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Ognuno ha le sue debolezze. Quella di Jamieson era talmente palese che pareva sleale approfittarne, ma Sadler non poteva permettersi il lusso di avere scrupoli. All’Osservatorio, tutti consideravano la pittura del giovane astronomo come argomento di scherzi bonari e non lo incoraggiavano per niente. Sadler, con la sensazione di essere un assoluto ipocrita, cominciò a recitare la parte dell’amministratore comprensivo.

Gli ci volle parecchio tempo, prima di vincere il riserbo di Jamieson e indurlo a parlare spassionatamente, tuttavia fece notevoli progressi limitandosi a incoraggiarlo quando i colleglli lo prendevano in giro, cosa che succedeva tutte le volte che dipingeva un nuovo quadro.

Pilotare la conversazione dall’arte alla politica richiedeva meno abilità di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, perché in quei giorni la politica era un argomento di grande attualità. E poi, cosa strana, fu Jamieson stesso a fare la domanda che Sadler aveva in animo. Doveva averci pensato a lungo, affrontando il problema che aveva più o meno preoccupato tutti gli scienziati dal giorno in cui era stata prodotta sulla Terra l’energia atomica.

— Che cosa fareste — domandò di punto in bianco a Sadler, poche ore dopo che quest’ultimo era tornato da Central City — se doveste scegliere tra la Terra e la Federazione?

— Perché me lo chiedete? — ribatté Sadler, cercando di non dimostrare il proprio interesse.

— L’ho chiesto a un mucchio di gente — rispose Jamieson con tono incerto. — Ricordate la discussione che abbiamo sostenuto nella Sala Comune, quando Mays asserì che chiunque pensasse: “Il mio pianeta, nel bene e nel male” era uno stupido?

— Me ne ricordo — rispose cauto Sadler.

— Credo che Mays avesse ragione. La fedeltà non è solo questione di nascita, ma di ideali. Possono darsi eventualità in cui patriottismo e moralità passano in seconda linea.

— Che cosa vi ha spinto a filosofeggiare in questo modo?

La risposta di Jamieson fu inaspettata.

— La Nova Draconis — rispose. — Abbiamo ricevuto proprio adesso i rapporti degli osservatori della Federazione sulle lune di Giove. Sono stati inviati via Marte, e qualcuno vi ha aggiunto un biglietto… Molton me l’ha fatto vedere. Era breve e non portava firma. Diceva solo che qualunque cosa accadesse, e la frase era ripetuta due volte, avrebbero fatto in modo di farci giungere ugualmente i loro rapporti periodici.

Commovente esempio di solidarietà scientifica, pensò Sadler. Logico che avesse prodotto una profonda impressione su Jamieson. Molti, specialmente quelli che non erano scienziati, avrebbero considerato trascurabile la cosa, ma nei momenti critici sono le cose poco importanti come questa a colpire maggiormente.

— Non so che cosa ne deduciate voi — disse Sadler, al quale pareva di pattinare su una esilissima lastra di ghiaccio. — Dopo tutto è risaputo che la Federazione abbonda di uomini onesti, benintenzionati e premurosi. Ma non si può governare il Sistema Solare col sentimento. Esitereste davvero qualora la Terra e la Federazione dovessero venire ai ferri corti?

Seguì una lunga pausa, poi Jamieson sospirò.

— Non lo so — rispose. — Non lo so proprio.

Era una risposta onesta e sincera, per cui Sadler si sentì indotto a escludere Jamieson dalla lista dei sospetti.


Il fantastico incidente del faro nel Mare Imbrium avvenne circa ventiquattr’ore dopo. Sadler ne sentì parlare quando si unì a Wagnall per bere il caffè del mattino come sempre faceva se si trovava nei pressi dell’Amministrazione.

— È successo qualcosa che dà da pensare — lo informò Wagnall mentre Sadler entrava nel suo ufficio. — Un tecnico del reparto Elettronica si trovava poco fa in una cupola ad ammirare il panorama, quando d’un tratto ha visto scaturire dall’orizzonte un raggio luminoso. È durato un secondo, e dice che era di intenso colore bianco-azzurro. È più che certo che proveniva dal posto che Jamieson e Wheeler hanno visitato qualche giorno fa. So che alla sezione Strumenti hanno dei fastidi a causa di quelli. Sono andato adesso a controllare: i loro magnetometri sono letteralmente saltati dieci minuti fa, e c’è stato un forte sconvolgimento tellurico.

— Non riesco a capire come un raggio luminoso abbia potuto provocare un simile fenomeno — ribatté Sadler sinceramente stupito. Poi, ripensandoci, afferrò appieno il senso di quanto l’altro gli aveva detto.

— Un raggio luminoso! Ma è impossibile. Non sarebbe visibile, qui nel vuoto.

— Esattamente! — confermò Wagnall compiaciuto che l’altro fosse caduto nel tranello. — Un raggio di luce diventa visibile solo quando passa attraverso la polvere o l’aria. E questo era proprio luminosissimo, quasi abbagliante. Le testuali parole di Williams sono: «Pareva una sbarra solida». Sapete che cosa è quel posto, per me?

— No — rispose Sadler, domandandosi di quanto Wagnall si fosse avvicinato alla verità. — Non ne ho la minima idea.

Il segretario pareva un po’ impacciato, come se volesse esporre una teoria di cui si vergognava.

— Io credo che sia una specie di fortezza. So bene che sembra fantastico, ma se ci pensate, vedrete che non si può trovare un’altra spiegazione logica.

Prima che Sadler avesse il tempo di rispondere, o meglio di pensare a una risposta conveniente, il cicalino sulla scrivania si mise a ronzare, e lina strisciolina di carta scivolò giù dalla telescrivente di Wagnall. Era, quella, una forma normale di comunicazione, ma il testo non era affatto dei soliti. In primo luogo aveva il segno rosso indicante urgenza. Wagnall lo lesse a voce alta, assumendo un’espressione di momento in momento più stupefatta.


URGENTE AL DIRETTORE OSSERVATORIO PLATONE. SMANTELLATE TUTTI GLI STRUMENTI E TRASPORTATE SOTTOTERRA TUTTI APPARECCHI DELICATI E SPECCHI. SERVIZIO FERROVIARIO SOSPESO FINO A NUOVO ORDINE. CHE IL PERSONALE RESTI IL PIÙ POSSIBILE SOTTOTERRA. INSISTETE AFFINCHÉ QUESTE MISURE DI PRECAUZIONE VENGANO ESEGUITE. NON SI PREVEDE PERICOLO IMMEDIATO.


— Ecco come stanno le cose — commentò Wagnall. — Temo che i miei sospetti fossero fin troppo fondati.


Era la prima volta, quella, che Sadler vedeva riunito tutto il personale dell’Osservatorio. Il professor Maclaurin era in piedi sul palco eretto in fondo alla sala comune, luogo dove per tradizione venivano annunciate le comunicazioni importanti, dove si tenevano i concerti e si recitavano le commedie, dove si svolgevano, insomma, tutte le manifestazioni e i trattenimenti dell’Osservatorio. Ma ora nessuno era lì per divertirsi.

— Comprendo appieno — diceva Maclaurin in tono amaro — che cosa significhi tutto questo per i vostri programmi. Ci resta solo da sperare che questa decisione si riveli inutile e che si possa riprendere il lavoro tra pochi giorni. Ma è evidente che non possiamo far correre rischi ai nostri apparecchi: gli specchi da cinque e dieci metri debbono essere messi subito al riparo. Non ho la minima idea dei pericoli che ci minacciano, ma a quanto pare ci troviamo in una bratta posizione. Se dovessero scoppiare le ostilità, io manderei immediatamente un messaggio sia a Marte sia a Venere per ricordare che questa è un’istituzione scientifica, che molti di loro sono graditi ospiti qui e che siamo di scarsa importanza militare. E ora, per favore, fate in modo di eseguire con la maggior rapidità e il maggior ordine possibile le istruzioni ricevute.

Il direttore scese dal palco. Era già piccolo, ma ora sembrava ancora più minuto. In quel momento nessuno dei presenti dissentiva da lui, per quanto avesse potuto inveirgli contro in passato.

— Posso fare qualcosa? — domandò Sadler che non aveva avuto alcun incarico in quei frettolosi preparativi.

— Mai indossata una tuta spaziale? — s’informò Wagnall.

— No, però potrei provare.

Con sua grande delusione, il segretario scosse fermamente la testa.

— Troppo pericoloso. Potrebbe succedervi qualche cosa, e non ci sono abbastanza tute, del resto. Però potreste dare una mano in ufficio. Dobbiamo stracciare tutti i programmi vigenti ed elaborare un sistema a due turni. Quindi tutti gli orari debbono essere modificati. Potreste aiutarmi in questo.

“Ecco che cosa succede a volersi rendere utili!” pensò Sadler. Ma Wagnall aveva ragione, lui non poteva in alcun modo aiutare a sbrigare i lavori scientifici. Quanto alla missione che l’aveva portato lì, avrebbe potuto forse eseguirla meglio nell’ufficio del segretario che in qualsiasi altro posto, poiché d’ora in avanti quell’ufficio sarebbe stato il quartier generale delle operazióni.

“Non che me ne importi molto” pensò ancora Sadler con amarezza. Infatti, se il signor X esisteva e si trovava all’Osservatorio, ormai non gli sarebbe restato altro da fare che mettersi a riposo, con la consapevolezza di aver svolto un buon lavoro.


Era stato deciso che alcuni strumenti, i più piccoli e i più facilmente sostituibili, sarebbero rimasti al loro posto. L’Operazione Salvezza, come qualcuno con un debole per il linguaggio militare l’aveva battezzata, doveva prima di tutto preoccuparsi di mettere al sicuro i componenti ottici d’inestimabile valore dei telescopi giganti e dei cielostati.

Jamieson e Wheeler uscirono a bordo di Ferdinando per smontare gli specchi dell’interferometro, il grande strumento i cui occhi gemelli, distanti venti chilometri l’uno dall’altro, rendevano possibile la misurazione del diametro delle stelle. La più febbrile attività, però, riguardava il riflettore da dieci metri.

Molton era a capo della squadra specchi. Sarebbe stato impossibile svolgere il lavoro senza la sua minuziosa conoscenza della struttura tecnica e ottica del telescopio. E sarebbe stato impossibile anche con il suo aiuto, se lo specchio fosse stato fuso in un sol blocco come quello dello storico telescopio che stava ancora a Monte Palomar. Questo specchio, invece, era composto di oltre cento sezioni esagonali incastrate l’una nell’altra come un immenso mosaico. Ognuna di queste parti poteva venire rimossa e messa al sicuro, per quanto fosse un lavoro lungo e noioso, e ci volessero poi settimane e settimane per ricomporre lo specchio, data l’altissima precisione richiesta.

Le tute spaziali non erano certo l’ideale per questo genere di lavoro, e uno degli incaricati, per la fretta o l’inesperienza, fece cadere una delle parti dello specchio. Prima che si avesse il tempo di afferrarlo, il grosso esagono di quarzo fuso aveva già acquistato abbastanza velocità nella caduta da rompersi in un angolo. Ma questo fu l’unico incidente occorso nello smontaggio e, date le circostanze, fu un incidente da poco.

L’ultimo uomo, stanco e scoraggiato, varcò l’ingresso a tenuta stagna dodici ore dopo l’inizio dell’operazione. Solo una delle ricerche in atto proseguì: un telescopio continuò a seguire il lento declino della Nova Draconis prossima all’estinzione. Guerra o no, quel lavoro doveva continuare.

Sadler salì in una delle cupole poco dopo l’annuncio dato dall’avvenuto smontaggio dei due enormi specchi. Ignorava quando avrebbe avuto ancora l’occasione di vedere le stelle e la Terra vicina al tramonto, e voleva serbarne vivo ricordo nel suo rifugio sotterraneo. Fino a quando?

Da quel che si vedeva, l’Osservatorio sembrava immutato. Fuori c’era ancora qualcuno, tra cui, come Sadler poté distinguere, il direttore. Maclaurin era probabilmente l’unico uomo sulla Luna chiaramente distinguibile anche con indosso la tuta spaziale. Era stata fabbricata apposta per lui e aumentava la sua statura fino a farlo sembrare alto quasi un metro e cinquantacinque.

Uno dei camion scoperti che servivano al trasporto del materiale all’Osservatorio stava avviandosi verso il telescopio, sollevando nuvolette di polvere. Si fermò vicino alla pista metallica circolare su cui ruotava il supporto dell’apparecchio, e ci salirono alcune figure in tuta, con movimenti goffi. Poi tornò ad allontanarsi e poco dopo scomparve alla vista mentre scendeva la rampa che conduceva alle porte stagne.

L’immensa pianura era deserta, l’Osservatorio reso cieco, fuorché per quell’unico fedele strumento puntato verso nord a sublime sfida delle follie umane. Poi uno degli altoparlanti dell’interfono, sparsi un po’ dovunque, ordinò a Sadler di uscire dalla cupola, e l’investigatore scese riluttante nel sottosuolo. Avrebbe voluto aspettare ancora, perché mancavano pochi minuti all’alba lunare. Gli dispiaceva non essere lì a salutarla.


La Luna si volgeva lentamente verso il Sole. La linea del giorno strisciava su monti e pianure, allontanando il gelo della lunga notte. Già tutto il versante occidentale degli Appennini splendeva di luce abbagliante e il Mare Imbrium si colorava delle luci dell’alba. Ma Platone era ancora immerso nel buio, e solo la tenue luce della Terra l’illuminava.

Un gruppetto sparso di stelle si stagliò improvvisamente nitido nel cielo occidentale, poco sopra l’orizzonte. Le vette più alte dell’enorme anello montuoso già afferravano i raggi del Sole, e d’attimo in attimo la luce si spandeva sui versanti, fino a riunirlo tutto come una collana di fuoco. Ora il Sole illuminava nettamente la fascia oltre l’ampio cerchio del cratere, mentre i contrafforti orientali cominciavano a rischiararsi. A chiunque avesse guardato dalla Terra, Platone sarebbe apparso come un anello di luce che racchiudeva una pozza di ombra nera. Occorrevano altre ore prima che il Sole nascente rischiarasse tutta la cerchia e ne scacciasse la notte.

Ma nessun occhio era intento a osservare, quando, per la seconda volta, la lama biancazzurra pugnalò per brevi istanti il cielo meridionale. E questo fu un bene per la Terra. La Federazione sapeva ormai molte cose, ma ce n’erano alcune che avrebbe scoperto troppo tardi.

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