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Aile Farr cadde urlando nel buio, scalciando e agitando le braccia in cerca di un appiglio a cui afferrarsi. Urtò con la testa contro la parete ruvida del pozzo, poi urtò con le spalle e coi fianchi, e infine con tutta la superficie del corpo: il pozzo era diventato uno stretto scivolo obliquo, e i suoi piedi colpirono una membrana che si lacerò, poi un’altra e un’altra ancora. Qualche attimo dopo, andò a sbattere su una parete solida, e l’impatto lo tramortì. Rimase immobile alcuni minuti prima di riuscire a connettere.

Quando fu in grado di muoversi, si toccò per prima cosa la testa, dove scoprì una lunga abrasione che bruciava al tatto. Si sentiva uno strano rumore, un sibilo che andava avvicinandosi, come se un oggetto pesante stesse correndo giù per lo scivolo. Farr si fece da parte e qualcosa di grosso e massiccio lo colpì al costato per andar poi a urtare, con un tonfo e un gemito, la parete. Seguì un silenzio interrotto solo da un pesante ansimare.

— Chi è là? — domandò Farr circospetto.

Nessuna risposta.

Farr ripeté la domanda in tutte le lingue e i dialetti che conosceva, sempre senza ottenere risposta. Cercò di mettersi a sedere, ma lo fece con fatica, non aveva luce né il mezzo per procurarsene. Il respiro divenne rumoroso, affaticato. Annaspando nel buio, Farr trovò un corpo accasciato e rattrappito. Inginocchiatosi a fatica, lo rivoltò, stendendolo sul dorso e raddrizzandogli braccia e gambe: il respiro si fece più regolare.

Farr si mise da parte e rimase in attesa. Passarono circa cinque minuti. Le pareti della galleria vibrarono al rombo di una lontana esplosione che si ripeté dopo un paio di minuti. Evidentemente la battaglia sotterranea era nel suo pieno svolgimento, pensò Farr. Vespa contro talpa, duello sotterraneo all’ultimo sangue.

A un nuovo colpo le pareti vibrarono talmente forte che Farr rimase intontito. Era stata un’esplosione più violenta delle altre, certo quella che aveva messo la parola fine alla lotta. L’uomo ansimò e tossì.

— Chi siete? — domandò ancor Farr.

Un fascio luminoso lo colpì in piena faccia, e Farr chiuse gli occhi voltando il viso. La luce seguì i suoi movimenti.

— Allontanate quel maledetto affare! — strillò Farr.

La luce si mosse su e giù sul suo corpo, soffermandosi sulla camiciola a rigoni. Al riflesso, Farr poté scorgere un uomo bruno, tutto coperto di escoriazioni e di ecchimosi. La luce proveniva da un fermaglio posto su una spalla della giubba.

L’uomo parlò con voce bassa e roca in una lingua sconosciuta, e Farr scosse la testa per dimostrare che non capiva. L’altro lo fissò a lungo, dubbioso, circospetto, poi, ignorando Farr, si alzò a fatica ed esaminò con cura minuziosa le pareti della cella. Sopra di loro, inaccessibile, c’era l’apertura dalla quale erano caduti e da un lato uno sfiatatoio coperto da un fitto groviglio di nodi. Farr era furibondo e irritato e il taglio alla testa gli faceva male. Non capiva perché lo sconosciuto se la prendesse tanto, dal momento che non c’era possibilità di fuga. Gli Szecr erano veri maestri, quando si trattava di tener prigioniero qualcuno.

Osservando meglio l’uomo bruno, Farr pensò che dovesse essere un Thord, cioè un appartenente alla razza più simile a quella umana delle tre razze arturiane. Sul conto di quella gente circolavano storie poco rassicuranti, e Farr non si sentiva molto a suo agio con quel compagno di prigionia… specialmente al buio.

Dopo aver completato lo studio delle pareti, il Thord riprese a esaminare Farr. Aveva occhi freddi, lucenti, profondi e gialli come topazi cabochon. Quando riprese a parlare, con la sua voce bassa e roca, disse: — Questa non è una vera prigione.

Farr rimase interdetto. Date le circostanze, s’era aspettato qualcosa di diverso. — Come sarebbe a dire?

Il Thord lo studiò attentamente prima di rispondere: — C’è stata una gran confusione. Gli Iszici ci hanno buttato qui per sicurezza, ma presto ci porteranno altrove. In questo luogo non ci sono spie né rivelatori. È un magazzino.

Farr esaminò dubbioso i muri, e quando sentì che il Thord borbottava qualcosa lo fissò stupito finché non si fu reso conto che l’altro stava ridacchiando divertito. — Vi stupite perché lo so — disse il Thord. — Io ho una speciale sensibilità per percepire il peso dell’attenzione.

Farr si limitò ad assentire educatamente. Cominciava ad avvertire il fastidio di essere osservato, e quindi si voltò. Il Thord emise uno strano suono prolungato, triste e monotono. Era un lamento? Una trenodia? La luce si attenuò ma il lugubre mormorio andò avanti ancora, finché Farr si sentì venir meno per la sonnolenza e si addormentò. Fu un sonno inquieto che non gli diede alcun riposo. Gli pareva di avere la testa in fiamme, e sentiva voci e imprecazioni. Forse era tornato sulla Terra, e stava insieme a qualcuno. A chi? A un amico? Farr si agitò farfugliando, cercando di svegliarsi. Le voci roche, i passi, le immagini inquiete a poco a poco svanirono e finalmente poté riposare tranquillo.

La luce entrava da una fessura ovale rivelando la sagoma di due Iszici. Svegliatosi, non si stupì molto nel constatare che il Thord era scomparso, perché il locale in cui si trovava era diverso dall’altro, certo non era più alla radice del vecchio albero contorto.

Si rizzò a sedere, ma aveva la vista annebbiata e gli riusciva difficile connettere le idee: aveva l’impressione che le sue facoltà mentali fossero come parti staccate fluttuanti nell’aria.

— Aile Farr Sainh — disse uno degli Iszici — possiamo darvi il disturbo di accompagnarci? — Avevano mostrine gialle e verdi: erano Szecr.

Farr si alzò barcollando e barcollando varcò la porta ovale, percorrendo un corridoio, preceduto e seguito da uno Szecr. Dopo un po’, il primo di essi fece scorrere un pannello, e Farr si ritrovò vicino all’arcata dove aveva sostato prima. Lo portarono all’aperto, sotto il cielo buio della notte tutto scintillante di stelle, e Farr notò il suo Sole pochi gradi sotto la stella Beta dell’Auriga. Quella vista non gli diede dolore né nostalgia. Non era più capace di provare emozioni, né di interessarsi a qualcosa. Si sentiva leggero, spensierato e felice.

Superate le rovine dell’albero-casa caduto, si avviarono verso la laguna. Davanti a un tronco si stendeva un morbido tappeto di muschio.

— La casa di Zhde Patasz Sainh — disse lo Szecr. — Siete suo ospite. Ha garantito per voi.

La porta scivolò su se stessa e Farr entrò nel tronco, con le gambe che gli si piegavano. La porta si richiuse alle sue spalle, e si ritrovò solo in mezzo a un alto atrio circolare. Dovette appoggiarsi al muro per reggersi, e solo con un notevole sforzo gli riuscì di concentrarsi.

Poco dopo arrivò una giovane Iszica a strisce bianche e nere fra le quali si vedeva la pelle chiara; aveva un turbante nero in testa. Una grossa linea nera sulla fronte accentuava la divisione orizzontale degli occhi.

— Farr Sainh — disse la donna — concedetemi la vostra compagnia.

Lo scortò verso un ascensore circolare che li portò a trenta metri d’altezza. La salita diede il capogiro a Farr.

— Di qui, Farr Sainh — disse la donna sfiorandolo con la mano fresca.

Farr fece un passo avanti, ma dovette fermarsi appoggiandosi al muro finché l’attacco di vertigini non fu passato.

La donna aspettava paziente. Quando a Farr si snebbiò la vista, l’uomo vide che si trovavano all’interno d’uno dei rami più grossi. La donna lo prese per mano.

— Mi hanno drogato — si lamentò Farr guardandola negli occhi chiari.

— Da questa parte, Farr Sainh — rispose lei, impassibile.

Gli fece strada per un corridoio sinuoso, e Farr la seguì lentamente, sentendosi man mano sempre più in forze.

La donna si fermò davanti a un uscio in fondo al ramo, si volse, e disse: — Questo è il vostro alloggio. Non vi mancherà niente. La dendrologia è un libro aperto per Zhde Patasz. I suoi vivai esaudiscono ogni desiderio. Entrate e godete della squisita casa di Zhde Patasz.

Farr entrò nel locale, che costituiva uno dei quattro compartimenti in cui era diviso il baccello. Era la stanza più complicata che avesse mai visto. Si trattava di una sala da pranzo. Dal pavimento spuntava un grosso picciolo che andava allargandosi per formare un tavolo sul quale era disposta una dozzina di vassoi carichi di vivande. La stanza attigua, tappezzata di fibre azzurre, era una camera da riposo, e accanto ce n’era un’altra il cui impiantito era coperto di nettare che arrivava all’altezza delle caviglie ed era color verde pallido. Qui trovò ad attenderlo un piccolo Iszico che lo salutò molto cerimoniosamente. Aveva le strisce rosa e bianche dei servi di casa. Con gesti abili spogliò Farr, che s’immerse nel bagno di nettare. Il servo bussò alla parete e da mille invisibili orifizi si riversò su Farr una pioggerella fresca e profumata. Raccolse poi una coppa di nettare e lo versò sulla testa di Farr, che si coprì subito di fresca e densa schiuma. Quando la schiuma si dissolse, Farr sentì la pelle liscia e rinvigorita. Il servo gli si avvicinò con un bacile pieno di una pasta incolore che spalmò sulle guance di Farr, e la barba scomparve.

Intanto, sul soffitto, era andata formandosi una bolla di liquido racchiusa entro una fragile membrana. Continuava a crescere, oscillando e vibrando, e a un dato momento il ragazzo accostò alla bolla una spina aguzza: la membrana scoppiò e su Farr ricadde una cascata di liquido aromatico, profumato di chiodi di garofano, che evaporò immediatamente. Quindi Farr passò nel quarto locale dove il servitore gli aveva preparato abiti puliti; quando si fu vestito gli appuntò alla gamba una rosetta nera. Conoscendo bene gli usi e i costumi degli Iszici, Farr non fu stupito di quel gesto. La rosetta, emblema personale di Zhde Patasz, racchiudeva in sé molti significati. Farr veniva insignito del titolo di ospite d’onore della casa di Zhde Patasz, il quale, in tal modo, lo prendeva automaticamente sotto la sua protezione e lo avrebbe difeso da qualsiasi nemico. Farr sarebbe stato libero di girare per la casa, e di comportarsi come se ne fosse il padrone; avrebbe potuto manipolarne le nervature, i riflessi, i pulsanti e i condotti, avrebbe potuto disporre a suo piacimento di tutti gli averi di Zhde Patasz, insomma avrebbe potuto considerarsi l’alter ego del padrone di casa. L’onore che gli era stato concesso era più unico che raro, e addirittura senza precedenti nei riguardi di un Terrestre. Farr non sapeva cosa avesse fatto per meritarsi tanto. Forse, Zhde Patasz voleva in tal modo ripagarlo del trattamento rude a cui l’avevano sottoposto finora. Sì, la spiegazione doveva essere questa: gli Iszici l’avevano malmenato durante l’incursione dei Thord, e Zhde Patasz voleva riparare al mal fatto con la sua cortesia. Farr si augurò che il suo ospite non si formalizzasse troppo per la sua ignoranza del galateo iszico.

Poco dopo ricomparve la donna che lo aveva accolto nell’atrio. Lo salutò con un’elaborata genuflessione. Ignorante com’era del cerimoniale, Farr non riuscì a capire se, come gli era parso, il gesto celasse un sottofondo ironico. Si riservò di giudicare in un secondo tempo. Si trattava di una burla? No, gli pareva impossibile, in quanto gli Iszici erano assolutamente privi di senso dell’umorismo.

— Aile Farr Sainh — salmodiò la donna — ora che vi siete rinfrescato, volete raggiungere il vostro ospite Zhde Patasz?

— Quando volete — rispose Farr con un sorriso.

— Allora permettetemi di farvi strada. Vi accompagnerò nei baccelli privati di Zhde Patasz Sainh, che vi attende con impazienza.

Farr la seguì lungo il corridoio, sino a una rampa in discesa, dove il ramo s’inclinava, e di qui, con un ascensore, salirono lungo il tronco principale. Sbucarono in un altro corridoio. Giunti davanti a una porta, la donna si fermò, fece un inchino, e allargando le braccia, disse: — Zhde Patasz Sainh vi attende.

La porta si aprì e Farr entrò nella stanza. Zhde Patasz non era lì, e lui avanzò con circospezione, guardandosi in giro. Il baccello era lungo una decina di metri e si apriva su una balconata intorno a cui correva un’alta balaustra. Le pareti e il soffitto a volta erano ricoperti da una sottile fibra verde intrecciata fittamente, il pavimento era di folto muschio color prugna, e dai muri uscivano bizzarre lampade. Contro una parete erano appoggiate quattro poltrone-baccello color magenta, e al centro del pavimento era posato un alto vaso cilindrico pieno d’acqua, di piante e di brune anguille guizzanti. Ai muri pendevano quadri di antichi maestri terrestri, che spiccavano in modo strano in quell’ambiente inusitato.

— Farr Sainh — salutò Zhde Patasz entrando dalla balconata — spero che vi sentiate bene.

— Abbastanza — rispose cauto Farr.

— Volete accomodarvi?

— Ai vostri ordini — disse, prendendo posto su uno dei fragili pericarpi color magenta, la cui morbida pelle si adattò subito alle curve del suo corpo.

Zhde Patasz sedette anche lui, e seguì un lungo silenzio durante il quale i due si esaminarono a vicenda Zhde Patasz ostentava le strisce azzurre della sua casta e aveva le guance pallide chiazzate da dischi rossi. Non si trattava certo di una decorazione priva di significato, perché Farr sapeva che tutte le esteriorità di cui si fregiavano gli Iszici avevano una loro precisa ragione. Quel giorno, Zhde Patasz non aveva berretto e i nodi e le increspature del suo cranio formavano quasi una cresta, emblema di millenni di discendenza aristocratica.

— Dunque, siete soddisfatto della vostra visita a Iszm? — domandò finalmente l’ospite.

Dopo aver pensato un momento, Farr decise di rispondere in modo formale: — Ho visto molte cose interessanti. Ma sono anche stato fatto oggetto di molestie, che spero non avranno conseguenze permanenti. — Si tastò il cranio, e proseguì: — La vostra ospitalità compensa i maltrattamenti che ho subito.

— È una notizia che mi addolora — commentò Zhde Patasz. — Chi vi ha maltrattato? Datemi i nomi, e farò in modo che siano affogati.

Farr confessò di ignorare i nomi degli Szecr che l’avevano fatto cadere nel vecchio tronco. — E poi — aggiunse — erano preoccupatissimi per l’incursione, e quindi perdonabili. Ma in seguito mi hanno drogato, e questo non lo ammetto.

— Avete ragione — rispose Zhde in tono blando — ma gli Szecr somministrano sempre un gas ipnotico ai Thord, e per uno stupido errore vi hanno rinchiuso nella stessa cella e sottoposto a quell’indegno trattamento. Sono certo che i responsabili sono in preda ai più profondi rimorsi.

— Hanno ignorato i miei diritti legali — protestò Farr indignato. — È stato violato il Trattato di ammissione!

— Spero che vorrete perdonarci — rispose Zhde Patasz. — Capirete anche voi che dobbiamo proteggere le nostre piantagioni.

— Io non avevo niente a che fare con quella scorreria!

— Sì, lo sappiamo.

— Immagino che mentre ero sotto l’effetto della droga mi abbiate estorto tutto ciò che so — fece l’altro con un sorriso amaro.

Zhde Patasz contrasse il filamento che divideva i settori degli occhi, facendo una smorfia che per gli Iszici era l’equivalente di un sorriso divertito.

— Per caso mi hanno informato della vostra disavventura.

— Disavventura? È stato un oltraggio!

Con un gesto conciliante, Zhde Patasz replicò: — Gli Szecr sono soliti sottoporre i Thord a trattamento ipnotico. Si tratta di una razza dotata di enormi capacità sia fisiche che psichiche, nonché di ben note deficienze morali, e proprio per ciò è stata ingaggiata per compiere la scorreria.

— Volete dire che i Thord non agivano per conto proprio? — domandò stupito Farr.

— Non credo. Si trattava di un piano e di un’organizzazione troppo precisi e accurati. I Thord sono una razza impaziente e, di conseguenza, non ci sembra possibile che abbiano organizzato la spedizione. Questo è il nostro parere e siamo ansiosi di scoprire i mandanti.

— Per questo mi avete esaminato sotto ipnosi, violando il Trattato di ammissione!

— Sono certo che le domande si riferivano solo a questioni attinenti la scorreria — rispose Zhde Patasz cercando di calmare Farr. — Forse gli Szecr sono stati troppo zelanti, ma dovete ammettere che si poteva sospettare di voi.

— No, non lo ammetto.

— No? — Zhde Patasz sembrava sorpreso. — Siete arrivato a Tjiere proprio il giorno dell’incursione, avete tentato di sfuggire alla vostra scorta sul molo… perdonatemi se elenco i vostri errori.

— Niente, niente, proseguite pure.

— Sotto l’arcata siete sfuggito di nuovo alla scorta, siete corso nel campo con l’apparente intenzione di partecipare alla scorreria.

— Non è affatto vero!

— Noi abbiamo avuto questa impressione — continuò Zhde Patasz. — L’incursione si è risolta in un completo disastro per i Thord. Abbiamo distrutto la talpa a una profondità di quaranta metri. Non è sopravvissuto nessuno, all’infuori di colui che è stato vostro compagno di cella.

— Che cosa ne sarà di lui?

Zhde Patasz esitò, e parve a Farr di sentire una nota d’incertezza nella sua voce. — In circostanze normali avrebbe potuto considerarsi fortunato. — S’interruppe come per meglio formulare il proprio pensiero prima di esprimerlo. — Abbiamo fiducia nell’effetto persuasivo della punizione. Quell’individuo avrebbe dovuto essere confinato al manicomio.

— E invece?

— Si è suicidato nella cella.

Farr ne rimase turbato, gli pareva che l’uomo bruno fosse legato in qualche modo alla sua sorte e non si aspettava che finisse così…

— Mi sembrate turbato, Farr Sainh — disse Zhde Patasz pieno di premura.

— Non capisco perché dovrei esserlo.

— Siete stanco, o debole?

— Sto riprendendomi un poco alla volta.

Entrò la donna con un vassoio carico di frutti e di bevande e Farr li gustò con piacere, scoprendo che aveva fame. Zhde lo osservava incuriosito. — È strano — commentò — apparteniamo a mondi diversi, discendiamo da diversi ceppi, pure abbiamo in comune abitazioni, paure e appetiti; e proteggiamo ciò che abbiamo, cioè gli oggetti che ci conferiscono un senso di sicurezza.

Farr si tastò la ferita, che continuava a dolergli. Zhde Patasz si avvicinò al vaso cilindrico e si chinò a osservare le anguille. — A volte le nostre ansie sono esagerate — disse — e fanno sì che siano esagerate anche le nostre reazioni. — Si volse, fissando a lungo Farr. — Comunque — concluse — spero che vorrete perdonare il nostro errore. Ne sono responsabili i Thord e i loro mandanti. Se non fosse stato per loro, tutto ciò non sarebbe accaduto. Vi prego inoltre di non adirarvi se le nostre preoccupazioni vi sembrano eccessive. L’incursione faceva parte di un piano accuratissimo e su vasta scala; per un filo non è riuscita. Chi ha concepito e attuato quella complessa operazione? Dobbiamo scoprirlo. I Thord sono abili esecutori ed esaminando il modo con cui hanno svolto l’operazione, le piante che hanno estirpato, la località che hanno scelto, risulta evidente che si tratta di un progetto preparato con ogni cura da qualcuno che è venuto qui a spiarci travestito da turista, come voi.

— Non si trattava certo di un turista come me — ribatté Farr con una breve risata. — Mi rifiuto di essere coinvolto, sia pure indirettamente, nella faccenda.

— Perdonatemi — lece Zhde Patasz inchinandosi. — Ma sono certo che sarete abbastanza indulgente e comprensivo da capirci. Dobbiamo proteggere i nostri investimenti. Siamo uomini d’affari.

— Non molto abili — corresse Farr.

— Che interessante opinione. E perché no?

— Il vostro prodotto è ottimo — spiegò Farr — ma il mercato è poco economico. Vendite limitate e prezzi esorbitanti.

Zhde Patasz agitò con gesto indulgente il suo occhialetto. — Le teorie sono molteplici…

— Ho studiato parecchie analisi del commercio delle case — disse Farr — e sono tutte concordi in un particolare.

— Quale?

— Che i vostri metodi sono inefficienti. C’è un unico venditore che ha il monopolio per ogni pianeta, e questo sistema non può giovare che al rappresentante. K. Penche è multimiliardario, ma è anche l’uomo più odiato della Terra.

Zhde Patasz tornò ad agitare pensoso l’occhialetto. — K. Penche ora sarà infelice, oltre che odiato.

— Lieto di saperlo. Ma perché dite così?

— L’incursione ha distrutto gran pare della sua quota.

— Non avrà più case?

— Non quelle che aveva ordinato.

— Be’ — commentò Farr — non mi pare che ci sia una gran differenza. Riuscirà comunque a vendere tutto quello che gli manderete.

— È un Terrestre… un mercante… — spiegò Zhde Patasz con impazienza. — Noi siamo Iszici e coltivatori di piante per istinto. Il primo piantatore risale a duecento milioni di anni fa, allorché Dium, l’antrofibio primordiale, strisciò fuori dall’oceano. Con l’acqua salata che gli usciva ancora dalle branchie, cercò e trovò rifugio in un baccello. È il mio diretto antenato. Noi siamo diventati maestri nell’arte di coltivare le case e non possiamo permettere di dissipare questo patrimonio accumulato in tanti millenni, né di esserne derubati.

— Però, che lo vogliate o meno, qualcuno finirà col riuscirci — obiettò Farr. — C’è troppa gente senza casa, nell’universo.

— No — ribatté brusco Zhde Patasz. — Non è un’arte che si possa riprodurre con la sola ragione… sussiste tuttora un elemento magico.

— Magico?

— Non proprio, ma un contorno di magia c’è. Per esempio, noi cantiamo incantesimi ai semi che germogliano. E i semi germogliano e crescono. Senza gli incantesimi non prospererebbero. Perché? Chi lo sa? Lo ignoriamo anche noi. In tutte le fasi della crescita, e dell’allevamento delle nostre case, questo particolare elemento contribuisce a far sì che esse crescano diverse da qualunque arbusto inutile.

— Sulla Terra — disse Farr — incominceremmo dal principio, proveremmo milioni di sementi, milioni di metodi.

— Dopo mille anni riuscireste a far produrre all’albero un numero stabilito di baccelli — obiettò l’Iszico. Si avvicinò a una parete sfiorando le verdi fibre intrecciate. — Guardate questa lanugine… noi iniettiamo un liquido in un organo del baccello rudimentale. Il liquido è composto di sostanze come ammonite di nervature in polvere, cenere dell’arbusto di frunz, acetato isocromilo di sodio, polvere di meteorite Phanodana. Il liquido viene sottoposto a sei trattamenti specifici e deve essere iniettato attraverso una proboscide trasparente. Ditemi — concluse fissando Farr attraverso l’occhialetto — quanto tempo impiegherebbero i Terrestri per riuscire a far crescere questo muschio nell’interno di un baccello?

— Forse non tenterebbero nemmeno. A noi basterebbero modeste case di cinque o sei baccelli, semplici e senza elaborati ornamenti.

— Ma è un cosa rozza e volgare! — esclamò Zhde Patasz. — Lo capite, non è vero? Un’abitazione dev’essere una cosa omogenea, tutta unita, pareti, decorazioni murali, arredo, devono essere una cosa sola! A che cosa servirebbero altrimenti il nostro patrimonio di cognizioni e i nostri duecento milioni d’anni di sforzi? Qualunque ignorante è capace di impastare muschio su un muro, ma solo un Iszico è capace di farcelo crescere!

— Vi credo — ammise Farr.

Agitando l’occhialetto, Zhde Patasz continuò con ardore: — E se voi rubaste una casa femmina, e riusciste ad allevare una casa da cinque baccelli, sareste solo agli inizi. Bisogna educarla, adattarla, bisogna eliminare le parti superflue, bisogna localizzare e paralizzare i nervi dell’eiaculazione. Bisogna che le fessure, quelle che a voi sembrano porte, possano allargarsi e restringersi a volontà. L’arte di adattare una casa è importante quanto quella di coltivarla. Senza un addestramento adeguato, una casa diventerebbe un inimmaginabile fastidio… una minaccia.

— K. Penche non ha cercato di adattare alcuna delle case che gli avete mandato. Non ce n’è stato bisogno.

— Puah! Le case di Penche sono docili, senza carattere, non rivestono alcun interesse, e sono prive di bellezza e di grazia… — S’interruppe. — Non riesco a spiegarmi. La vostra lingua non ha parole per esprimere i sentimenti di un Iszico nei riguardi della propria casa. La cresce, e cresce con lei. Quando muore, le sue ceneri sono unite a quelle di lui. Ne beve il siero, ne respira il respiro. Essa lo protegge, ne plasma il pensiero. Una casa che abbia un carattere respinge gli estranei, una casa offesa è capace di ucciderli. E un manicomio, una Casa dei matti… è la dimora adatta ai criminali.

Farr lo ascoltava con profondo interesse. — Tutto ciò va bene per un Iszico, ma i Terrestri non sono così esigenti e raffinati. Per lo meno i Terrestri meno abbienti… o, come direste voi, i Terrestri di bassa casta. A loro basta una casa in cui vivere.

— E possono averle. Noi siamo ben lieti di fornirgliene. Ma dovranno ricorrere ai nostri rappresentanti accreditati.

— K. Penche?

— Sì, lui è il nostro rappresentante.

— Be’, credo che adesso andrò a dormire — disse Farr. — Sono stanco e ho mal di testa.

— Mi dispiace, ma andate pure a riposare, e domani, se vorrete, vi farò visitare la mia piantagione. Intanto, consideratevi a casa vostra.

La donna col turbante nero accompagnò Farr nel suo appartamento. Gli lavò cerimoniosamente il viso, le mani e i piedi, e spruzzò le stanze di essenze aromatiche.

Farr cadde in un sonno inquieto. Sognò del Thord, ne rivide il rude viso bruno, ne riudì la voce bassa e roca. La ferita gli bruciava e continuava a voltarsi e a rigirarsi. Finalmente il viso bruno scomparve come una luce che si spegne, e Farr poté riposare tranquillo.

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