IL »DELFINO«

Non volle lasciare la bambina, non volle affidarla a nessuno. A bordo della nave erano tutti uomini. Solo dopo lungo tempo, Tenar riuscì a capire che cosa dicevano, che cosa avevano fatto, che cosa stava succedendo. Quando comprese chi era il giovanotto che l’aveva aiutata, quello che in un primo momento le era sembrato suo figlio, le parve che tutto fosse sempre stato chiaro, fin dall’inizio, ma lei non ci aveva pensato. Per un lungo periodo, non era stata in grado di pensare a niente.

Il giovane, che era sceso sulla banchina, ritornò a bordo e si fermò vicino alla passerella a parlare con un uomo dai capelli bianchi, che, a giudicare dal suo aspetto, doveva essere il comandante della nave. Guardò Tenar, seduta sulla tolda, tra la murata della nave e un grosso argano. Dopo la lunga giornata di cammino, la stanchezza aveva sopraffatto la paura di Therru; la bambina si era addormentata stretta a Tenar, con il suo zaino per cuscino e il mantello come coperta.

Tenar si alzò lentamente, e il giovane si avvicinò subito. Lei si aggiustò il vestito e i capelli. «Sono Tenar di Atuan», disse. Il giovane non rispose. Tenar continuò: «Voi dovete essere il re».

Era molto giovane, più giovane di suo figlio Scintilla. Non doveva avere più di vent’anni. Ma aveva un’espressione che non era affatto giovane, qualcosa negli occhi che le fece pensare: quest’uomo dev’essere passato attraverso il fuoco.

«Mi chiamo Lebannen di Enlad, signora», disse, e fece per inchinarsi, o addirittura per piegare il ginocchio.

«Non a me!» esclamò lei. «Né io a voi!»

Lui rise, sorpreso, e le tenne le mani, sorridendole. «Come sapevate che vi cercavo? Venivate da me, quando quell’uomo…?»

«No. Stavo fuggendo… da lui… da alcuni malfattori. Volevo tornare a casa, nient’altro.»

«Ad Atuan?»

«Oh, no! Alla mia fattoria. Nella Valle di Mezzo. Passavo per Gont.» Rise: una risata mista a lacrime. Adesso poteva piangere. Lasciò le mani del re per asciugarsi gli occhi.

«Dov’è la Valle di Mezzo?» chiese il re.

«A sudest, dietro quel promontorio. Il porto si chiama Valmouth.»

«Vi portiamo noi», disse il re, lieto di poterle fare un favore.

Lei sorrise, asciugandosi gli occhi, e gli rivolse un cenno d’assenso.

«Un bicchiere di vino. Qualcosa da mangiare, un po’ di riposo», disse il re, «e un letto per la bambina.» Il comandante della nave, che ascoltava con discrezione, diede gli ordini. Il marinaio calvo che Tenar aveva visto per primo (sembrava passata un’eternità) fece per chinarsi su Therru, ma Tenar si mise tra lui e la bambina. Non voleva permettergli di toccarla. «La porto io», disse Tenar, con voce tesa.

«C’è la scaletta, signora. Ci penso io», ripeté il marinaio, ma Tenar, anche se capiva che voleva soltanto usarle una gentilezza, non poteva lasciare che la toccasse.

«La porto io», disse allora il re, e, dopo aver rivolto un’occhiata a Tenar per chiederle il permesso, si chinò, prese in braccio la bambina addormentata, la portò fino al boccaporto e poi giù lungo la scaletta. Tenar lo seguì.

Il re la posò su una cuccetta, in una piccola cabina, in modo goffo e tenero insieme. Coprì Therru con il mantello. Tenar lo lasciò fare.

In una cabina più grande, che occupava tutta la poppa della nave, con una lunga finestra che dava sulla baia illuminata dall’ultima luce del giorno, il re la invitò ad accomodarsi a un lungo tavolo di quercia. Prese un vassoio dalle mani del giovane mozzo che l’aveva portato, versò del vino rosso in pesanti bicchieri di cristallo e offrì a Tenar dolci e frutta.

Lei assaggiò il vino.

«È molto buono, ma non è l’Anno del Drago», osservò.

Lui la guardò con stupore, preso alla sprovvista come un ragazzino.

«È di Enlad, non delle Andrades», disse gentilmente.

«Ma è buonissimo», lo rassicurò Tenar, bevendone un altro sorso. Prese un dolce. Era di pasta frolla, con tanto burro, ma il sapore non era stucchevole. L’uva, di colore verde ambrato, era leggermente asprigna. Il gusto intenso del cibo e del vino faceva pensare ai cavi con cui si ormeggia una nave: ancorarono di nuovo Tenar al mondo, alla sua mente.

«Mi ero davvero spaventata», disse, per scusarsi. «Penso che presto ritornerò a essere me stessa. Ieri… anzi, oggi, questa mattina… hanno messo una… fattura», le era quasi impossibile dire la parola. Riprese, balbettando: «Una ma… maledizione su di me. Mi ha tolto la parola e la ragione. Siamo scappate dalla maledizione, ma siamo incappate proprio nell’uomo, nell’uomo che…» Fissò con disperazione il giovane seduto davanti a lei. Con il suo sguardo grave, questi le diede la forza di proseguire. «Era una delle persone che hanno mutilato la bambina. Lui e i genitori. L’hanno violentata, percossa e poi l’hanno gettata nel fuoco; sono cose che succedono, maestà. Succedono ai bambini. E quell’uomo continua a seguirla, per farle del male. E…»

S’interruppe e bevve un sorso di vino, cercando di assaporarne il gusto.

«E cosi sono corsa da voi. Verso il porto.» Si guardò attorno: le basse travi scolpite della cabina, il tavolo lucido, il vassoio d’argento, il volto affilato e tranquillo del giovane re. Aveva i capelli bruni e soffici, la pelle color bronzo; era vestito con semplicità ed eleganza, ma senza collari, anelli o altri segni esteriori del Potere. Aveva l’aspetto che deve avere un re, si disse Tenar.

«Mi spiace di averlo lasciato andare via», disse il re. «Ma lo ritroveremo. Chi ha messo l’incantesimo su di voi?»

«Un mago.» Non volle dire il nome. Non voleva pensarci. Voleva lasciarsi tutto alle spalle. Né punizioni né ricerche. Che si tenessero il loro odio; a lei bastava stare lontana da loro, dimenticare.

Lebannen non insistette, ma chiese: «Nella vostra fattoria sarete al sicuro da quegli uomini?»

«Penso di sì. Se non fossi stata così stanca, così confusa dalla fff… dalla fff… così confusa nella mente, al punto di non riuscire a pensare, non avrei avuto paura di Faina. Del resto, che cosa poteva farmi? In mezzo alla gente, per strada? Non sarei dovuta scappare. Ma non avevo nella mente altro che la paura. La bambina è così piccola, non può fare altro che avere paura di quell’uomo. Deve imparare a non averne paura. Devo insegnarglielo…» Aveva perso il filo. Cominciò a pensare nella lingua di Karg. Che si fosse rivolta al re in quella lingua? Lebannen l’avrebbe creduta pazza: una vecchia pazza che farneticava. Tenar lo osservò, furtivamente. Il re non guardava dalla sua parte; fissava la fiamma del lume appeso sopra il tavolo, una fiammella chiara e immobile. Il volto del re era troppo triste per un uomo così giovane.

«Siete venuto a cercarlo», disse Tenar. «L’Arcimago. Sparviero.»

«Ged», rispose il re, rivolgendole un leggero sorriso. «Voi, lui, io usiamo i nomi veri.»

«Voi e io, sì», disse Tenar. «Lui lo fa soltanto con noi due.»

Il re annuì.

«È minacciato da persone che lo invidiano, persone di cattiva volontà, e non ha… difese, in questo momento. Lo sapevate?»

Non riuscì a spiegarsi meglio, ma Lebannen disse: «Mi ha detto che i suoi poteri di mago erano esauriti. Li ha consumati nell’atto che mi ha salvato, che ci ha salvato tutti. Ma era difficile crederci. E io non volevo credere».

«Neanch’io. Ma è così. E lui…» Tenar esitò, «vuole rimanere solo finché le sue ferite non si saranno rimarginate», aggiunse cautamente.

Lebannen disse: «Io e lui siamo stati nella terra delle Tenebre, nella terra arida, insieme. Siamo morti insieme. E insieme siamo ritornati indietro, attraverso le montagne. Si può passare per le montagne. C’è una via. Lui la conosceva. Ma il nome di quelle montagne è Dolore. Le sue pietre… tagliano, e le ferite sono lunghe a rimarginarsi».

Si guardò le mani. Tenar si rammentò delle mani di Ged, piene di tagli e abrasioni, chiuse sulle proprie ferite. Perché i tagli non si riaprissero.

S’infilò la mano nella tasca e strinse la piccola pietra che vi era contenuta, il nome che aveva raccolto sulla strada ripida.

«Perché con me si nasconde?» chiese il giovane re, con la voce carica di dolore. Poi, più tranquillo: «Speravo davvero di poterlo vedere. Ma, se lui non vuole, la cosa termina qui, naturalmente». Tenar riconobbe la cortesia, la civiltà, la dignità che aveva già incontrato nei messaggeri di Havnor, e ne fu lieta. Conosceva il loro valore. E, in cuor suo, sentì di voler bene al re proprio per quel dolore che lui stava provando.

«Verrà sicuramente da voi. Ma dategli tempo. È stato ferito così gravemente… gli è stato tolto tutto quello che aveva… Ma quando ha parlato di voi, quando ha pronunciato il vostro nome, oh, allora, per un momento, l’ho rivisto come era, e come tornerà a essere. Ritroverà l’orgoglio!»

«L’orgoglio?» ripeté Lebannen, stupito.

«Certo. L’orgoglio. Chi più di lui ha motivo di inorgoglirsi?»

«Ho sempre pensato a lui come… Era così paziente», disse Lebannen, e poi sorrise per quella descrizione inadeguata.

«Adesso non ha più pazienza», riprese Tenar, «ed è irragionevolmente severo con se stesso. Non possiamo fare niente per lui, penso, tranne che lasciarlo andare per la sua strada in modo che trovi se stesso alla fine della corda cui è legato, come dicono a Gont…» E, d’un tratto, cominciò anche lei a non avere più corda: era talmente stanca che si sentiva girare la testa. «Adesso, temo che dovrò andare a riposare», disse.

Il re si alzò immediatamente. «Lady Tenar», disse, «voi mi avete raccontato di essere fuggita da un nemico per trovarne un altro; ma io sono venuto a cercare un amico e ne ho trovato un altro.» Tenar sorrise, di fronte a tanto garbo e a tanta cortesia. Che bravo ragazzo, questo re, pensò.


La nave era tutta in fermento quando Tenar si svegliò: gemiti e cigolii del fasciame, tonfo di piedi nudi che correvano sulla tolda sopra la sua cabina, colpi di corde che battevano in terra, grida dei marinai. Non fu facile svegliare Therru che sembrava ancora stanca e forse febbricitante, anche se era sempre così calda che Tenar non riusciva mai a capire se avesse veramente la febbre. Provando un certo rimorso sia per aver costretto una bambina di salute cagionevole a fare quindici miglia a piedi sia per tutto quel che era successo il giorno prima, Tenar cercò di rallegrarla raccontandole che erano su una nave sulla quale c’era un vero re e che la loro cabina era quella del re, che la nave le portava a casa, alla fattoria, e che laggiù c’era Zia Lodola che le aspettava, e che forse c’era anche Sparviero. Ma neppure questo servì a destare l’interesse di Therru, che rimase assente, inerte, muta.

Sul suo braccio minuto, Tenar vide un segno: quattro dita rosse come un marchio a fuoco o una stretta violenta. Ma Faina non l’aveva stretta, l’aveva solo sfiorata. Tenar aveva promesso alla bambina che quell’uomo non l’avrebbe più toccata. La promessa non era stata mantenuta. La sua parola non significava nulla. Ma quale parola poteva ancora avere un significato contro la violenza cieca?

Si chinò sul braccio di Therru e baciò i segni.

«Vorrei poterti finire il vestito rosso», le disse. «Probabilmente il re avrebbe piacere di vederlo. Però, non penso che la gente indossi gli abiti più belli quando è su una nave. Neppure i re.»

Therru non si mosse sulla cuccetta rimanendo seduta con la testa china, e in silenzio. Tenar le accarezzò i capelli. Cominciavano a crescere più folti e robusti, finalmente, come una cortina nera e lucida sulle parti bruciate del cuoio capelluto. «Hai fame, passerotto? Non hai mangiato niente ieri sera. Forse il re ci manderà qualcosa per colazione. Ieri mi ha fatto assaggiare i suoi dolci e la sua uva.»

Nessuna risposta.

Quando Tenar le disse che era tempo di uscire dalla stanza, la bambina obbedì. Giunta sul ponte, però, continuò a tenere la testa piegata sulla spalla. Non alzò lo sguardo sulle bianche vele piene del vento del mattino, né lo abbassò sull’acqua scintillante, né si girò a guardare il Monte di Gont che s’innalzava nella sua imponente maestà, coperto di foreste, levando verso il cielo la sua cima. Non alzò gli occhi, quando Lebannen le parlò.

«Therru», le disse Tenar, piano, inginocchiandosi accanto a lei, «quando un re ti parla, devi rispondergli.»

Therru non parlò.

L’espressione con cui Lebannen la guardava era impenetrabile. Una maschera, forse; una maschera d’educazione che copriva il disgusto e l’offesa. Ma i suoi occhi neri rimanevano immobili. Toccò molto delicatamente il braccio della bambina, e disse: «Deve averti fatto una strana impressione, addormentarti nel porto e svegliarti in mezzo al mare».

Therru mangiò solo un po’ di frutta. Quando Tenar le chiese se voleva ritornare in cabina, la bambina annuì. Con riluttanza, Tenar la lasciò in cuccetta, tutta raggomitolata, e fece ritorno sul ponte.

La nave stava passando tra i due promontori: alte pareti scure che parevano sporgersi al di sopra delle vele. Arcieri di guardia in piccoli forti, che assomigliavano a nidi di rondine arroccati sulle scogliere, guardavano la gente sul ponte, e i marinai lanciavano grida allegre verso di loro: «Largo al re!» urlavano, e la risposta non era molto più forte dei richiami che le rondini si lanciavano da quelle pareti di roccia: «Il re!»

Lebannen era fermo sull’alto castello di prora, insieme con il comandante della nave e con un uomo alto, anziano, dagli occhi simili a due fessure, che indossava la veste grigia dei maghi dell’Isola di Roke. Anche Ged indossava una veste come quella, elegante e immacolata, il giorno che aveva portato con lei l’Anello di Erreth-Akbe alla Torre della Spada. Una veste come quella, ma vecchia, sudicia e consumata dal viaggio, era l’unica coperta di cui Ged disponesse sulle gelide pietre delle Tombe di Atuan e sul suolo polveroso delle montagne del deserto quando le avevano attraversate insieme. A questo pensava Tenar, mentre la schiuma delle onde si sollevava contro la prua e le alte pareti di roccia sparivano in lontananza.

Quando la nave, dopo avere superato gli ultimi scogli, si trovò in mare aperto, e cominciò a virare verso est, i tre uomini raggiunsero Tenar. Lebannen disse: «Signora, vi presento il Maestro dei Venti dell’Isola di Roke».

Il mago si inchinò, e la osservò con ammirazione e con curiosità; aveva gli occhi molto acuti e a Tenar diede l’impressione di essere un uomo che sapeva sempre da che parte soffiava il vento.

«Non c’è più bisogno di sperare che il bel tempo continui perché, con voi presente, questa è una certezza», disse Tenar.

«Oh, in una giornata come questa, io sono solo un peso morto», si schermì il mago. «E poi, con un marinaio come mastro Serrathen al timone, chi ha bisogno della magia del tempo?»

Quanto siamo cortesi, pensò lei, tutti signori, signore, mastri, inchini e complimenti. Guardò il giovane re e vide che la osservava, sorridente ma riservato.

Si sentì come si era sentita a Havnor da ragazza: una donna barbara, rozza, in mezzo a tanta raffinatezza. Ma poiché non era più una ragazza, non si lasciò intimidire; solo, si meravigliò per come gli uomini riuscissero a trasformare il mondo in una sorta di ballo in maschera, e della facilità con cui una donna riusciva a imparare a ballarlo.

Sarebbe stata sufficiente quella giornata, le dissero, per arrivare a Valmouth. Sarebbero arrivati laggiù nel tardo pomeriggio, se il vento si fosse mantenuto favorevole.

Ancora stanca per le peripezie e la tensione del giorno prima, sedette con piacere sul sedile che il marinaio calvo le aveva preparato con un po’ di paglia e un pezzo di tela da vela, e rimase a guardare le onde e i gabbiani, e vide il profilo del Monte di Gont, azzurro e bellissimo nella luce del mezzogiorno, cambiare progressivamente forma a mano a mano che la nave sfiorava le sue alte scogliere, a un miglio o due dalla costa. Portò sopra coperta Therru perché prendesse un po’ di sole, e la bambina si sedette accanto a lei e continuò a guardare il mare e a sonnecchiare.

Un marinaio, un uomo sdentato e dalla pelle molto scura, si avvicinò a loro. Camminava a piedi nudi: Tenar vide che aveva la pianta dei piedi dura come zoccoli, e le dita orrendamente storte; si avvicinò a loro e posò qualcosa sulla tela da vela, accanto a Therru. «Per la bambina», disse con voce roca. Poi si allontanò subito, anche se rimase a portata di voce. Di tanto in tanto, mentre lavorava sul ponte, guardava speranzoso verso la bambina, per vedere se il dono le era piaciuto, e poi fingeva di non avere guardato. Therru non volle toccare l’involucro di stoffa, e Tenar dovette aprirglielo. Conteneva una piccola scultura, bellissima, che raffigurava un delfino, di osso o forse di avorio, lunga come il suo dito pollice.

«Può andare ad abitare nel tuo sacchetto di fili d’erba», disse Tenar, «insieme con le altre, le figurine d’osso.»

A queste parole, Therru riprese forza quel tanto che bastava per tirare fuori la borsa d’erba e a metterci dentro il delfino. Ma toccò a Tenar ringraziare il povero donatore. Therru non voleva né guardarlo né parlargli. Dopo qualche tempo, la bambina chiese di ritornare nella cabina, e Tenar la lasciò giù, in compagnia dell’uomo d’osso, dell’animale d’osso e del delfino.

È così semplice, pensò con ira, è così semplice per Faina portarle via la luce del sole, portarle via la nave e il re e la sua giovinezza, ed è così difficile ridarglieli! Ho impiegato un anno per ridarglieli, e lui, con un solo gesto, glieli toglie e li butta via. E che cosa ci guadagna? Che Potere ne ricava? Che il Potere sia solo questo… vacuità?

Raggiunse il re e il mago, che erano appoggiati alla balaustra della nave. Il sole aveva già fatto gran parte del suo corso, e la nave procedeva in un trionfo di luce che ricordò a Tenar il suo sogno di volare con il drago.

«Lady Tenar», disse il re, «non vi affido alcun messaggio per il nostro comune amico. Non voglio imporvi un simile fardello, e mi sembrerebbe di porre limiti alla sua libertà, e non voglio neppure questo. Sarò incoronato tra meno di un mese. Se fosse lui a porgermi la corona, il mio regno inizierebbe come desidera il mio cuore. Ma che lui ci sia o no, è stato lui a darmi il regno. Mi ha fatto re, e non me ne dimenticherò.»

«So che non ve ne dimenticherete», rispose Tenar, gentilmente. Era così serio, compito, protetto dall’ufficialità del suo rango, eppure così vulnerabile nella sua onestà, nella purezza del suo volere. Tenar sentì un profondo affetto per lui. Il giovane re pensava di avere imparato il dolore, ma l’avrebbe dovuto imparare di nuovo, innumerevoli altre volte, per tutta la vita, senza dimenticare nulla.

E perciò, diversamente da Faina, non avrebbe mai scelto la via più facile.

«Sarò ben lieta di portargli il vostro messaggio», rispose Tenar. «Soltanto lui, però, potrà decidere di ascoltarlo.»

Il Maestro dei Venti sorrise. «È sempre stato così», disse. «Qualunque cosa abbia fatto, è sempre stato solo lui a decidere.»

«Lo conoscete da molto tempo?»

«Da prima che lo conosceste voi, signora. Gli ho insegnato», disse il mago, «quello che ho potuto… È arrivato alla scuola di Roke ancora ragazzo, accompagnato da una lettera di Ogion in cui si diceva che aveva grandi poteri. Ma la prima volta che lo portai fuori su una barca, per insegnargli come parlare al vento, ha sollevato una tromba marina. Allora mi resi conto di quale sarebbe stato il nostro futuro. Pensai: o prima dei sedici anni sarà affogato, o sarà Arcimago prima dei quaranta… Almeno, mi piace credere di averlo pensato.»

«È ancora l’Arcimago?» chiese Tenar. Si accorse subito di aver fatto una domanda terribilmente ignorante, e dopo il silenzio che ne seguì temette di essersi dimostrata indiscreta, e non solo ignorante.

Il mago rispose, infine: «In questo momento non c’è un Arcimago di Roke». Lo disse in tono estremamente cauto, scegliendo con attenzione le parole.

Tenar non osò chiedergli di spiegarsi meglio.

«Credo», disse il re, «che la Guaritrice della Runa della Pace possa far parte del consiglio del nostro regno; siete d’accordo con me, signore?»

Dopo un’altra pausa, e un po’ a malincuore, il mago disse: «Certamente».

Il re attese, ma il mago non disse altro.

Allora, Lebannen si girò verso l’acqua illuminata dal sole e parlò come se cominciasse a raccontare una storia: «Quando io e lui siamo arrivati a Roke dal più lontano Occidente, portati dal drago…» S’interruppe, e il nome del drago si pronunciò da solo nella mente di Tenar: Kalessin, come un suono di gong.

«Il drago mi lasciò a Roke, ma portò via lui. Il custode della porta della Grande Casa disse allora: ‘Ha finito di agire. Torna a casa’. E prima ancora, sulla spiaggia di Selidor, lui mi aveva ordinato di lasciare il suo bastone, perché ormai non era più un mago. Così, i Maestri di Roke si consultarono per eleggere un nuovo Arcimago.

«Vollero che fossi presente anch’io, perché sapessi quello che deve sapere un re sul Consiglio dei Saggi. E inoltre ero presente per sostituire uno di loro: Thorion l’Evocatore, la cui arte si era volta contro lui medesimo, a opera del grande male che Lord Sparviero ha trovato e ha fermato. Quando eravamo nel deserto, tra la parete e le montagne, io vidi Thorion. Lord Sparviero gli parlò e gli insegnò come tornare alla vita al di là della parete. Ma Thorion non prese quella strada. Non fece ritorno.»

Con le mani forti e affusolate, il giovane re strinse con violenza il legno della balaustra, continuando a fissare le onde marine. Tacque per un istante, poi riprese il racconto.

«Così, fui io a completare il numero dei nove che si raccolsero per scegliere il nuovo Arcimago.

«Sono… sono dei saggi», continuò, lanciando un’occhiata a Tenar. «Non solo conoscono la loro arte, ma sono persone fidate. Si servono delle differenze tra loro, come ho visto fare altre volte, per rendere più salda la loro decisione. Ma questa volta…»

«Il fatto è», intervenne il Maestro dei Venti, vedendo che Lebannen non voleva dare l’impressione di criticare i Maestri di Roke, «che quella volta parlarono solo delle differenze, senza prendere decisioni. Non raggiungemmo alcun accordo. Perché l’Arcimago non era morto, capite, eppure non era un mago… ma era ancora chiaramente un signore dei draghi, come avevamo visto. E perché il nostro Maestro delle Metamorfosi era ancora sconvolto dopo avere visto la sua arte rivolgersi contro di lui, ed era convinto che Evocatore sarebbe ritornato dalla morte, e ci aveva supplicato di aspettarlo. E perché il Maestro degli Schemi non volle parlare. È di Karg come voi, signora; lo sapevate? Viene da Karego-At.» Con quei suoi occhi acuti, la sorvegliava attentamente: da che parte soffiava il vento? «Così, per tutti questi fatti, ci trovammo bloccati. Quando il Guardiano chiese i nomi dei candidati, non ne venne presentato nessuno. Ciascuno guardava gli altri…»

«Io guardavo in terra», disse Lebannen.

«Così, alla fine ci rivolgemmo a una persona che conosceva certamente i nomi: il Maestro dei Nomi. Questi stava osservando attentamente il Maestro degli Schemi che sedeva in mezzo alle sue piante come un ceppo di legno. Dovete sapere che ci incontriamo nel Boschetto, tra quegli alberi le cui radici sono più profonde delle stesse isole. Ormai era già sceso il crepuscolo. A volte tra quegli alberi c’è una luce, ma non quella notte. Era buio, non c’erano le stelle, al disopra degli alberi il cielo era nuvoloso. E il Maestro degli Schemi si alzò e prese la parola… ma nella sua lingua, non nell’Antica Lingua, non in hardico ma in kardico. Pochi di noi la conoscevano: in gran parte non sapevamo neppure di che lingua si trattasse, e non sapevamo che cosa pensare. Ma il Maestro dei Nomi ci disse quel che aveva detto il Maestro degli Schemi: una donna di Gont.»

S’interruppe. Non guardava più Tenar. Dopo qualche istante, lei chiese: «E niente di più?»

«Non una parola. Quando lo interrogammo, ci fissò e non seppe che cosa rispondere, perché aveva parlato in una visione, capite… Aveva visto lo schema delle cose, il modello, e non è materia che si possa facilmente trasformare in parole, e ancor meno in idee. Neanche lui sapeva che cosa pensare: sapeva quel poco che sapevamo noi.»

I Maestri di Roke erano degli insegnanti, dopotutto, e il Maestro dei Venti era un buon insegnante: non poté fare a meno di darle dei chiarimenti. Più di quanto non volesse in partenza, forse. Guardò per un istante Tenar e poi distolse gli occhi.

«Sembrava dunque che dovessimo proprio venire a Gont. Ma perché? Per cercare chi? ‘Una donna’… Non molto, come indicazione! Evidentemente, questa donna ci dovrà guidare al nostro Arcimago, chissà come. E allora, come avrete immaginato, venne fatto il vostro nome: infatti, di che altra donna di Gont avevamo sentito parlare? Quella non è una grande isola, ma la vostra fama è immensa. Uno di noi disse: ‘Ci porterà da Ogion’. Ma sapevamo che Ogion aveva rifiutato molti anni fa il posto di Arcimago, e certo non l’avrebbe accettato adesso che era vecchio e malato. E mi pare, infatti, che Ogion sia morto proprio in quei giorni. Poi un altro disse: ‘Ci può portare anche da Sparviero’. A quel punto brancolavamo davvero nel buio.»

«Certo», confermò Lebannen. «E cominciò anche a piovere, in mezzo a quegli alberi.» Sorrise. «Avevo temuto di non vedere mai più la pioggia. Fu una grande gioia per me.»

«Nove membri del Consiglio bagnati e uno solo felice», commentò il Maestro dei Venti.

Tenar rise. Non poteva fare a meno di provare simpatia per quell’uomo. Se era così guardingo verso di lei, anche a lei conveniva essere cauta nei suoi confronti; ma con Lebannen, e soprattutto in sua presenza, era ammissibile solo la sincerità.

«La donna di Gont non posso essere io», disse, «perché io non posso condurvi da Sparviero.»

«Anch’io ero dell’idea», disse il mago, con un’aria di sincerità che forse era vera, «che non poteste essere voi, signora. Per prima cosa, il Maestro degli Schemi avrebbe certo detto il vostro nome durante la visione. Sono così pochi coloro che portano apertamente il loro nome vero! Tuttavia, il Consiglio di Roke mi ha incaricato di chiedervi se conoscete qualche donna della vostra isola che possa essere la persona che cerchiamo: la madre o la sorella di un uomo di Potere, o anche la sua insegnante, perché sappiamo che ci sono streghe molto sagge a modo loro. Che Ogion conoscesse una donna di questo genere? Dicono che conoscesse ogni persona dell’isola, anche se abitava da solo e vagava nei boschi. Peccato che non sia più vivo per aiutarci!»

Tenar aveva già pensato alla pescatrice della storia di Ogion. Ma quella donna era già vecchia quando Ogion l’aveva incontrata, molti anni prima, e ormai doveva essere morta. Anche se i draghi, pensò, erano molto longevi.

Per qualche tempo rimase in silenzio, e poi disse soltanto: «Purtroppo non conosco persone del genere».

Sentiva perfettamente l’irritazione del mago, e la fatica che questi faceva per controllarsi. Che cosa mi nasconde? si stava di certo chiedendo il mago. Che cosa vuole, esattamente? E Tenar si chiese perché non potesse parlargli. Ma la sordità del mago la costringeva a tacere. Non poteva nemmeno dirgli che era sordo.

«Allora», disse Tenar, dopo qualche minuto, «non c’è un Arcimago di Earthsea. Ma c’è un re.»

«In cui giustamente riponiamo la nostra fiducia e le nostre speranze», disse il mago, in tono sincero e con calore. Lebannen, che li guardava e li ascoltava, sorrise.

«Negli scorsi anni», disse Tenar, esitante, «ci sono stati tanti dolori. La mia… la bambina… Cose del genere sono state fin troppo comuni. E ho sentito uomini e donne di Potere lamentarsi della perdita, o della trasformazione, dei loro Poteri.»

«L’uomo che è stato sconfitto dall’Arcimago e dal nostro sovrano nelle terre deserte, quel Pannocchia, aveva causato infiniti danni. Noi stiamo cercando di ricostruire la nostra arte, curando i nostri maghi e la nostra magia, ma occorrerà molto tempo prima che l’opera sia terminata», disse il mago, con decisione.

«Mi chiedo se ricostruire e curare siano sufficienti», rispose Tenar, «anche se, naturalmente, sono cose da farsi… Ma mi chiedo se una persona come Pannocchia non sia giunta ad avere quei Poteri perché le cose stavano già cambiando, e se il cambiamento non ci sia già stato. Un grande cambiamento. E forse è a causa di questo cambiamento che abbiamo di nuovo un re su Earthsea… forse un re e non un Arcimago.»

Il Maestro dei Venti la guardò come se vedesse una nube di tempesta all’estremo orizzonte. Sollevò perfino la mano, automaticamente, come se dovesse fare un incantesimo sul vento, ma poi la abbassò. Sorrise. «Non dovete temere, signora», disse. «Roke e l’arte magica dureranno. Il nostro tesoro è ben protetto!»

«Ditelo a Kalessin», rispose Tenar, che non riusciva a sopportare tanta incoscienza, tanta disattenzione. Il mago la fissò, sorpreso. Aveva sentito il nome del drago. Ma non aveva sentito le parole di Tenar. Del resto, come si poteva pretenderlo, da un uomo che non aveva più ascoltato alcuna voce di donna, da quando la madre aveva smesso di cantargli la ninna-nanna?

«Davvero», disse Lebannen. «Kalessin è giunto a Roke, che si dice completamente protetta contro i draghi; e non grazie a un incantesimo di Lord Sparviero, che a quell’epoca non aveva magia… Ma non credo, Maestro dei Venti, che Lady Tenar avesse paura per sé.»

Il mago si sforzò di riparare all’offesa. «Vi chiedo scusa, signora», disse. «Parlavo come se mi fossi rivolto a una donna comune.»

Per poco Tenar non scoppiò a ridere. Avrebbe potuto confondere quel mago, ma si limitò a dire, con indifferenza: «Oh, le mie paure sono comuni». Era inutile insistere con quell’uomo; non le dava ascolto.

Ma il giovane re taceva e ascoltava.

Un mozzo, dall’alto di quel mondo vertiginoso e ondeggiante di alberi, vele e sartie che stava sopra le loro teste, gridò con voce chiara e musicale: «Città in vista dietro il promontorio!» e dopo qualche istante anche coloro che stavano sul ponte videro il raggruppamento di tetti di ardesia, le volute di fumo azzurrino, i vetri delle finestre che riflettevano il sole al tramonto, i moli e i magazzini di Valmouth, in fondo alla sua baia di seta blu.

«La porto io, o ci pensate voi, signore?» chiese il comandante della nave, sempre impassibile, e il Maestro dei Venti rispose:

«Manovriamo a vela, mastro comandante. Preferisco non avere a che fare con quelle bagnarole!» Indicò le decine di barche da pesca che riempivano la baia. Così, la nave del re entrò in porto lentamente, come un cigno in mezzo agli anatroccoli, salutata da ogni barca accanto a cui passava.

Tenar guardò lungo i moli, ma non vide altre navi.

«Ho un figlio che fa il marinaio», disse a Lebannen. «Pensavo che la sua nave potesse trovarsi nel porto.»

«Che nave è?»

«Era terzo di bordo sul Gabbiano di Eskel, ma da allora sono passati più di due anni. Può darsi che abbia cambiato nave. Non sta mai fermo.» Sorrise. «Quando vi ho visto, vi ho scambiato per lui. Non vi assomigliate granché, ma l’altezza, la corporatura, l’età sono pressappoco le stesse. E io ero confusa e spaventata… Paure comuni.»

Il mago era salito sul castello di prua, e Tenar e Lebannen erano rimasti soli.

«Ce ne sono troppe, di queste paure comuni», disse il re.

Era la sola possibilità di parlargli da solo, e Tenar disse in fretta, in tono esitante: «Volevo dire… ma sarebbe stato inutile… potrebbe non esserci una donna di Gont… e non so chi possa essere, non ne ho idea… ma potrebbe esserci una donna, adesso o in futuro, e forse hanno proprio bisogno di lei. È possibile?»

Il re la ascoltò. Lui non era sordo. Aggrottò la fronte, pensieroso, come se cercasse di capire una lingua straniera. E si limitò a dire, sottovoce: «È possibile».

Una pescatrice, dalla sua barchetta, gridò: «Da dove venite?» e il mozzo, dall’alto, rispose: «Dalla Città del Re!»

«Come si chiama questa nave?» chiese Tenar. «Mio figlio mi chiederà il nome della nave su cui ho navigato.»

«Delfino», le rispose Lebannen, sorridendo. Figlio mio, mio re, mio caro ragazzo, pensò Tenar; come mi piacerebbe averti vicino!

«Devo andare a prendere la bambina», disse.

«Come arriverete a casa?»

«A piedi. Sono poche miglia, in cima alla valle.» Indicò la Valle di Mezzo, ampia e illuminata dal sole, tra le due braccia della montagna, simile a un grembo. «Il villaggio è sul fiume, e la mia fattoria è a mezzo miglio dal villaggio. È uno degli angoli più graziosi del vostro regno.»

«Ma sarete al sicuro?»

«Oh, certo. Trascorrerò la notte con mia figlia, qui a Valmouth. E nel villaggio c’è tutta gente di cui ci si può fidare. Non sarò sola.»

I loro sguardi si incrociarono per un momento, ma nessuno disse il nome al quale stavano pensando.

«Torneranno ancora, da Roke?» chiese Tenar. «A cercare la ‘donna di Gont’… o lui?»

«Non lui. Se tornassero a cercarlo, glielo proibirei», disse Lebannen, senza accorgersi di ciò che le aveva rivelato con quelle poche parole. «Ma per cercare un nuovo Arcimago, o la donna della visione del Maestro degli Schemi, sì, forse potrebbero ritornare. E venire da voi.»

«Saranno i benvenuti alla Fattoria delle Querce», disse Tenar. «Non quanto voi, però.»

«Verrò quando potrò», rispose lui in tono un po’ severo; e aggiunse, con aria vagamente triste: «Se potrò…»

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