10

Dapprima, il mondo del ventiduesimo secolo gli era sembrato simile a un sogno incoerente, ma a poco a poco il sogno stava prendendo i contorni di una real­tà accettabile.

Mentre le frizzanti giornate settembrine si accorcia­vano sfumando nella magia solitaria e nebbiosa del­l’ottobre, Markham si accorse che stava orientandosi rapidamente. Tutto quello che in precedenza l’aveva sorpreso e scandalizzato, ora gli ispirava una fredda disapprovazione intellettuale. Tutto quello che prima gli era sembrato grottesco o anormale, gli appariva in­vece inevitabile, quasi naturale, in un mondo che solo adesso cominciava a capire a fondo.

Intravedeva già il problema base. In modo oscuro e personale, stava scegliendone le soluzioni. E il pro­blema era simbolizzato da Marion-A.

Markham ricordava perfettamente il mattino passa­to a Hampstead Heath, e l’incontro col professor Hyggens. Ricordava quasi parola per parola la storia del professore: il modo in cui il numero degli allievi an­droidi del corso di filosofia si era accresciuto fino ad annullare quello degli esseri umani, il collocamento a riposo del professore e l’entrata in carica al suo po­sto di un ex allievo androide, capace di tenere le lezio­ni con maggiore rapidità ed efficienza. Ricordava di avere chiesto al professor Hyggens perché mai gli an­droidi volessero studiare filosofia. E ricordava la ri­sposta.

La filosofia,aveva detto il professore, è vita. Almeno è uno dei grandi aspetti della vita... della vita intelli­gente. Ecco perché gli androidi vogliono immetterla nei loro circuiti. Così possono valutare i problemi del­la vita.

Poi c’era stata l’altra domanda, che il professor Hyg­gens gli aveva fatto a bruciapelo: hai mai cercato di definire la vita, John?

Mentre meditava sulla discussione che aveva avuto luogo in Hampstead Heath, Markham si lambiccava di nuovo con la definizione elusiva del concetto vita.

Ma voleva immagini, non concetti. Voleva elementi comuni per poterli riconoscere e dire: questa è la na­tura della vita. Questa è la base di tutte le cose viventi.

Le immagini erano acute e chiarissime, ma il loro elemento comune, il fattore x, era, quando si veniva ad esaminarlo, più elusivo del significato di musica, e tuttavia a portata di mano come il segreto della poe­sia.

Immaginò in accostamento Budda e un singolo bat­terio, Leonardo da Vinci e un grano di frumento, una sequoia e una spora di fungo. Pensò a Johnny e a Sa­rah. Ma il fattore x continuava a sfuggirgli. Poi, final­mente, si ricordò di un’immagine doppia. Un’immagi­ne che poneva il problema in termini semplici e assolu­ti. Pensò a Katy e a Marion-A.

Katy era stata viva e adesso era morta da molto tem­po. Marion-A era stata rimodellata per assomigliarle. Ma non era Katy e non era una donna: era soltanto una macchina.

Soltanto una macchina?

A dispetto di tutti i suoi sforzi, Markham si trovava punto e daccapo.

Katy era stata concepita e messa al mondo. Marion-A era stata costruita. Katy era stata educata e istruita, Marion-A era stata programmata. E la programmazio­ne era complessa, raffinata e, soprattutto, adattabile. Ma adattabile in che senso? Questo suggeriva un’ulteriore domanda: poteva Marion-A essere programmata per vivere?

Ecco il problema base, complicato dal fatto che la vita non poteva essere definita: poteva solo essere ri­costruita.

Marion-A possedeva tutti i dati che le occorrevano per compiere con efficienza le funzioni per le quali era designata. Ma la programmazione non terminava quando il suo cervello veniva collaudato al diparti­mento di prova dell’impianto per la riproduzione de­gli androidi. Perché Marion-A era fatta in modo tale che il suo programma base poteva venire ampliato o modificato dall’esperienza. In teoria, dunque, sarebbe stata capace di reazioni non anticipate dai suoi pro­gettatori, a meno che questi non le avessero inserito un circuito di inibizioni per essere certi che, nonostan­te la presenza di un qualsiasi stimolo, la sua condotta si sarebbe accordata alle limitazioni imposte dalla pro­grammazione originale.

Ma, nelle creature viventi, le inibizioni possono ve­nire rimosse. E se ne possono creare di nuove. Markham si chiedeva se sarebbe stato possibile distruggere qual­cuna delle inibizioni di Marion-A, e in caso affermati­vo, se sarebbe stato possibile anche crearne di nuove.

E all’improvviso capì che stava per accingersi a una impresa, una specie di esperimento. Questo non l’a­vrebbe condotto necessariamente a scoprire se gli an­droidi potessero essere considerati vivi. Ma se non al­tro il risultato avrebbe fornito qualche indicazione su ciò che lui e il resto dell’umanità si trovavano a fron­teggiare.

Marion-A era programmata per servirlo, ma solo fi­no a che lui si fosse conformato ai canoni accettati di condotta. Il che era soltanto un altro modo di dire che l’androide era programmata prima di tutto negli interessi della Repubblica, e in secondo luogo in quel­li di Markham.

Ma se, per esempio, l’ordine delle due lealtà poteva essere sovvertito? Un pensiero affascinante e fantasti­co, questo.

A mano a mano che i giorni passavano, Markham si dedicava sempre più a Marion-A. Dapprima decise di esplorare i limiti della conoscenza dell’androide, e ri­mase ammirato, se non addirittura umiliato, da quel­lo che trovò. Scoprì che, per quanto concerneva i fatti, Marion-A era un’enciclopedia ambulante. Però, nel campo delle possibilità e delle implicazioni, in quel mondo insostanziale di ombre e di simboli, Marion-A non raggiungeva nemmeno l’intuizione, la fantasia, l’intelligenza di un bambino medio.

Sapeva tutto sulla velocità della luce, sulla storia universale, sull’evoluzione della vita, sulle onde meccaniche e via dicendo. Ma sebbene sapesse che una ro­sa, o un brano di musica, o un tramonto, potessero es­sere belli per la vista umana, non capiva perché lo fossero, né aveva alcuna nozione sulla natura della bellezza, o della felicità, o dell’amore.

Markham non seguì un piano preordinato nell’eseguire le sue ricerche e i conseguenti attacchi circa le attitudini mentali di Marion-A. Senza nemmeno ren­dersene conto, partì in vantaggio proprio perché ope­rò affidandosi all’istinto. La sua conversazione passava con una sola frase dal freddo ragionamento alla con­siderazione romantica dell’amore, dalla cibernetica al­la religione, all’improvvisazione di un pensiero spon­taneo.

Giocò a scacchi con Marion-A, le parlò dei suoi bam­bini e di Katy, e della vita nel ventesimo secolo. Le fe­ce ascoltale brani di musica, le chiese perché pensava che il tal pezzo lo rendesse felice o triste, o gli desse una soddisfazione intellettuale. Cercò di farle apprez­zare la tragedia di Amleto,il mistero di Monna Lisa, la grandezza della Toccata e Fuga in re, i dipinti di Blake, la magniloquenza di Marlowe, le melodie di Chaikovsky.

E giorno dopo giorno, Marion-A diventava più con­fusa. Il suo programma non era in grado di affrontare un simile attacco concentrato. I sintomi dapprima fu­rono vaghi, quasi insignificanti. Marion-A cominciò a dimenticarsi alcune cose, soprattutto cose che le riu­scivano difficili, cose che non erano spiegabili in ter­mini razionali. Cominciò a fare errori. Non era più così monotonamente efficiente. E a volte, quando Mar­kham la punzecchiava facendole notare gli sbagli com­messi, mostrava sintomi che, nell’essere umano, avreb­bero potuto essere interpretati come umiliazione.

Era stata programmata per accettare la propria pro­grammazione senza discutere. Ma senza darle tregua, Markham la indusse a usare su tutto le proprie facoltà critiche... compreso su se stessa e sulla parte che rap­presentavano gli androidi nella società.

Marion non era stanca, perché la stanchezza non era possibile agli androidi. Ma in un certo senso i suoi movimenti sembravano più lenti, meno sicuri. Non era infelice, perché gli androidi non erano program­mati per la felicità o per l’infelicità, ma c’erano mo­menti in cui pregava di essere lasciata sola, o chiede­va il permesso di usare l’eliauto per un giro senza me­ta, o se ne andava a zonzo per le strade di Londra sen­za alcun motivo apparente.

Con distacco freddo, da clinico, Markham notava tutti questi sintomi e non mancava di far sapere a Marion-A che si era accorto del cambiamento avvenuto in lei. E in tutto questo non faceva che ripetersi d’es­sere spinto da semplice curiosità.

Durante i giorni che seguirono il banchetto del Pre­sidente Bertrand a Buckingham Palace, Markham, ol­tre a dedicare gran parte del suo tempo ai tentativi sperimentali per modificare la programmazione di Marion-A, riuscì anche a rivedere Vivain, di solito in ap­puntamenti combinati in grande segretezza a qualche distanza dalla City.

Inevitabilmente, la loro relazione metteva radici. Era stata generata dalla curiosità, mantenuta viva dall’at­trazione fisica. Adesso c’era qualcosa di più. Per Vi­vain, se non altro, anche se lei non si curava di am­metterlo. Il fascino di Markham aumentava ai suoi oc­chi anche se, secondo tutte le leggi, avrebbe dovuto invece svanire. La sua necessità di stare con lui si fa­ceva sempre più intensa, e per motivi di autentico in­teresse morale...

A parte Vivain e qualche occasionale incontro con Algis Norvens, gli unici veri contatti sociali di Mar­kham erano con i vicini di Knightsbridge. Dal suo punto di vista, il primo incontro con Paul Malloris e Shawna Vandellay, la coppia che occupava l’apparta­mento sotto il suo, non era stato un gran successo. Ma dopo aver ricambiato la loro ospitalità ed essere tor­nato in visita un paio di volte a casa loro, cominciò a trovarli entrambi molto simpatici.

Dato che Paul e Shawna avevano conversato con lui dopo avergli fatto un’iniezione di Oblivina, della qua­le lui non si ricordava affatto, e si erano convinti che le simpatie di Markham stavano più dalla parte dei Fuggiaschi che della società, non sentivano più la ne­cessità di fingersi vacui e sciocchi di fronte a lui.

A mano a mano che l’amicizia si consolidava, Paul abbandonò lentamente il suo atteggiamento da poeta apocalittico e confidò a Markham che i suoi veri in­teressi riguardavano la storia della psicologia. Passa­rono insieme lunghe serate; Paul esplorava sistemati­camente gli atteggiamenti ventesimo secolo di Mar­kham il quale, dal canto suo, faceva l’inverso. Shawna portava la giusta nota di gaiezza nella conversazione quando questa si faceva troppo seria o troppo peri­colosa.

Arrivò il momento tuttavia, in cui Paul sentì di po­tersi fidare sufficientemente di Markham per confidar­gli l’episodio dell’Oblivina. Dapprima, Markham rifiu­tò di crederci, convinto di essere l’oggetto di qualche complesso scherzo del ventiduesimo secolo. Ma quando Shawna glielo confermò, guardandolo con i grandi oc­chi seri in cui si leggeva parecchia ansia, si convinse che era tutto vero.

«Faresti meglio a riferirmi esattamente tutto quel­lo che ci siamo detti mentre ero sotto l’effetto di quel­la maledetta Oblivina» disse allora, guardando Paul. «Poi vedrò se sarà il caso di gonfiarti la testa di pugni.»

Paul Malloris si strinse nelle spalle, e sorrise ama­bilmente. «Senza offesa, John, ma non ce la faresti nemmeno con la miglior buona volontà.» Poi gli rac­contò tutto.

Markham ascoltò attento, senza fare commenti, fin­ché Paul non ebbe finito. Rimase silenzioso per alcuni istanti, chiedendosi perché mai Paul avesse corso il ri­schio di confessargli una cosa simile. Infine capì tutto in un istante.

«Dunque tu pensi che io abbia già scelto? Che ab­bia già preso la mia decisione?»

Paul Malloris gli riempì il bicchiere. «Stai calmo. Ormai non c’è più bisogno dell’Oblivina... Durante le ultime settimane, John, ci siamo visti parecchio. Penso di conoscerti bene, ormai, forse meglio di quan­to ti conosca tu stesso.»

Markham sorrise. «Tutt’altro che impossibile.»

«Appunto. Il trauma di ritrovarti in un mondo nuovo... diciamo addirittura, di ritornare al mondo, ha comportato una grande confusione psichica. Ora però il fumo comincia a dissiparsi, e penso che tu ca­pisca la situazione con chiarezza... Non si può restare neutrali, John. È impossibile.»

«No, di neutrale non c’è mai nessuno» disse Mar­kham.

Shawna lo guardò supplichevole. «Non saresti mai stato felice sotto la dominazione degli androidi, vero, John? Sii sincero, ti prego.»

«Non credo che riuscirò a sentirmi felice in nessun caso» disse lui. «Ma se non altro preferisco la libertà di essere infelice.»

«Ecco il punto» disse Paul, sorridendo. «Infelici­tà uguale neurosi uguale inadattamento... che al gior­no d’oggi è l’unico crimine serio. Ma tu sei già un sa­botatore.»

Markham posò il bicchiere. «Come mai voi due non siete diventati Fuggiaschi?» chiese.

«È semplice. Lo Psicoprop non ci ha ancora presi al laccio. Esternamente, cerchiamo di essere una cop­pia molto convenzionale. Apparteniamo ai circoli alla moda, andiamo ai ricevimenti in voga, prendiamo parte alle cosiddette conversazioni normali. È utile per il Comitato Centrale sapere cosa bolle in pentola.»

«Il Comitato Centrale?»

«I Fuggiaschi sono bene organizzati, John. Non crederai che siano quattro straccioni dispersi, vero?»

«Mi piacerebbe rivedere il professor Hyggens» dis­se Markham. «È possibile combinare un incontro?»

«Eccome!» rispose Paul. «Vedi caso, anche il pro­fessore vorrebbe vedere te. Ci vorranno alcuni giorni.»

Purtroppo, Paul Malloris non riuscì a portare a ter­mine l’incontro. Un paio di sere dopo, mentre Mar­kham stava facendo quattro passi tutto solo in Hyde Park, per calmarsi dopo un burrascoso bisticcio con Vivain, sentì all’improvviso alle sue spalle un rumore di foglie secche calpestate. Rimase immobile e aspet­tò. Un attimo dopo, nel buio, un’ombra vaga parve staccarsi da un albero vicino.

«Sei tu, John?» La voce era soltanto un bisbiglìo, ma Markham riconobbe Paul Malloris.

«Sì, sono io. Perché questo tono da cospiratore?»

Paul gli si avvicinò. «Sapevo che a volte venivi qui a passeggiare. Ti sto aspettando da quattro ore. Quan­to tempo ti ci vuole per andare a prendere l’eliauto?»

«Un quarto d’ora, immagino.»

«Bene. Portalo a Marble Arch e accendi il motore di volo. Ti raggiungo là.»

«Senti un po’, che diavolo...»

«Presto, John! È urgente.» Paul stava già nascon­dendosi in un gruppo di alberi, indicando nel contem­po un raggio di luce apparso improvvisamente a quat­trocento metri da lì. Il raggio cominciò a frugare il parco, poi se ne accese un secondo e un terzo.

Dopo un istante di riflessione Markham si mise a camminare baldanzoso verso le luci. Poco dopo venne intercettato da un paio di androidi che gli chiesero i documenti. I due si consultarono, e per qualche se­condo Markham temette che non volessero lasciarlo passare. Ma la pattuglia psichiatrica aveva ricevuto istruzioni chiare, o forse inadeguate. Non cercavano John Markham, per il momento. Così gli permisero di riprendere il cammino.

Dieci minuti dopo Markham era nell’eliauto e gui­dava lentamente su per Park Lane verso Marble Arch. Aveva appena fermato il veicolo nel punto fissato, che la portiera si aprì e Paul Malloris saltò a bordo.

«In aria... presto» ordinò.

Markham, che sotto la guida di Marion-A aveva im­parato a guidare l’eliauto con efficienza eccezionale, toccò immediatamente i dispositivi di volo e decollò a un’accelerazione che gli valse un’occhiata rispettosa da parte di Paul.

Si raddrizzò a seicento metri, descrisse un ampio cerchio, poi inserì il pilota automatico.

«E allora?» disse. «Devo pensare che non sei più nelle grazie dello Psicoprop?»

Nella luce rossa del pannello di comando, la faccia di Paul mostrava rughe di tensione e di disperazione.

«Nel pomeriggio hanno portato via Shawna» dis­se cupo. «Mi hanno mancato per soli tre minuti... Hanno lasciato un paio di androidi ad aspettarmi.» Sorrise sarcastico. «Ma non erano abbastanza svelti. Quindi mi cercano anche per aver danneggiato degli androidi.»

«Maledizione!» disse Markham. «Non possiamo fare niente per Shawna?»

Paul Malloris fece uno sforzo per ricomporsi. «Sì, c’è qualcosa che possiamo fare per onorare la sua memoria» disse sottovoce. «Possiamo distruggere la potenza degli androidi una volta per sempre. Possia­mo costruire un mondo dove le persone come Shawna potranno vivere senza terrore.»

Markham rimase silenzioso per qualche secondo. «Perché quest’improvviso cambiamento?» chiese.

«Non lo so» rispose Paul. «Possono esserci centomila ragioni... Eppure eravamo stati molto prudenti.»

«Ma non completamente» disse Markham.

«Spiegati.»

«Siete diventati amici miei... Vi ho detto del mio colloquio con Solomon, no?»

«Sì, ma...»

«Mi diede un ammonimento, e adesso vuole di­mostrarmi che parlava sul serio.»

«Pensi che lo Psicoprop abbia preso Shawna per­ché...»

«Può darsi. Perfino il Presidente Bertrand ammet­te che io sia una compagnia pericolosa. Forse Solomon ritiene che una dimostrazione di forza possa convin­cermi a meditare sui miei principi sbagliati.»

«E ha indovinato?» chiese Paul, guardandolo fissa­mente.

«Temo di sì. Nonostante tutti i miei arzigogolamenti metafisici, pensavo di poter alla fine accettare il mondo degli androidi. O almeno tentare di fingere di accettarlo. Non sono il tipo d’individuo attivo. Pre­ferisco stare seduto a osservare. Ma quando mi costrin­gono ad agire, non è per le astrazioni o per gli ideali, ma per motivi personalissimi.»

«Motivi egoistici?» suggerì Paul, ironico.

«Assolutamente egoistici» rispose Markham. «Mi sento egoista riguardo te, Shawna, il professor Hyggens... e Vivain Bertrand. Ora questo è il mio mondo e voi mi appartenete. Sono un egoista a ventiquattro carati.»

«Sei un pazzo idealista» disse Paul. «Solo che te ne vergogni.»

«Va’ al diavolo» disse calmissimo Markham. Fissò la City. «Cosa ne pensi? Esiste qualche speranza di rivedere Shawna?»

«L’esecuzione sarà lenta ma indolore» spiegò Paul con voce roca. «L’Analisi è diventata un’arte sottile. Possono riprogrammarti proprio come se tu fossi un androide. Ai tuoi tempi, credo, si chiamava lobotomia. Ecco che cosa succederà a Shawna. Smontaggio, e poi una bella personalità nuova di zecca, per essere eter­namente felice in questo mondo perfetto... Ma se la rivedremo, e spero che non sia così, sarà meglio evi­tarla.»

«Perché?»

«Perché non sarà più Shawna. Chiamerà la pattu­glia psichiatrica più vicina e ci denuncerà con un sor­riso soddisfatto, convinta di agire per il meglio.»

«Bisognerà ricordarsene» disse Markham, cupo, «quando verrà il momento di uccidere gli androidi.»

«Non uccideremo gli androidi, John. Ci limiteremo a farli a pezzi.»

«In ogni caso, il risultato sarà il medesimo» disse Markham con un lieve sorriso. «Ma ti confesso che, per il rispetto di me stesso, preferisco il concetto di uccidere.»

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