12

Aile Farr si svegliò in un baccello con le pareti color giallo polvere, e il soffitto a volta scuro su cui sporgevano sottili venature. Sollevò la testa per guardarsi intorno e vide che i mobili erano scuri e semplici: qualche sedia, una poltrona, un tavolo ingombro di carte, un paio di modellini di case e un’antica credenza spagnola.

Un uomo coi capelli crespi, la testa grossa e gli occhi penetranti, si chinò su di lui. Indossava un camice bianco e odorava di antisettici: era un dottore.

Dietro a lui, c’era K. Penche. Era alto e grosso, ma non quanto Farr si era immaginato vedendone l’immagine sullo schermo. Attraversò la stanza lentamente, e si chinò su di lui.

Qualcosa si destò nella mente di Farr, l’aria gli riempì la gola, le sue corde vocali vibrarono; la bocca, la lingua, i denti e il palato modellarono le parole. Farr le ascoltò, stupefatto.

— Ho l’albero.

Penche assentì. — Dove?

Farr lo guardò senza capire.

— Come avete fatto a portarlo via da Iszm? — domandò ancora Penche.

— Non lo so — Farr si drizzò appoggiandosi sul gomito, e si passò una mano sul mento. — Non so quel che ho detto. Non ho nessun albero, io.

— Insomma, l’avete o non l’avete? — sbottò irritato Penche.

— Non l’ho — rispose Farr tentando di mettersi a sedere. Il dottore lo aiutò passandogli un braccio dietro le spalle. Farr si sentiva debolissimo. — Che cosa faccio qui? Qualcuno mi ha avvelenato. Una bionda, nella taverna. — Fissò Penche con ira. — Lavorava per voi.

Penche annuì. — Lo ammetto.

— Come avete fatto a trovarmi?

— Avete chiamato l’Imperador al teleschermo. Un mio incaricato ha scoperto da dove veniva la chiamata.

— Be’ — commentò Farr. — È tutto uno sbaglio… come, perché o che cosa, non lo so. So solo che sto male, e non mi va!

— Come sta? — domandò Penche al dottore.

— Bene. Fra poco avrà ripreso completamente le forze.

— Ottimo. Potete andare.

Il dottore lasciò il baccello. Penche si mise a sedere. — Anna ha esagerato — dichiarò. — Non doveva ricorrere all’ago. Be’, parlatemi di voi.

— In primo luogo voglio sapere dove sono — ribatté Farr.

— In casa mia. Mi prenderò io cura di voi.

— Perché?

— Siete stato incaricato di portarmi un albero, un seme o un germoglio. Qualunque cosa mi abbiate portato, la voglio.

— Non l’ho — rispose Farr, dominandosi a stento. — Non ne so niente. Ero a Tjiere nel corso della scorreria… di più non ho fatto.

Con voce calma ma venata di sospetto, Penche domandò: — Perché mi avete chiamato, appena siete arrivato in città?

Farr scosse la testa. — Non lo so. Sentivo di doverlo fare e l’ho fatto. Sentivo anche di dovervi dire che avevo un albero, ma non so perché. Non è vero…

— Vi credo. Dobbiamo scoprire dov’è l’albero. Forse ci vorrà del tempo, ma…

— Vi ho detto e ripetuto che non ho nessun albero, e non m’interessa. — Riuscì ad alzarsi e si mosse verso la porta. — Vado a casa.

Penche lo guardò divertito. — Le porte sono chiuse, Farr.

Farr gli credette sulla parola, ma sapeva che la nervatura che avrebbe permesso alla porta di aprirsi era inserita nella parete. Tastò la superficie gialla rugosa…

— Non da quella parte, Farr. Tornate qui.

La porta si aprì. Nella fessura stava Omon Bozhd. Indossava un abito strettissimo a strisce bianche e azzurre e un ampio mantello bianco dal collo rialzato. Aveva un’espressione placida e austera, piena di forza, che era forza umana ma non terrestre.

L’Iszico entrò nella stanza seguito da due compatrioti vestiti a strìsce gialle e verdi: due Szecr. Farr si scostò per lasciarli entrare.

— Salve — li salutò Penche. — Credevo di aver chiuso ermeticamente la porta, ma voialtri conoscete tutti i trucchi.

Omon Bozhd annuì educatamente e rivolgendosi a Farr disse: — Oggi vi abbiamo perduto, per qualche ora. Sono lieto di rivedervi. — Guardò Penche, poi tornò a Farr. — A quanto vedo, la vostra destinazione era la casa del signor Penche.

— Così pare — ammise Farr.

— Quando vi trovavate nella cella, a Tjiere — spiegò l’Iszico — noi vi anestetizzammo con un gas ipnotico. Il Thord se ne accorse, quando immettemmo il gas, e trattenne il respiro per sei minuti. Quando voi perdeste i sensi effettuò un trasferimento di pensiero, inserendo nel vostro subconscio alcune istruzioni, quindi vi diede l’albero… Non si può dire che non abbia servito a dovere il suo padrone — aggiunse lanciando un’occhiata a Penche, che non fece commenti. — Trascorsi i sei minuti, fu costretto a respirare e perdette anche lui i sensi. Più tardi, vi conducemmo da lui, nella speranza che rivelaste quanto vi aveva detto, ma l’esperimento fallì, perché il Thord dimostrò di possedere una forza fisica eccezionale, quale noi non avevamo previsto.

Farr guardò Penche, che se ne stava indolentemente appoggiato al tavolo. L’atmosfera era carica di tensione, e pareva che bastasse un niente per farla esplodere.

Senza più curarsi di Farr, Omon Bozhd riprese a dire: — Sono venuto sulla Terra con due incarichi, signor Penche. Devo innanzitutto informarvi che la fornitura di case AA non verrà consegnata a causa dell’incursione sull’atollo di Tjiere…

— Be’, mi spiace molto.

— E in secondo luogo devo scoprire l’uomo a cui Aile Farr deve portare il suo messaggio.

— Non avete scandagliato la mente di Farr? — domandò Penche. — Come mai non l’avete scoperto?

— Il Thord — spiegò l’Iszico con l’imperturbabile cortesia della sua razza — aveva ordinato a Farr di dimenticare tutto, e di ricordare solo quando fosse stato di ritorno sulla Terra. Quel Thord era dotato di enorme forza mentale, e Farr Sainh possiede un cervello eccezionalmente tenace. Non ci restava che seguirlo. La sua destinazione era questa: la vostra casa, signor Penche. Perciò posso compiere la mia seconda missione.

— E allora? Di che si tratta? Sputate fuori — disse Penche.

Omon Bozhd s’inchinò, e con la solita compostezza riprese: — Non vi avevo riferito tutto il primo messaggio, Penche Sainh. Voi non riceverete la più case AA, non solo, ma non ne riceverete mai più di alcun genere. E se mai metterete piede su Iszin sarete condannato per il delitto che avete compiuto contro di noi.

Penche sorrise divertito. — Dunque, non sono più il vostro rappresentante.

— Esatto.

Penche si rivolse a Farr e, con voce tagliente, gli domandò: — Dove sono gli alberi?

Involontariamente, Farr si portò la mano alla testa: la ferita gli bruciava.

— Venite qui, Farr — ordinò Penche. — Fatemi dare un’occhiata.

— Giù le mani. Non voglio togliere le castagne dal fuoco per nessuno.

— Il Thord inserì sei semi sotto la pelle del cranio del signor Farr — spiegò Omon Bozhd. — È un nascondiglio davvero ingegnoso. I semi sono piccolissimi, e anche noi impiegammo mezz’ora a trovarli.

Farr si toccò il cranio disgustato.

— State fermo — gl’intimò duramente Penche. — Lasciatemi vedere.

— No!

— Non vorrete mettervi dalla parte degli Iszici, vero?

— Non voglio mettermi dalla parte di nessuno. Se mi hanno inserito i semi sotto la pelle, è affar mio. Voi non c’entrate.

Penche si fece avanti, con espressione cattiva.

— I semi sono stati tolti, Penche Sainh — l’informò Omon Bozhd. — I bernoccoli che sente in testa sono pallottole di tantalio.

Farr si tastò la cute: c’erano effettivamente sei minuscoli bozzi… Senza volerlo, guardò prima Penche poi l’Iszico, ma loro non gli badavano. Tornò a tastarsi la testa: da uno dei bozzi usciva un filamento… Anna, la bionda della taverna, aveva detto che aveva i capelli lunghi. O un capello lungo…

— Ne ho abbastanza — disse con voce rotta. — Voglio andarmene.

— Non ancora — replicò duro Penche. — Restate qui.

— Credo che sia illegale trattenere qualcuno contro la sua volontà — intervenne Omon Bozhd — e se noi non protestassimo saremmo vostri complici, non è vero?

— In un certo senso — ammise Penche.

— Per proteggerci, insistiamo dunque a chiedervi di non commettere atti illegali.

— Voi avete trasmesso il messaggio. Adesso andatevene! — gridò furibondo Penche.

— Me ne vado anch’io — trovò la forza di dire Farr. — Sono stufo di fare lo zimbello.

— Meglio fare lo zimbello vivo che il furbo morto.

— Correrò il rischio.

Omon Bozhd fece un cenno ai due Szecr che si posero ai lati della porta.

— Potete andarvene — disse Omon Bozhd a Farr. — Il signor Penche non si opporrà.

— Non ho nessuna intenzione di stare dalla vostra parte — dichiarò Farr e, dopo essersi guardato intorno, si avviò verso lo schermo.

Penche espresse la sua approvazione con un cenno, mentre l’Iszico esclamava: — Farr Sainh!

— È perfettamente legale — intervenne Penche. — Lasciatelo fare.

Farr manovrò i pulsanti. Lo schermo si illuminò. — Passatemi Kirdy — ordinò Farr.

Omon Bozhd fece un cenno, e uno degli Szecr tagliò il cavo. Lo schermo si spense.

— Guarda chi parlava di illegalità! — tuonò Penche. — Avete isolato la mia casa!

Omon Bozhd stirò le labbra mettendo in mostra i denti aguzzi e le gengive pallide: — Non ho ancora finito…

Penche alzò la mano sinistra. Dall’indice scaturì una fiammata arancione. Omon Bozhd roteò su se stesso: la lingua di fuoco gli aveva mozzato un orecchio. Gli altri due incominciarono a tastare con gesti abili ed esperti le pareti, squarciandole. Penche allungò una seconda volta il dito. Farr si slanciò prendendolo per le spalle e facendolo roteare su se stesso. Penche torse la bocca e allungò il pugno in un corto uppercut che colpì Farr allo stomaco. Farr arretrò barcollando, e tirò un diretto a vuoto. Penche si precipitò verso gli Iszici che avevano già varcato la soglia. La porta si richiuse alle loro spalle. Farr e Penche erano rimasti soli nel baccello.

Farr avanzò e Penche si ritrasse.

— Pazzo che non siete altro… — ansimò Penche. Il baccello fu scosso da un tremito e si inclinò. Il pavimento scricchiolava.

— Ma insomma, da che parte state? Siete un Terrestre e lavorate per gli Iszici? — riprese Penche.

— Voi non siete un Terrestre — replicò Farr. — Voi siete solo K. Penche. E io non sto dalla parte di nessuno. Sono stufo di fare la marionetta!

Si sentiva debole e faticava a reggersi.

— Lasciatemi vedere che cos’avete in testa.

— State lontano da me, altrimenti vi spacco la faccia!

Il pavimento del baccello s’inclinò come quello di un trampolino, mandando Farr e Penche a rotolare in fondo alla stanza. — Che cosa hanno fatto? — si domandò Penche preoccupato.

— Sono Iszici, e questa è una delle loro case — rispose Farr. — Se vogliono, possono servirsene come un musicista si serve del suo strumento.

Il baccello vibrò ancora, poi si fermò con una brusca scossa. — Ecco, è finito — disse Penche. — E adesso, avanti, fatemi vedere che cosa avete nella testa.

— State lontano, vi ho detto… Qualunque cosa abbia, è mia.

— No, è mia — corresse Penche. — Sono stato io a pagare perché ve la piantassero nella pelle.

— Non sapete neanche di che cosa si tratti.

— Sì che lo so. Lo vedo benissimo. È un germoglio.

— Siete pazzo. Un seme non può aver attecchito nella mia testa.

Il baccello si irrigidì inarcandosi come la schiena di un gatto, mentre il tetto scricchiolava. — Dobbiamo uscire di qui — mormorò Penche. Il pavimento era scosso da violenti sussulti. Penche si precipitò a premere la nervatura che avrebbe dovuto aprire la porta, ma questa rimase chiusa.

— Hanno reciso il nervo! — esclamò Farr.

Il baccello s’inclinò, e il tetto a centina scricchiolò più forte. Trac! Una centina si spezzò in una pioggia di frammenti. Un frammento, pesante e acuminato, mancò di poco Farr.

Penche puntò l’indice contro la porta che reagì alla fiammata con una densa nuvola di vapore ardente.

Penche arretrò tossendo.

Altre due centine si schiantarono.

— Se riescono a colpirci ci ammazzano — gridò Penche fissando il soffitto. — State attento!

— Aile Farr: la serra ambulante… Non riuscirete a cogliermi…

— Non perdete la testa, Farr. Venite qui.

Il baccello sussultò, e il mobilio prese a slittare. Schegge di legno schizzavano ovunque. Pareva il finimondo. Sussulti, scosse, crepitii, e il mobilio che scivolava da una parte all’altra del locale mentre Farr e Penche tentavano disperatamente di non farsi schiacciare.

— La manovrano dall’esterno — ansimò Farr. — Ne tirano i nervi…

— Se potessimo uscire sulla terrazza.

— Precipiteremmo…

Le scosse andavano aumentando d’intensità, e frammenti di legno e mobili saltavano su e giù come piselli in una scatola. Penche si teneva aggrappato alla scrivania, cercando di impedire che si muovesse e facendosene scudo. Farr, afferrato un pezzo di costola, andava tastando le pareti.

— Cosa fate?

— Quegli Iszici hanno colpito qui. Devono aver reciso dei nervi. Sto cercando di colpirne altri.

— Ma così, forse, ci ucciderete… Non dimenticate il germoglio.

— Avete più paura per il germoglio che per voi — rispose Farr continuando a tempestare di colpi la parete.

Quando colpì un nervo, il baccello s’immobilizzò irrigidendosi, e dalla parete cominciò a uscire una gran quantità di siero denso. Il baccello fu scosso da un violento sussulto, che si ripercosse sul suo contenuto, emanando un gemito vibrante, che sembrava il lamento di un’anima in pena. Il pavimento s’inarcò ancora una volta, e il soffitto incominciò a cedere.

— Siamo perduti — esclamò Penche. Farr scorse uno scintillio metallico: la siringa del dottore. L’afferrò e conficcò l’ago in una venatura prominente, verdiccia, premendo a fondo lo stantuffo.

Il baccello continuava a vibrare, a sussultare, le pareti cominciarono a schiantarsi, mostrando lunghe crepe, mentre il siero usciva a fiotti. Dopo un lungo tremito convulso, il baccello sussultò per l’ultima volta, poi tornò immobile.

I frammenti di costole, i mobili, Penche e Farr rotolarono fin sul terrazzo, e di qui, nel vuoto. Farr riuscì ad aggrapparsi a un ramo, frenando così la caduta, e quando questo non lo resse più, precipitò sul prato sottostante con un volo di tre metri, atterrando sul mucchio delle rovine. Appena si fu ripreso, si accorse che c’era qualcosa di morbido, sotto di lui. Cercò tastoni nel buio: erano le gambe di Penche. Le afferrò, tirando con forza, e tutti e due rotolarono sul prato. Farr era allo stremo delle forze. Penche non perse tempo: premendo coi ginocchi sul torace di Farr, lo afferrò per la gola. Farr vide il lampo dei suoi occhi sardonici a un palmo dai suoi. Con uno sforzo sovrumano, si liberò dalla stretta e colpì Penche con una ginocchiata. Penche si ripiegò su se stesso, e arretrò barcollando, ma si riprese immediatamente e tornò all’attacco. Farr gli afferrò il naso e lo torse. Nel tentativo di liberarsi, Penche allentò la stretta.

— Strapperò il germoglio… lo spezzerò… — riuscì a balbettare Farr.

— No! No! — urlò Penche. — Farabutto! Mascalzone… Frope, Carlyle!

Due figure accorsero dalle tenebre, e Penche si alzò in piedi. — Ci sono tre Iszici in casa — disse Penche, alzandosi. — Non lasciateli uscire. State vicino al tronco, e sparate a vista.

— Stanotte non ci saranno sparatorie — rispose una voce fredda.

Due raggi di luce conversero su Penche, che tremava di rabbia. — Chi siete?

— Squadra Speciale. Sono l’ispettore investigativo Kirdy.

— Prendete gli Iszici! Sono nella mia casa!

Comparvero gli Iszici, illuminati dai raggi delle torce elettriche.

— Siamo qui per reclamare ciò che ci appartiene — dichiarò Omon Bozhd.

— Che cosa vi appartiene? — domandò Kirdy con diffidenza.

— Ce l’ha in testa Farr. Si tratta di un germoglio di casa.

— Volete accusare Farr?

— Sarà meglio per loro non farlo — ringhiò Farr. — Non mi hanno perso di vista un attimo, mi hanno pedinato, perquisito, ipnotizzato…

— Il colpevole è Penche — dichiarò con voce amara Omon Bozhd. — Penche, il nostro agente, ci ha ingannati e traditi. Ormai è tutto chiarito. Ha messo sei semi dove sapeva che li avremmo trovati. Ma disponeva anche di un germoglio e lo ha innestato nel cuoio capelluto di Farr, dove non l’avremmo mai trovato.

— Che disdetta! — esclamò Penche.

Kirdy guardò Farr dubbioso. — Quel… coso, è ancora vivo?

Farr frenò a stento una risata. — Vivo? Ma se ha messo foglie e radici. È già spuntato il primo baccello. Ho una casa piantata in testa.

— È proprietà iszica — dichiarò brusco Omon Bozhd. — Esigo che ci sia restituita.

— È mia — intervenne K. Penche. — L’ho pagata.

— È mia — aggiunse Farr.

— Di chi è la testa su cui cresce?

Kirdy scrollò il capo. — Sarà meglio che veniate con me.

— Non seguirò nessuno, a meno che mi arrestiate — rispose Penche, con solenne dignità. E, indicando gli Iszici: — Vi ho intimato di arrestarli Mi hanno distrutto la casa.

— Venite tutti — concluse Kirdy.

Omon Bozhd si erse in tutta la sua statura, guardò Farr, allungò una mano all’interno del manto, e la ritrasse impugnando una pistola a raggi.

Farr si gettò prontamente a terra. Il raggio gli passò alto sopra la testa, mentre dalla pistola a dito di Penche scaturiva una fiammata azzurra. Omon Bozhd, avvolto in un’aureola di fiamme azzurre, continuò a sparare anche quando ormai stava per cadere privo di vita. Farr rotolò ancora sul prato. Gli altri due Iszici, ignorando le pistole dei poliziotti, avevano incominciato anche loro a sparare, e continuarono finché le fiamme azzurre non li ebbero distrutti. Una vampata colpì Farr a una gamba, immobilizzandolo.

— E adesso — commentò soddisfatto Penche — mi prenderò cura di Farr.

— State lontano da me!

— Andateci piano, Penche — lo avvertì l’ispettore.

— Vi pago dieci milioni per il germoglio — disse Penche.

— No. Lo coltiverò io — rispose duro Farr — e regalerò i semi a chi…

— È un bel rischio, perché se è maschio non vale nulla — gli ricordò Penche.

— È femmina — affermò con certezza Farr. — Vale… — si interruppe perché era arrivato il medico che stava esaminandogli la gamba.

— … moltissimo — concluse per lui Penche. — Ma avrete delle difficoltà.

— Da parte di chi?

Arrivarono due infermieri con una barella.

— Da parte degli Iszici. Vi offro dieci milioni. Io posso correre il rischio.

La stanchezza, il dolore, lo choc nervoso, ebbero la meglio su Farr. — D’accordo… Sono nauseato di tutta la faccenda.

— È come se avessimo firmato un contratto! — esclamò Penche trionfante. — Questi signori sono testimoni.

Farr venne adagiato sulla barella. Il dottore, esaminandolo, notò il germoglio e, allungata la mano, lo strappò.

— Ahi! — si lamentò Farr.

— Che cosa avete fatto? — urlò Penche.

— Abbiate cura del vostro tesoro, Penche — mormorò Farr con un fil di voce.

— Dov’è? — gridò Penche con voce strozzata, affrontando il dottore.

— Che cosa? — fece questi stupito.

— Delle luci! Subito! — ordinò Penche.

Farr vide Penche e i suoi uomini frugare fra l’erba e i rottami alla ricerca del germoglio che il dottore aveva strappato, poi perse i sensi.

Penche andò a trovare Farr all’ospedale. — Ecco il vostro denaro — disse brusco, deponendo un assegno sul comodino. Farr lo guardò. — Dieci milioni di dollari!

— È un bel mucchio di denaro.

— Già.

— Dovete aver ritrovato il germoglio.

Penche annuì. — Era ancora vivo. Cresce… ma è maschio — riprese l’assegno, lo guardò e tornò a metterlo sul comodino. — Ho perso la scommessa.

— Le probabilità erano alla pari — gli ricordò Farr.

— Comunque, non m’importa del denaro — affermò Penche guardando dalla finestra il panorama di Los Angeles. Farr avrebbe voluto sapere a che cosa pensava.

— Fa presto a venire, fa presto ad andarsene — disse Penche, e si volse per uscire.

— E adesso? — domandò Farr. — Non siete riuscito ad avere una casa femmina e non siete più rappresentante degli Iszici.

— Su Iszm ci sono ancora molte case femmina — rispose Penche. — Ce ne sono moltissime, e io me ne procurerò qualcuna.

— Con un’altra incursione?

— Chiamatela come vi pare.

— E voi come la chiamate?

— Spedizione.

— Sono ben lieto di non averci più niente a che fare.

— Non si può mai sapere — lo ammonì Penche. — E poi, potreste anche cambiare idea.

— Quanto a questo, non contateci! — rispose Farr.


FINE
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