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Townsend, il sensale di pecore che aveva portato alla fattoria della Valle di Mezzo il messaggio di Ogion, si presentò un pomeriggio alla casa del mago.

«Intendete vendere le capre, adesso che Lord Ogion è morto?»

«È una possibilità», rispose Tenar, senza compromettersi. In effetti si era chiesta come sarebbe vissuta, se fosse rimasta a Re Albi. Come tutti i maghi, Ogion veniva mantenuto dalle persone che aiutava con il suo Potere: nel suo caso, tutti gli abitanti di Gont. Aveva solo da chiedere, e la gente era ben lieta di dargli l’occorrente: un affare vantaggioso, in cambio dell’amicizia di un mago. Ma Ogion non aveva mai bisogno di chiedere. Anzi, in genere doveva regalare ad altri il superfluo: alimenti, vestiti, attrezzi, animali e tutti gli altri oggetti, necessari o decorativi che gli venivano offerti, o semplicemente lasciati davanti alla porta. «Che cosa me ne faccio?» chiedeva, perplesso, con le braccia piene di galletti irritati e starnazzanti, o di iarde di stoffa, o di vasi di barbabietole in agro.

Ma Tenar aveva lasciato nella Valle di Mezzo i suoi mezzi di sostentamento. Quando era partita in tutta fretta da casa, non si era chiesta quanto sarebbe durata la sua assenza. Non aveva portato con sé i sette pezzi d’avorio che erano il tesoro di Selce; del resto, nel villaggio, quel denaro non le sarebbe servito a nulla, tranne che a comprare un terreno o qualche grosso animale, o per trattare con qualche mercante di Porto Gont che portava pellicce di pellawi o seta di Lorbanery ai ricchi contadini e ai piccoli signori di Gont. La fattoria di Selce dava tutto quel che occorreva a lei e a Therru per vivere e per vestirsi; invece, le sei capre di Ogion, i suoi fagioli e le sue cipolle erano soprattutto un divertimento, e non una necessità. Fino a quel giorno era vissuta contando sulla dispensa di Ogion, sulla generosità della gente del villaggio, che le portava dei doni per rispetto verso Ogion, e sui doni di Zia Muschio. Proprio il giorno prima la strega le aveva detto: «Cara, la covata della mia gallina dal collare bianco si è schiusa e ti porterò due o tre pulcini, quando saranno capaci di trovarsi da mangiare da soli. Il mago non ne voleva, diceva che erano troppo rumorosi e stupidi, ma che casa è, senza qualche gallina che va e viene?»

In effetti, le galline di Muschio entravano e uscivano liberamente, le dormivano sul letto e arricchivano di nuovi odori la stanza fumosa, buia e incredibilmente puzzolente in cui abitava la strega.

«C’è una capretta di un anno, bianca e marrone, che potrebbe diventare una buona capra da latte», disse Tenar, rivolta al sensale dalla faccia affilata.

«Pensavo di prenderle tutte», rispose lui. «Sono cinque o sei, vero?»

«Sei. Sono nel recinto, se volete vederle.»

«Andrò.» Ma non si mosse. Nessuna delle due parti, naturalmente, doveva mostrarsi ansiosa di concludere l’affare.

«L’avete vista, la grande nave che è entrata in porto?»

La casa di Ogion era orientata a nordovest, e da essa si scorgevano soltanto i promontori rocciosi all’imboccatura della baia, chiamati le Braccia della Rupe; tuttavia, da vari punti del villaggio, guardando lungo la ripida strada che conduceva a Porto Gont, si potevano vedere i moli e il porto. Quello di osservare le navi era un tradizionale passatempo di Re Albi. In genere c’era sempre almeno una coppia di vecchi seduta sulla panca dietro la bottega del fabbro, da cui si godeva la vista migliore, e anche se probabilmente, in tutta la loro vita, non avevano mai percorso le quindici miglia di curve e controcurve che portavano al Porto, guardavano l’arrivo e la partenza delle navi come se fosse uno spettacolo strano e insieme familiare, organizzato a loro esclusivo beneficio.

«Da Havnor, ha detto il figlio del fabbro. Era sceso al porto per procurarsi dei lingotti di ferro. È arrivata ieri sera sul tardi. La grande nave viene dal Grande Porto di Havnor, ha detto.»

Probabilmente parlava solo per impedirle di pensare al prezzo delle capre, e l’astuzia del suo sguardo era dovuta forse soltanto al modo in cui erano fatti i suoi occhi. Ma il Grande Porto di Havnor non aveva mai avuto molti rapporti con Gont, isoletta povera e remota, nota solo per i suoi maghi, i suoi pirati e le sue capre; e qualcosa, nelle parole «la grande nave», allarmò Tenar.

«Dicono che a Havnor c’è un re, adesso», continuò il sensale, dandole un’occhiata di traverso.

«Potrebbe essere una buona cosa», commentò Tenar.

Townsend rispose, con un cenno d’assenso: «Potrebbe tenere lontana la marmaglia straniera».

Tenar annuì con un grazioso cenno della sua testa di straniera.

«Ma c’è qualcuno, a Porto Gont, che potrebbe non essere d’accordo.» Il sensale intendeva riferirsi ai capitani pirati di Gont, il cui controllo delle rotte di nordest, negli ultimi anni, era aumentato al punto che molti degli abituali contatti con le Isole Centrali dell’Arcipelago erano stati interrotti; le conseguenze erano state negative per tutti, a Gont, tranne che per i pirati: anche questo non impediva che essi venissero considerati degli eroi da gran parte degli abitanti dell’isola. Per quanto ne sapeva Tenar, suo figlio poteva benissimo essersi imbarcato su una nave pirata, e comunque stare più al sicuro su quella che su un normale mercantile. Meglio essere squalo che aringa, si diceva.

«C’è sempre qualcuno che non è contento, qualunque cosa succeda», rispose Tenar, seguendo meccanicamente le regole della conversazione. Un attimo dopo, tuttavia, decise di porre fine a quello scambio di battute e disse, alzandosi: «Vi mostro le capre. Potete dare loro un’occhiata, ma non so se ne venderemo». Accompagnò il sensale al recinto e lo lasciò solo. Quell’uomo non le piaceva. Non era colpa sua se le aveva portato brutte notizie la prima volta e forse anche la seconda, ma aveva lo sguardo sfuggente, e a lei non piaceva la sua compagnia. Non intendeva vendergli le capre di Ogion. Neppure Sippy.


Dopo che Townsend se ne fu andato a mani vuote, Tenar provò un certo disagio. Gli aveva detto: «Non so se ne venderemo», e si era resa conto che parlargli al plurale era stata una sciocchezza, dato che l’uomo non aveva chiesto di conferire con Sparviero e neppure aveva alluso alla sua presenza come facevano sempre gli uomini che trattavano affari con le donne, soprattutto quando queste ultime si rifiutavano di vendere.

Tenar non sapeva che cosa si dicesse di Ged al villaggio, della sua presenza e della sua assenza. Ogion, distante e silenzioso, e per alcuni versi temuto, era il loro mago e compaesano. Di Sparviero potevano essere orgogliosi, ma solo come nome: l’Arcimago che era vissuto per qualche tempo a Re Albi e aveva fatto cose meravigliose, come vincere in astuzia un drago nelle Novanta Isole e riportare indietro, da qualche luogo lontano, l’Anello di Erreth-Akbe. Però non lo conoscevano. Né Ged conosceva gli abitanti del villaggio. Dal momento in cui era giunto sull’isola non era mai andato al villaggio: solo nella foresta, in luoghi disabitati. Tenar, sino ad allora, ci aveva riflettuto, ma ora capiva che Ged evitava il villaggio esattamente come lo evitava Therru.

Tuttavia, dovevano avere parlato di quell’uomo, nel villaggio. Ma le chiacchiere sulle attività dei maghi non andavano lontano. Erano cose troppo misteriose: la vita degli uomini di Potere era strana e del tutto diversa da quella delle persone normali. «Lascia perdere», aveva sentito dire dagli abitanti della Valle di Mezzo, allorché qualcuno si dava a considerazioni un po’ troppo disinvolte su un lavoratore stagionale venuto da fuori o sul loro mago, Faggio. «Lascia perdere. Lui va per la sua strada, non per la nostra.»

Riguardo poi al fatto che lei, Tenar, fosse rimasta a curare e a servire un simile uomo di Potere, ebbene, anche questo argomento non veniva mai discusso: era un’altra cosa da «lasciar perdere». Lei era andata poche volte al villaggio, e la gente non si era comportata nei suoi confronti né con amicizia né con ostilità. Tutti sapevano che Tenar era vissuta in passato nella casa del tessitore Ventaglio, che era la pupilla del vecchio mago, il quale aveva mandato Townsend dall’altra parte della montagna a cercarla: benissimo. Ma lei era arrivata con quella bambina terribile a vedersi, e chi si sarebbe mai accompagnato a una così, in piena luce? E che tipo di donna poteva essere l’allieva di un mago, che faceva da infermiera a un altro mago? Lì sotto c’era qualche stregoneria, senza dubbio, e forestiera, per giunta. Però, nonostante questo, lei era la moglie di un ricco agricoltore della Valle di Mezzo; anche se adesso lui era morto, e lei era solo la sua vedova. Be’, chi può pretendere di capire il comportamento degli stregoni? Lascia perdere, è meglio…

Quando vide arrivare l’Arcimago di Earthsea, lo raggiunse al cancello e gli disse: «È arrivata una nave dalla città di Havnor».

Ged si bloccò. Accennò a fare un movimento, e subito lo interruppe, ma Tenar lo vide benissimo: per un momento, era stato tentato di voltarsi per fuggire, per scappare via come un topo minacciato da un falco.

«Ged!» esclamò. «Che cosa c’è?»

«Non posso», spiegò lui. «Non posso affrontarli.»

«Chi?»

«I suoi uomini. Gli uomini del re.»

Il suo volto era diventato cinereo, proprio come quando era arrivato sull’isola; si guardava attorno, alla ricerca di un nascondiglio.

Il suo terrore era così immediato e così privo di difese, che Tenar pensò solo a evitargli l’incontro. «Nessuno ti obbliga a vederli», disse. «Se arriverà qualcuno, lo manderò via. Entra in casa, adesso. Sei digiuno da stamattina.»

«C’era un uomo.»

«Era Townsend, venuto a comprare le capre. L’ho mandato via. Vieni!»

Lui la seguì e, quando furono in casa, Tenar chiuse la porta.

«Non possono farti del male, ne sono sicura, Ged. E poi, perché dovrebbero?»

Ged si sedette al tavolo e scosse la testa con ostinazione. «No, no.»

«Sanno che sei qui?»

«Non saprei.»

«Ma di che cosa hai paura?» chiese Tenar, non con ira, ma con l’autorevolezza della ragione.

Lui si passò le mani sul viso, strofinando le tempie e la fronte, e abbassò lo sguardo. «Ero…» mormorò. «Non sono…»

Non riuscì a dire altro.

Tenar lo interruppe. «È tutto a posto, è tutto a posto», lo tranquillizzò. Non volle toccarlo per non accrescere la sua umiliazione con una parvenza di pietà. Era in collera con lui, e per quello che poteva capitargli. «Non è affar loro», disse, «dove ti trovi, o chi sei, e quello che vuoi fare o non vuoi fare! Se vengono come spioni, possono andarsene come curiosi.» Era un detto di Lodola. Tenar comprese che le mancava molto la conversazione con una donna comune, piena di buon senso. «Comunque, chi ha detto che la nave ha a che fare con te? Può darsi che siano venuti semplicemente a combattere contro i pirati. E sarebbe ora che il re si decidesse a farlo… Ho trovato del vino nell’armadio, un paio di bottiglie, e mi chiedo da quanto tempo Ogion le aveva messe via. Penso che un bicchiere di vino farebbe bene a tutt’e due. E anche un po’ di pane e di formaggio. La piccola ha pranzato e poi è andata via con Erica a dare la caccia alle rane; può darsi che per cena ci siano cosce di rana, ma per ora c’è solo pane e formaggio. E vino. Mi chiedo da dove venga, chi l’abbia dato a Ogion, quanti anni possa avere.» Continuò a parlare, chiacchiere di donna che non avevano bisogno di risposta e che impedivano a lui di interpretare nel modo sbagliato un eventuale silenzio, finché non avesse superato la crisi della vergogna, non avesse mangiato qualcosa e bevuto un bicchiere del vecchio, profumato vino rosso.

«È meglio che me ne vada, Tenar», disse Ged. «Finché non avrò imparato a essere quel che sono adesso.»

«Andare dove?»

«Sulla montagna.»

«A vagabondare… come Ogion?» Lo fissò. Si rammentò di quando camminava con Ged lungo le strade di Atuan, e si prendeva gioco di lui: «I maghi chiedono spesso la carità?» E Ged aveva risposto: «Sì, ma cercano sempre di dare qualcosa in cambio».

Gli chiese con cautela: «Per qualche tempo, non potresti andare avanti come mago della pioggia, o come cercatore?» E gli riempi il bicchiere.

Lui scosse la testa. Bevve il vino, poi distolse lo sguardo. «No», disse. «Niente del genere.»

Tenar non gli credette. Avrebbe voluto contraddirlo, protestare: come può essere, come puoi dire questo… come se avessi dimenticato tutto quello che conosci, tutto quello che hai imparato da Ogion e a Roke, e nei tuoi viaggi! Non puoi avere dimenticato le parole, i nomi, i gesti della tua arte. Hai imparato il tuo Potere, te lo sei guadagnato! Si trattenne dal dirglielo, ma mormorò: «Non capisco. Come può, tutto questo…»

«Un bicchiere d’acqua», spiegò Ged, inclinando un poco il bicchiere, come per versare il vino. E aggiunse, dopo un momento: «Ma non capisco perché mi ha riportato indietro. La gentilezza dei giovani è spesso crudele… Così, sono qui, e devo andare avanti, finché non ritornerò laggiù».

Tenar non capì esattamente quel che voleva dire, ma colse un accento di biasimo o di rimpianto che, in lui, la stupì e la irritò. Disse sostenuta: «È stato Kalessin a riportarti qui».

L’interno della casa era buio, con la porta chiusa: l’unica luce era quella del tardo pomeriggio, che filtrava dalla piccola finestra a occidente. Tenar non riusciva a cogliere l’espressione di Ged; ma questi levò il bicchiere nella sua direzione, e, con un pallido sorriso, bevve.

«Gran vino», sentenziò. «Ogion deve averlo avuto da qualche grosso mercante o da un pirata. Non ne ho mai bevuto uno così prelibato, neppure a Havnor.» Rigirò fra le dita il tozzo bicchiere, e lo fissò. «Mi darò un altro nome», disse, «e andrò dall’altra parte della montagna, ad Armouth e nella Foresta Orientale, dove sono nato. C’è la raccolta del fieno. Cercano sempre aiuto, all’epoca della fienagione e del raccolto.»

Tenar non rispose. Nelle condizioni in cui era Ged, fragile e malaticcio, gli avrebbero dato quel genere di lavoro solo per carità o per umiliarlo; e lui, in qualsiasi caso, non era in grado di svolgerlo.

«Le strade non sono più quelle di una volta», disse poi. «Negli ultimi anni si sono riempite di ladri e di bande di sfaccendati. Marmaglia straniera, come dice il mio amico Townsend. È sconsigliabile viaggiare da soli.»

Guardandolo nella penombra per controllare come accoglieva quella notizia, Tenar si chiese che cosa provasse Ged di fronte alla paura, una sensazione del tutto nuova per lui dato che, un tempo, nessun essere umano poteva spaventarlo.

«Ogion, però…» cominciò a dire Ged, e poi s’interruppe, ricordandosi solo allora che Ogion era un mago.

«Nella parte meridionale dell’isola», proseguì Tenar, «ci sono molti pascoli. Pecore, capre, mucche. Le portano sui monti prima della Grande Danza, e le pascolano lassù fino alle piogge. Hanno sempre bisogno di pastori.» Bevve un sorso del vino di Ogion. Le parve di avere nuovamente nella bocca il nome del drago. «Ma perché non puoi stare qui?»

«Non nella casa di Ogion. È il primo luogo dove verranno a cercarmi.»

«E anche se vengono? Che cosa vogliono da te?»

«Che torni a essere quello che ero.»

La sofferenza della sua voce la raggelò.

Tenar rimase in silenzio, cercando di ricordare che cosa si provasse a essere potente, a essere la Divorata, la sacerdotessa delle Tombe di Atuan, e poi a perdere tutto quel Potere, a gettarlo via, a diventare semplicemente Tenar, solo se stessa. Pensò a che cosa si provava a essere una donna nella primavera della vita, con i figli e un marito, e poi a perdere tutto, a diventare una vedova anziana e senza Potere. Ma non riuscì a comprendere la vergogna di Ged, il tormento della sua umiliazione. Forse solo un uomo poteva provarli. Una donna era abituata alle umiliazioni.

O forse aveva ragione Zia Muschio: una volta sparita la polpa, il guscio era vuoto.

Pensieri da strega, si disse. Allora, per distogliere la propria mente — e quella di Ged — da quel tipo di considerazioni, e perché il vino forte e profumato la rendeva ardita, disse, ridendo: «Sai, pensavo a Ogion che mi insegnava, e a me che invece di proseguire mi sono trovata un marito… Quel giorno, il giorno del mio matrimonio, mi sono detta: Ged se la prenderà, quando lo verrà a sapere!»

«Infatti», rispose lui.

Lei attese che continuasse.

Ged continuò: «Mi sono irritato».

«Incollerito», disse Tenar.

«Incollerito», confermò lui.

Le riempì il bicchiere.

«Avevo la capacità di riconoscere il Potere, allora», disse Ged. «E tu… ne risplendevi, in quel luogo terribile, il Labirinto, in quell’oscurità…»

«Dimmi, allora, che cosa avrei dovuto fare del mio Potere e delle conoscenze che Ogion aveva cercato di darmi?»

«Usarli», rispose Ged.

«E come?»

«Come viene usata l’arte magica.»

«Usata da chi?»

«Dai maghi», rispose Ged, un po’ a fatica.

«Magia sono dunque le arti e le pratiche dei maghi e dei sapienti?»

«Che altro significato può avere?»

«Non può davvero averne altri?» chiese Tenar.

Ged rifletté su quelle parole, e una o due volte incrociò lo sguardo con quello di Tenar.

«Quando Ogion mi insegnava», disse Tenar, «qui, accanto a questo stesso focolare, le parole della Lingua Vera erano forti e facili sulle mie labbra come sulle sue. Era come imparare di nuovo una lingua che parlavo prima di nascere. Ma il resto, i miti, le Rune di Potere, gli incantesimi, le leggi, l’evocazione delle forze, tutto era come morto per me. Una lingua straniera. A quell’epoca pensavo che avrei potuto vestirmi da guerriero, con la lancia e la spada e le piume sull’elmo, ma che non sarebbe stato adatto a me, vero? Che cosa avrei fatto della spada? Sarebbe bastata a fare di me un eroe? Mi sarei solamente trovata in abiti non adatti a me, e non sarei nemmeno riuscita a camminare.»

Bevve un sorso di vino.

«Perciò mi sono tolta tutto», concluse, «e mi sono rimessa i miei vestiti.»

«Che cosa ha detto Ogion, quando lo hai lasciato?»

«Che cosa diceva Ogion, in genere?»

A queste parole, sulle labbra di Ged ricomparve l’ombra di un sorriso.

Tenar annuì.

Dopo qualche istante, la donna proseguì, a voce più bassa: «Mi aveva preso come allieva perché eri stato tu a portarmi. Non avrebbe voluto avere altri apprendisti dopo di te, e non avrebbe mai preso una ragazza, se non per tua richiesta. Ma mi voleva bene. Mi trattava con rispetto. E io lo amavo e lo rispettavo. Tuttavia non poteva darmi quello che desideravo, e io non potevo prendere quello che aveva da darmi. Lui l’aveva capito. Eppure, Ged… quando ha visto Therru è stato diverso. Il giorno prima di morire. Tu dici — Muschio dice — che il Potere riconosce il Potere. Non so che cosa abbia visto in lei, ma Ogion mi ha detto: ‘Insegnale!’ e ha detto anche…»

Ged attese.

«Ha detto: ‘Impareranno a temerla’», continuò la donna. «E anche: ‘Insegnale tutto. Non Roke’. Non so che cosa intendesse dire. Come posso saperlo? Se fossi rimasta qui con lui, potrei saperlo, potrei essere in grado di insegnarle. Ma ho pensato: arriverà Ged, e lui saprà. Saprà che cosa insegnarle, che cosa deve sapere la mia povera piccola maltrattata.»

«Non lo so», rispose Ged, con voce molto bassa. «Ho visto… Nella bambina vedo solo il male che le è stato fatto.»

Bevve tutto il vino rimasto nel bicchiere.

«Non ho niente da darle», disse.

Qualcuno bussò alla porta, piano. Ged trasalì immediatamente e, con lo stesso scatto del corpo, cercò un posto dove nascondersi.

Tenar andò alla porta, e fiutò l’odore di Muschio ancor prima di riconoscerla.

«Uomini al villaggio», bisbigliò la vecchia, in tono grave. «Gente elegante, venuta dal porto, dalla grande nave che è giunta dalla città di Havnor, dicono. Venuta a cercare l’Arcimago, dicono.»

«Non desidera vederli», disse Tenar, debolmente. Non aveva alcuna idea sul da farsi.

«Ne ero sicura», disse la strega. E dopo una pausa: «Dov’è, allora?»

«Sono qui», rispose Sparviero, avvicinandosi alla porta e spalancandola. «Hanno già saputo dove mi trovo?» chiese.

«Non da me», rispose Muschio.

«Se dovessero venire qui», osservò Tenar, «basterebbe dire loro di andarsene. Dopotutto, sei l’Arcimago.»

Né Ged né Muschio, però, badavano a lei, in quel momento.

«Non verranno certamente a cercarvi a casa mia», disse Muschio. «Venite pure, se volete.»

Ged la seguì, e rivolse un’occhiata a Tenar, ma senza parlare.

«Ma che cosa devo dire a quegli uomini, se vengono qui?» chiese Tenar.

«Non dirgli niente, cara», rispose la strega.


Erica e Therru fecero ritorno dallo stagno con un bottino che ammontava a sette rane in una borsa di rete, e Tenar si mise subito all’opera per tagliare le cosce, spellarle e prepararle per la cena delle cacciatrici. Aveva appena terminato, quando sentì giungere alcune voci dall’esterno e, alzando gli occhi verso la porta aperta, vide alcune persone ferme sulla soglia: uomini con il cappello in testa, luccichio di oro al collo, riflesso di gemme alle dita. «La signora Goha?» chiese uno di loro, in tono cortese.

«Oh, entrate!» rispose lei.

Entrarono: erano cinque uomini, che sembravano almeno il doppio del loro numero, nella piccola stanza dal soffitto basso. Erano tutti alti, e certamente erano grandi signori. Diedero un’occhiata attorno, e anche Tenar vide quel che vedevano i loro occhi.

Vedevano una donna in piedi accanto al tavolo, con in mano un coltello lungo e affilato. Sul tavolo un tagliere con, da un lato, un mucchietto di cosce di rana biancastre, dall’altro un mucchietto di rane morte, sporche di sangue. Nell’ombra, dietro la porta, qualcuno si nascondeva: una bambina, ma una bambina deforme, con solo mezza faccia e una mano rattrappita. Su un pagliericcio, sotto l’unica finestra della casa, una giovane donna, alta e ossuta, li fissava a bocca aperta. Aveva le mani sporche di fango, e la sua gonna bagnata puzzava di acqua stagnante. Quando si accorse di essere guardata, si nascose la faccia dietro la gonna, e così facendo si scoprì le gambe fino alla coscia.

Distolsero lo sguardo da lei e dalla bambina dietro la porta, e perciò non rimase loro altro da guardare che la donna con le rane.

«Signora Goha», ripeté uno di loro.

«Sì, sono io», rispose Tenar.

«Veniamo da Havnor, da parte del re», disse l’uomo dalla voce cortese. Aveva la faccia in ombra, e Tenar non riuscì a distinguerla. «Cerchiamo l’Arcimago Sparviero di Gont. Re Lebannen sarà incoronato all’equinozio d’autunno, e vorrebbe avere con sé l’Arcimago, suo signore e amico, durante i preparativi dell’incoronazione, nonché essere incoronato da lui, se accetta.»

L’uomo aveva parlato in tono solenne, ufficiale, come se si fosse rivolto a una dama di corte. Indossava semplici calzoni al ginocchio, di cuoio leggero, e una camicia di lino impolverata per la lunga arrampicata da Porto Gont, ma era di tela fine, con ricami d’oro intorno al collo.

«L’Arcimago non c’è», rispose Tenar.

Due ragazzini del villaggio fecero capolino alla porta, si tirarono indietro, si affacciarono di nuovo e poi corsero via schiamazzando.

«Forse potete dirci dove si trova in questo momento, signora Goha», insistette l’uomo.

«No, non posso dirlo.»

Tenar li osservò. A tutta prima, aveva avuto paura di loro — forse il panico di Ged si era trasmesso anche a lei, oppure la vista di quegli estranei le aveva causato una sorta di sciocca apprensione — ma ormai il timore si stava dileguando. Dopotutto, si trovava nella casa di Ogion, e sapeva bene perché Ogion non avesse mai avuto paura della gente importante.

«Dovete essere stanchi, dopo tanto cammino», disse loro. «Non volete sedervi? Ho del vino. Lavo solo i bicchieri.»

Prese il tagliere e lo posò sull’acquaio, mise le cosce di rana nella dispensa, buttò il resto nel secchio degli avanzi, che Erica portava poi ai maiali del tessitore del villaggio, si lavò le mani e le braccia nel catino, lavò il coltello, versò dell’acqua pulita e sciacquò i due bicchieri in cui avevano bevuto lei e Ged. Nella credenza c’erano un altro bicchiere e due tazze di terracotta, senza manico; li posò sul tavolo e servì il vino agli ospiti: nella bottiglia ne era rimasto a sufficienza per tutti. Gli uomini si erano scambiati un’occhiata e non si erano seduti. La scarsità di sedie li giustificava. Le regole dell’ospitalità, però, imponevano loro di accettare quel che veniva offerto. Ciascuno prese da lei il bicchiere o la tazza, mormorando un ringraziamento. Levarono il bicchiere verso di lei e bevvero.

«Per il mio nome!» esclamò uno di loro, sorpreso.

«Vino delle Andrades… La vendemmia tardiva», disse un altro, sgranando gli occhi.

Il terzo scosse la testa. «Andrades, Anno del Drago», disse con reverenza.

Il quarto annuì e bevve un secondo sorso, impressionato.

Il quinto, che era quello che aveva parlato per primo, sollevò di nuovo la tazza in direzione di Tenar e disse: «Voi ci accogliete con un vino da re, signora».

«Era di Ogion», rispose lei. «Questa era la casa di Ogion, e adesso è la casa di Aihal. Lo sapevate, signori?»

«Sì, signora. Il re ci ha indirizzato a questa casa, convinto che l’Arcimago venisse qui; se n’è ancor più convinto quando a Roke e a Havnor è giunta notizia della morte del suo maestro. Ma è stato un drago a portare l’Arcimago da Roke a qui. E, da allora, da lui non è giunta parola, né a Roke né al re. E sta molto a cuore al re, ed è nell’interesse di tutti sapere che l’Arcimago è qui, e che sta bene. Potete dirci se è venuto qui, signora?»

«Non posso dirlo, mi dispiace», rispose Tenar, ma era una risposta un po’ troppo ambigua, e per di più era la seconda volta che la dava: anche gli uomini l’avevano notato. Raddrizzò le spalle e chiarì: «Intendo dire che non posso parlare. Penso che se l’Arcimago vorrà venire, verrà, e che se invece non vorrà farsi trovare, non lo troverete. Non penso che andreste a cercarlo contro la sua volontà».

Il più vecchio di loro, e il più alto, disse: «La nostra volontà è quella del re».

E quello che aveva parlato per primo aggiunse, in tono conciliante: «Noi siamo solo messaggeri. Quel che c’è tra il re e l’Arcimago riguarda esclusivamente loro due. Noi vogliamo solo portare il messaggio. E la risposta».

«Se potrò, gli farò pervenire il vostro messaggio.»

«E la risposta?» chiese il più vecchio del gruppo.

Tenar non disse niente, e allora l’uomo che aveva parlato per primo aggiunse: «Rimarremo qui alcuni giorni, al castello del Signore di Re Albi, il quale, saputo dell’arrivo della nostra nave, ci ha offerto la sua ospitalità».

Chissà perché, Tenar ebbe l’impressione che fosse scattata una trappola o si fosse stretto un cappio. La vulnerabilità di Ged, la debolezza dell’Arcimago l’avevano contagiata. Non avendo altre armi, si difese con la sua maschera, il suo aspetto di semplice massaia di mezz’età. Ma era davvero una maschera? Era anche la verità, e quel genere di cose era ancor più sottile dei travestimenti e delle metamorfosi dei maghi. Piegò la testa da un lato ed esclamò: «Sarà molto più adatto alle vostre signorie. Come vedete, viviamo molto semplicemente, qui, come il vecchio mago».

«E bevete vino delle Andrades», disse quello che aveva riconosciuto l’annata: un bell’uomo, dagli occhi intelligenti e dal sorriso simpatico. Tenar, in ossequio alla sua parte, abbassò gli occhi. Ma quando si accomiatarono e uscirono, capì che, qualunque cosa sembrasse o facesse, se ancora non sapevano che lei era Tenar dell’Anello, presto lo avrebbero saputo; così avrebbero avuto la conferma che conosceva l’Arcimago e che poteva guidarli a lui, se davvero intendevano cercarlo.

Quando se ne furono andati, Tenar trasse un profondo respiro di sollievo, e così fece Erica, che finalmente chiuse la bocca, dopo averla tenuta aperta per tutto il tempo della permanenza di quegli uomini.

«Non lo farò mai», disse, in tono di completa soddisfazione, e corse a vedere dove fossero finite le capre.

Therru uscì dall’angolo buio dietro la porta, dove si era barricata contro gli estranei proteggendosi con il bastone di Ogion, il bastone di ontano di Tenar e il suo bastone di nocciolo. Camminava a piccoli passi, di lato, come faceva un tempo, prima che si trasferissero in casa di Ogion: senza alzare la faccia, la testa piegata contro la spalla per non mostrare la cicatrice.

Tenar si inginocchiò per prenderla tra le braccia. «Therru», la rassicurò, «non intendono farti del male.»

Ma la bambina non voleva guardarla in faccia. Tra le braccia di Tenar, era rigida come un pezzo di legno.

«Se lo preferisci, non li farò mai più entrare in casa.»

Dopo qualche minuto, la bambina si scosse leggermente e chiese con voce spessa, roca: «Che cosa vogliono fare a Sparviero?»

«Niente», rispose Tenar. «Non certo del male! Sono venuti per… per onorarlo.»

Ma cominciava a capire che cosa significassero per Ged i tentativi di onorarlo: la negazione della sua perdita, la negazione del rimpianto di ciò che aveva perduto. Quegli uomini volevano costringerlo a recitare una parte che non era più la sua.

Quando Tenar la lasciò, Therru aprì l’armadio e prese la scopa di Ogion. Poi, scrupolosamente, pulì il pavimento dove si erano fermati gli uomini di Havnor e spazzò via le loro impronte, buttando fuori della stanza — fuori della soglia — la polvere delle loro scarpe.

Nel guardare la bambina al lavoro, Tenar prese la decisione.

Si avvicinò allo scaffale dove Ogion teneva i suoi tre grandi libri e cominciò a frugare. Trovò varie penne d’oca e una boccetta d’inchiostro, mezzo asciutta, ma neppure un pezzo di carta o di pergamena. Fece una smorfia, perché le dispiaceva danneggiare una cosa preziosa come un libro, ma piegò e staccò una sottile striscia di carta dall’ultima pagina, bianca, del libro delle Rune. Si sedette al tavolo, intinse la penna e cominciò a scrivere. Né l’inchiostro né le parole erano facili a scorrere. Non aveva più avuto occasione di scrivere da quando si era seduta l’ultima volta a quel tavolo, un quarto di secolo prima, con Ogion che la sorvegliava da dietro le spalle, e le insegnava le Rune hardiche e le Grandi Rune di Potere. Scrisse: va’ alla fattoria querce in valle di mezzo, da rivochiaro. Di’ Goha mandato te per curare orto e pecore.

Per rileggere il messaggio, le occorse quasi lo stesso tempo che aveva impiegato per scriverlo. Nel frattempo, Therru aveva finito di spazzare e la guardava con grande attenzione.

Aggiunse una sola parola: stanotte.

«Dov’è Erica?» chiese poi alla bambina, piegando due volte su se stessa la strisciolina di carta. «Deve portare questo biglietto a casa di Zia Muschio.»

Avrebbe voluto andarci di persona, per vedere Ged, ma non voleva correre rischi: forse quegli uomini la sorvegliavano nella speranza che li conducesse fino a lui.

«Vado io», sussurrò Therru.

Tenar la guardò, aggrottando le sopracciglia.

«Dovrai andare da sola, Therru. Ed è in fondo al villaggio.»

La bambina annuì.

«Dallo solo a lui!» raccomandò Tenar.

La bambina annuì di nuovo.

Tenar infilò il biglietto nella tasca della bambina, la abbracciò, la baciò e poi la lasciò andare. Therru si allontanò, senza zoppicare e senza nascondere la faccia, ma a testa alta, correndo senza impedimenti, volando, pensò Tenar, e la guardò svanire nella luce della sera, oltre la cornice buia della porta, volando come un uccello, come un drago, come una bambina libera.

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