…. e io ricordo quel che non c’è mai stato, l’Età dell’Oro.
Demetrios si svegliò nel vermiglio e nell’oro dell’aurora. Solitaire s’era alzata di notte, come al solito, per riordinare la stanza, e per un po’ era rimasta seduta alla finestra, protendendo i pensieri verso il temporale trascorso, quando erano spuntate le stelle. Adesso dormiva tra un paio di braccia brune. Il Professore doveva essere vicino ai cinquanta, Solitaire aveva diciannove o vent’anni: e tutti e due sembravano teneri bambini.
Demetrios si vestì senza far rumore e scese le scale, riposato. Le risatine e gli strilli e il movimento del lavoro notturno, i rari singhiozzi o schiaffi o grida non turbavano il suo riposo. Non aveva sognato Angus, durante la notte: se i sogni venissero a noi nel sonno a comando, chi mai si sveglierebbe?
Nella grande cucina, Madam Estelle si godeva quelle prime ore della giornata. Un bricco d’alluminio del Tempo Antico borbottava sul piano di ferro della stufa a legna di mattoni. Nel 47 non si trovavano molte stufe con quel piano di buona ghisa e i coperchi che si sollevavano facilmente; Madam Estelle aveva ordinato la sua alla famigerata Compagnia Recuperi di Nupal, giù sulla costa. — Buongiorno a te, uomo Demetrios! — La saggia gatta nera faceva la spola e si strusciava con ottimismo intorno alle caviglie di Madam Estelle: forse era amor di credenza, ma Jenny lo prendeva sul serio come un’arte. — È un po’ presto per te, no?
— Sì. Buongiorno a te, Steli.
Madam Estelle non era mai stordita, di mattina. Mentre il resto della casa dormiva fino a mezzogiorno dopo il tumulto erotico della notte, lei e Jenny sì alzavano e avevano il mondo tutto per loro. Era il momento più bello della giornata, diceva Estelle: l’unico momento in cui si poteva pensare. I suoi pensieri si riversavano nel diario, come un fiume che sceglieva da sé il suo corso.
Jenny era tra una cucciolata e l’altra: i micini nati in primavera erano già stati regalati. Nuber teneva in grande considerazione i suoi gatti. I grossi, cattivi ratti grigi non si vedevano più; erano stati scacciati da quelli piccoli e rossicci, probabilmente mutanti. Solo i gatti impedivano che la nuova varietà diventasse un disastro.
Estelle non temeva di trattare con la Compagnia Recuperi di Nupal. Il bellissimo bricco veniva di lì, e anche le splendide casseruole di ghisa, e quasi tutti gli alari dei camini delle stanze da letto, e il nobile portapiante a due piani nel solario, che i clienti non si stancavano mai di ammirare. Nella sezione superiore, rettangolare, Madam Estelle coltivava viole del pensiero e calendule; due piante alte e sane di marawan crescevano nella parte inferiore, ovale. Il portapiante era bianchissimo, senza una crepa, di una porcellana che oggi nessuno sa più fabbricare. Demetrios ed Estelle, essendo cresciuti entrambi in quello che la gente chiama ancora Ventesimo Secolo, si ricordavano la funzione più antica di quei portapiante… con rimpianto, specialmente nel freddo della latrina, le mattine d’inverno. Vivere in un secolo con un troncone di ricordi in un altro rende necessario aver cura dei punti delicati in cui c’è l’innesto.
La Compagnia Recuperi manda i suoi carri trainati da muli e con equipaggi bene armati in tutte le parti del mondo conosciuto, fin dove possono condurli le strade in sfacelo del Tempo Antico o quelle nuove e polverose, alla ricerca del ciarpame e dei tesori che la Compagnia può vendere guadagnandoci. Si sentono certe storie, sul conto degli uomini addetti alla raccolta, che ruberebbero e watergaterebbero e roba simile. È un commercio destinato a esaurirsi, certo, e chi lo esercitava non lo dimenticava. Nel 47, la Compagnia stava pensando di creare una fonderia, con il carbone di legna delle foreste di Nupal e il minerale prelevato dalle miniere di ferro che nel Tempo Antico erano state abbandonate perché poco redditizie; e pensava anche di assimilare alcune delle piccole industrie della città di Maplestock. Erano chiacchiere, per lo più… ma non si poteva mai sapere, con Nupal. Sebbene fosse stata inclusa nella Repubblica del Re con il trattato di Maplestock, nell’Anno 21, Nupal godeva di una sua semindipendenza, e non era disposta neanche a dire a Nuber che ora fosse, se non poteva guadagnarci qualcosa. — In Comune, — disse Demetrios, mentre usciva per andare alla latrina. — Ugh!
— Quella storia della licenza?
— Sì. E che l’idiota che ha avuto l’idea possa venire illuminato da un sasso asciutto. C’è della carta, là fuori?
— Lo spero, — disse Estelle con dignità, ma poi aggiunse, più dolcemente: — Beh, la carta che ci arriva da Maplestock è robaccia… Va via in fretta e io ne ho adoperata un po’ per… per scrivere. Appunti, vedi.
— Non importa, cara. Nel Tempo Antico c’era troppa carta. Ci soffocava, diceva sempre mio padre.
— Siediti, Dimmy, — disse Estelle quando lui tornò. Jenny gli saltò sulle ginocchia. — Ti preparo un uovo.
— Sii benedetta. Se non ti è di troppo disturbo.
— Tsha-sha, — disse Madam Estelle, battendogli una mano sul braccio. Aveva sessantacinque anni: era una giovane madre diciottenne, in una città industriale del Connecticut, quando il mondo era andato a pezzi. — La licenza per raccontare storie! Non so dove andremo a finire. Un giorno o l’altro quelli della Città Interna andranno troppo in là… a furia di ficcare il naso e di intromettersi. E tasse, tasse, tasse! — Ruppe delicatamente l’uovo nel tegame. Di mattina Madam Estelle propendeva per una visione un po’ rivoluzionaria, troppo faticosa da conservare nelle interminabili “ore del pomeriggio e della sera, quando doveva ricorrere alla consolazione dello spirito di granturco.
— Un bell’uovo scuro, — disse Demetrios. — Immagino sia di una delle galline di Somerville. Quelle di Obadiah prima o poi finiranno in pentola, dice Bab. — Per Demetrios i polli dei due pollai nell’orto, sotto la supervisione di Somerville, il gallo rosso come un peperone, e del grave Obadiah screziato di grigio, erano conoscenti preziosi, sebbene fosse Babette ad avere il compito di curarli e non ammettesse intromissioni. Demetrios badava alla mucca, Julia.
Estelle non si lasciò fuorviare. — Dimmy, mi chiedo persino se non sia pericoloso tenere il mio diario. Se viene qualcuno a curiosare, diciamo quando non mi sento troppo bene, e magari ho bevuto troppo tè, e si porta via il mio libro chiuso a chiave perché qualche nuova legge dice che può farlo, ecco lì la mia anima indiscreta messa a nudo. Per gli avvoltoi. Non avrebbero rispetto per i miei capelli grigi, se dicono che è sovversione… roba da matti, proprio! Cosa c’è a Nuber che valga la pena di sovvertire?
— Tu non hai i capelli grigi, — disse Demetrios. — Guarda i tuoi bei capelli bruni, in confronto ai miei, che sono grigi davvero. Porta qui il tuo tè e siediti, Estelle. E parlami del tuo libro chiuso a chiave, se vuoi.
— No, Dimmy. — Estelle gli portò il tè. Si chinò su di lui per baciarlo sulla sommità del capo, stringendo i capelli lunghi e spettinati. Poi cambiò idea a proposito del tè; e si diede da fare in cucina per rassettare, anche se non ce n’era bisogno, perché Babette teneva tutto in perfetto ordine. — No, spesso penso che vorrei parlarne, ma in un modo o nell’altro non ci riesco mai. (Non vuoi uscire, Jenny?) È solo un libro, una specie di… libro. (Ho capito, vuoi uscire.) E questa è l’ora che vado sempre a scriverlo. — Ma indugiò sulla porta della sua stanza da letto, turbata al pensiero della giornata di Demetrios. La sua stanza un tempo era stata una dispensa, e lei l’amava come un topo ama il suo nido, e nessuno, tranne Babette, veniva mai invitato a entrarvi. L’unica finestra dava verso est, sull’orto, e le mattine arrivavano fino a lei fresche e giovani.
— Non devi scusarti, — disse Demetrios. — Laverò io il mio piatto e il resto. Vai dal tuo libro.
Lei restò lì ancora un po’; forse desiderava di sentire se stessa dire quello che sta al di là delle parole… continuiamo tutti a farlo. Uno di questi argomenti è l’amore, l’altro la solitudine. Non esiste un linguaggio per l’uno o per l’altro, tranne poche parole e pochissimi, fortunati matrimoni di parole che riflettono un po’ di verità, come frammenti d’uno specchio infranto. — Beh, non metterti nei guai, — disse, e chiuse la porta.
La strada più corta per andare da Redcurtain Street al Palazzo del Comune, la strada che fece Demetrios, passa per la Piazza della Forca, dove si può vedere — dove non si può fare a meno di vedere — la forca, la gogna, il palo per le fustigazioni. È la stessa forca cui venne appesa la ruota di Abraham, perché tutti lo potessero vedere, come ammonimento per gli altri nemici dello Stato. Alcuni dicono che non si voleva neppure che Abraham morisse. Le case ed i negozi squallidi che circondano la Piazza della Forca risalgono anch’essi al tempo di Abraham: sono edifici che niente può redimere, tranne il fuoco che prima o poi li divorerà: cosa può fare la brigata antincendio di Nuber, con i suoi secchi, se quel mucchio di legno secco e putrido si incendia? E alcune delle persone che oggi si affacciano alle finestre per studiare i particolari d’una fustigazione o d’una impiccagione dovevano aver fatto a gomitate, diciassette anni prima, per contendersi i posti migliori, per vedere Abraham sulla ruota. Molti dovevano essere morti, nel frattempo: il mondo attuale non è bonario, e perciò qualcuno poteva essere morto in una rissa, e altri se li erano portati via il vaiolo, il colera, la febbre gialla. Alcuni potevano essersene semplicemente andati, lasciando il posto a nuovi venuti che magari avrebbero osservato un altro Abraham morente con la stessa eccitazione inquieta, e magari l’avrebbero lapidato.
Lasciando la Piazza della Forca si sale un’erta ripida per un paio di isolati, ed ecco il Palazzo del Comune. Situato all’inizio della salita piramidale della Città Interna, è un esempio d’architettura orribile; una casa tozza a due piani con un paio di finte colonne che incorniciano la porta, il tutto sormontato da una torre campanaria squadrata, che sarebbe bellissima se non fosse troppo grossa per l’edificio. Era stata costruita per sistemare una magnifica campana bronzea del Tempo Antico, recuperata tra le rovine di qualche chiesa, e risalente all’anno chissà. Le finte colonne sono alte due piani; se fossero vere, anziché pastrocchi di canne e d’intonaco, potrebbero realmente sorreggere la grande architrave che non c’è; ma poiché si limitano ad aggrapparsi all’edificio, come bende attorno a un ginocchio dolorante, in mezzo c’è posto per il piccolo portico presuntuoso detto «il Balcone», dal quale gli uomini di stato possono arringare la folla. Nel complesso, quell’orrore ricordava a Demetrios uno stile del secolo XIX che doveva essere andato perduto alla fine di quell’epoca rimpianta, ma che aveva lasciato il segno persino nel Missouri. Non si saprà mai chi fosse l’idiota che lo riesumò per la Repubblica del Re nell’Anno 24 dopo l’Olocausto, quando venne costruito il Palazzo del Comune. Non importa… quella maledetta torre campanaria è bella.
Acquattato davanti al suo prato spazioso, ben tenuto e piuttosto bello, con l’erba falciata regolarmente, il Palazzo del Comune è anche una delle quattro entrate nel muro alto due metri e mezzo, che cinge completamente la Città Interna e Mount Everlasting. Si passa per il corridoio centrale e… se avete un lasciapassare o se arrivate in compagnia di un abitante della Città Interna, uscite sull’ampia, bellissima via che corre all’interno del muro ed è chiamata Wall Street. Il muro forma una frangia alla base della piramide, e ha una circonferenza approssimativa di dodici miglia. La Natura aveva costruito la piramide di rocce primordiali, e gli uomini ci avevano aggiunto i pomelli. Il muro svolta qua e là per seguire i contorni dei fianchi delle colline, ma la forma piramidale è sempre evidente, rafforzata da una torre triangolare di pietra, in cima a Mount Everlasting. La torre fu costruita per ordine di Simon Bridgeman perché (diceva) egli voleva guardare il mondo nuovo che veniva a lui. Era stata l’ultima sua creazione che aveva visto completata; non si era mai trasferito nel lussuoso appartamento, in cima alla torre alta quindici metri, perché era stato assassinato una settimana dopo che era stato cementato l’ultimo mattone; e Brian I, Primo Dittatore della Repubblica del Re di Katskil (che amava i titoli semplificati, perché così si risparmiava tempo ed erano gli unici che conosceva) aveva decretato che la torre doveva restare su Mount Everlasting, quale eterno monumento alla memoria del grande e generoso spirito di Simon Bridgeman, il compianto salvatore del popolo e profeta del nuovo mondo. Amen: i venti l’investivano, e nel 47 gli appartamenti della torre erano occupati da Brian II, dalla sua regina e dalle sue concubine, e Demetrios non poteva andare oltre il Palazzo del Comune.
Salì la breve erta che portava al prato: ansimava solo un poco. La giornata era già afosa, come se egli portasse con sé una tristezza contagiosa dalla Piazza della Forca. Sul prato, alcune panchine erano occupate da sfaccendati; i poliziotti li scacciavano al tramontar del sole e quelli tornavano nelle ore tranquille. Sull’erba giaceva una bambola di pezza… quale bambina poteva abbandonare un’amica in quello stato? Demetrios la sistemò su una panchina vuota, con le gambe disposte decorosamente. Vide una tranquilla cagna gialla trotterellare verso il Palazzo del Comune; un bastardo nero e zelante la seguì annusandole i quarti posteriori, la bloccò e la montò sui gradini, mentre tre maschi più piccoli aspettavano il loro turno: e la cagna aveva l’aria paziente e compresa. Un poliziotto scese i gradini con una scopa in mano, ma si limitò ad appoggiarvisi. — Dove debbo andare a vedere per una licenza?
— Che genere di licenza?
— Per raccontare storie.
— Devi essere matto.
— Mi hanno detto che adesso ci vuole.
— Oh… già. Seconda porta a destra, chiedilo al sergente.
Demetrios passò tra le colonne intonacate ed entrò nell’acido odore d’urina della virtù cittadina. Varcando la seconda porta trovò la feccia umana della notte precedente raccolta in attesa. Per tutto arredamento c’erano due panche lunghe otto piedi, una scrivania al cui fianco stava una sputacchiera d’ottone del Tempo Antico, una sedia pesante su cui sedeva un sergente altrettanto pesante. In fondo c’era una porta chiusa, sulla quale era dipinta la parola LUOGOTENENTE. Lì, in attesa, c’erano tre vecchi ubriaconi, tra cui una vecchia paralizzata con le palpebre inferiori iniettate di sangue, che forse era già quasi al di là di ogni sofferenza; un uomo squallido sulla quarantina che parlottava con le proprie dita e stava attento che nessuno origliasse, e un giovanotto sparuto dagli occhi stravolti, forse ancora sotto l’effetto della marawan. Diedero a Demetrios l’impressione di pazienti nella sala d’aspetto d’una clinica… per il momento il dottor Giustizia è occupato. Gli ubriachi sarebbero stati messi in isolamento per un giorno o due. all’uomo che borbottava poteva essere fatta qualunque cosa, il giovanotto probabilmente sarebbe stato rilasciato dopo una ramanzina, a meno che le sue imprese notturne non avessero compreso anche lesioni personali o watergataggio. Demetrios aveva osservato, con il passare degli anni, che nella città-stato di Nuber non c’era l’abituale risentimento della civiltà verso i giovani. Erano così pochi, ormai! Forse il Tempo Antico non avrebbe dovuto considerarli sacrificabili come pupazzi di plastica, carne da cannone vietnamibile.
Tutti e cinque, più Demetrios, dovevano aspettare, fino a quando avrebbero imparato a memoria ogni crepa dell’intonaco dei muri, ogni dubbio grumo d’ombra nella paglia e nella segatura che coprivano il pavimento di pietra. Il potere maligno di fare aspettare e aspettare la gente è una caratteristica innata di tutte le burocrazie: sia che l’autocrate nebuloso al vertice sia un monarca, o un’oligarchia, o il cosiddetto popolo sovrano, l’odore psicologico delle anticamere è lo stesso dovunque.
— Sono venuto a vedere per la licenza di narratore… — Forse non si sarebbe dovuto rivolgere direttamente al sergente. Quello continuò a scrivere. Demetrios si. era quasi aspettato quella scortesia abituale, tipica della piccola autorità. Era irritante non riuscire a leggere a rovescio gli scarabocchi del sergente: forse quel poveraccio stava cercando di finire un libro. Dopo altri tuffi nel calamaio, la penna d’oca si fermò, ma non venne deposta.
— Chi hai detto di essere?
— Sono Demetrios. Mi hanno detto che mi occorre la licenza, per raccontare storie.
Incontrare lo sguardo incupito del sergente fu come guardare due occhi di ranocchio in fondo a un pozzo. Finalmente quello disse: — Non puoi trovarti un posto a sedere? Devi parlare con il tenente… io non c’entro con le licenze.
— Quale tenente?
— Bello, ne abbiamo uno solo in servizio. — A titolo di concessione alla stupidità, il sergente indicò con la penna la porta in fondo.
— Quando posso vedere il tenente Bello?
— Il tenente Brome… oh, credi di essere spiritoso?
— No.
— Non ti ci provare. Il tenente Brome è occupato. Aspetta il tuo turno.
Demetrios sedette accanto al giovanotto preoccupato. — Un’altra giornata calda.
— Qui dentro non si parla! — esclamò il sergente.
Il giovane si scostò… lui non aveva parlato, ma poteva essere colpevole per associazione. Forse l’invisibile tenente Brome era alto otto piedi. Un’ora fluì lentamente nel passato.
C’era un’unica finestra dai vetri grigi, su cui un tafano nero ronzava una preghiera invocando un po’ più di luce: era rivolta a nord e non vedeva mai il sole. Tuttavia il caldo crescente della giornata afosa si raccoglieva lì dentro, facendo esalare antichi odori che ammorbavano l’aria. Per un quarto d’ora il giovanotto sparuto si esercitò a far rotolare una bilia sul dorso della mano, afferrandola nel polsino sudicio della camicia, fino a quando il sergente ringhiò: — Piantala, eh? — L’uomo nervoso che parlava con le proprie dita sussultò come se l’avessero schiaffeggiato. Un’occhiata di sbieco lanciata dal giovane a Demetrios rinnovò il loro fragile cameratismo nel peccato; nascondendosi la bocca con la mano, il ragazzo formulò con le labbra parole immortali: — Vadano tutti a farsi fottere!
Finalmente, dopo che tutti gli altri erano già stati sbrigati, il giovane venne mandato dal tenente Brome e ritornò, come Demetrios si aspettava, giocherellando apertamente con la bilia. Se ne andò con una strizzata d’occhio a Demetrios, fischiettando. Gli altri non erano ripassati di lì: senza dubbio l’ufficio del tenente Brome aveva uscite più tenebrose. Il sergente sospirò: — Adesso puoi entrare.
Venerdì, 19 luglio 47
D. andato al Palazzo del Comune prestissimo Stamattina per la Maledetta Storia della Licenza, prego il buon Dio che non faccia il dispettoso con loro e li faccia arrabbiare per Orgoglio che lo metterà nei guai un giorno o l’altro, non dovrebbe fare così Merda ed è già avanti con gli anni e io ricordo quello che non è mai esistito, l’Età dell’Oro, quando abitavo al N. 2 di Shannon Street con Sam e Steven e Leda e c’era Marcus il mio Bambino. Com’era, noi dicevamo che Tutti noi dovevamo essere i suoi genitori e questo andava bene, perché dico che non è mai esistita? Sam me lo ricordo ancora benissimo, i suoi Capelli Rossi e le Gambe Lunghe e il suo brutto Mento simpatico che ci potevi attaccare il Cappello, lo vedo come la mia Mano grinzosa che tiene questa Penna, e c’era sempre Marcus, il Bambino Mio e di Sam, anche se Stevie era sempre il Migliore sul Materasso ma non mi Amava tanto cosi… Marcus con i Ricci gialli che andavano di qua e di là su tutta la sua Testa come dei Cerchietti d’Oro ma fatti di Nebbia sembrava quando li toccavi di tanto che erano fini e morbidi, come potrei scrivere di tutto questo se non era mai esistito? Marcus è morto ma era vissuto, era vissuto fin Quasi a Tre Anni, e io avevo quindici anni quando l’ho Messo al Mondo, questo lo so, comunque era l’Età dell’Oro. E se Marcus viveva erano vivi tutti, Sam e Leda e Steven, e avevamo quella Casa al N. 2 di Shannon Street a poco prezzo per via che era vicina al Sottopassaggio e non c’era Giardino solo un Francobollo di spazio davanti. Quasi tutto il Pane, beh, veniva da Steven che aveva quel posto alla Fabbrica di Scarpe e sgobbava tutti i giorni per darci il Pane e me e Sam e Leda noi avevamo il Sussidio di Disoccupazione come dicevano e c’era della Gente che ne faceva una Professione, a me non era mai piaciuto.
Sam aveva la sua Chitarra e Leda e me sapevamo cantare, Steve diceva che ero Contralto Naturale. Spesso Abe Logan che era stato l’Amante di Stevie e un po’ lo era ancora, luì veniva a stare una settimana o due, e aveva un Registratore e conosceva tanto Roba Vecchia che anche Steve conosceva, vedete, una volta erano stati insieme alla Radio. Cose chiamate Madrigali per esempio, e Sam riusciva a inventarci Parti per Chitarra, non si era mai sentito Niente di più carino di quello che facevamo noi con i Madrigali. Quando ci ripenso, mi dico Steli, è meglio che non ci pensi, Marcus andava proprio Matto per i Madrigali e Rideva e Ballava e Girava in Tondo al suono della Musica, mettendo in mostra il suo bel piccolo Pene che aveva scoperto da poco, che Sam non voleva neanche sentire il Dottore che diceva che bisognava Circonciderlo, tutta una Sciocchezza diceva Sam, quelli vogliono solo i Dollari. Marcus:… bene naturalmente Tutto era una Scoperta nuova per il mio Marcus, si può dire che fino a Tre Anni è cresciuto Cantando e Ballando. Oh è stato difficile svezzarlo, la sua Bocca era un Bacio di Miele Rosso e il Sole lo Amava.
Il tenente Brome sembrava accattivante, animato da un desiderio apparente di compiacere. — Mi dispiace averti fatto attendere, signore. Quello stupido avrebbe dovuto dirmelo che c’eri tu. Demetrios, eh? Ti ho sentito una volta o due. Peccato per la faccenda della licenza, ma l’utopia deve avere certe regole, sono sicuro che tu capisci. Vuoi una caramella alla marawan? D’accordo, è troppo presto; però qualche volta ne prendo una, per via della tensione del lavoro e tutto il resto. Racconti molte storie, di questi tempi? — Si appoggiò alla spalliera della sedia, dietro la scrivania; e con la faccia blanda invitò Demetrios ad entrare a far parte della compagnia dei furbi che sanno come va il mondo, qualche cedimento qui, un po’ di addolcimento là, nessun rancore, tutti felici. Era tozzo e bruno, il tenente Brome, con le unghie pulite ma con la pancia un po’ sporgente, la faccia flaccida, un atleta impigrito.
— Io raccontavo storie prima del 1993.
— Prima di cosa? Oh, già. Noi non ne parliamo, vedi. Guardarsi indietro è antiutopistico. Guardando indietro, cosa troveresti? Niente altro che delle idee logore, Demetrios: la democrazia invece della legge e dell’ordine utopistici, la monarchia invece dell’utopistica Repubblica del Re, tutta quella maledetta permissività socialista invece dell’etica utopistica, che grazie a Dio l’attuale amministrazione curerà meglio, molto meglio, d’ora in avanti. — Demetrios senti un nuovo brivido di freddo. — Grazie a Dio, — disse di slancio il tenente, — stiamo cominciando a imparare cosa vuol dire mandare avanti le cose in base a principi rigorosamente utopistici! A sbarazzarci di ogni maledetta sovversione che osa alzare la testa! — Ma dopo la sua fervida dichiarazione di principi politico-religiosi, il tenente Brome tornò a rilassarsi, divenne un individuo pratico e ragionevole, e osservò Demetrios con l’attenzione quasi affettuosa di un pescatore che vede il galleggiante abbassarsi per lo strattone della preda appena intravvista. Poco dopo continuò: — Demetrios, tu capisci, immagino, che un governo ispirato a principi utopistici non può tollerare che si raccontino storie indiscriminate, non approvate, che potrebbero minare alla base la libertà e l’utopianesimo. Uhm… nel Tempo Antico avevano commesso un grave errore… vedi, come pensi di proteggere la libertà di parola, se lasci che chiunque dica quello che vuole, eh? — E la cosa più orribile è che non si aspetta che io rida, non tollererebbe che ridessi. Ha inaridito la fonte del mio riso. Oh, se gli universi sono infiniti, ce n’è uno in cui il vecchio Demetrios ha il coraggio di tenere a bada questo omiciattolo, con il suo bastone di noce, il tempo necessario per pisciare sulle sue carte bene ordinate, e buttarle giù con un torrente di risa. E un altro in cui lo stesso Brome capisce l’assurdità, e ride lui, e pulisce il mondo intero con la sua risata. Ma il guaio è che è sempre qualche altro universo, non quello in cui siamo prigionieri, e in cui non è possibile ridere… Il tenente aveva detto qualche altra parola, così sottovoce, come se mormorasse soprappensiero, che Demetrios fu obbligato a chiedergli di ripetersi. — Ho detto, Demetrios, che la licenza costa solo venti dollari.
— Venti?
— Venti.
— Signore, è una rovina. Come portinaio della più rispettata Casa del Sesso di Redcurtain Street, guadagno quattro dollari la settimana: una paga generosa, ma non principesca. E come narratore, con il berretto sul marciapiedi, oh, posso raccogliere magari altri due dollari, se il tempo è bello ed esco cinque o sei giorni. Le mie spese sono poco inferiori al reddito. Non ho neppure risparmi di qualche conto.
— È un vero peccato, — disse il tenente. — Se fosse per me, terrei conto di queste difficoltà. — La sua faccia assunse all’improvviso l’espressione assorta di chi si sente dotato di un’intuizione originale, uno splendore per il quale trovò le parole adeguate: — Vedi, la legge non l’ho fatta io. — La natura luminosa di quell’affermazione lo portò ad altezza ancora più elevata: — Non si può fare un’utopia senza rompere le uova… Naturalmente in certi casi le difficoltà, uhm, inevitabili, possono venire, diciamo, ridotte al minimo in cambio di… non so come esprimermi…
— Quanto e di che cosa?
— Cosa?
— Che cos’ho io, che ti interessa avere per lasciarmi continuare così, a fare il mio lavoro, a raccontare le mie storie ed a farmi gli affari miei?
— Andiamo subito al sodo stamattina, no? — disse il tenente Brome e ridacchiò, tamburellando con le dita sulla scrivania.
— È ancora mattina?
Il tenente Brome si alzò e si stiracchiò. Aprì e chiuse le due porte dell’ufficio, sbirciando nell’anticamera e in un corridoio laterale, probabilmente per controllare se qualcuno origliava. — Non è colpa mia se ho tanto da fare, — disse in tono mite. — Sono quasi le undici. — Tornò alla scrivania, si buttò in bocca un’altra caramella. — Così, per caso… — Non c’era niente che Brome faceva per caso. — Quanti altri narratori di Nuber appartengono alla Società dei Discepoli?
La torre campanaria ronzò e rombò e tremò di una musica che scendeva fino alla roccia, undici battiti di un cuore titanico. Quando poté farsi sentire, Demetrios disse: — Non ne ho la minima idea.
— Andiamo, Demetrios. Più continui con queste schermaglie e più tempo prezioso dovrò farti perdere. Mi hai chiesto che cos’hai, che potrebbe interessarmi. Non molto; ma per certe informazioni potremmo, diciamo, lasciarti in pace. Volevo dire, in tutta franchezza, Demetrios, che una certa importanza ce l’ho, nella Città Interna.
— Ma non ho in pratica nessun rapporto con gli altri narratori. — Demetrios lottava con l’incredulità, l’incredulità stordita di chi aveva pensato che una tigre assonnata fosse dolce perché aveva l’aria di esserlo. — In generale, siamo tutti degli isolati. Gli artisti non sanno organizzarsi, non è nella nostra natura.
Le dita tamburellavano; gli occhi spietati guardavano dappertutto, ma non la faccia di Demetrios. — Il nuovo statuto mi dà autorità di indagare sulle attività di, cito: «Narratori pubblici e altre persone prive d’occupazione…» Da quanto tempo conosci Jon Seberling?
— Non ho mai sentito parlare di lui.
— Strano. Lui ti conosce. — Le dita smisero di tamburellare e scrissero su un libro nero, il tipo più caro, rilegato di carta pesante, che la fabbrica di Maplestock, quell’anno, aveva cominciato a produrre in discreta quantità. — Mark Walton… Edna McEloi?
— So chi è Walton, benché non l’abbia mai incontrato. Ho sentito cantare Edna McEloi, e l’ho sentita raccontare una favola molto apolitica a un pubblico composto quasi completamente di bambini… Tenente, posso dire che quella del narratore è un’occupazione?
— Davvero. Ma tu attualmente sei impiegato, — disse la voce al di sopra delle dita in movimento, — come portinaio presso il Locale di Pubblico Svago registrato sotto il nome di Madam Estelle?
— Certo.
— E dei clienti di quel locale, in che percentuale sono residenti della Città Interna?
— Non ne ho un’idea.
— Davvero. E dei dipendenti di quel locale, quanti sono membri della Società dei Discepoli?
— Nessuno, che io sappia. — Ma Fran lo era; e Babette era andata a un paio dei segreti Festini d’Amore dei Discepoli. Uscirò di qui in tempo per avvertirle? Le dita continuavano a tamburellare.
— La Casa di Madam Estelle impiega prostituti maschi?
— Io ricordo che il termine «prostituta» fu bandito dalla stessa legge che istituì le Case di Redcurtain Street. La Casa non ha prestatori d’opera maschi da quando questo venne proibito, quattro anni fa.
— In tutto il corso della storia, — recitò il tenente al di sopra delle dita in movimento, — il Crimine Contro Natura è sempre stato illegale, e riconosciuto come il metodo del Diavolo per distruggere l’Umanità per mezzo del Suicidio Razziale; questa è una Verità Scientifica. Perciò, naturalmente, a Nuber non è mai stato legittimo. — Demetrios restò in silenzio. I Locali di Pubblico Svago risalivano al tempo di Simon Bridgeman, che aveva amato apertamente donne e ragazzi. Brian I non aveva voluto dare fastidi ai Locali, e fino ad ora Brian II aveva modificato le leggi solo contro coloro che erano meno degli altri in grado di difendersi. Ma a Demetrios veniva ricordato che non si discute con coloro che riscrivono la storia. — A proposito, Demetrios, la Società dei Discepoli continua ancora ad affittare la sua illegittima stampatrice a mano?
— Gesù, ne hanno una?
Il tenente sospirò e posò la penna d’oca. La giovialità simulata era svanita. — Nel tuo strano discorsetto di ieri su Harrow Street, che mi è stato riferito nell’interesse pubblico, tu hai parlato d’una stampatrice a mano. A proposito, qual è il tuo cognome? Non lo trovo nel mio archivio, e questo non è simpatico per nessuno.
— Mi sorprende. Il mio cognome è Freeman. — Il tenente lo scrisse. — Ieri, tenente, credo di aver accennato all’esistenza della stampatrice a mano della Città Interna, conosciuta da tutti, che stampa il giornale Hermes e altro materiale permesso. Se ho accennato alla possibilità di un’altra stampatrice da qualche parte, non l’ho fatto per conoscenza diretta… ho solo riferito una diceria.
— Il che può essere pericoloso e irresponsabile. Bene, tra gli anni 33 e 43, correggimi se sbaglio, avevi l’abitudine di raccontare pubblicamente presunte versioni fedeli della morte di Abraham Brown, d’origine forestiera, avvenuta sulla Piazza della Forca di questa città nell’Anno 30. È esatto?
— Io ero in Piazza della Forca e lo vidi morire. L’ho raccontato qualche volta, durante quei dieci anni, sì, su richiesta di coloro che ci tenevano a sentirlo.
— Ma non negli ultimi quattro anni, almeno in pubblico?
— Né in pubblico né in privato.
— Perché?
— Mi ero accorto che l’interesse per quella storia era diventato morboso, e forse lo era sempre stato; e che la verità non era gradita. Perciò mi è parso che raccontarlo non fosse nell’interesse pubblico.
— E come puoi giudicare qual è l’interesse pubblico?
— Ogni cittadino è giudice del pubblico interesse.
— Davvero, — disse il tenente, e scrisse anche quello, mormorando sottovoce le parole. — Non è giusto presumere, mio caro Demetrios, che tu abbia ripetuto la storia molto privatamente, diciamo ai tuoi intimi oppure… uhm… alle riunioni segrete della Società dei Discepoli? Eh?
— Non sono un bugiardo. Non ho mai assistito a nessuna delle loro riunioni, se le tengono. Non ho recitato la storia del martirio di Abraham davanti a nessun pubblico, dall’anno 43.
— Puoi andare, Demetrios. — Lo sguardo vacuo del tenente diceva, senza molte possibilità di equivoci: Prenditi pure la corda per impiccarti. Demetrios si alzò, appoggiandosi al bastone di noce. — No, torna qui un momento, uomo Demetrios.
— Non hai il diritto di chiamarmi così”.
— Mi correggo. — Il tenente sorrise. — Demetrios, se per caso torni a raccontare la storia di Abraham Brown a modo tuo, con o senza la licenza di cui abbiamo parlato, sarà peggio per te. Consideralo un avvertimento amichevole. Capito?
— Buona giornata, — disse Demetrios, e gli voltò le spalle. Forse non era lontano il giorno in cui ci sarebbe stata una dinastia Brome, e allora non sarebbe stato più possibile voltare le spalle. Demetrios passò davanti al sergente, uscì nella grata presenza del sole.