Dapprima, un dolore acuto, e dopo la sensazione di dolore uno sciame di ombre svolazzanti come uccelli silenziosi contro uno sfondo di oscurità. Poi immagini nebulose, che ricordavano qualcosa di vago. Poi sogni, che si alternavano senza significato, finché i simboli si fecero chiari e il significato prese a poco a poco i contorni della realtà.
In un fioco chiarore di consapevolezza, i ricordi bruciarono come minuscole candele. Li osservava, affascinato, scosso dalla stupenda certezza di essere vivo.
Un viso di ragazza si materializzò dall’ombra, riconoscibile. Era la faccia di Katy come l’aveva vista la prima volta. La ragazza gli si avvicinò e gli sorrise. Indossava una camicetta a righe e aveva con sé un fascio di documenti. Proprio come la volta in cui si erano conosciuti, quando lui era andato a installare i commutatori nell’ufficio dove lei lavorava.
«Salve» diceva Katy. «Volete un caffè?»
«Potete scommetterci.» Ma non era la sua voce che parlava. Era la voce di un fantasma.
Katy si voltava e spariva. Poco dopo tornava con due bricchi di caffè fumante. Il fantasma ringraziava, le diceva di chiamarsi John Markham, di avere ventidue anni, e di trovarsi a Londra solo per pochi mesi, perché la sua casa era nello Yorkshire. Le diceva di essere appassionato di Beethoven e di Gershwin, di amare gli scacchi e le commedie musicali. E le diceva che un giorno sarebbe andato sulla Luna. Il fantasma parlava molto perché si sentiva molto solo. Perché, essendo appena giunto dalla provincia, Londra l’aveva ingoiato in un solo boccone, e lui aveva paura di dissolversi nello stomaco della città.
Katy rideva. Rideva gettando indietro i capelli biondi. Pensava che l’idea della Luna fosse l’equivalente moderno dell’idea di partire come mozzo sul mare, ed era sorpresa, quasi irritata, dalla possibilità di navigare nello spazio. D’accordo, c’erano i satelliti, le piattaforme spaziali, e tutte le altre assurde diavolerie che gli uomini non si stancavano di collocare nel cielo, ma in un certo senso quelle macchine cessavano subito di appartenere agli uomini. Per lo meno alla gente normale. Erano, e alla lettera, fuori del mondo... No, Beethoven non le piaceva, ma Gershwin restava un grande musicista. E lui, c’era stato a vedere Il commissario e l’esordiente?
Il fantasma non aveva visto la commedia. Era stato troppo occupato a scervellarsi sulle statistiche che riguardavano i carburanti, sulle traiettorie delle cadute nel vuoto e sulle forze di accelerazione, chiuso nella sua cameretta nei sobborghi. Ma adesso gli si presentava la possibilità di fare amicizia con Katy, di distruggere la solitudine in cui si struggeva. La pregò di accettare un invito, avrebbe acquistato i biglietti per la commedia...
Non badava affatto a Il commissario e l’esordiente,né prestava orecchio alle canzoni o alla musica. Invece guardava Katy, e ne udiva gli occasionali mormorii eccitati di commento. In quel momento aveva sentito che l’avrebbe sposata, e che non sarebbe mai partito per la Luna.
Ora il suo corpo giaceva su un carrello in una stanza in cui la temperatura era stata aumentata con infinita lentezza per un periodo durato giorni e giorni. Sentiva ancora i capelli pesanti di brina, il mento ispido di barba. Ma gli abiti gelati, induriti da cristalli di ghiaccio, erano stati tagliati via. E nella presente immobilità, nella presente sparuta nudità, la possibilità di vita era incredibilmente fantastica ma reale. Era un cadavere sotto un raggio di luce bianca e ferma che gli massaggiava il petto proprio al di sopra del cuore. Ma era un cadavere il cui cuore cominciava a muoversi debolmente; un cadavere che aveva cominciato a sognare, che veniva risuscitato, trascinato senza misericordia lungo interminabili corridoi di dolore fisico...
Katy... La luna di miele... Un modesto villino ammobiliato sulla costa orientale inglese dove avrebbero conosciuto il lusso di una casa tutta propria per due settimane, prima di tornare nella stanza ammobiliata di città.
La spiaggia, Katy che si cambiava il costume bagnato al riparo di una roccia. Il corpo sottile di Katy, sodo e abbronzato, eppure morbido e sinuoso. Katy era fiera del suo corpo; e anche lui, il fantasma, ne era orgoglioso; e guardandola, sentiva divampare un fuoco di desiderio e di tenerezza che nessun amplesso riusciva a estinguere completamente.
E infine, un bambino: Johnny Boy. Grassoccio, rumoroso, esigente. L’eredità di quella spensierata luna di miele... Johnny Boy che si arrampicava sui tavoli, sulle sedie, su Katy, sui disegni, su tutto. Johnny Boy, la cui costosa crescita assorbiva la maggior parte dei loro risparmi e trasformava la possibilità di avere un’automobile in un miraggio presto dissolto.
Il fantasma era felice di essere padre. Era una sensazione positiva, uno stato che aveva uno scopo. Più importante del volo spaziale, perché Johnny Boy apparteneva a Katy e Katy apparteneva a lui...
Un’altra ondata di oscurità nel corpo sdraiato sotto il fascio di luce. Ondate successive di dolore, di incoscienza. E la temperatura continuava a salire, la brina diminuiva ora per ora. Figure si chinavano sul corpo inerte: iniezioni anti-dolorifiche, dolori attutiti...
L’infanzia! Il fantasma scopriva d’essere stato anche lui un bambino... Pioggia e sole nella valle dello Yorkshire. Trote nei torrenti estivi. Corse in slitta sulle candide colline in dicembre... Un’aula scolastica.
«Markham!»
«Presente!»
«Qual è il cinquanta per cento di un mezzo di zero virgola cinque?»
«Un ottavo.»
«Espresso come decimale?»
«Zero virgola uno due cinque.»
«Espresso come percentuale?»
«Dodici e mezzo per cento.»
«Faresti bene a guadagnarti quella borsa di studio, Markham.»
«Sì, signore.»
E con la borsa di studio, un mondo più vasto di quello dell’infanzia.
«Di’ un po’, Markham, cosa farai quando sarai fuori di questa tana?»
«Non ci ho ancora pensato, Stringer. Tu cosa farai?»
«Mio padre dice che può sistemarmi alla Refrigerazione Internazionale. Vuoi che gli chieda se può fare qualcosa anche per te?»
«Non saprei.»
«Via, non fare l’idiota. Almeno resteremo insieme.»
Il corpo sul carrello si muoveva. Era il primo movimento: il fremito di una narice. Figure in camici bianchi osservavano il movimento. Altre iniezioni. Nessun dolore adesso: soltanto un divino senso di distacco. E le immagini arrivavano più luminose, più rapide secondo un ordine più confuso.
Johnny Boy allo zoo. Elefanti. Una manina che afferrava una moneta da sei pence. «Voglio salire su quello più grosso, pa’. Quello dell’uomo nero.»
E Katy: «Non può salirci da solo, John.»
Il fantasma rideva: «Allora ce l’accompagni tu, tesoro.»
Lo zoo svaniva... Katy si svestiva, pesante, di nuovo in attesa di un bimbo. Il fantasma la osservava, e la trovava ancora bella dopo sei anni. Come faceva un fantasma a sapere che erano passati sei anni? Come può un fantasma sapere qualcosa?
«Avremmo dovuto aspettare, Katy... per il bambino, dico.»
Katy sorrideva. «Nessuno l’aveva preteso, mi pare.»
«Non avremo mai abbastanza denaro per comperarci la casa.»
«L’avremo.» Katy era sempre più saggia del fantasma. «E del resto, se ci formiamo una famiglia finché siamo ancora giovani, caro, ci resterà molto più tempo per noi due in seguito.»
Il fantasma non era d’accordo?
«La casa, Katy. La voglio subito.»
«Riprenditi il bambino, allora!»
«Avrò un impiego migliore. Ecco la risposta al problema: guadagnare di più.»
Società Internazionale di Refrigerazione. Ufficio del signor Cheesebody. Fumo di sigaro.
«È una faccenda grossa, signor Markham! Una faccenda grossa!»
Cheesebody scrollava la testa al di sopra del sigaro, come un gufo desideroso di apparire umano. Calvo, ventre enorme, assenza assoluta di anima.
«Me ne rendo conto, signore.» Il fantasma era serio, ma sicuro di sé: usava un tono da affari. Era il suo gran momento.
«Molte responsabilità per un uomo così giovane, signor Markham. Non si può scherzare con i contratti governativi, capite? Dicono dicembre millenovecentosessantasette e dev’essere per il dicembre del sessantasette.»
«Fidatevi di me, signor Cheesebody.»
«Mi raccomando... Sapete una cosa, signor Markham? Stiamo facendo cinquanta impianti sotterranei, per tutto il paese. E sapete perché li vogliono così profondi?»
«Perché siano a prova di bomba» suggeriva il fantasma.
«A prova di radiazioni» correggeva Cheesebody. «La guerra finirà pure per scoppiare prima o poi, no? E allora si aprono le unità congelanti e se ne estrae cibo incontaminato per tutti.»
«Sì, signore.»
«Inutile vincere la guerra se poi dovremo mangiare salsicce radioattive, no?» Una grossa risata scuoteva lo stomaco prominente di Cheesebody.
«Giusto, signore.»
«Una grossa responsabilità, Markham. Il futuro della nazione, capite?»
«Sì, signore.»
«Bene, sarà meglio che andiate subito a Epping Forest per familiarizzarvi con l’impianto. Dovrete fare conoscenza col vostro collega del ramo tecnico. Forse dovrete ingraziarvelo... Mi risulta che la prima camera sarà pronta per l’installazione alla fine di questo mese.»
«Benissimo, signore.»
Epping Forest. Venticinque chilometri a nord della città. Epping in autunno, con. le foglie rosse e oro: turbini di vento che scuotevano gli alberi, disperdendo le foglie in una danza mortale.
Autunno e foglie morte, e livellatrici, escavatori, trattori, autocarri. Uomini che sudavano sotto l’ultimo sole pallido, rintanandosi nella terra come talpe, scavando gallerie, creando nuove celle, penetrando rabbiosamente e rumorosamente entro la paziente crosta terrestre.
«Camera B pronta, signor Markham.»
«Bene. Controliare lo scambio potenziato.»
«Sì, signore.»
«Camera C pronta, signor Markham.»
«Pronta un corno! Rifate l’isolamento del tetto, non va.»
«La camera D adesso è perfetta, signor Markham.»
«Mettetela in prova per una settimana. Dopo portatemi il grafico dell’abbassamento di temperatura.»
«Camera E completa, signor Markham.»
«Mettetela sullo scambio automatico. L’immagazzinamento comincerà la settimana prossima. Qui ci sono le tavole per la disposizione delle merci.»
Cave di ghiaccio scavate nel terreno caldo e vivo. Convogli di camion per trasportare il cibo che avrebbe evitato ai Cheesebody d’Inghilterra una dieta a base di salsicce contaminate. Grano, latte in polvere, carne, zucchero, frutta disidratata. Cento, mille, centomila tonnellate. Ammassare, ammassare, ammassare...
Il fantasma era felice. Non era un’inutile preparazione per una guerra sudicia nella quale nessuno credeva. Era un lavoro, ecco tutto. Un lavoro importante, un buon lavoro, un lavoro ben retribuito. Permetteva di acquistare una casa in Hampstead per Katy, Johnny Boy e Sarah. E poi una macchina.
Era piacevole tornare in macchina verso la propria casa, la sera, sotto un tramonto che trasformava la strada in un nastro di fuoco, e le foglie svolazzavano nella scia dell’auto...
Il corpo rabbrividiva sotto il raggio di luce. I muscoli si contraevano. Le palpebre si agitavano. La brina era diventata rugiada, e il cadavere non era più un cadavere ma un uomo immerso in un sudore diaccio. Un uomo che non provava più dolore, ma che aveva troppi ricordi. Un uomo che non aveva diritto di ritrovarsi in vita.
I sogni si susseguivano come in un caleidoscopio: i ricordi rotavano, producendo fantastici schermi colorati.
«Rifate l’isolamento del tetto.»
«Cos’è il cinquanta per cento di un mezzo di zero virgola cinque?»
«Voglio montare su quello più grosso, pa’. Quello dell’uomo nero.»
«Non si può scherzare con i contratti governativi.»
«Alt!»
Il corpo disteso sul carrello aveva parlato. Le candide figure vi si affollavano sopra come gabbiani giganteschi. Per un attimo, l’uomo aprì gli occhi e li fissò con espressione attonita, vedendo solo cose che non erano nella stanza. La luce del raggio diretta sul petto dell’uomo si fece più intensa. L’uomo richiuse gli occhi, sapendo che si trattava solo di un altro sogno.
Un altro sogno... Katy...
«Ci sarà la guerra, John?»
«No che non ci sarà. A meno che i capi non diventino pazzi del tutto. Non possiamo rischiarla. Nessuno può rischiare una guerra, oggi.»
«Ne spendono di soldi per i tuoi refrigeranti, però.»
«Una parte entra nelle nostre tasche» rispondeva il fantasma con un sorriso un po’ cinico.
Katy rammendava un paio di calzini. «A volte» diceva «rimango sveglia, di notte, pensando a come sarà il mondo quando Johnny e Sarah saranno cresciuti.»
Il fantasma sedeva sul bracciolo della poltrona, metteva una mano sulla spalla di Katy. «Pensi troppo, tu. I ragazzi si troveranno benissimo... Bel resto, ogni generazione ha i suoi problemi.»
«Si parla di nuovo di riarmo.»
«È la stagione» diceva il fantasma. «Ritorna a intervalli regolari, come per il calcio o la caccia.»
«Sei sicuro che la guerra non si farà, tesoro?»
«Arcisicuro» rispondeva il fantasma. «Saremo disgraziati, ma non fino a questo punto. E adesso, andiamocene a letto...»
Katy sorrideva. «Se tu ne sei convinto...» Riponeva il cestino da rammendo, si alzava, si stirava. Il fantasma la prendeva tra le braccia.
«No» disse l’uomo sul carrello, «la guerra non si farà!»
Ma nella stanza silenziosa, quella dichiarazione venne interpretata come una domanda presente, uscita dalle labbra di un uomo che sapeva di non essere più morto. Con garbo, le figure in bianco asciugarono il sudore diaccio dal corpo nudo. Poi spensero il raggio di luce, misero un lenzuolo sul corpo dell’uomo e infine una coperta. La crisi era superata. Si poteva lasciare che il corpo si riscaldasse più in fretta. Una delle figure sollevò la testa dell’uomo, gli diede da bere qualcosa. L’uomo non aprì gli occhi ma il liquido discese come un elisir, riempiendogli la gola e lo stomaco di un calore vitale.
Epping... Bianca e immobile. Niente più foglie morte, ormai, solo il candore bianco della neve sospesa sugli alberi spogli. Ma le interminabili carovane di carri carichi di cibo s’insinuavano come grosse pesanti formiche nelle camere super-gelate.
«Camera G completa e sigillata, signor Markham.»
«Bene. Quanti carichi restano?»
«Nove, signore.»
«Avviateli verso la K.»
«Camera H sigillata, signor Markham.»
«Avanzato qualcosa?»
«Tre carichi.»
«Avviateli verso la K.»
«Camera I piena e sigillata, signore.»
«Avviate quello che resta verso la camera K.»
Epping... immobile come una cartolina di Natale, bella come un paesaggio di sogno, a parte i rombanti convogli di autocarri. Solo un’ultima camera da riempire, poi il lavoro sarebbe stato terminato e i camion sarebbero partiti. E soltanto con una squadra di sorveglianti. La foresta avrebbe dimenticato tutti i soprusi subiti, gli escavatori, le livellatrici, i camion. La foresta avrebbe dimenticato e perdonato. Poi gli espropriati sarebbero ricomparsi per reclamare il loro territorio. Dapprima gli uccelli, poi i conigli, gli scoiattoli, le volpi, i topi, gli ermellini, le talpe, i tassi. La silenziosa comunità dei selvatici.
Epping a Natale. Il mondo della vigilia. Un alberello nel soggiorno, con le candeline colorate e i palloncini di vetro lucente. La luce del caminetto danzava intima sulle pareti e sui mobili. Il vago fragore di Londra chiuso completamente fuori da un universo privato.
Johnny Boy e il suo treno elettrico. Sarah con un orsacchiotto due volte più grande di lei. Katy con uno scatolone che conteneva la sua prima pelliccia.
Johnny Boy stralunava, gli occhioni. «Voglio fargli trasportare dieci vagoni. Fa’... Tu sei il capostazione.»
Sarah strillava: «Orso mio, orso papà, orso mio, orso papà...»
Katy precisava: «Prego, madamigella, quest’orso qui è proprio mio! La mia pelliccia!»
Buon Natale: a Katy, a Johnny Boy, a Sarah. Buon Natale: a Londra, a Mosca, a Washington. Pace sulla terra, agli uomini di buona volontà. Il mondo è rinsavito.
L’uomo sul carrello cominciò a cantare: «Merry Christmas!...»Si interruppe, aprì gli occhi, fissò le figure candide attorno a sé e urlò. Poi tacque con gli occhi serrati, rotolò su un fianco e lentamente, penosamente, si tirò le ginocchia fino al mento. L’ultimo sogno era il peggiore. L’ultimo sogno era l’ultima realtà. Tutto il resto era solo illusione, il prodotto di una mente che stava cercando scampo, ma non poteva sottrarsi alla realtà.
Gennaio, a Epping. Pioggia, nevischio, neve. Altra pioggia. Il cielo strisciava più basso sulla foresta, come un sudario.
«È la camera K, signor Markham. Una falla nell’automatico. Si è inceppato.»
«Maledizione» diceva il fantasma. «Manda giù qualcuno. Chiama Martin.»
«Il signor Martin è andato a casa, signore. Ha l’influenza.»
«Andrò giù io, allora.»
Dentro la galleria. Passi che risonavano come la marcia di un esercito, i passi di un fantasma. Giù, giù nella terra, un fantasma imbacuccato come un esquimese. Attraverso la prima botola. Giù per la scaletta di metallo, quindici piuoli. Aprire la seconda botola. Giù di nuovo. Strisciare attraverso il pannello di ispezione dentro la camera K.
Gelo. Gelo dappertutto. Hans Anderson... Il Palazzo della Regina delle Nevi. Casse di cibo ammucchiate in nitide falangi gelate, che si levavano al cielo. Niente, salvo un silenzio gelato; l’impiantito è una lastra di ghiaccio azzurrognolo. Chi aveva detto che l’automatico si era inceppato, accidenti? Funzionava perfettamente. Qualcuno aveva giocherellato con gli strumenti nella stanza di controllo. La camera K sarebbe rimasta congelata per mille anni. Congelata dal suo stesso calore. Il grande congelamento mantenuto da motori alimentati da estrazione di calore. Movimento perpetuo. Finché la temperatura di un miliardo di metri cubi di terreno non fosse divenuta stabile... il che non sarà mai. Meravigliosa, la scienza!
Il fantasma cammina su e giù per i corridoi della camera K, tendendo l’orecchio al silenzio ghiacciato, fissando le casse ricoperte di bianco, le montagne ordinate di cibo.
Poi, improvvisamente, l’impiantito trema. Il ghiaccio si lamenta, scricchiola, si rompe. Le casse di cibo danzano assurdamente scivolando fuori dalle file ordinate, rimbalzando e slittando lungo l’impiantito che si solleva. Il fantasma viene gettato in alto di peso, scaraventato come un birillo per tutta la lunghezza di un corridoio. Un fragore violento riempie la camera K, prorompendo dalle pareti, dal tetto, dalle lastre sfaldate di ghiaccio; il fragore si gonfia in una vibrazione che prende il sopravvento su tutto: perfino sul pensiero stesso.
Il rumore cresce, finché pare che la terra voglia spaccarsi in due in conseguenza di quella colossale scarica di energia. Poi, di colpo, silenzio. La danza frenetica delle casse di cibo si quieta. Quel silenzio e quell’immobilità sono anche più intollerabili del sollevamento stesso.
Terremoto! Mentre scivola sulle crepe e sui detriti, il fantasma tenta disperatamente di convincersi che si è trattato di un terremoto. Un normale terremoto, per quanto grave, lo si può affrontare. Ma l’altra causa no, no per amore del cielo!
Il pannello di controllo è sepolto sotto un mucchio di casse, del peso di cento tonnellate almeno. Il fantasma fissa istupidito quella montagna di scatole ammucchiate alla rinfusa. Poi si ricorda del telefono di emergenza e prende a strisciare su un mare di cibo congelato. Occorre molto tempo per sgomberare il piccolo recesso del telefono dai rifiuti. Troppo, il freddo intenso sta già insinuandosi attraverso le vesti, penetra nel corpo. Si toglie i guanti, alita sulle dita già insensibili, fissa inebetito i piccoli ghiaccioli. Poi riesce ad aprire la porticina dello sportello isolato, afferra l’apparecchio e comincia a gridare. La linea è interrotta!
Scuote il telefono, lo martella con i pugni, lo prende a calci. L’apparecchio è muto. Impreca, quasi per costringerlo a funzionare. Alla fine lo scaraventa a terra e scoppia in singhiozzi.
Lottare contro il panico! Pensare a Katy, ai bambini! Torna strisciando verso la montagna di casse che ostruisce il pannello di ispezione. Comincia a lottare per aprirsi la strada, sapendo benissimo di non avere abbastanza tempo davanti a sé. Le braccia si muovono con gesti ormai incoerenti, le dita rifiutano di stringere la presa. Le gambe non lo sostengono più. Si rialza, striscia verso un’altra cassa sconquassata, cade e rimane immobile.
Troppo freddo per pensare, ormai! Troppo freddo per recriminare o sperare. Troppo freddo per fare qualsiasi cosa, tranne abbandonarsi a un profondo senso di pace. Quello è il palazzo della Regina delle Nevi. Il termine del viaggio...
«Ci sarà la guerra, John?» Cara lontana Katy.
«È la stagione della guerra» risponde il fantasma. «Torna regolarmente, come per il calcio, per la caccia.»
Comincia a pregare. E il freddo s’insinua inesorabile, sempre più in fretta, finché a metà di una preghiera il fantasma chiude gli occhi e si addormenta. Niente sogni, ormai. Solo un’ultima visione di Katy, in camicetta a righe, con un fascio di documenti.
«Avete visto il Commissario e...»
Più nulla! Assolutamente nulla.
L’uomo sul carrello si svegliò, girò lo sguardo per la stanza, comprese di non trovarsi più nella camera K. L’avevano tirato fuori, alla fine. Ora voleva andare a casa.
Una donna in camice bianco, in piedi accanto al carrello, lo stava osservando. L’uomo si tirò su.
«Quanto tempo sono rimasto qui?»
«Parecchi giorni, signore. Non preoccupatevi. Ora starete benissimo.»
«Gran Dio! Mia moglie lo sa?»
«Restate sdraiato, prego. Uno sforzo al momento vi farebbe male.» L’accento della donna era strano, incolore. La voce pareva uscire da un dittafono.
«Sto benissimo. Voglio andarmene a casa.»
«Dovete riposare, signore. Non potete ancora muovervi! Vi consiglio un sedativo.»
«Al diavolo i sedativi. Voglio... Dove sono?» Si guardò attorno incuriosito. La stanza era assolutamente spoglia, ma notò che le pareti erano rivestite di materiale isolante.
«Questa è una camera di congelamento, signore. Vi trovate nel Risanatorio di Londra-Nord.» La voce della donna era di una uniformità monotona, la faccia quasi inespressiva.
L’uomo era affascinato da quella faccia. Sebbene la donna non potesse avere più di venticinque anni, era in un certo senso senza età... come una maschera. Quell’immobilità cominciò a disturbarlo in modo indefinibile. La guardò meglio. Era alta, bruna, formosa, ma stranamente priva di femminilità. Statuaria, ecco la parola. Nonostante il grembiule bianco, sembrava appena scesa da un piedistallo.
Cercò di riordinare le idee. «Perché mi avete messo in camera di congelamento?» chiese irritato. «Sono appena stato tirato fuori da un’altra.»
«Questo è successo parecchio tempo fa, signore. Vi hanno ritrovato in animazione sospesa, o morte apparente, se preferite. Abbiamo dovuto alzare la temperatura molto lentamente.»
Markham le diede un’occhiata sbalordito, sforzandosi di capire, desiderando di darsi ragione di quelle parole... e nello stesso tempo di respingerle.
«Animazione sospesa! Che idiozia!... Scusate, non volevo dire questo.» Ascoltò la propria voce e la sentì stridente e innaturale: la voce di un estraneo. Si sfregò la fronte con le dita madide, e notò che gli tremavano. Fece uno sforzo per ricomporsi. «Per animazione sospesa» disse, riflettendo «intendete riferirvi certamente al fatto che ero svenuto e mezzo congelato... Fortuna che mi hanno tirato fuori in tempo, immagino.»
«Signore» disse la donna in bianco, sempre nelle stesso tono meccanico «non eravate svenuto: eravate morto a tutti gli effetti. Fortunatamente, la nostra sviluppatissima tecnica ci consente di riattivare l’animazione dopo la sospensione provocata dal sottozero... È solo per una fortunata combinazione che le vostre cellule non sono rimaste danneggiate dal congelamento originale. Temevamo che...»
«Ma chi siete?» gridò Markham. Per un motivo che non riusciva a definire quella voce lo irritava. Era come se quella donna ci fosse e tuttavia non ci fosse. Come se, in modo impiegabile, fosse una specie di telefono, e qualcun altro stesse parlando attraverso lei: qualcuno che si trovava a una gran distanza da lì. Capì che doveva reprimere l’attacco di isterismo che stava per travolgerlo. «Chi siete?» Si accorse di urlare.
Lei non perse la pazienza, né mostrò segno di emozione.
«Signore, chiamerò un essere umano. Sarà meglio, penso.»
Seguì un istante di silenzio. I muscoli gli si contrassero, poi scoppiò in una risata. «Un essere umano, povero me! E voi allora cosa sareste?» Incontrò lo sguardo di lei e la risata gli morì sulle labbra.
«Sono un androide, signore. Un robot umanoide.»
Ma Markham era già svenuto. E stavolta i sogni furono orribilmente grotteschi...
Poco dopo c’era un’altra voce, una voce d’uomo, che ancora sembrava lontanissima. Tuttavia, prima ancora di aprire gli occhi, Markham comprese che era umana. Per alcuni secondi non lasciò capire d’essere tornato in sé, ma giacque immobile cercando di pensare. C’era poco da pensare: ogni pensiero era fantastico, ogni conclusione amaramente assurda. Alla fine, disperato, aprì gli occhi.
L’uomo era effettivamente un uomo, e sfoggiava una barbetta a punta. I suoi abiti erano molto stravaganti, come un costume da pantomima o da satira. Una lunga giacca di una stoffa verde che sembrava velluto, un panciotto semitrasparente, di una specie di plastica, e una camicia bianca, dal colletto straordinariamente lungo. I calzoni non si vedevano, perché l’uomo era in piedi proprio accanto al carrello. Lo sconosciuto era alto, con la faccia tonda.
«Dovevano venire a chiamarmi al momento del vostro risveglio» spiegò l’uomo. «Questi maledetti androidi pensano di potersela cavare da soli in qualsiasi situazione. Non possono apprezzare appieno il tocco umano, naturalmente... A proposito, mi chiamo Bressing.»
«Androidi!» fece rauco Markham. «Androidi!» L’attacco di nervi stava tornandogli. «Maledizione! Cosa sarebbero...»
«State calmo» disse Bressing. «Eh, vi saranno riservate parecchie sorprese. Volete che ve le comunichi subito, o le preferite a piccole dosi? E se prima facessimo una puntura tranquillante?»
Una domanda urgeva nel cervello confuso di Markham. «Per quanto tempo?» mormorò con una nota di timore nella voce. «Per quanto tempo sono rimasto svenuto?»
«Prima che vi trovassero?»
«Sì. Per amor del cielo, quanto tempo?»
Bressing sorrise. «Siate forte» disse. «La risposta vi turberà... Circa centocinquant’anni, giorno più, giorno meno. Ricordate l’anno in cui siete rimasto intrappolato?»
Markham dovette fare appello a tutte le sue forze per rispondere senza urlare: «Il mille novecentosessantasette.»
«Allora siete rimasto in A.S. per centoquarantasei anni... Siamo nel duemila centotredici.»
Seguì un silenzio, un silenzio spaventoso. Markham sentiva i battiti del proprio cuore gonfiarsi fino a risonare come tonfi di motori... Centoquarantasei anni!
Tentò di immaginare le decadi di cristallizzata immobilità, il remoto e inesorabile passare del tempo mentre lui giaceva rigido e senza vita, e tuttavia non completamente morto, nella camera K... Centoquarantasei anni!
Non era vero! Non poteva essere vero. Doveva trattarsi di un delirio. Forse solo in questo momento lo stavano tirando fuori. Forse tra poco si sarebbe svegliato e avrebbe visto Katy accanto al letto... Centoquarantasei anni!
Guardò Bressing e cercò di annullarlo con la forza di volontà. Ma Bressing, solido nella sua realtà tridimensionale, continuava a fissarlo sorridendo. Markham chiuse gli occhi, costringendosi a credere che quando li avrebbe riaperti la scena sarebbe stata diversa... trasformata in Hampstead, in un ospedale qualsiasi, magari nella camera K! In qualsiasi cosa, tranne che in un mondo dove le infermiere erano non-umane e i dottori indossavano abiti strampalati... Centoquarantasei anni!
Vero o no, era reale; reale o no, era vero. A meno che non si trovasse in un manicomio, e lui, Bressing, e la donna androide non fossero che normali pazienti... Centoquarantasei anni!
Pensò a Katy. Katy, Johnny Boy, e Sarah. La vigilia di Natale. L’altro ieri. Un secolo e mezzo fa. Katy, ancora viva e già irraggiungibile, perduta in un pozzo senza fondo di tempo. Le lacrime gli rigarono il volto. Era maledettamente sciocco piangere. Era sciocco, infantile, futile. Ma Katy e i bambini... Cara, adorata Katy... Potenza divina! Centoquarantasei anni!
Bressing tossì. «Coraggio, giovanotto... Piangete, se volete, ma non lasciatevi abbattere. Avete ricevuto un trauma spaventoso, ma era scritto. La facciamo una iniezione di tranquillità, eh? Tra dieci secondi sarete sereno e allegro come un passero.»
Avrebbe voluto fare a pezzi quel buffone insensato del ventiduesimo secolo. Avrebbe voluto levarsi e strappare quello scenario... mettere a nudo il trucco. Aprire una tenda e ritrovare il suo mondo, il mondo savio di un tempo.
Ma non poteva. Poteva solo restarsene sdraiato sul lettino e fissare quella faccia stupida e sorridente, mentre una ridda di pensieri gli turbinava nella mente senza scopo, riempiendolo di livore e di nostalgia.
«Cos’è successo?» bisbigliò pensando a Katy. «Londra... Cosa ne è stato di Londra?»
L’uomo era gaio, rassicurante e odioso. «Londra? Oh, capisco cosa volete sapere... È immortale, mio caro. Londra è rimasta. O almeno, la città, o buona parte di essa... Non ho il bernoccolo della storia, sapete. Aspettate: che anno era avete detto? Ah, il novecento sessantasette. Quella è stata la baraonda, amico. Ma sul serio! Gli ultimi giorni del Sistema Imperialistico... Il continente Nord Americano e quello che una volta si chiamava Commonwealth Britannico contro tutti gli asiatici. Maledizione, che sconquasso! Nelle registrazioni di storia viene ricordata come l’Epopea dei Nove Giorni! Devono essere state ore emozionanti... Ma è stata l’ultima guerra sapete. Quando gli orientali cominciarono a svilupparsi, la guerra atomica andò fuori moda, divenne un fatto sorpassato. Mi spiego?»
Markham diede in una risata aspra. «Se vi spiegate? Certo! Sono paralizzato dalla vostra chiarezza!» La risata si spense. «Scusatemi... Ditemi ancora una cosa: come sono stato ritrovato, dottor Bressing?»
La faccia dell’uomo impallidì improvvisamente. «Per vostra norma, non sono un dottore» disse, in tono rigido. «Sono un gentleman e un artista. Gli androidi che vi hanno in cura, sono dottori... Non vi scusate. Da parte vostra l’errore è comprensibile.»
Bressing aveva reagito come se avesse ricevuto un insulto mortale. La cosa, chissà perché, colpì Markham più di qualsiasi altra. Ma ugualmente insisté nella sua domanda. «Vorrei sapere com’è successo che sono stato... resuscitato.»
Bressing si era ripreso. «Alcuni archeologi androidi stavano scavando con una squadra di robot sterratori» spiegò. «Captarono il rumore del vostro impianto di congelamento e cominciarono a scavare. Dovettero tagliare il ghiaccio per estrarvi, credo.»
Markham tacque per qualche istante. Poi disse, con un sospiro: «Spero che esistano documentazioni sul... sul tempo di allora. Vedete, avevo moglie, figli. Vorrei sapere...»
L’uomo del ventiduesimo secolo lo interruppe. «Se ne occuperanno gli androidi. Praticamente sono loro che si occupano di tutto. Tra parentesi, la vostra A.P. dovrebbe arrivare da un momento all’altro. Penserà lei a tutto quello che può servirvi. La cosa importante, amico mio, è di riposare. Penso che dobbiate restare al Risanatorio per un breve periodo, ma la vostra A.P. vi comunicherà la data del rilascio appena sarà qui.»
«A.P.?» chiese Markham incuriosito.
«Androide personale» spiegò Bressing spazientito. «Tutti l’abbiamo. Che cosa sarebbe la vita senza un androide personale? Bene, caro signore, adesso devo andare. Il mio rilascio è fissato per domani.»
«Siete un paziente, allora?»
«Ospite, è il termine che usiamo noi» disse Bressing. «Sono un ospite del reparto psichiatrico. La maggior parte degli artisti lo diventa, prima o poi. E adesso sdraiatevi e cercate di rimettervi in forze. Vi manderò la vostra A.P., se ve l’hanno già assegnata. Le previsioni erano che sareste morto, quindi può darsi che non abbiano provveduto.»
Bressing gli rivolse un largo sorriso, si voltò e uscì prima che Markham potesse comprendere appieno quell’ultima affermazione. L’altro non era uscito nemmeno da un minuto, che una donna entrò nella stanza.
Aveva una gran massa di capelli d’oro, la faccia ovale e liscia. Era vestita quasi secondo la moda del ventesimo secolo. E assomigliava... assomigliava...
Markham la guardò sbalordito.
«Katy!»
Ma nello stesso tempo, sapeva benissimo che non era Katy. Gli occhi erano azzurri, ma mancavano di vita. Le labbra erano rosse e piene, ma rigide e quasi inerti... No, non poteva trattarsi di Katy! Era solo una sua gemella senz’anima, un macabro scherzo del ventiduesimo secolo... Un androide!
Markham si sentì assalire dal furore. Un furore logico, giustificato. Perché mai gli facevano una cosa simile? Perché, in nome del buon senso, osavano...
«Mi dispiace di non essere stata pronta al momento del vostro risveglio, signore. Ma non si sapeva se sareste veramente vissuto. Le mie modifiche sono appena state completate. Sono Marion-A, la vostra androide personale.» La voce della ragazza aveva toni molto più variati di quella dell’altra. Non era così lontana e automatica.
A Markham mancavano le forze per dare sfogo all’ira. Cominciò a tremare, vergognoso della propria debolezza. «Voi assomigliate a mia... mia moglie» disse, dolorosamente conscio di parlare a un essere non umano.
«Sono stata rimodellata sulla fotografia trovata nel vostro portafogli» spiegò Marion-A. «Si è pensato che avreste apprezzato la rassomiglianza... Ora, signore, se lo desiderate, vi porterò nelle vostre stanze.»