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La Lhaiz era un due alberi che aveva la forma di uno zoccolo olandese, con vele color porpora e una cabina spaziosa Si era sviluppato da uno speciale albero-barca, ed era composta di un unico pezzo: l’albero maestro era stato, in origine, il picciolo del baccello. L’albero di trinchetto, il pennoncino, il boma e il sartiame erano stati aggiunti in un secondo tempo, operazioni fastidiose per un abitante di Iszm quanto il moto meccanico per un ingegnere elettronico della Terra. L’equipaggio fece vela verso ovest. All’orizzonte si vedevano atolli, che scomparvero poi a poppa. Alcuni erano minuscoli giardini deserti, altri erano adibiti alle seminagioni, alle colture, alle riproduzioni per innesto, ai trapianti, alle selezioni, all’imballaggio e alla spedizione delle case.

Nella sua qualità di botanico, Farr s’interessava soprattutto alle piantagioni, ma proprio lì la sorveglianza era talmente ossessionante che non poteva praticamente muoversi.

Giunto all’atollo di Tjiere, Farr era così furibondo ed esasperato che decise di sfuggire ai guardiani. La Lhaiz s’era avvicinata al molo, e due uomini dell’equipaggio avevano gettato le cime a terra, mentre altri ammainavano le vele. Aile Farr balzò agevolmente a terra dal ponte di poppa, incamminandosi verso la spiaggia. Sentendo alle sue spalle un mormorio di disapprovazione, provò in cuor suo una gioia maligna.

La spiaggia si stendeva ampia, battuta dai marosi, e gli scogli di basalto erano chiazzati di vegetazione verde, azzurra e nera. Uno spettacolo veramente pieno di pace e di bellezza. Farr dovette dominarsi per non saltare dal molo sulla spiaggia e sparire sotto il denso fogliame. Gli Szecr erano molto compiti, ma avevano il grilletto facile.

In quella si fece avanti sulla banchina un uomo alto e robusto, che aveva il corpo completamente avvolto in grosse strisce azzurre fra le quali si vedeva la scialba pelle degli Iszici. Farr rallentò il passo: la libertà era finita.

L’Iszico sollevò un occhialetto a lente unica inserito sulla sommità di una canna d’ebano, distintivo degli Iszici di casta superiore. Essi non mancavano mai di portarlo quasi facesse parte di loro stessi, e la sua vista irritava regolarmente Farr. Come gli altri stranieri, come gli altri Iszici stessi, non aveva scelta né possibilità di difesa o di riparo. La sostanza irradiante che gli avevano iniettato nella spalla era come un’etichetta, e ormai era catalogato.

— Con vostro piacere, Farr Sainh? — L’Iszico si esprimeva nel dialetto parlato dai bambini prima che imparassero la lingua di casta.

Rassegnato, Farr diede la risposta del caso: — Attendo il vostro volere.

— Il sovrintendente al porto è stato inviato per esprimervi il dovuto omaggio. Siete forse impaziente?

— Il mio arrivo è un avvenimento trascurabile, vi prego di non disturbarvi.

L’Iszico sollevò l’occhialetto. — È un privilegio salutare un collega scienziato.

Con un tetro sorriso, Farr replicò: — Quel coso vi dice anche che mestiere faccio?

L’Iszico esaminò la spalla destra di Farr. — Vedo che avete la fedina penale pulita; quoziente d’intelligenza 23, livello di perseveranza, classe 4…

— A chi ho l’onore di parlare?

— Mi chiamo Zhde Patasz, e sono tanto fortunato di fare il coltivatore nell’atollo di Tjiere.

— Siete un piantatore? — domandò Farr osservando con maggior interesse l’uomo a strisce.

Zhde fece roteare l’occhialetto. — Avremo molto da discutere… Spero che sarete mio ospite.

Il sovrintendente al porto arrivò ansante. Zhde Patasz sollevò l’occhialetto e si allontanò in fretta.

— Farr Sainh — disse il sovrintendente. — La vostra modestia vi ha indotto ad allontanarvi dalla vostra scorta ufficiale. Questo ci rattrista profondamente.

— State esagerando.

— Non è possibile. Da questa parte, Sainh.

Scese lungo la banchina di cemento verso un ampio canalone, e Farr lo seguì con tal voluta lentezza che l’altro fu costretto, a più riprese, a fermarsi per aspettarlo. Il canalone portava ai piedi della scogliera, e qui si trasformava in passaggio sotterraneo. Il sovrintendente aprì quattro porte di vetro che si richiusero poi alle loro spalle, e Farr ebbe la percezione che scandagli, detector, sonde e analizzatori lo stessero vagliando per provare le sue radiazioni, la sua massa e il suo contenuto metallico.

Non se ne preoccupò, perché sapeva che non avrebbero scoperto niente. Indossava l’uniforme che gli avevano dato dopo essersi presi i suoi effetti personali, e non aveva altro con sé.

Il sovrintendente bussò a una porta di ruvido metallo, che si schiuse al centro come una saracinesca medievale. Da lì, passarono in una stanza luminosa dove, dietro un bancone, sedeva uno Szecr che portava le solite mostrine gialle e verdi.

— Con la compiacenza del Sainh… l’immagine tridimensionale per i nostri archivi.

Farr salì pazientemente sul disco di metallo grigio.

— Palmi in fuori, occhi aperti.

Farr stava immobile mentre pannelli sensibili lo sfioravano lungo tutto il corpo.

— Grazie, Sainh. — Farr si avvicinò al banco. — Questa è diversa da quella di Jhespiano. Vediamo un po’

L’incaricato mostrò a Farr un foglio trasparente al cui centro era l’immagine di un uomo che pareva una macchia marrone. — Non mi assomiglia molto — commentò Farr.

Lo Szecr fece scivolare il foglio in una fessura, e sul banco comparve subito una riproduzione tridimensionale di Farr che si sarebbe potuta ingrandire centinaia di volte, in modo da rilevarne le impronte digitali, da individuare i pori della pelle e la configurazione della retina.

— Mi piacerebbe averne una copia per ricordo — disse Farr. — Qui almeno sono vestito, mentre in quella di Jhespiano mostravo le mie bellezze al naturale.

— Prendetela pure — fece l’Iszico alzando le spalle.

Farr si mise la copia in tasca.

— E ora, Farr Sainh, posso rivolgervi una domanda che forse giudicherete impertinente?

— Una più una meno, non ci farò caso.

Farr sapeva che c’era un cefaloscopio puntato sul suo cranio, e che ogni impulso di eccitazione, ogni brivido di paura sarebbero stati immediatamente registrati. Per mantenersi assolutamente calmo, decise di pensare a una stanza da bagno.

— Avete intenzione di rubare qualche casa, Farr Sainh?

“Liscia porcellana fredda, sensazione di aria e acqua tiepida, profumo di sapone.”

— No.

— Sapete se esistano progetti tendenti a tale scopo?

“Sdraiati nell’acqua calda, rilassati.”

— No.

Lo Szecr si mordicchiò un labbro, facendo una smorfia di cortese scetticismo. — Sapete quali punizioni toccano ai ladri?

— Oh, certo! Vengono internati in manicomio.

— Grazie, Farr Sainh, potete andare.

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