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«Eccolo» disse Rawlins. «Finalmente!»

Attraverso gli «occhi» del ricognitore, guardò l’uomo del labirinto. Muller se ne stava appoggiato con noncuranza a un muro, con le braccia conserte. Aveva la faccia segnata, con il mento duro e il naso affilato. Non sembrava affatto preoccupato per la presenza del ricognitore.

Rawlins inserì l’audio e sentì Muller che diceva: «Salve, robot. Perché sei venuto a seccarmi?»

Il ricognitore, naturalmente, non rispose. E neanche Ned, che avrebbe potuto inviare facilmente un messaggio attraverso l’apparecchio. Il giovane Rawlins stava piegato in avanti per vedere meglio. Gli occhi stanchi gli bruciavano. C’erano voluti nove giorni locali per fare arrivare un ricognitore nel centro del labirinto. L’impresa era costata un centinaio di apparecchi: ogni venti metri di percorso, il sacrificio di un robot. Comunque, non era molto, tenuto conto che le possibilità di sbagliare là dentro erano pressoché infinite. Un po’ di fortuna, l’aiuto intelligente del cervello elettronico della nave, e un gran numero di dispositivi sensori, erano serviti a evitare tutte le trappole evidenti e la maggior parte di quelle più insidiose. E finalmente, avevano raggiunto il centro.

Rawlins era stato in piedi tutta la notte, per controllare la fase più critica, la penetrazione della zona A. Hosteen era andato a dormire, e anche Boardman. Alcuni uomini dell’equipaggio si trovavano ancora di servizio, lì e a bordo, ma Ned era l’unico civile ancora sveglio.

Si chiese se la scoperta di Muller fosse avvenuta volutamente durante il suo turno di guardia. Era improbabile. Boardman non avrebbe corso il rischio di compromettere l’impresa, lasciando un pivello solo nel grande momento. Comunque, l’avevano lasciato lì, lui aveva spostato il ricognitore di alcuni metri, e ora poteva contemplare Muller in persona.

L’uomo aveva un’espressione triste, e le sue labbra erano tese in una linea dura e sottile. Rawlins si era aspettato di vedere qualcosa di più drammatico, di più romantico su quella faccia: un riflesso di agonia. E invece si trovava davanti i lineamenti segnati, indifferenti, quasi insensibili di un uomo robusto, sulla sessantina. Muller era brizzolato, aveva gli abiti a brandelli e anche lui sembrava logoro. Ma c’era da aspettarselo da un uomo che viveva in quel tremendo esilio da nove anni.

«Che cosa vuoi?» chiese Muller al ricognitore. «Chi ti ha mandato? Perché non te ne vai?»

Rawlins non osò rispondere. Bruscamente bloccò il ricognitore e si affrettò verso la cupola dove Boardman dormiva.

Boardman stava dormendo sotto un baldacchino di dispositivi rigeneratori. Dopo tutto aveva quasi ottant’anni, anche se non li dimostrava, e uno dei modi per continuare a non dimostrarli era di affidarsi ogni notte al rigeneratore. Attaccati sulla fronte con nastro adesivo, c’erano due elettrodi meningei che garantivano un sonno salutare, lavando così la mente dalle tossine della fatica accumulata durante il giorno. Un dispositivo ultrasonico filtrava i sedimenti e le scorie provenienti dalle arterie e il flusso ormonale era regolato da una fitta rete sospesa sopra il suo torace. L’intero complesso era regolato e diretto dal cervello elettronico della nave. Perduto in quell’intrico di apparecchiature, Boardman aveva un aspetto irreale. Gli occhi si muovevano rapidamente sotto le palpebre abbassate: l’uomo stava sognando, immerso in un sonno profondo. Era prudente svegliarlo ora?

Rawlins non se la sentiva di correre rischi. Quanto meno doveva evitare di svegliarlo di soprassalto. Uscì dalla stanza e attivò il terminale che si trovava lì fuori. «Porta un sogno a Charles Boardman» disse. «Digli che abbiamo trovato Muller. Digli di svegliarsi subito. Digli: Charles, Charles, svegliati, abbiamo bisogno di te. Capito?»

«Ricevuto» rispose il cervello della nave.

L’impulso rimbalzò dalla cupola della nave, fu tradotto in forma di risposta diretta e tornò alla cupola. Quindi il messaggio penetrò nella mente dell’uomo addormentato, attraverso gli elettrodi. Rawlins rientrò nella camera da letto.

Boardman si mosse. Le sue dita si contrassero, e grattarono leggermente l’apparecchiatura che lo avvolgeva come un abbraccio.

«Muller…» mormorò.

Poi aprì gli occhi. Per un attimo non vide niente. Ma il processo di risveglio era iniziato e il sistema di rigenerazione agiva sul suo metabolismo in modo da rimetterlo in funzione. «Ned?» chiamò con voce roca. «Che cosa fai qui? Ho sognato che…»

«Non era un sogno. Sono stato io. Abbiamo attraversato la zona A e trovato Muller.»

Boardman si liberò dai lacci e sedette di scatto, completamente sveglio. «Che ora è?»

«Appena l’alba.»

«Da quanto tempo l’avete trovato?»

«Un quarto d’ora. Ho immobilizzato il ricognitore e mi sono precipitato da voi. Ma non volevo svegliarvi di soprassalto, così…»

«Va bene, va bene.» Boardman saltò giù dal letto. Barcollò leggermente, mentre si metteva in piedi. Non aveva ancora ritrovato il pieno vigore diurno, e ora mostrava la sua vera età. «Andiamo» disse. «Libera il ricognitore. Voglio vedere Muller subito.»

Usando il terminale che stava all’ingresso, Ned riportò in vita il ricognitore. Lo schermo mostrò di nuovo la zona A, che aveva un aspetto più confortevole degli altri. Muller, però, non c’era più.

«Dev’essere uscito dal campo visivo» disse Rawlins. Fece girare il ricognitore su se stesso, ottenendo così una veduta di basse case cubiche, di archivolti e di muri a gradinate. Un animaletto che pareva un gatto fuggì. Ma di Muller, nessuna traccia.

«Era proprio là» insiste Rawlins, desolato. «Era…»

«Ho capito. Non era obbligato a restarsene lì come una statua, mentre tu venivi a svegliarmi. Fai circolare il ricognitore.»

Rawlins ubbidì, e fece compiere al robot una breve esplorazione della strada. A un tratto, Muller uscì da un edificio senza finestre e si piantò a gambe larghe davanti all’apparecchio.

«Ancora!» disse. «Sei risuscitato? Perché non parli? Da che nave vieni? Chi ti ha mandato?»

«Dobbiamo rispondere?» domandò Ned.

«No.»

La faccia di Boardman toccava lo schermo. Allontanò la mano di Rawlins dai comandi e cominciò a manovrare la sintonia da sé; improvvisamente la figura di Muller balzò in pieno rilievo, vivida. Il ricognitore continuava a muoversi lentamente davanti all’uomo, come per attirare la sua attenzione e impedirgli di allontanarsi ancora.

A voce bassa, Boardman disse:

«Spaventosa! L’espressione della sua faccia…»

«A me sembra abbastanza normale» disse Ned.

«Come fai a saperlo? Io me lo ricordo, quell’uomo. Ned, quella è la faccia di un uomo scampato all’inferno. Gli zigomi sono molto più sporgenti di prima, lo sguardo è terribile, e non vedi la piega della bocca, a sinistra? Sembra quasi che abbia avuto una leggera paralisi. Comunque, nei suoi occhi c’è ancora forza, tanta forza.»

Muller seguiva lentamente il ricognitore, parlandogli con voce cavernosa, rauca: «Hai trenta secondi per dirmi perché sei venuto qui. Poi ti consiglio di fare dietrofront e di tornare da dove sei venuto.»

«Non gli volete parlare?» chiese Rawlins. «Distruggerà l’apparecchio.»

«Faccia pure» disse Boardman. «La prima persona che gli rivolgerà la parola dev’essere un uomo in carne e ossa, e dovrà trovarsi a faccia a faccia con lui. Bisogna fargli la corte, Ned.»

«Dieci secondi» disse Muller.

Frugò in tasca e ne tolse un globo di metallo nero delle dimensioni di una mela, con un finestrino quadrato da una parte. Rawlins non aveva mai visto niente del genere: forse era qualche arma sconosciuta che Muller aveva trovato nella città. Con uno scatto l’uomo alzò la sfera e orientò l’apertura verso il muso del ricognitore.

Lo schermo si spense.

«Abbiamo perso un altro robot» disse Rawlins.

Boardman annuì. «Sì, e non sarà l’ultima perdita. D’ora in poi dovremo rischiare altre perdite. Umane, questa volta.»

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