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C’era ancora qualcuno convinto che l’uomo sarebbe stato più felice se fosse rimasto sul suo pianeta, ma ormai era troppo tardi per prendere qualche provvedimento in proposito. Del resto, se fosse rimasto sulla Terra, non sarebbe stato uomo. L’inquietudine che lo aveva spinto a vagare sulla faccia del globo, che lo aveva spinto a valicare i cieli e a scandagliare i mari, non gli avrebbe mai dato requie finché c’erano la Luna e i pianeti a chiamarlo attraverso gli abissi dello spazio.

La colonizzazione della Luna era avvenuta con lentezza ed era stata un’impresa dura, talvolta tragica, e sempre favolosamente costosa. Due secoli dopo il primo atterraggio, la maggior parte del gigantesco satellite della Terra era ancora inesplorata. Central City e le altre basi che erano state create con enorme fatica erano isole di vita in un’immensa desolazione, oasi in un silenzio deserto di luce abbagliante o di tenebra cupa. Ma l’uomo non poteva fare a meno della Luna. Era stata la sua prima testa di ponte nello spazio ed era tuttora la chiave per arrivare ai pianeti. Le astronavi che si recavano da un mondo all’altro ricevevano qui la loro massa propulsiva, riempiendo i loro grandi serbatoi di polvere sottile che i razzi a ioni avrebbero espulso in getti elettrificati. Poiché tale polvere era reperibile sulla Luna e non occorreva quindi trasportarla attraverso l’enorme campo gravitazionale terrestre, era stato possibile ridurre il costo dei viaggi spaziali di oltre dieci volte.

In più, come astronomi e fisici avevano detto, la Luna si era rivelata di immenso valore scientifico. Finalmente libera dall’atmosfera terrestre, l’astronomia aveva fatto passi da gigante. Ma si può dire che tutti i rami della scienza avessero ricavato grandi benefici dai laboratori lunari. Nonostante la loro ristrettezza mentale, i governanti della Terra una cosa l’avevano imparata bene: le ricerche scientifiche erano la linfa vitale della civiltà e costituivano l’unico investimento che avrebbe sicuramente pagato i dividendi per tutta l’eternità.

Lentamente, con innumerevoli e penose battute d’arresto, l’uomo aveva prima scoperto come fare a esistere, poi a vivere e infine a prosperare, sulla Luna. Aveva inventato di sana pianta tutta una nuova tecnica di meccanica del vuoto, di architettura e gravità ridotta, di controllo e temperatura dell’aria. Aveva sbaragliato i demoni gemelli del giorno e della notte lunari, anche se doveva stare costantemente in guardia contro il loro attacco. Il caldo torrido poteva far dilatare le cupole e fondere gli edifici. Il freddo atroce era capace di rompere qualsiasi struttura metallica che non fosse stata progettata in modo da salvaguardarsi da contrazioni quali mai si erano verificate sulla Terra. Ma, alla fine, tutti questi problemi erano stati risolti. E sulle lande dove un tempo l’uomo aveva faticosamente avanzato a piedi, ora le rotaie, luminose e comode, portavano a spasso i turisti provenienti dalla Terra.

Sotto certi aspetti, le condizioni ambientali erano state più di ausilio che d’ostacolo agli invasori. C’era, ad esempio, la questione dell’atmosfera lunare. Sulla Terra sarebbe stata considerata alla stregua di vuoto e non produceva effetti astronomici apprezzabili; con tutto ciò, serviva utilmente di protezione contro le meteore. In massima parte, le meteore vengono bloccate dall’atmosfera terrestre a una distanza superiore ai cento chilometri dalla superficie del globo. L’invisibile schermo della Luna è molto più efficace di quello terrestre, poiché grazie alla minor forza di gravità, si estende molto più in là nello spazio.

Probabilmente, la scoperta più sensazionale dei primi esploratori fu l’esistenza di una vita vegetale, altamente selezionata e complicata per poter vincere l’ambiente ostile.

Le piante lunari più comuni erano spesso dotate di escrescenze globulari e ricordavano i cactus. La loro scorza spessa proteggeva la scorta di acqua, ed erano munite, qua e là, di “finestre” trasparenti, in modo la lasciar filtrare la luce del Sole. Questa stupefacente particolarità, per quanto potesse sembrare sbalorditiva, si era già riscontrata in certe piante del deserto africano cui si presentava l’identico problema di catturare la luce solare senza perdere l’acqua. La particolarità peculiare delle piante lunari era invece il loro ingegnoso meccanismo per far provvista d’aria. Un elaborato sistema di feritoie e di valvole, simile a quello di certe creature marine che pompano acqua attraverso i loro corpi, funzionava da compressore. Le piante erano pazienti, capaci di aspettare anni sull’orlo dei grandi crepacci dal cui fondo prorompevano a volte tenui nubi di anidride carbonica o di zolfo provenienti dalle viscere della Luna. Allora feritoie e valvole si mettevano febbrilmente al lavoro, e le singolari piante succhiavano tutte le molecole con cui venivano in contatto prima che l’effimera nebbia lunare si disperdesse nel famelico vuoto dell’atmosfera.

Questo era lo strano mondo dove ora abitavano alcune migliaia di esseri umani. Nonostante tutta la sua asprezza, i suoi abitatori lo amavano e non desideravano tornare sulla Terra dove la vita era facile e aveva poco da offrire agli spiriti avventurosi e dotati d’iniziativa. In realtà, la colonia lunare, per quanto legata alla Terra da vincoli economici, era più affine ai pianeti della Federazione. Su Marte, Venere e Mercurio, e sui satelliti di Giove e di Saturno, gli uomini combattevano una guerra da pionieri contro la natura, così come avevano fatto, e vittoriosamente, sulla Luna. Marte era già stato completamente conquistato, ed era l’unico mondo, oltre alla Terra, dove l’uomo poteva circolare all’aperto senza l’uso di apparati speciali. Su Venere la vittoria era prossima, e il premio era costituito da una superficie di territorio grande tre volte quello della Terra. Altrove c’erano solo degli avamposti: l’ardente Mercurio e il gelo dei mondi più lontani costituivano una sfida per i secoli futuri.

Così pensava la Terra. Ma la Federazione non poteva aspettare, e il professor Phillips, del tutto innocentemente, aveva dato una spinta all’impazienza delle colonie. Non era la prima volta che un documento scientifico mutava il corso della storia, e non sarebbe stata l’ultima.

Sadler non aveva mai visto quelle pagine di matematica, causa di tanti guai, ma conosceva le conclusioni a cui esse portavano. Le aveva imparate nei sei mesi di segregazione voluti dal Central Intelligence.

La faccia della Luna, gli avevano detto, è formata da due distinte specie di terreno: le aree oscure dei cosiddetti Mari, e le regioni chiare, solitamente più elevate e molto più montuose. Queste regioni chiare sono punteggiate dagli innumerevoli crateri lunari e sembrano distrutte e sconvolte da millenni di furia vulcanica. I Mari, per contrasto, sono pianeggianti e relativamente lisci, con qualche cratere qua e là, molti pozzi e crepacci, ma in complesso molto più regolari delle zone montagnose.

Pare che questi Mari si siano formati molto più tardi delle catene di monti e dei crateri della ribollente gioventù lunare. Non si sa come, molto tempo dopo che le formazioni più antiche si erano rapprese, in alcune zone la crosta tornò a fondersi, formando quelle piane lisce e scure che sono i Mari. In essi si notano i resti di numerosi crateri e di monti che vennero fusi come cera, e le loro croste sono frangiate di picchi e dirupi.

Il problema che gli scienziati avevano tanto studiato e che il professor Phillips aveva risolto, era questo: perché il calore interno della Luna esplose solo nelle aree circoscritte dei Mari, lasciando intatte le antiche zone montuose?

Il calore interno di un pianeta è prodotto dalla radioattività. Per questo, al professor Phillips venne l’idea che sotto i grandi Mari dovessero esserci ricchi depositi di uranio e di altri elementi associati. L’innalzarsi e il ritirarsi delle maree nell’interno liquido della Luna avevano forse prodotto le concentrazioni locali, e il calore da esso prodotto in millenni di radioattività aveva fuso le formazioni esterne che si trovavano lontanissime al di sopra di esse. Così erano nati i Mari.

L’uomo aveva percorso per due secoli la superficie della Luna munito di tutti gli strumenti di misurazione possibili e immaginabili. Ne aveva sconvolto l’interno con terremoti artificiali da cui era risultata la presenza di campi magnetici ed elettrici. Grazie a queste osservazioni, il professor Phillips aveva potuto elaborare la sua teoria poggiandola su solide basi matematiche.

Vasti giacimenti di uranio si stendevano a grande profondità sotto i Mari. L’uranio in sé non aveva più l’importanza capitale che aveva avuto nei secoli XX e XXI, perché le antiche pile a fissione erano state da tempo sostituite dal reattore a idrogeno. Ma dove si trovava l’uranio si sarebbero trovati anche gli altri metalli pesanti.

Il professor Phillips era sicuro che la sua teoria non potesse avere applicazioni pratiche. Tutti quegli immensi depositi, si era affrettato a precisare, erano situati a tale profondità che non si poteva in alcun modo parlare di scavi minerari. Erano per lo meno a cento chilometri sotto la superficie lunare, e laggiù la pressione sulla roccia era tale che anche i metalli duri dovevano trovarsi allo stato liquido, perciò né fori né pozzi potevano venire aperti e restare efficienti anche un solo momento.

Davvero un peccato che, come aveva concluso il professor Phillips, quei tesori dovessero restare per sempre fuori della portata dell’uomo che ne aveva un così grande bisogno. Ma uno scienziato non sarebbe dovuto essere ingenuo, pensava Sadler. Un giorno o l’altro, il professor Phillips avrebbe avuto una bella sorpresa.

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