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Erano venuti equipaggiati per risolvere il problema del labirinto. Il cervello elettronico dell’astronave, un calcolatore di prima classe, conteneva i particolari relativi a tutti gli altri tentativi fatti in precedenza dai Terrestri per penetrare nella città. Tutti, tranne uno e, sfortunatamente, proprio quello che era stato coronato dal successo. Ma anche gli altri dati avevano la loro importanza. La nave, inoltre, possedeva una quantità di estensioni mobili, quali ricognitori aerei e terrestri, occhi-spia, sensori a batteria. Prima di rischiare una sola vita umana nel labirinto, Boardman e Hosteen avrebbero sfruttato i ricognitori meccanici. Ne avevano molti, di ogni tipo, e potevano, se necessario, concedersi il lusso di «sprecarli»: la nave era, comunque, in grado di sostituire tutti i dispositivi che fossero andati distrutti. Una volta finito il lavoro dei ricognitori si sarebbero analizzati tutti i dati e tutte le informazioni raccolte e qui sarebbe entrato in scena l’uomo.

Nel corso delle precedenti esplorazioni, nessuno aveva cercato di aggredire il labirinto in questo modo. I primi esploratori vi si erano inoltrati senza porsi problemi, ed erano morti.

Quelli venuti in seguito ne sapevano abbastanza per evitare i trabocchetti più evidenti, ed erano stati aiutati, fino a un certo punto, da dispositivi «sensori» elaboratissimi, ma questa era la prima volta che veniva effettuato un minuzioso sopralluogo aereo.

La ricognizione aerea compiuta il primo giorno aveva dato modo a tutti di farsi una buona idea visiva del labirinto.

In realtà, non sarebbe stato necessario che qualcuno di loro lasciasse la base: avrebbero potuto osservare le indagini sugli schermi, restandosene comodamente seduti al campo, lasciando compiere tutto il lavoro ai ricognitori. Ma Boardman aveva insistito: la mente umana registra le immagini che le giungono da uno schermo in modo diverso da quello in cui registra le impressioni sensoriali attinte direttamente dalla realtà. Ora, tutti avevano osservato la città e ciò che potevano fare i «guardiani» del labirinto ai ricognitori che osavano violare il campo protettivo che la sovrastava.

Rawlins aveva pensato alla possibilità di un punto morto nel campo protettivo. Nel tardo pomeriggio se ne accertarono, caricando un ricognitore con pallottole di metallo e inviandolo sopra il labirinto, a un’altezza di cinquanta metri. Alcuni «occhi» meccanici registravano l’azione, mentre il ricognitore girava lentamente, lasciando cadere le pallottole, una alla volta, sopra l’immaginaria scacchiera di quadrati di un metro per lato in cui era stata divisa la città. Una per una, tutte le pallottole si disintegrarono. Fu così possibile calcolare che lo spessore del campo protettivo variava a seconda della distanza dal centro del labirinto. Sopra le zone interne era alto soltanto un paio di metri, sopra quelle esterne molto più spesso e costituiva una specie di cupola invisibile estesa su tutta la città. Ma non c’erano punti morti, anzi, il campo era in grado di compiere uno sforzo extra. Lo si constatò quando il ricognitore venne ricaricato di pallottole che furono catapultate simultaneamente in ciascuno dei quadrati immaginari: furono eliminate tutte, con una immensa fiammata.

A spese di alcuni ricognitori-talpa, scoprirono inoltre che era altrettanto impossibile raggiungere la città attraverso un tunnel. Le «talpe», che si erano infilate nel terreno sabbioso al di qua delle mura esterne, scavando gallerie a cinquanta metri di profondità e risalendo poi verso la superficie, quando si erano trovate sotto il labirinto vennero distrutte dal campo protettivo mentre erano ancora a una profondità di venti metri. Anche il tentativo di scavare una galleria proprio alla base del terrapieno fallì: evidentemente il campo fasciava completamente la città.

Un tecnico, infine, pensò di succhiare lentamente l’energia servendosi di un sifone assorbente. Ma il trucco non funzionò. L’asta, lunga cento metri, succhiò energia da tutto il pianeta, tanto che lampi azzurri danzarono sibilando attorno alla batteria di accumulatori, ma senza produrre effetti sul campo. Allora rovesciarono il palo e mandarono una scarica di un milione di chilowatt contro la città, nella speranza di sfondare il campo: ma questo assorbì tutto, e sembrò più pronto che mai a ricevere una seconda scarica. Nessuno riusciva a trovare una teoria ragionevole che spiegasse da che fonte la città traesse la propria energia. «Probabilmente sfrutta l’energia di rotazione del pianeta» disse il tecnico che aveva avuto l’idea, poi, accorgendosi di non aver dato alcun contributo utile, cominciò a sbraitare ordini al microfono portatile che teneva in mano.

Dopo tre giorni di tentativi, fu giocoforza riconoscere che la città era invulnerabile sia dall’alto sia dal sottosuolo.


«C’è un solo modo per entrare» disse Hosteen. «A piedi, dalla porta principale.»

«Se gli abitanti della città volevano sentirsi veramente al sicuro» disse Rawlins «perché hanno lasciato una porta aperta?»

«Può darsi che volessero entrare e uscire loro» disse Boardman, calmo. «O forse volevano offrire agli invasori l’occasione di fare dello sport… Hosteen, dobbiamo tentare con qualche ricognitore?»

Era una mattina grigia. Il cielo era macchiato da nubi che avevano il colore del fumo di legna. Un vento tagliente sollevava ondate di polvere dalla pianura. Dietro la coltre di nubi c’era il sole, un disco piatto, color arancione, che sembrava appena?iù grande di quello della erra, benché fosse distante la metà. Il sole di Lemnos era una vecchia stella fredda e stanca, circondata da una dozzina di vecchi pianeti. Lemnos, il più interno, era l’unico che avesse mai ospitato la vita; gli altri erano morti perché fuori dalla portata dei deboli raggi del sole e completamente gelati.

Ned Rawlins sentiva una stretta gelida al cuore, mentre, in piedi accanto al terminale dei dati, a mille metri dal terrapieno esterno del labirinto, osservava i compagni che azionavano i ricognitori e gli strumenti. Si chiedeva come mai un uomo di talento, ricco di calore umano come Dick Muller, avesse scelto, coscientemente, di seppellirsi in quel maledetto labirinto.

Poi ricordò cos’era successo a Muller su Beta Hydri IV, e convenne che anche uno come lui poteva avere buone ragioni per andare a cercare la solitudine in quel posto. Lemnos era l’ideale: un mondo simile alla Terra, ma disabitato, che garantiva solitudine assoluta. E loro erano venuti lì apposta per stanarlo e portarlo via. Rawlins si rabbuiò. Una sporca faccenda pensò tra sé. Sporca…. La solita storia del fine che giustifica i mezzi. Guardò la figura tarchiata di Charles Boardman, in piedi davanti al gigantesco terminale dati: agitava le braccia impartendo ordini agli uomini disposti a ventaglio vicino alle mura della città. Ned Rawlins cominciò a capire di essersi lasciato attirare in una brutta avventura. Quella vecchia volpe loquace non si era dilungato in particolari, laggiù sulla Terra, riguardo ai metodi che avrebbero impiegato per ottenere la collaborazione di Muller. Gli avevano presentato l’impresa come una specie di crociata. E invece, era una sporca trappola. Boardman non scendeva mai in particolari se non c’era obbligato, solo ora Ned se n’era accorto. La regola principale del Consigliere era quella di tenere in serbo le proprie risorse strategiche senza sbilanciarsi mai. Ed ecco che anche lui, Ned, si era trovato coinvolto nella congiura.

Hosteen e Boardman avevano sguinzagliato una dozzina di ricognitori davanti ai diversi ingressi che conducevano alla parte interna del labirinto. Era ormai evidente che l’unica via sicura per entrare nella città era quella di nordest, ma poiché avevano ricognitori in abbondanza, volevano raccogliere tutti i dati possibili. Il terminale che Ned teneva d’occhio proiettò sullo schermo una pianta parziale del labirinto, lasciando un discreto margine di tempo per osservare le trappole e il dedalo di strade. Rawlins era incaricato di seguire l’avanzata del ricognitore in quella zona particolare. Anche gli altri ricognitori erano controllati dal cervello elettronico o da un uomo: Boardman e Hosteen, invece, stavano al terminale per avere una visione complessiva dell’operazione.

«Facciamoli partire» disse Boardman.

Hosteen diede un ordine, e i ricognitori entrarono in città dalle diverse porte. Grazie agli «occhi» del ricognitore Rawlins ricevette una visione chiara della zona H. A sinistra vide un muro periato che pareva di porcellana blu e, dalla parte opposta, una barriera di fili metallici che dondolavano da una spessa lastra di pietra. Il ricognitore rasentò i fili che ronzarono e tremarono in risposta al lieve spostamento dell’aria rarefatta, si diresse verso la base del muro di porcellana, lo seguì, piegando ad angolo verso l’interno per circa venti metri. Là il muro si interrompeva bruscamente, formando una specie di cavità aperta verso l’alto. L’ultima volta che si era tentato di entrare nel labirinto da quella parte — durante la quarta spedizione — due uomini si erano trovati davanti a quella cavità: uno era rimasto fuori e ci aveva rimesso la vita, l’altro era entrato e si era salvato. Il ricognitore entrò. Un attimo dopo, un raggio di luce rossa partì dal centro di una decorazione a mosaico che faceva bella mostra di sé, e spazzò l’area immediatamente circostante.

La voce di Boardman arrivò a Rawlins attraverso gli auricolari: «Abbiamo perso quattro ricognitori nell’attimo stesso in cui hanno varcato le rispettive porte» disse. «Proprio come ci eravamo aspettati. E il tuo?»

«Per ora, tutto bene.»

«Dovresti perderlo entro sei minuti dall’ingresso. Quanto tempo è passato?»

«Due minuti e quindici secondi.»

Ora il ricognitore era uscito dalla cavità e percorreva avanti e indietro l’area che era stata spazzata dal raggio. Ned innestò l’olfattivo e avvertì il puzzo dell’aria bruciata, una gran quantità di ozono. Il percorso si biforcava: da una parte, un ponte di pietra a una sola arcata gettato sopra una voragine infuocata; dall’altra, un mucchio di blocchi ciclopici in equilibrio precario. Il ponte era assai più invitante, ma il ricognitore deviò, e prese ad avanzare faticosamente tra i blocchi ammassati. Rawlins chiese la ragione di quel comportamento e il cervello centrale gli rispose immediatamente che il «ponte» non esisteva affatto: si trattava di un’immagine proiettata da un dispositivo situato dietro il pilone.

Avendo programmato un avvicinamento simulato, Ned vide l’immagine dello pseudo-ricognitore avviarsi sul ponte e perdere l’equilibrio: il pilone si piegò in avanti e spinse il simulatore nella voragine ardente.

Intanto il ricognitore reale si era arrampicato sui massi e stava scendendo dall’altra parte, illeso. Erano già trascorsi tre minuti e otto secondi. Imboccò un rettilineo che si dimostrò sicuro come sembrava. Su entrambi i lati si ergevano torri senza finestre, alte cento metri, fatte di minerale iridescente dalla superficie liscia e lucida come se fosse cosparsa di sostanza grassa. Allo scoccare del quarto minuto, il ricognitore rasentò una griglia chiusa e scansò un battipalo a forma di ombrello che si abbatté con forza micidiale. Diciotto secondi dopo girò intorno a un blocco, che si aprì, mostrando una voragine spalancata; evitò cinque lame spuntate di colpo dal suolo, e salì su un marciapiede mobile che lo trasportò rapidamente in avanti per quaranta secondi esatti.

Tutto questo era già stato sperimentato da un esploratore terrestre di nome Cartissant, che poi aveva perso la vita. Il poveretto aveva dettato un rapporto particolareggiato delle esperienze fatte nell’interno del labirinto: aveva resistito cinque minuti e trenta secondi, e il suo errore era consistito nel non scendere dal marciapiede mobile al quarantunesimo secondo. Quelli che si tenevano in contatto con lui dall’esterno, non avevano saputo dire cosa gli fosse successo dopo. Ora, mentre il ricognitore lasciava il marciapiede mobile, Rawlins chiese un’altra simulazione e ottenne una rapida proiezione di ciò che il cervello elettronico del robot-ricognitore considerava più probabile: il marciapiede si aprì e ingoiò il suo passeggero proprio in quel punto. Intanto il ricognitore procedeva rapidamente verso quella che sembrava l’uscita della zona periferica del labirinto. Al di là si apriva una piazza bene illuminata e dall’aspetto vivace, circondata da bolle fluttuanti di una sostanza perlacea.

«Sono ormai quasi sette minuti e tutto va bene, Charles» disse Ned. «Pare che ci sia una porta che dà nella zona G. Dovreste collegarvi col mio schermo.»

«Se resiste altri due minuti lo farò» rispose Boardman.


Il ricognitore si fermò poco prima della porta interna, azionò il suo gravitrone e accumulò una sfera di energia con una massa equivalente alla sua, poi lanciò la sfera attraverso l’apertura: non accadde niente.

Soddisfatto, avanzò. Ma mentre superava la porta, gli stipiti si abbatterono come le mascelle di una pressa e lo distrussero. Lo schermo di Rawlins si spense. Si collegò immediatamente con uno dei ricognitori aerei, che gli rinviò l’immagine del robot. L’apparecchio giaceva a terra, appiattito. Un essere umano caduto in quella trappola sarebbe stato ridotto in poltiglia.

«Il mio ricognitore è fuori combattimento» disse Ned a Boardman. «Sei minuti e quaranta secondi.»

«Come previsto» fu la risposta. «Ora ci rimangono soltanto due ricognitori. Mettiti in contatto e sta’ a guardare.»

Sullo schermo di Rawlins comparve lo schema generale: una panoramica semplificata e stilizzata dell’intero labirinto visto dall’alto. Qua e là piccole X segnavano il punto in cui i vari ricognitori erano stati distrutti. Ned individuò, dopo un’attenta ricerca, il percorso seguito dal suo, e vide un’altra X segnata al limite della zona, nel punto preciso in cui c’era la porta micidiale. Gli sembrò che il suo robot si fosse spinto più avanti degli altri, ma subito rise del suo orgoglio puerile.

Comunque, due dei ricognitori stavano ancora avanzando. Uno era già praticamente nella seconda zona, e l’altro stava percorrendo un vicolo che immetteva nello stesso anello interno. Lo schema scomparve e Rawlins vide il labirinto quale appariva agli «occhi» di uno dei ricognitori. La colonnina di metallo, alta come un uomo, s’inoltrò nell’intrico complicato del labirinto, oltrepassando una colonna dorata che emetteva una strana melodia, quindi una pozza di luce, un fascio di pali metallici, un mucchio di ossa biancheggianti. Ned intravide appena le ossa: ben poche di esse appartenevano a esseri umani. In realtà, quel luogo era un cimitero di coraggiosi esploratori galattici.

Mentre il ricognitore avanzava, il giovane si sentiva sempre più eccitato. Ormai, era una cosa sola con quell’apparecchio, come se anche lui fosse dentro il labirinto, intento a evitare le trappole mortali, una dopo l’altra. Col passare dei minuti provava un senso di trionfo. Ne erano già passati quattordici. La seconda zona non era fitta di ostacoli come l’altra: c’erano viali ampi, bei colonnati, lunghi vicoli che partivano dall’arteria principale. Si rilassò: si sentiva orgoglioso dell’agilità del ricognitore e dell’acutezza dei suoi dispositivi sensori.

Fu un vero e proprio colpo per lui quando una delle pietre del selciato si ribaltò inaspettatamente e catapultò il robot giù per uno scivolo, in fondo al quale gli ingranaggi di un gigantesco mulino ruotavano avidi.

Comunque, nessuno si era aspettato che quel ricognitore arrivasse così lontano. Tutti tenevano d’occhio un altro, entrato dalla porta principale, l’unica sicura. Il cumulo di osservazioni ottenuto a prezzo di tante vite l’aveva guidato attraverso tutti i pericoli, e adesso era a buon punto nella zona G, quasi al limite della F. Fino a quel momento tutto si era svolto nel modo previsto confermando i rapporti degli uomini che avevano già esplorato quella zona. Il ricognitore aveva seguito esattamente il loro percorso, svoltando a destra, scansando un trabocchetto a sinistra, e si trovava già da diciotto minuti nel labirinto senza che gli fosse accaduto alcun incidente.

«Bene» disse Boardman «questo è il punto dove Morteson è stato ucciso, vero?»

«Sì» rispose Hosteen. «Per ultima cosa disse che si trovava presso quella piccola piramide. Poi non si è saputo più niente.»

«Ne consegue che, da qui in poi, cominceremo a ricevere informazioni del tutto inedite. Quelle che avevamo già si sono dimostrate esatte. Questa è la via giusta. Ma da ora in avanti…»

Il ricognitore, privo ormai di uno schema di comportamento che lo guidasse, avanzava più lentamente, esitando a ogni passo e protendendo in tutte le direzioni la sua rete di dispositivi per la raccolta dati. Cercava porte nascoste, aperture dissimulate nel suolo, proiettori, laser, rivelatori di massa, sorgenti di energia. Poi inviava i suoi rapporti alla centrale dati, ampliando così la scorta d’informazioni.

In tutto, riuscì ad avanzare ventitré metri. Mentre oltrepassava la piramide, indovinò lo scheletro dell’esploratore Morteson, scomparso in quel punto settantadue anni prima, e informò che l’uomo era stato ucciso da un grosso martello a pressione che lui stesso aveva messo in funzione passando inavvertitamente troppo vicino alla piramide. Il robot evitò altri due trabocchetti, poi fu ingannato da uno schermo deformante che disorientò i suoi sensori proprio mentre un pistone polverizzatore stava abbattendosi sopra di lui.

«Il prossimo ricognitore dovrà disinnestare tutti gli organi di avvistamento finché non avrà oltrepassato quel punto» borbottò Hosteen. «Se sarà completamente cieco, ce la farà.»

«Forse un uomo se la caverebbe meglio di una macchina» disse Boardman. «Può darsi che quello schermo non riesca a disorientarlo come ha fatto con un gruppo di apparecchi sensori.»

«Non siamo ancora pronti per mandare un uomo» ribatté Hosteen.

Boardman dovette convenire che il comandante aveva ragione, ma lo fece con una certa malagrazia. Almeno così sembrò a Rawlins, che ascoltava il dialogo. Lo schermo si illuminò di nuovo. Hosteen aveva ordinato che un secondo gruppo di macchine venisse lanciato nel labirinto e seguisse il percorso che, ora lo si sapeva con certezza, rappresentava l’unica via sicura di accesso. Parecchi ricognitori erano già arrivati al punto in cui era stata localizzata la pericolosa piramide, e Hosteen ne mandò avanti uno, tenendo gli altri di riserva. Quando il ricognitore entrò nel campo d’azione dello schermo deformante, staccò i sensori. Esitò un attimo, vacillando, ma si riprese subito. Ora non aveva più contatti con l’ambiente circostante e non poteva essere lusingato dallo schermo che, come il canto di una sirena, aveva ingannato il suo predecessore attirandolo sotto il pistone polverizzatore. Gli altri robot, che osservavano la scena, erano fuori portata dello schermo fatale e inviavano al calcolatore un’immagine chiara di quanto stava accadendo. Una breve pausa e il ricognitore cieco cominciò a muoversi, guidato dal cervello elettronico, che lo fece proseguire inviandogli una serie di stimoli, finché il robot non ebbe superato felicemente il pericolo. Poi i sensori vennero nuovamente attivati. Per maggior sicurezza, Hosteen fece avanzare un secondo ricognitore, ugualmente accecato. Anche questo superò la prova. Allora provò con un terzo, questa volta con i sensori inseriti. Il cervello elettronico cercò di dirigerlo lungo il percorso sicuro, ma l’apparecchio, disorientato dalle deformazioni dello schermo, scartò furiosamente e finì in pezzi.

«Bene» disse Hosteen. «Se di lì passa un ricognitore, possiamo farci passare anche un uomo. Basta che chiuda gli occhi, e che il cervello elettronico calcoli i suoi spostamenti passo per passo. Ce la faremo.»

Il ricognitore-guida riprese il suo cammino. Procedette per diciassette metri oltre il punto in cui era piazzato lo schermo, poi fu inchiodato da una griglia argentea dalla quale spuntavano un paio di elettrodi. Fu un attimo, il ricognitore scomparve in un mare di scintille. Rawlins osservava, muto, mentre il ricognitore che seguiva evitava l’ostacolo, per cadere subito vittima di un altro. Gli apparecchi di scorta aspettavano pazientemente il loro turno.

Presto anche gli uomini ci andranno pensò Ned. Noi ci andremo.

Chiuse il terminale dei dati e raggiunse Boardman.

«Cosa ve ne pare, finora?» gli chiese.

«Difficile, ma non impossibile» disse Boardman. «Non può continuare così fino alla fine.»

«E se continua?»

«Resteremmo senza ricognitori. Faremo una carta completa del labirinto, individueremo tutti i punti pericolosi, e poi entreremo in azione.»

«Avete intenzione di andarci voi?»

«Ma certo. E tu mi accompagnerai.»

«Con quante probabilità di cavarcela?»

«Buone probabilità. Altrimenti non mi ci metterei. È senz’altro un’impresa pericolosa, Ned, ma non sopravvalutare i rischi. Abbiamo appena cominciato a esplorare il labirinto. Tra poco lo conosceremo meglio.»

Rawlins ci pensò un momento. «Muller non aveva ricognitori» disse infine. «Come c’è riuscito?»

«Non lo so» mormorò Boardman. «Forse è stato fortunato, eccezionalmente fortunato… ma non ci credo.»

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