Nel campo della zona F, Boardman si era preparato un piccolo nido confortevole, tutto per sé. Sotto la cupola di un bianco latteo si era riservato un angolo privato, dove aveva sistemato un termoregolatore, un soppressore di gravità e perfino un mobile-bar pieno di liquori. Acquavite e altre raffinatezze non mancavano mai. Dormiva su un materasso gonfiabile, coperto da una trapunta rossa in cui erano incorporati fili elettrici per il riscaldamento.
Greenfield entrò. «Abbiamo perso un altro ricognitore, signore» disse bruscamente. «Nelle zone interne ne rimangono soltanto tre.»
Boardman accese una sigaretta. «Muller distruggerà anche quelli?»
«Temo di sì. Conosce le vie di accesso molto meglio di noi. Le tiene tutte sotto controllo.»
«E non avete provato a mandarne qualcuno in quelle non ancora esplorate?»
«Due, signore. E li abbiamo persi.»
«Allora bisognerà mandarne molti, tutti insieme, sperando che qualcuno riesca a sfuggire alla sorveglianza di quel demonio. Il ragazzo non ce la fa più a stare in quella gabbia. Cambiate il programma. Il cervello elettronico può escogitare nuove tattiche, se glielo si chiede. Vediamo un po’… una ventina di ricognitori che partano simultaneamente…»
«Ce ne sono rimasti soltanto tre» disse Greenfield.
«E come mai ci siamo ridotti a questo punto? Chiamate Hosteen! Ditegli di far lavorare le macchine! Voglio che costruisca cinquanta ricognitori prima di domattina. No, meglio ottanta. Restare senza ricognitori. Questa è idiozia, Greenfield!»
Buttò fuori due o tre boccate di fumo, furiosamente, e ordinò l’acquavite, un liquore denso, forte e viscoso, distillato dai padri Prolepticalisti su Deneb XIII. La situazione diventava sempre più irritante. Si sentiva sul punto di perdere la visione d’assieme, e questo, per lui, era un difetto imperdonabile. La delicatezza di quella missione cominciava a dargli sui nervi. Tutti quei passi minuziosi, quelle sottili complicazioni, quell’ansioso avvicinarsi e allontanarsi dalla mèta. Rawlins in gabbia. Rawlins e i suoi scrupoli morali. Muller e la sua visione nevrotica dell’Universo. Gli animaletti che mordevano i calcagni e intanto spiavano ansiosamente la gola. I trabocchetti che i maledetti costruttori della città avevano ideato. E gli esseri extra-galattici in attesa, con gli occhi larghi come piatti, e la loro radio-sensibilità, esseri per i quali perfino un Richard Muller valeva poco più di un vegetale. Una minaccia che incombeva su tutto.
Con un gesto brusco, Boardman si collegò nuovamente con Ned. Lo schermo inquadrò il giovane nel chiarore lunare, imprigionato dalle sbarre curve e circondato da piccoli musi pelosi irti di zanne.
«Ned?» chiamò. «Stiamo mandandoti i ricognitori, ragazzo mio. Fra cinque minuti ti tireremo fuori da quella stupida gabbia. Sentito? Cinque minuti.»
Rawlins era impegnatissimo.
Era incredibile: il numero di quelle piccole bestie pareva infinito. S’infilavano attraverso le sbarre, senza sosta, a due, tre alla volta, donnole, furetti, visoni, ermellini o che altro diavolo fossero, tutti denti e occhi. Ma si cibavano di carogne, non di creature vive. Gli si affollavano attorno, sfregandogli le caviglie con la loro pelliccia ruvida, graffiandolo con gli artigli, tormentandolo a morsi.
Lui li calpestava. Si accorse subito che piantando il tacco in un punto particolare, appena sotto la nuca, era possibile spezzare facilmente la colonna vertebrale delle bestie. Poi, con un rapido calcio, mandava a finire la sua vittima in un angolo della gabbia, dove gli altri si precipitavano subito, alla rinfusa. Erano anche cannibali. Rawlins lavorava ormai a ritmo accelerato: voltarsi, schiacciare, tirare un calcio. Schiacciare, schiacciare, schiacciare…
I morsi e i graffi intanto si moltiplicavano.
Durante i primi cinque minuti non ebbe quasi il tempo di respirare, ma riuscì a sbarazzarsi di almeno venti assalitori. In fondo alla gabbia, si era formato un mucchio di bestie morte, che i compagni si disputavano per ricavarne i bocconi più teneri. Infine, tutti gli animali vivi che ancora c’erano nella gabbia furono occupati sul mucchio di carogne. Fuori non se ne vedevano altri, e Rawlins ebbe un momento di respiro. Si aggrappò a una sbarra con entrambe le mani e alzò la gamba sinistra per esaminare i danni subiti. Chissà se conferiscono la Croce Stellare anche a chi muore di rabbia galattica? si chiese. La gamba sanguinava da migliaia di piccole ferite, non gravi, ma dolorose. A un tratto capì perché quei divoratori di carogne si erano precipitati su di lui. In quella breve pausa, aveva avuto il tempo di inspirare profondamente e aveva sentito il puzzo caratteristico della carne in putrefazione. Gli sembrava quasi di vedere una grossa carogna, col ventre squarciato a mostrare i visceri rossi e appiccicosi.
Ma lì non c’era niente di marcio. Rawlins capì di essere vittima di qualche illusione sensoriale: un trabocchetto per l’olfatto messo in azione dalla gabbia, che diffondeva il puzzo di carne in decomposizione. Perché? Evidentemente per attirare all’interno l’orda di «spazzini». Una forma raffinata di tortura. O forse era opera di Muller, che aveva liberato l’odore da poco distante.
Un altro branco di animali attraversava correndo la piazza, dirigendosi verso la gabbia. Erano un po’ più grossi dei precedenti, ma anche questi riuscivano a passare tra le sbarre, e le loro zanne luccicavano minacciose sotto la luna. Rawlins agguantò tre o quattro delle bestie ancora vive che gli stavano intorno e le lanciò fuori, a sette, otto metri di distanza. Bene. I nuovi venuti si fermarono di colpo, slittando sul selciato, e balzarono sui corpi che si dibattevano negli spasimi dell’agonia. Soltanto pochi si preoccuparono di entrare nella gabbia, ma non tutti insieme, e Rawlins ebbe modo di afferrarli a uno a uno e ributtarli fuori. Se le cose continuavano così, sarebbe forse riuscito a sbarazzarsi di tutti. Ma bisognava che non ne giungessero altri di rincalzo.
Finalmente, non ci furono altri arrivi. Ned aveva già ucciso un’ottantina di animali, ormai, e l’odore del sangue fresco copriva il lezzo artificiale di carne in decomposizione, le gambe gli dolevano per lo sforzo di quella carneficina, i pensieri gli turbinavano vorticosamente nel cervello. Ma infine la notte tornò tranquilla. I corpi, alcuni ancora coperti di pelliccia, altri ridotti ormai a scheletri spolpati, giacevano in ampio arco davanti alla gabbia. Una pozza di sangue denso e scuro si allargava per una decina di metri quadrati. Gli ultimi sopravvissuti, rimpinzati e soddisfatti, se n’erano andati senza degnare di uno sguardo il prigioniero. Stanco morto, esausto, con una gran voglia di piangere e al tempo stesso di ridere, Rawlins si aggrappò ancora alle sbarre. La gamba insanguinata gli pulsava. Sentì il fuoco diffondersi in tutto il suo corpo e immaginò microorganismi sconosciuti che partivano all’assalto, trasportati dal suo sangue.
Tre grossi animali puntarono sulla gabbia da tre direzioni diverse. Avevano l’andatura del leone e la corporatura del cinghiale, le zampe tozze, il dorso a punta, e dovevano pesare almeno un quintale. La testa era allungata, con una forma piramidale, la bocca era piccola e bavosa, gli occhi sembravano fessure, ed erano quattro, due per parte, appena sotto l’attaccatura delle orecchie irregolari. Le zanne superiori, ricurve, sporgevano verso il basso, incrociandosi coi due canini acuminati che spuntavano dalle mascelle poderose. Gli animali annusarono per un poco i cadaveri sparsi attorno, ma si capiva chiaramente che non erano abituati a cibarsi di carogne: cercavano carne viva, disprezzando i corpi mutilati e inanimati. Quando ebbero terminata la loro ispezione, si girarono per fissare Rawlins. Per la prima volta, Ned apprezzò la sicurezza della gabbia. Sarebbe stato terribile trovarsi fuori, esausto com’era, e con quelle tre fiere che vagavano per la città in cerca di cibo.
Ma in quell’istante, c’era da aspettarselo, le sbarre cominciarono a scorrere.