10

Ritornato nel salone, Farr vide che gli altri passeggeri erano sbarcati, recandosi nell’ufficio immigrazione. Si affrettò a seguirli, agitato, come in preda a un accesso di claustrofobia, perché gli sembrava che l’Andrei Simic, il magnifico uccello spaziale, fosse diventato una tomba: non ne poteva più di sbarcare, di toccare il suolo terrestre.

Era quasi mattina. Il vento del Mojave gli soffiava in viso, portando con sé aromi e sabbia del deserto, le stelle brillavano pallide a oriente. Prima di scendere lo scalandrone, Farr si fermò alzando istintivamente gli occhi per cercare la costellazione dell’Auriga. Eccola: Capella, e poi, appena percettibile nel suo tremolio, l’XI dell’Auriga, intorno a cui ruotava Iszm. Farr scese i gradini e posò finalmente il piede sulla Terra. Era tornato. Il contatto gli fece uno strano effetto: gli parve che nel suo cervello si fosse aperto uno spiraglio… Con una sensazione di sollievo, aveva scoperto quale era la prima e più logica cosa da farsi: andare da K. Penche.

Rimandò la visita all’indomani, riservando la prima giornata al riposo. Un bel bagno, un buon bicchiere di whisky, e poi a letto.

Stava per avviarsi quando gli si avvicinò Omon Bozhd. — È stato un piacere avervi conosciuto, Farr Sainh. Permettetemi un consiglio: state molto attento. Sono convinto che siate ancora in grave pericolo — e facendo un inchino se ne andò, lasciando Farr a seguirlo, stupito, con lo sguardo. Aveva tutte le intenzioni di far tesoro di quell’avvertimento.

Sbrigate in poco tempo le pratiche all’ufficio immigrazione, fece portare il bagaglio all’Imperador. Trascurando gli elitassì, si lasciò calare nel condotto della sotterranea. Il disco si fermò sotto i suoi piedi (non mancava mai di provare un brivido, lasciandosi calare nel pozzo: e se il disco non fosse arrivato?). Il disco si arrestò, Farr pagò il biglietto, chiamò alla banchina una vetturetta monoposto, vi salì, manovrò i comandi in modo da indicare la destinazione, poi si rilassò con un sospiro sul sedile. Non riusciva a dominare il turbine dei propri pensieri. Una visione dopo l’altra gli si accavallavano nella testa: lo spazio sterminato, Jhespiano, Iszm, le case a molti baccelli. Gli parve di essere ancora a bordo della Lhaiz diretto all’atollo di Tjiere, riprovò il terrore dell’incursione nei campi di Zhde Patasz, della caduta nel tronco cavo, della prigionia insieme al Thord e, più tardi, rivisse la terribile esperienza passata sull’isolotto dove Zhde Patasz faceva i suoi esperimenti… Le visioni correvano veloci; erano solo ricordi, e si allontanarono, si allontanarono ancor più degli anni-luce che lo separavano da Iszm.

Il ronzio della vettura gli conciliava il sonno appesantendogli le palpebre, ma si sforzò di rimanere sveglio. Tutta la faccenda sembrava un incubo fantastico. E invece era reale.

Farr si costrinse a dare un corso meno confuso ai propri pensieri, ma la sua mente si rifiutava di ragionare, di far progetti. Qui, nella sotterranea sul suo pianeta natale, l’idea del pericolo, dell’assassinio, gli pareva assurda e impossibile…

Un solo uomo sulla Terra poteva aiutarlo: K. Penche, rappresentante terrestre delle case di Iszm, l’uomo al quale Omon Bozhd era venuto a portare cattive notizie.

La vettura vibrò a una curva, ne superò un’altra e finalmente giunse al termine della corsa. La porta si aprì e un fattorino in divisa gli venne incontro sulla banchina. Premette i pulsanti sullo stereoschermo della cabina e un ascensore portò Farr al livello del suolo, poi, centottanta metri più in alto, fino al livello della sua stanza. Gliene avevano assegnata una ampia, arredata in gradevoli toni di verde oliva, giallo paglierino, rossiccio e bianco. Una parete, tutta di vetro, guardava su Santa Monica, Beverly Hills e l’oceano. Farr sospirò di sollievo. Le case isziche erano bellissime sotto molti aspetti, ma non potevano certo reggere al confronto con l’Hotel Imperador.

Farr fece il bagno, sguazzando nella vasca colma d’acqua calda profumata di limoncella, mentre dalle pareti della vasca uscivano sottili getti alterni d’acqua fresca che servivano a massaggiargli le gambe, la schiena, il petto… Mancò poco che si addormentasse. Poi il fondo della vasca si sollevò pian piano raddrizzandosi, deponendolo in piedi sul pavimento. Subito, soffi di aria calda lo asciugarono, mentre una lampada solare gli conferiva una rapida abbronzatura.

Uscito dal bagno, trovò pronto in camera un bicchiere di whisky e soda, che sorseggiò stando davanti alla finestra, stanco per tutte le fatiche e le emozioni, ma profondamente soddisfatto.

Sorse il sole, e la sua luce ambrata si riversò come una marea sui recessi della metropoli. Là, in uno dei quartieri di lusso che un tempo si chiamava Signal Hill, abitava K. Penche. Farr si sentì dubbioso al pensiero di essere convinto che Penche rappresentasse la soluzione a ogni suo problema. Be’, quando fosse andato da lui avrebbe scoperto se era vero o no.

Polarizzò la finestra e la camera diventò buia. Mise la sveglia su mezzogiorno, si sdraiò sul letto, e cadde subito in un sonno profondo.

La finestra si depolarizzò e la luce del giorno entrò a inondare la stanza, svegliando Farr che, postosi a sedere sul letto, prese dal tavolino il menù. Ordinò caffè, pompelmo, prosciutto e uova, poi scese dal letto e andò alla finestra. La più grande città del mondo si stendeva sotto di lui a perdita d’occhio, coi grattacieli che s’intravedevano nella nebbiolina calda, tutta fremente di commerci e di vita.

Dalla parete uscì un tavolino con la sua colazione e Farr si mise a mangiare, guardando le ultime notizie sullo stereoschermo. Per un momento dimenticò i suoi guai, ma poi la voce disse: “… e ora qualche breve notizia dallo spazio. Abbiamo appena appreso che a bordo della Andrei Simic, due passeggeri, in apparenza missionari di ritorno da un viaggio nel gruppo Mottram…”. Farr fissava lo schermo, dimentico del cibo, e la sua allegria stava ormai svanendo.

La voce fece un resoconto dell’accaduto, e sullo schermo comparve un’immagine dell’Andrei Simic: prima l’esterno, poi una sezione dell’interno con una freccia che indicava la cabina della morte. Com’era gradevole e noncurante la voce dell’annunciatore! Come faceva sembrare remota e trascurabile la faccenda!

“… le due vittime e l’assassino sono stati tutti identificati quali membri del sindacato criminale Bruttotempo. Pare che si fossero recati su Iszm, terzo pianeta dell’XI dell’Auriga, con l’intento di contrabbandare una casa femmina.”

La voce continuò a parlare, mentre apparivano sullo schermo immagini degli Anderview e di Paul Bengston.

Farr spense l’apparecchio e fece rientrare il tavolino nella parete. Tornò poi alla finestra, con gli occhi fissi sulla città. Doveva vedere Penche al più presto. Era urgente.

Dall’armadio Taglia 2 prese della biancheria, un abito azzurro leggero e un paio di sandali. Vestendosi, faceva progetti per la giornata. Per prima cosa, Penche… Farr si accigliò, tralasciando di affibbiare un sandalo. Che cosa doveva dire a Penche? A pensarci bene, perché il magnate avrebbe dovuto interessarsi ai suoi guai? Che cosa poteva fare per lui? Il suo monopolio dipendeva dagli Iszici, ed era poco probabile che volesse correre il rischio di inimicarseli.

Farr trasse un lungo sospiro, cercando di bandire quei pensieri molesti. Per quanto la cosa sembrasse illogica, doveva andare da quell’uomo. Ne era sicuro, lo sentiva anche senza sapere perché.

Terminò di vestirsi, e chiamò l’ufficio di K. Penche. Sullo schermo comparve il simbolo di Penche, lo schema di una casa iszica sormontato dalla scritta: K. PENCHE-CASE. Farr non aveva ancora premuto il tasto che permetteva alla propria immagine di apparire sullo schermo. Glielo aveva vietato un timore istintivo.

Una voce femminile disse: — Impresa K. Penche.

— Parla… — Farr s’interruppe e non disse il suo nome. — Mettetemi in comunicazione col signor Penche.

— Chi parla?

— Si tratta di affari personali.

— Di quali affari, prego?

— Personali.

— Vi metto in comunicazione con la segretaria del signor Penche.

Sullo schermo comparve l’immagine della segretaria: una giovane dal fascino languido, a cui Farr ripeté la richiesta. — Inviate la vostra immagine, prego — rispose la segretaria.

— No — fece Farr. — Mettetemi in comunicazione col signor Penche. Parlerò direttamente a lui.

— Temo che sia impossibile — asserì la ragazza. — È contrario alla nostra procedura d’ufficio.

— Dite al signor Penche che sono appena arrivato da Iszm con l’Andrei Simic.

La segretaria si volse a parlare in un altro microfono, e poco dopo il suo viso scomparve dallo schermo, per lasciare il posto alle fattezze dure e pesanti di K. Penche. Gli occhi brillavano incavati nelle orbite profonde, dure linee di muscoli serravano le labbra, le sopracciglia si curvavano sardoniche. Non si capiva se fosse seccato o no.

— Chi parla? — domandò.

Le parole si affollavano alla mente di Farr come bolle risalenti alla superficie dell’acqua. Erano parole che non avrebbe mai pensato di pronunciare. Riuscì a dire: — Vengo da Iszm; ce l’ho! — Farr ascoltò sbalordito la propria voce. Le parole tornarono a ripetersi: — Vengo da Iszm… — poi chiuse le labbra, e non riuscì a finire la frase.

— Ma chi è? Chi parla?

Farr allungò a fatica una mano e spense lo schermo. Si lasciò andare sulla poltrona. Che cosa gli stava succedendo? Non aveva niente per Penche, lui. Niente alludeva a una casa femmina, naturalmente. Farr poteva anche essere ingenuo, ma non fino a quel punto. Non aveva casa, né semente, né germogli, né arboscelli.

Perché desiderava tanto vedere K. Penche? Il buonsenso e la logica riuscirono ad avere il sopravvento: Penche non poteva far nulla per lui. Ma un’altra parte del suo cervello asseriva: “Penche sa di cosa si tratta, può darti dei buoni consigli…”. Be’, sì, dovette convenire Farr: quella voce forse aveva ragione.

Farr si rilassò. Il motivo era plausibile, ma d’altra parte Penche era un uomo d’affari che dipendeva dagli Iszici. Se lui doveva rivolgersi a qualcuno, doveva andare alla Squadra Speciale, non da Penche.

Rimase seduto a lungo, passandosi la mano sul mento. Be’, dopotutto che male c’era ad andare da Penche? Non era meglio togliersi quel peso dallo stomaco? Se avesse avuto un motivo valido… ma non riusciva a trovarne. Finalmente decise: non sarebbe andato da Penche.

Uscì dalla stanza, scese nell’atrio principale dell’Imperador e andò al banco per farsi cambiare un assegno. Mentre l’assegno veniva mandato in visione alla banca, era questione di pochi secondi, Farr tamburellava impaziente con le dita sul banco. Un uomo dalla faccia di rana, vicino a lui, stava discutendo con l’impiegato. Voleva affidargli un messaggio per un ospite, ma l’impiegato non voleva accettarlo. L’uomo incominciò a dar segni d’insofferenza, ma l’impiegato, chiuso nel suo gabbiotto di vetro, continuava a scrollare il capo imperturbabile, sereno per la forza che gli veniva dalle norme e dai regolamenti; pareva quasi che si divertisse.

— Se non sapete come si chiama, come potete esser sicuro che sia all’Imperador?

— So che è qui — insisté l’uomo con la faccia di rana. — Ed è molto importante che riceva il mio messaggio.

— Mi pare piuttosto strano — obiettò l’impiegato. — Non sapete che aspetto abbia, ignorate il suo nome… può anche darsi che il messaggio venga consegnato a qualcun altro.

— Questo è affar mio.

L’impiegato tornò a scrollare la testa sorridendo. — A quanto pare, sapete soltanto che è arrivato qui stamattina alle cinque. Ci sono parecchi ospiti arrivati a quell’ora.

Farr, intento a contare il denaro, ascoltava distrattamente il dialogo. Indugiò, riponendo i biglietti di banca nel portafogli, mentre lo sconosciuto asseriva: — So anche che quest’uomo è arrivato dallo spazio. Era appena sbarcato dall’Andrei Simic. Adesso sapete di chi parlo?

Farr si allontanò senza dare nell’occhio. Aveva capito di che si trattava. Penche aveva aspettato la sua telefonata, importantissima per lui. Poi aveva rintracciato da dove era stata fatta e aveva spedito un uomo all’Imperador. Appartatosi in un angolo dell’atrio, osservò l’uomo che si allontanava scornato e rabbioso dal banco. Farr era sicuro che non avrebbe desistito; si sarebbe rivolto a qualche cameriere o fattorino e, grazie a una buona mancia, sarebbe finalmente riuscito a ottenere l’informazione.

Farr si avviò verso la porta, voltandosi a guardare indietro. Una donnetta di mezza età, scialba e di aspetto comune, gli stava venendo incontro, e quando lui la guardò in faccia, distolse lo sguardo, restando per un momento incerta. Se Farr non avesse avuto motivo di sospettare, non avrebbe notato nulla. La donna lo sorpassò rapida, salì su una passatoia mobile, e, attraverso il giardino delle orchidee dell’Imperador, uscì nel Sunset Boulevard.

Farr la seguì fra la folla finché non la perse di vista. Giunto a un posteggio di elitassì saltò sul primo e diede una destinazione a caso al conducente: Laguna Beach.

L’apparecchio si sollevò puntando verso sud.

Guardando dal finestrino posteriore, Farr vide che un altro elitassì li seguiva a un centinaio di metri.

— Voltate verso Riverside — disse al conducente.

L’elitassì inseguitore eseguì la stessa manovra.

— Scendo qui — disse allora Farr.

— A South Gate? — domandò il conducente stupito.

— Sì, South Gate. — Non era troppo lontano dall’ufficio e dalla residenza di Penche a Signal Hill, il che parve a Farr una singolare coincidenza.

Dopo esser saltato a terra, osservò l’altro elitassì che si accingeva ad atterrare. Non era molto preoccupato: sfuggire a un inseguitore era semplicissimo, addirittura puerile.

Farr seguì la freccia che indicava il più vicino condotto della sotterranea e vi si lasciò cadere. Il disco fu pronto ad accoglierlo e lo depositò vicino alla banchina. Farr chiamò una vettura e salì svelto a bordo. La sotterranea pareva creata apposta per seminare i pedinatori. Segnò sul quadrante la destinazione, poi cercò di rilassarsi sul sedile.

La vetturetta accelerò ronzando, rallentò e si fermò. Farr balzò a terra e risalì alla superficie. Rimase paralizzato dallo stupore. Che cosa ci faceva a Signal Hill? Una volta, Signal Hill era punteggiato di torri di trivellazione, adesso era un immenso giardino esotico: alberi, cespugli, siepi, fra cui emergevano superbe ville e palazzi. C’erano laghetti, cascate, e accuratissime aiuole fiorite di ibisco, di narcisi, di gardenie azzurre. I giardini pensili di Babilonia erano niente al confronto. Bel Air sfigurava, al paragone, e Topanga poteva andar bene solo per gli arricchiti.

K. Penche possedeva venti acri di terreno proprio sulla sommità di Signal Hill. Aveva disboscato il terreno, infischiandosene delle leggi e delle proteste. Ora Signal Hill era incoronata di alberi-case di Iszm: sedici varietà dei quattro tipi fondamentali che gli Iszici permettevano di esportare.

Farr si avviò lentamente verso il viale coperto che una volta si chiamava Atlantic Avenue. Davvero interessante che le coincidenze del caso l’avessero condotto proprio lì. Be’, già che c’era, poteva anche andare a far quattro chiacchiere con K. Penche…

No! protestò subito, con fermezza. Ormai aveva deciso, e non voleva permettere che un impulso irrazionale gli facesse cambiare idea. Era tuttavia strano che, in una città immensa come la Grande Los Angeles, fosse capitato proprio a due passi dall’abitazione di K. Penche! Doveva esser stato il suo subcosciente a decidere per lui.

Si guardò alle spalle e, sebbene fosse certo che nessuno poteva averlo seguito, fissò a lungo la folla dei passanti di ogni età, tipo e colore. Per esclusione, finì per prendere in considerazione un ometto vestito di grigio che gli sembrava stonato, in mezzo all’altra gente. Farr girò sui tacchi, s’infilò in un caffè ombreggiato da un ciuffo di palmizi, e uscì dalla parte opposta, nascondendosi dietro un cespuglio.

Dopo un minuto, vide l’uomo in grigio uscire dal caffè e dirigersi dalla sua parte. Farr lo affrontò senza indugio:

— Stavate cercandomi?

— Ma nemmeno per idea! — protestò l’uomo in grigio.

— Non vi ho mai visto in vita mia.

— E spero che non ci rivedremo più — rispose Farr.

Dopo pochi minuti, si trovava ancora su una vetturetta della sotterranea, e indicò sul quadrante Altadena. La vettura si mosse ronzando. Farr era perplesso e turbato: come avevano fatto a trovarlo? Attraverso il condotto della sotterranea? Gli pareva impossibile. Per maggior sicurezza, cancellò Altadena sul quadrante e indicò Pomona.

Cinque minuti dopo, passeggiava con apparente noncuranza per Valley Boulevard. Dopo altri cinque minuti aveva individuato la sua ombra: un giovane operaio con il volto inespressivo. “Sono pazzo?” si domandò Farr. “Mi sta venendo la mania di persecuzione?” Per accertarsene, fece un lungo e tortuoso giro: l’operaio continuò a seguirlo.

Farr entrò in un ristorante e chiamò sullo stereoschermo la Squadra Speciale, chiedendo dell’ispettore Kirdy.

Dopo averlo salutato, Kirdy gli assicurò che non aveva ordinato ad alcuno dei suoi uomini di seguirlo. Sembrava molto interessato al racconto di Farr, e gli disse: — Aspettate in linea. Controllo gli altri dipartimenti.

In capo a qualche minuto, Farr vide entrare nel ristorante l’operaio che, con l’aria più naturale di questo mondo, sedette in disparte e ordinò un caffè.

— Noi della polizia non c’entriamo — disse Kirdy quando fu tornato. — Forse si tratta di qualche agenzia privata.

— Non ci si può far niente? — domandò Farr seccato.

— Vi hanno dato fastidio?

— No.

— In questo caso, non possiamo intervenire. Scendete in un condotto così li seminerete.

— Ho già provato due volte, ma è stato inutile.

Kirdy rimase sorpreso. — Vorrei che mi dicessero come hanno fatto… Noi non pediniamo più gli individui sospetti perché grazie alla sotterranea riescono sempre a sfuggirci.

— Proverò ancora una volta — disse Farr. — Poi ci sarà da divertirsi.

Uscì dal ristorante, e l’operaio, ingollato in fretta il caffè, gli tenne dietro.

Farr scivolò in un condotto, aspettò, ma l’operaio non lo seguì. Allora chiamò una vettura e, dopo essersi accertato che non c’era nessuno in vista, indicò sul quadrante Ventura. La vetturetta si avviò; era davvero inconcepibile che riuscissero a seguirlo attraverso la sotterranea.

A Ventura, la sua ombra era una massaia, molto carina, che pareva occupata a far spese.

Farr balzò in un altro condotto, e si diresse a Long Beach. Qui ritrovò l’uomo in grigio che aveva già attirato la sua attenzione a Signal Hill. Quando Farr gli si avvicinò, quello lo fissò imperturbabile, con una espressione che sembrava dire: “Cosa vuoi?”.

Signal Hill. In fondo distava solo un paio di miglia. Non era meglio, forse, andare da K. Penche?

No!

Farr sedette a un caffè all’aperto e ordinò un panino. L’uomo in grigio andò a sedersi poco lontano, e chiese del tè ghiacciato. Farr avrebbe voluto affrontarlo e fargli dire la verità, anche con la forza… ma si trattenne, perché la faccenda poteva prendere una brutta piega. Che cosa ne avrebbe ricavato, finendo in prigione? Era Penche il responsabile di quella persecuzione? Farr scartò l’idea, per quanto con riluttanza. L’uomo di Penche stava allontanandosi dal banco dell’albergo quando lui era uscito. Non poteva aver fatto in tempo a seguirlo o a diramare l’allarme.

E allora, chi? Omon Bozhd?

Farr sedeva rigido, poi scoppiò in una stridula risata, facendo voltare la gente. L’uomo in grigio gli lanciò un’occhiata di cauta disapprovazione. Farr continuò a ridacchiare, per sfogare la tensione. Si trattava di una cosa talmente semplice che avrebbe dovuto pensarci prima!

In cielo, a cinque o sei miglia d’altezza, doveva librarsi un battello aereo iszico, con un visore sensibile e una radio. Dovunque Farr andasse, il marchio irradiante che gli avevano impresso sulla spalla rivelava la sua posizione. Sul visore, Farr era chiaramente distinguibile, come un faro.

Andò a chiamare Kirdy, e quando gli ebbe spiegato di che si trattava, l’ispettore rispose: — Avevo già sentito parlare di questa cosa. A quanto pare funziona.

— Altroché, se funziona! — convenne Farr. — C’è modo di schermare le radiazioni?

— Aspettate. — Dopo cinque minuti, Kirdy riapparve sullo schermo. — Restate lì. Manderò un uomo con uno schermo.

Quando l’agente arrivò, Farr si recò nella toletta e avvolse uno strato di lana di metallo intorno alla spalla e al petto.

— E adesso — commentò torvo fra sé — staremo a vedere!

L’uomo in grigio lo seguì con aria noncurante fino al più vicino condotto della sotterranea. Farr si fece portare a Santa Monica. Risalì alla superficie alla stazione di Ocean Avenue, e si diresse verso nordest lungo Whilshire Boulevard, e poi tornò indietro verso Beverly Hills. Era solo. Nessuno lo seguiva. Farr ridacchiò soddisfatto, immaginando la delusione dell’Iszico addetto al visore.

Entrò al Club del Capricorno, un locale di dubbia fama, in cui aleggiava un gradevole odore vecchiotto di segatura, cera e birra. Si diresse allo stereoschermo e chiamò l’Imperador. Sì, c’era un messaggio per lui. L’impiegato inserì il nastro registrato nell’apparecchio, e Farr poté vedere per la seconda volta il viso massiccio e sardonico di Penche. La sua voce roca e profonda aveva un tono conciliante, e pareva che parlasse dopo aver scelto e soppesato con cura le parole. — Vorrei vedervi al più presto, se non vi spiace, signor Farr. Ci rendiamo conto ambedue che occorre discrezione. Sono certo che la vostra visita sarà utile tanto a voi quanto a me. Vi aspetto.

Lo schermo si offuscò, poi ricomparve, il viso dell’impiegato. — Devo cancellare o registrare, signor Farr?

— Cancellate. — Farr uscì dalla cabina e andò a mettersi in fondo al bar. — Che cosa volete? — domandò il barista.

— Vienna Stadtbrau — ordinò Farr.

Il barista girò una grande ruota di quercia ornata di tralci e festonata di vivaci etichette. Centoventi posizioni della ruota corrispondevano ad altrettanti depositi di vini, liquori e bevande varie. Spinse una leva e una bottiglia scura scivolò fuori dal dispensatore. Il barista versò il contenuto della bottiglia in un bicchiere, spingendolo davanti a Farr.

Questi bevve un sorso e si rilassò, passandosi una mano sulla fronte. Era profondamente turbato. Tutto faceva credere che l’invito di Penche fosse plausibilmente logico. In fin dei conti, pensò stancamente, non sarebbe meglio… Ma subito scacciò l’idea. Era davvero stupefacente come quell’impulso tornasse sotto i più diversi aspetti. Era difficile prevederli e prevenirli tutti, a meno di proibirsi categoricamente di pensare a Penche; ma così facendo doveva ammettere di limitare la propria libertà d’azione. D’altra parte, com’era possibile pensare quando non si era in grado di distinguere fra un insensato impulso del subcosciente e il buonsenso?

Farr ordinò dell’altra bina. Il barista, un tipo basso, con gli occhi sporgenti e un paio di baffetti sottili, si affrettò a servirlo. Farr bevve e tornò ai propri pensieri. Si trattava di un problema psicologico molto interessante, che, se le circostanze fossero state diverse, sarebbe stato divertente risolvere; ma lo toccava troppo da vicino. Cercò allora di ragionare con quell’impulso irrazionale: “Che cosa ci guadagno ad andare da Penche?” Penche aveva alluso a un guadagno. Evidentemente pensava che Farr avesse qualcosa di cui desiderava venire in possesso. Che cosa? Trattandosi di Penche, la risposta non poteva essere che una sola: una casa femmina.

Ma lui non possedeva case femmine, quindi non avrebbe avuto niente da guadagnare andando da Penche.

Tuttavia questo ragionamento non gli diede alcuna soddisfazione. Il sillogismo era troppo ovvio, tanto che dubitava di aver semplificato eccessivamente la questione. Non si poteva dimenticare che gli Iszici recitavano una parte di primo piano in tutta la faccenda. Probabilmente, anche loro erano convinti che lui avesse con sé una casa femmina, e dal momento che avevano fatto di tutto per seguirlo, ignoravano dove e quando l’avrebbe congegnata.

Era altrettanto logico supporre che Penche non voleva che essi venissero a saperlo. Lui era in grado di coltivare case che gli costavano venti o trenta dollari l’una e le rivendeva, se così voleva, anche a duemila dollari. Poteva diventare l’uomo più ricco della Terra, addirittura dell’Universo. I mogol dell’antica India, gli arricchiti dell’epoca vittoriana, i baroni del petrolio, i sindaci paneurasiani potevano andarsi a nascondere, al confronto.

Questo era un aspetto della faccenda. Ma se qualcuno possedeva una casa femmina, Penche avrebbe perso il monopolio. Ricordando il viso di quell’uomo, la bocca dura, il naso a becco, gli occhi che parevano sportelli di una fornace, Farr intuì istintivamente come si sarebbe comportato in tale caso.

La lotta sarebbe stata molto interessante. Penche, probabilmente, sottovalutava le sottigliezze di cui era capace la mente degli Iszici, lo zelo fanatico con cui avrebbero difeso le loro proprietà. Gli Iszici, dal canto loro, forse sottovalutavano la potenza che derivava a Penche dalla sua ricchezza, e il genio tecnico della Terra. Era l’identica situazione dell’antico paradosso: da una parte la forza irresistibile, dall’altra l’oggetto inamovibile. “E io” pensò Farr “ci sono in mezzo. A meno che non riesca a districarmi, rimarrò schiacciato…” Tracannò pensosamente un altro sorso di birra. “Se sapessi meglio che cosa sta accadendo, perché mi trovo coinvolto, perché hanno scelto proprio me, saprei almeno da che parte saltare. Tuttavia ho un asso in mano… almeno così pare.”

Ordinò un altro boccale di birra, poi gli venne in mente che forse lo seguivano ancora, e si guardò rapidamente intorno, ma gli parve che nessuno lo guardasse. Preso il boccale, andò a sedersi a un tavolino appartato.

La faccenda, almeno per quanto riguardava la sua personale partecipazione, aveva avuto inizio con la scorreria dei Thord a Tjiere. Farr aveva destato i sospetti degli Iszici che lo avevano incarcerato lasciandolo solo con l’unico Thord sopravvissuto. Gli Iszici avevano nebulizzato di gas ipnotico la cella nel tronco cavo, facendo addormentare sia Farr che il Thord. Che cos’era successo in quell’intervallo di tempo?

Poi lo avevano rilasciato, facilitandogli — anzi sollecitando — il suo ritorno sulla Terra. Era un’esca, uno specchietto?

E quello che era successo a bordo dell’Andrei Simic? Supponendo che gli Anderview fossero stati agenti di Penche, e avessero saputo che Farr rappresentava un pericolo — ma quale? — che andava eliminato… che cosa c’entrava Paul Bengston? Forse aveva l’incarico di spiare gli altri due, e li aveva uccisi sia per proteggere gli interessi di Penche che per procurarsi una fetta del bottino. Ma non era riuscito nell’intento. E adesso era nelle mani della Squadra Speciale.

Tutto l’insieme della faccenda portava a una conclusione logica, anche se priva di basi sicure: K. Penche aveva organizzato la spedizione dei Thord, spedizione che, per un filo, non era riuscita. Gli Iszici dovevano aver tremato di paura, e tanto avevano fatto che avevano scoperto tutto. Per loro, un po’ di denaro e qualche vita umana sprecata, non contavano nulla. Anche Aile Farr non contava nulla.

Farr rabbrividì.

Una graziosa biondina in verde si fermò al suo tavolo: — Ciao, tu, mi sembri solo soletto — e gli sedette accanto.

Farr sussultò, tanto era nervoso. Fissò a lungo la ragazza, senza aprir bocca, finché lei si agitò nervosamente sulla seggiola. — Sembra che tutte le preoccupazioni del mondo siano cascate sulla tua testa — disse.

— Sto cercando di trovare un cavallo vincente.

— Dove, per aria? — Si infilò in bocca una sigaretta, e sporse le labbra perché lui gliela accendesse. — Dammi un po’ di fuoco.

Farr accese la sigaretta, studiando la ragazza guardandola tra le palpebre socchiuse, scrutandola, cercando di scoprire in lei la nota stonata, la reazione sbagliata. Non l’aveva vista entrare nel bar, ma l’aveva già notata mentre si aggirava fra i tavoli alla ricerca di qualcuno che le offrisse da bere.

— Accetterei volentieri qualcosa — disse la ragazza.

— E dopo che vi ho pagato da bere…?

Lei distolse lo sguardo. — Credo… credo che dipenda da voi.

Farr le chiese il prezzo, senza perifrasi. Lei arrossì, continuando a guardare altrove, e infine balbettò: — Vi sbagliate… No, mi sono sbagliata io… Credevo che mi poteste offrire da bere.

— Lavorate a cottimo per il bar? — le domandò Farr.

— Sì — rispose lei in tono di sfida. — Che cosa c’è di male? È un modo come un altro per passare la sera. Capita di incontrare delle persone simpatiche, a volte. Ma che cosa avete in testa? — domandò poi chinandosi per guardar meglio. — Vi siete fatto male?

— Se vi raccontassi come mi sono ferito, mi dareste del bugiardo.

— Avanti, provate.

— C’era qualcuno che ce l’aveva con me, e mi gettò dentro a un tronco cavo. Caddi fino in fondo alle radici, e una volta arrivato laggiù picchiai forte la testa.

La ragazza lo guardò di traverso, con la bocca piegata in una smorfia. — E poi vedeste dei nanetti rosa che portavano lanterne verdi e un coniglione bianco col pelo folto.

— Ve l’avevo detto! — commentò Farr.

Lei gli sfiorò una tempia con un dito. — Avete i capelli molto lunghi — osservò.

— Voglio tenerli così — rispose Farr scostandosi.

— Fate quel che vi pare — ribatté gelida la donna. — Volete continuare o devo raccontarvi la storia della mia vita?

— Un momento. — Farr si alzò per andare a domandare al barista: — Vedete quella bionda al mio tavolo?

— Che cosa c’è?

— Viene qui spesso?

— Mai vista in vita mia.

— Non lavora per voi?

— Fratello, ve l’ho appena detto: non l’avevo mai vista prima d’ora.

— Grazie.

Farr tornò al tavolo e fissò ancora a lungo la ragazza.

— Be’? — fece lei alla fine.

— Per chi lavorate?

— Ve l’ho detto.

— Chi vi ha incaricato di seguirmi?

— Non dite sciocchezze — e fece per alzarsi, ma Farr la prese per un polso.

— Lasciatemi, se no mi metto a strillare.

— È quel che spero. Vorrei che venisse la polizia. Tornate a sedervi, altrimenti la chiamo io.

Lei si rimise lentamente a sedere, poi, tutt’a un tratto, gli buttò le braccia al collo mormorando: — Sono così sola! È vero, sai? Sono arrivata ieri da Seattle. Non conosco un’anima… Non fare tanto il difficile! Potremmo divertirci un po’ insieme, non credi?

— Prima parliamo, poi vedremo — rispose Farr.

Provò un acuto dolore alla nuca, dove lo toccava la mano di lei e, con uno scatto, si ritrasse afferrandole un braccio. Lei balzò in piedi liberandosi, con gli occhi scintillanti: — E adesso cosa farai?

Farr tentò di afferrarla, ma lei si scansò. Non riusciva a vederla con chiarezza, e aveva le giunture deboli. Quando cercò di alzarsi, rovesciò il tavolo. Il barista si mise a gridare, scavalcando rapido il banco. Farr riuscì a fare qualche passo barcollando, nel tentativo di raggiungere la sconosciuta che stava allontanandosi come se niente fosse. Il barista la fermò: — Un momento!

Farr si sentiva ronzare le orecchie, ma poté udire la ragazza che diceva: — Scostatevi. Quell’uomo è ubriaco. Mi ha insultato…

Il barista non pareva persuaso. — Qui c’è sotto qualcosa di losco.

— Be’, non voglio esserci immischiata.

Farr sentì che le ginocchia non lo reggevano più, e cadde pesantemente, mentre un groppo duro gli chiudeva gola e stomaco. Si sentì afferrare rudemente, e la voce del barista disse: — Cosa succede? Non sopporti la birra?

Mentre le tenebre lo stavano inghiottendo, Farr riuscì a mormorare con voce spessa: — Chiamate Penche… Chiamate il signor K. Penche.

— K. Penche — commentò qualcuno. — Ma quello lì e matto!

— K. Penche — ripeté con voce sempre più debole Farr. — Vi pagherà… Ditegli che… Farr…

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