuscole lenti sulla parte più larga. Era collocata su un treppiede di fronte al divano sul quale sedeva Markham. Per quanto Mar­kham poté giudicare, il fuoco e la direzione erano re­golati a distanza dall’intervistatore che portava legato al polso un apparecchio più o meno simile a un oro­logio.

Marion-A si teneva fuori della portata della teleca­mera tri-di, ma Markham si rese conto di lanciarle frequenti occhiate, per sentirsi più tranquillo. Duran­te quei giorni aveva finito per fare conto su lei. Anzi, dipendeva da lei più di quanto avrebbe desiderato.

L’intervistatore fece un segnale a Markham, toccò il suo apparecchio di controllo, poi si mise di fronte alla telecamera.

«Cari telespettatori, buonasera. Come al solito, Pa­rata di Personalità vi presenta il personaggio più in­teressante della settimana. Questa sera abbiamo con noi il signor John Markham, che è stato per puro caso preservato in animazione sospesa per centoquarantasei anni. Sembra impossibile, eppure è successo. Amici, abbiamo con noi la storia vivente. Eccovi la situazione drammatica di un uomo del ventesimo secolo, il quale si trova proiettato di centocinquant’anni circa nel fu­turo. Ricordate, cari amici, che per lui noi siamo so­gni del futuro; per noi, lui è un fantasma del passato. E quali sono le impressioni del nostro ospite? Ora glie­le domanderemo.»

La telecamera oscillò leggermente verso Markham, il quale si sentì la fronte madida di sudore. Questa,pensava irritato, è proprio la conclusione adatta per una convalescenza.

«E adesso, signor Markham» continuò l’androide, «diteci: qual è la cosa che più vi manca, del tempo andato?»

«Mia moglie e i miei bambini» fu la risposta im­mediata.

L’intervistatore rise. «Un sentimento naturalissimo! Nel ventesimo secolo, eravate ancora condizionati a una primitiva vita di famiglia, vero?»

Markham non poté nascondere la propria sorpresa.

«A dire la verità, non la consideravamo esattamente primitiva. Tuttavia sono disposto a credere che al gior­no d’oggi possa essere considerata antiquata. Immagi­no che oggi i bambini si preparino in bottiglie.»

«È inesatto signore. Ma l’umanità non è più sotto­posta alle relazioni poco salutari che esistevano tra ge­nitori e figli. Essa ha raggiunto una libertà psicosoma­tica nella ricerca dell’arte creativa. Tra parentesi, qua­le era la vostra forma d’arte preferita?»

«Non avevo molto tempo da dedicare all’arte» ri­spose secco Markham. «Ero troppo occupato a guada­gnarmi da vivere.»

L’androide fissò la telecamera inarcando la fronte.

«Cari telespettatori» disse «non crediate che il So­pravvissuto voglia sbalordirci. Per quanto possa sem­brarci disgustoso, gli uomini sprecavano effettivamente la maggior parte del loro tempo a lavorare.»

«Un ingente numero di noi» disse Markham «era talmente depravato da trovarci gusto. Sono nel vero se ne deduco che il lavoro è diventato leggermente immorale, da allora?»

«L’umanità ne è stata liberata» disse l’intervista­tore in tono solenne. «Il lavoro riguarda oggi i robot e gli androidi, e l’umanità è libera di godersi la pienez­za della vita... il che ci conduce a un’altra domanda, caro signore. È vero che, dopo il matrimonio dei vostri tempi, un uomo viveva solo con sua moglie e viceversa?»

La telecamera si spostò verso Markham, che in quel momento aveva un’espressione leggermente meravigliata. «Lo consideravamo un modo di vita ideale» ri­spose, in tono prudente.

«Ma esistevano eccezioni?»

«Sì.»

«Voi eravate una di queste?»

«No.»

L’androide si rivolse alla telecamera con un sorriso divertito.

«Cari amici» disse con sussiego «lo credereste? Il nostro Sopravvissuto è un vero barbaro sessuale.»

Markham s’infuriò immediatamente. «Sì, adopero anche la clava... C’è altro che vi interessi sapere?»

«Naturalmente» disse, calmo, l’androide. «Cosa vi proponete di fare, ora che siete in grado di lasciare il Risanatorio?»

«Vorrei scoprire un po’ in che genere di mondo mi sono svegliato, ma immagino che prima di tutto dovrò trovare il modo per guadagnarmi da vivere.»

«No, signor Markham. Il vostro nome sarà iscritto nell’Elenco Maschile, e vi verrà passata la pensione base della Repubblica, cioè cinquemila sterline l’an­no, che non vi saranno ridotte, a meno che non ren­diate madre inavvertitamente più di una donna entro un periodo di cinque anni.»

«Buon Dio!» La sorpresa cedette immediatamente il posto a un vero attacco di nervi. «Cosa succedereb­be se ne rendessi madri una mezza dozzina?»

La telecamera inquadrò l’androide. La faccia dell’in­tervistatore era molto seria. «Tale condotta» dichia­rò l’androide «è considerata psicopatica. Il trattamen­to usuale consiste in un prolungamento dell’animazio­ne sospesa. La creazione di una nuova vita, signor Markham, non va intrapresa alla leggera. Ai vostri giorni, senza dubbio, la cosa aveva scarse conseguen­ze. Forse questa è una delle ragioni per le quali la vo­stra civiltà venne distrutta dall’Epopea dei Nove Gior­ni.»

«Credo di avere moltissimo da imparare sul venti­duesimo secolo» disse Markham, guardingo.

«Sì, senz’altro!» Il cipiglio dell’intervistatore cedet­te il posto a un sorriso geniale. «E adesso, poiché ci resta appena un minuto, forse vorrete concludere que­sta interessante conversazione rivolgendo alcune paro­le a tutti i nostri cari telespettatori.»

Sebbene la telecamera non si fosse spostata, Markham ebbe la sensazione che si stesse rimettendo a fuoco per un primo piano. Gettò una rapida occhia­ta a Marion-A, poi guardò direttamente la telecamera e si schiarì la voce.

«Per me» disse esitante «il ventesimo secolo è rea­le come se fosse cosa di pochi giorni fa. Dovete ricor­dare che appartengo a un’epoca in cui la popolazione di quest’isola si contava a milioni, e non a migliaia... un’epoca in cui gli uomini lavoravano, e il desiderio di avere figli non era considerato psicopatico. Tenendo presente tutto questo, comprenderete quanto mi sia difficile orientarmi in un mondo nuovo dove, a quan­to pare, molti degli antichi principii non sono più accettati. Ma farò del mio meglio per adattarmi al ven­tiduesimo secolo, e se mi renderò colpevole per qual­che mancanza sociale, forse vorrete compatirmi... Gra­zie a tutti e buonasera...»

L’intervistatore prese immediatamente la parola. «Vi ha parlato il signor John Markham, il Sopravvissu­to, l’ospite della settimana di Parata di Personalità. Ci colleglliamo ora con il Dominio Scozzese, dove uno dei miei colleghi sta per intervistare il Granduca che dirà le sue impressioni sulla recente campagna negli Altipiani... Amici telespettatori, eccovi New Glasgow.»

Il presentatore toccò il suo congegno da polso. «Ora il collegamento è tolto, signore. Posso quindi chieder­vi scusa se mi sono preso qualche familiarità resa ne­cessaria dall’intervista. Spero che non vi sia dispia­ciuto...»

«Non preoccupatevi» disse Markham, ironico. «Sono ancora intero. Si fa qualsiasi cosa per far diver­tire i cari telespettatori.»

«Esattamente» fece l’androide, tornando impassi­bile. «Grazie per la collaborazione, signor Markham.» Smontò il treppiede, ripose la telecamera in un astuc­cio e si accomiatò salutando con un breve cenno.

Finché l’altro non se ne fu andato, Markham man­tenne un’aria di assoluta indifferenza. Ma appena la porta dell’appartamento si chiuse alle spalle dell’an­droide, lui cominciò a passeggiare su e giù nervosa­mente. Marion-A lo osservava, ma non diceva niente. Alla fine Markham sprofondò le mani nelle tasche. Poi ne estrasse l’accendino e lo guardò.

«Senza sigarette, maledizione! Non ho più fumato dal... da un secolo e mezzo! Non fuma nessuno in que­sto nuovo mondo idiota?»

«Pochissime persone, signore» rispose Marion-A. «E sono quasi tutte della generazione più avanzata. L’abitudine si è spenta qualche decennio fa. Ma mi so­no presa la libertà di prepararvi un po’ di sigarette, nel caso in cui le aveste gradite.» Marion-A prese una scatola di sigarette dal mobile-bar truccato da libreria.

«Grazie. È tabacco autentico?»

«Sì, signore. Coltivato a Londra.»

Markham esaminò una sigaretta, l’annusò pruden­temente, alla fine l’accese. «Mica male. Una volta, im­portavamo il tabacco dall’America, lo sai?»

«Sì, signore. Ma. il commercio internazionale è de­clinato notevolmente dopo l’Epopea. Praticamente, non se ne sente il bisogno.»

«Per tutti i diavoli, piantala di chiamarmi signore

«Scusami, John.»

Markham aspirò profondamente alcune boccate, as­saporando il fumo. «Tanto vale che mi dia alla paz­za gioia e beva qualcosa. Ne ho proprio bisogno. Che specie di liquido abbiamo nell’armadio dei veleni?»

«Brandy, whisky, gin, vini bianchi e liquori dolci.»

«Versami un doppio whisky, allora, per piacere... E bevi qualcosa anche tu, va là! Così mi sembrerai anche più umana.»

Prese il bicchiere e aspettò che Marion-A versasse an­che per sé.

Poi bevve un paio di sorsi e sentì con piacere il ca­lore dell’alcol giù per la gola. Infine osservò Marion-A che centellinava seria seria, e comprese che per lei bere non significava niente.

«Fino a che punto ho fatto la figura dell’idiota in quell’intervista?»

«Ti sei comportato molto bene. Credo che tu abbia fatto un’ottima impressione. La gente capirà che non si può pretendere da te un atteggiamento disinvolto verso le abitudini moderne.»

Markham sorrise amaro. «Qualcosa mi dice che le vostre moderne abitudini sociali mi faranno desidera­re intensamente un altro periodo di animazione so­spesa.»

«Penso che col tempo ti abituerai, John.»

«Spero proprio di no... Un’altra cosa. Che diavolo farò quando sarò fuori di qua? In questi giorni ho vis­suto in una specie di letargo. Forse, senza rendermene conto, aspettavo che qualcun altro decidesse per me.»

«Domani» disse Marion-A «sarà bene andare alla City per iscriverti nell’Elenco Maschile. Poi riceverai un libretto d’assegni e ti intesteranno la pensione che ti spetta. Avrai un conto corrente.»

«Di cinquemila sterline annue» disse Markham «sempre che non renda madre qualche iscritta all’Elen­co Femminile.»

Marion-A esibì uno dei suoi rigidi sorrisi. «E adesso ti consiglierei una buona dormita, John. Sei ancora stanco, e domani ci sarà molto da fare. Sarà necessario stabilire dove vuoi abitare, e disporre per l’alloggio.»

Markham la guardò, poi si avvicinò al mobile-bar e si versò un altro doppio whisky. «Ti do una notizia, Marion. Ho intenzione di prendermi una piccola sbor­nia... Perciò, alla salute della mia fedele infermiera!»

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