Alla biforcazione, la bambina aveva preso a sinistra e aveva fatto parecchia strada prima di guardarsi indietro, nascosta dietro la siepe fiorita.
L’uomo chiamato Pioppo — il cui nome vero era Erisen, e che a lei appariva come una fiamma di tenebra con tante lingue guizzanti — aveva legato suo padre e sua madre: lei nella lingua, lui nel cuore, e li portava nel luogo dove si nascondeva abitualmente. Il puzzo di quel luogo era rivoltante, ma la bambina li seguì per un breve tratto per vedere che cosa facesse l’uomo. Li fece entrare e chiuse la porta alle loro spalle. Era di pietra. Lei non poteva superarla.
Avrebbe avuto bisogno di volare, ma lei non poteva farlo; lei non era di quelli con le ali.
Attraversò di corsa i campi, più in fretta che poté, e oltrepassò la casa di Zia Muschio, la casa di Ogion e quella delle capre, avviandosi lungo il sentiero che passava sull’orlo del Precipizio, dove lei non doveva andare perché non poteva vederlo con un occhio solo. Ma questa volta fu molto attenta. Guardò con attenzione, con l’occhio sano. Si fermò sull’orlo. L’acqua era molto distante, sotto di lei, e il sole tramontava in lontananza. Guardò verso occidente con l’altro occhio, e chiamò con l’altra voce, pronunciando il nome che aveva sentito nei sogni di sua madre.
Non attese una risposta, ma si voltò subito dall’altra parte e tornò indietro: prima passò davanti alla casa di Ogion, e si fermò a vedere se il suo pesco era spuntato. Sul vecchio albero c’erano molte pesche, piccole e verdi, ma non c’era traccia della sua piantina. Le capre se l’erano mangiata. O era morta perché lei non l’aveva innaffiata tutti i giorni. Si fermò per qualche momento a guardare il terreno, nel punto dove aveva seminato, poi trasse un lungo respiro e tornò verso la casa di Zia Muschio, attraverso i campi.
I polli che stavano andando a dormire starnazzarono e volarono da tutte le parti, protestando al suo ingresso. La capanna era buia e carica di odori. «Zia Muschio?» chiese lei, con la voce che usava per quelle persone.
«Chi c’è?»
La vecchia era a letto e si nascondeva. Era spaventata e cercò di fare un muro di difesa attorno a sé per allontanare tutti, ma la cosa non funzionò. Non era abbastanza forte.
«Chi è? Oh, cara, la mia povera bambina bruciata, la mia bella bambina. Che cosa fai qui? E dov’è tua madre? È qui? È venuta? Non entrare, non entrare, cara, c’è una maledizione su di me, cara, quell’uomo ha maledetto questa povera vecchia, non avvicinarti!»
Pianse. La bambina tese la mano e la toccò. «Sei fredda», disse.
«Tu sei come il fuoco, piccola, la tua mano mi brucia. Oh, non guardarmi! Mi ha fatto marcire la pelle, e raggrinzire, e poi marcire di nuovo, ma non mi vuole lasciar morire… Ha detto che servivo a farti venire qui. Ho cercato di morire, ma lui mi teneva in suo Potere, mi ha fatto vivere contro la mia volontà, non mi ha permesso di morire, oh, fammi morire!»
«Non devi morire», disse la bambina, aggrottando la fronte.
«Cara», sussurrò la vecchia, «cara… chiamami con il mio nome.»
«Hatha», disse la bambina.
«Oh, lo sapevo… Liberami, cara!»
«Devo aspettare», disse la bambina. «Finché non arriverà.»
La strega si calmò, respirò senza dolore. «Finché non arriverà chi, cara?»
«La mia gente.»
In quella della bambina, la mano grossa e fredda della strega sembrava un fascio di stecchi. Lei la tenne con fermezza. Adesso, all’esterno della capanna era buio come all’interno. Hatha, che veniva chiamata Muschio, si addormentò, e alla fine anche la bambina, seduta sul pavimento accanto al suo pagliericcio, e con una gallina appollaiata accanto, si assopì.
Gli uomini arrivarono quando giunse la luce del giorno. Lui disse: «Su, cagna! Su!» Lei si mise a quattro zampe, e l’uomo rise, dicendo: «Sulle zampe di dietro! Sei una cagna intelligente, puoi camminare sulle zampe di dietro, no? Così, bene. Fa’ finta di essere umana! Abbiamo molta strada da fare. Vieni!» Aveva ancora la corda al collo, e lui la tirò. Lei lo seguì.
«Ecco, tieni tu il guinzaglio», disse, e ora fu lui — l’uomo che lei amava, ma di cui non ricordava più il nome — a tenere la corda.
Uscirono dal castello buio. La bocca di pietra sbadigliò per lasciarli passare e poi si serrò di nuovo dietro di loro.
L’uomo stava sempre dietro a lei e all’uomo che teneva la corda. Poi venivano altre tre o quattro persone.
I campi erano argentati dalla rugiada. La montagna era una macchia scura sullo sfondo pallido del cielo. Dagli alberi e dalle siepi, gli uccelli avevano preso a cantare sempre più forte.
Arrivarono sull’orlo del mondo e camminarono lungo di esso finché non giunsero in un punto dove il terreno era costituito unicamente di roccia e il bordo era molto stretto. Sulla roccia c’era una linea; lei la fissò.
«Lui può darle una spinta di incoraggiamento», disse l’uomo. «Poi lo sparviero può volare, tutto da solo.»
Le tolse la corda che aveva attorno al collo.
«Va’ avanti, e fermati sul ciglio», le ordinò l’uomo. Lei seguì la linea incisa sulla pietra, fino all’orlo. Sotto di lei, c’era soltanto il mare, e nient’altro. E davanti a lei c’era l’aria infinita.
«Adesso, Sparviero le darà una spinta», annunciò l’uomo. «Però, prima, forse lei avrà da dire qualcosa. Ha tante cose da dire. Le donne ne hanno sempre. Non avete niente da dirci, Lady Tenar?»
Lei non era in grado di parlare, ma indicò il cielo, al di sopra del mare.
«Un albatro», disse.
E scoppiò a ridere.
Nell’infinito abisso della luce, dalla porta del cielo, volava un drago coperto di un’armatura di scaglie. Nel volo, le spire della coda si annodavano e si scioglievano, e il suo passaggio era segnato da una scia di fumo.
«Kalessin!» gridò la donna, e poi si girò verso Ged, lo afferrò per il braccio e lo gettò a terra, mentre sopra di loro passavano il ruggito del fuoco, lo sferragliare della corazza, e il sibilo dell’aria sulle ali tese, il clangore degli artigli, lunghi e sottili come falci, contro la roccia.
Dal mare si levava una brezza leggera. Un piccolo cardo, che cresceva in una spaccatura della roccia, vicino alla mano di Tenar, continuava ad alzare e ad abbassare la testa, come per dare il suo assenso al vento che giungeva dal mare.
Ged sedeva accanto a lei. Tutt’e due erano inginocchiati sulla roccia, con il mare dietro le spalle, e davanti a loro c’era il drago.
Li guardò di sghembo, con uno dei suoi occhi lunghi e gialli.
Ged parlò con voce roca e tremante, nella lingua del drago. Anche Tenar fu in grado di comprendere le parole, che erano semplicemente: «Ti ringraziamo, Antichissimo».
Guardando Tenar, il drago disse, con voce fragorosa (e alla donna venne in mente una spazzola di metallo fatta strisciare su un gong): «Aro Tehanu?»
«La bambina», disse Tenar. «Therru!» si alzò in piedi per correre a cercare la bambina, e la vide sulla sporgenza rocciosa tra la montagna e il mare: stava venendo verso di loro. Verso il drago.
«Non correre, Therru!» esclamò, ma la bambina l’aveva già vista e correva, correva verso di lei. Finirono l’una nelle braccia dell’altra.
Il drago voltò l’enorme testa color ruggine e le fissò con tutt’e due gli occhi. Le froge enormi rosseggiavano di fuoco; da esse si innalzavano volute di fumo grigio. Il calore del corpo del drago arrivava fino a loro, più forte della fresca brezza marina.
«Tehanu», disse il drago.
La bambina si voltò a guardarlo.
«Kalessin», disse.
Poi Ged, che era rimasto in ginocchio fino a quel momento, si alzò. Tremava ancora, e dovette afferrarsi alla mano di Tenar per mantenere l’equilibrio. Rise. «Adesso so chi ti ha chiamato, Antichissimo!» disse.
«Sono stata io», disse la bambina. «Non sapevo che cos’altro fare, Segoy.»
Continuava a guardare il drago, e parlava nella lingua dei draghi, con le parole della Creazione.
«Hai fatto bene, figliola», rispose il drago. «Ti cercavo da molto tempo.»
«E adesso dobbiamo andare laggiù?» chiese la bambina. «Dove ci sono gli altri, sul vento diverso da questo?»
«Vuoi lasciare queste persone?»
«No», rispose la bambina. «Non possono venire?»
«No, non possono. La loro vita è qui.»
«Resterò con loro», disse la bambina, trattenendo il fiato.
Kalessin si voltò dall’altra parte, ed esplose nella sua immensa risata — o moto di disprezzo, o di gioia, o di collera — simile alla vampata che scaturisce da una fornace. «Aah!» Poi, tornando a guardare la bambina: «Va bene. Qui, hai del lavoro da fare.»
«Lo so», rispose la bambina.
«Ritornerò a prenderti», promise Kalessin. «A tempo debito.» E poi aggiunse, rivolto a Ged e Tenar: «Vi affido mia figlia, come voi mi affiderete la vostra».
«A tempo debito», gli ricordò Tenar.
Kalessin chinò leggermente l’immensa testa, e l’enorme bocca dai denti lunghi come scimitarre si piegò agli angoli in una specie di sorriso.
Poi Ged e Tenar fecero qualche passo indietro, con Therru; il drago si voltò, tra lo sferragliare dell’armatura trascinata sulla roccia, appoggiò con cura le zampe armate di lunghi artigli, e dietro si rannicchiò come un gatto, e poi si lanciò in volo. Le ali si allargarono alla luce del nuovo giorno, rosse come il sangue, ricche di venature; e gli aculei della coda strisciarono sulla roccia, finché il drago si librò nell’aria: come un gabbiano, come una rondine, come un puro pensiero.
Dove fino a pochi attimi prima c’era il drago, adesso si scorgeva solo qualche frammento bruciacchiato di stoffa e di cuoio, e altre cose.
«Andiamo via», disse Ged.
Ma la donna e la bambina non riuscivano a staccare lo sguardo da quelle cose.
«Sono figurine d’osso», disse poi Therru. Solo allora la bambina distolse lo sguardo e si avviò, camminando davanti all’uomo e alla donna, lungo lo stretto sentiero.
«La sua lingua», disse Ged. «La sua lingua materna.»
«Tehanu», disse Tenar. «Il suo nome è Tehanu.»
«Le è stato assegnato dal Datore di Nomi.»
«È sempre stata Tehanu, fin dall’inizio.»
«Venite!» disse la bambina, girandosi verso di loro. «Zia Muschio sta male.»
Finalmente poterono trasportare Muschio alla luce e all’aria, lavarle le piaghe e bruciare le lenzuola sudicie del letto, mentre Therru andava a casa di Ogion a prendere la biancheria pulita. Oltre alla biancheria Therru portò anche Erica, la pastorella, e con il suo aiuto sistemarono di nuovo la vecchia sul letto, circondata dalle sue galline; Erica andò a prendere qualcosa da mangiare.
«Qualcuno dovrebbe andare a Porto Gont, a chiedere del mago, perché si prenda cura di Muschio: può ancora guarire. E perché vada al castello. Il vecchio, adesso, potrà morire; e il nipote potrà vivere, se il castello verrà ripulito…» Ged si sedette sulla soglia della casa di Muschio, appoggiò la testa allo stipite, in un punto illuminato dalla luce del sole, e chiuse gli occhi. «Che cos’è che ci spinge a fare le cose che facciamo?» si chiese.
Tenar si lavava il viso, le braccia e le mani in un catino di acqua pulita che lei stessa aveva attinto al pozzo poco prima. Quando ebbe finito, si guardò attorno. Ged, completamente esausto, si era addormentato, con la faccia rivolta al sole del mattino. Tenar si sedette accanto a lui e appoggiò la testa sulla sua spalla. Siamo davvero salvi? si chiese. Come avremo fatto a salvarci?
Guardò la mano di Ged, non più stretta a pugno, ma aperta sul gradino di terra battuta. Pensò al cardo che annuiva nel vento, alla zampa del drago, irta d’artigli, e alle sue scaglie rosse e dorate. Era semiaddormentata quando la bambina si venne a sedere accanto a lei.
«Tehanu», mormorò.
«Il mio alberello è morto», le disse la bambina.
Dopo qualche istante, la mente stanca e sonnolenta di Tenar comprese e si destò abbastanza per rispondere. «Ci sono pesche sull’albero grande?»
Parlavano piano, per non svegliare l’uomo addormentato.
«Solo piccole e verdi.»
«Matureranno, dopo la Grande Danza. Tra poco.»
«Potremo piantarne un’altra?»
«Più di una, se vuoi. La casa è a posto?»
«È vuota.»
«Andiamo a vivere là?» Si svegliò un po’ di più, e appoggiò il braccio sulla spalla della bambina. «Ho del denaro», spiegò. «Quanto basta per comprare un gregge di capre, e anche il pascolo invernale di Turby, se è ancora in vendita. Ged sa dove portarle in montagna, d’estate… Chissà se la lana che abbiamo messo da parte è ancora qui?» Mentre lo diceva, pensò: abbiamo lasciato i libri, i libri di Ogion! Sulla mensola del focolare, alla Fattoria delle Querce… Li abbiamo lasciati a Scintilla, che, poveretto, non si sognerebbe di leggerne neppure una parola!
Ma non le parve una cosa grave. C’erano nuove cose da imparare, senza dubbio. E in qualsiasi momento avrebbe potuto mandare qualcuno a prenderli, se Ged ne avesse avuto bisogno. E a prendere il suo arcolaio. Oppure, ci sarebbe potuta andare lei stessa, il prossimo autunno, approfittandone per fare visita al figlio, per chiacchierare un po’ con Lodola, e per stare qualche giorno con Melina. Però, occorreva seminare immediatamente l’orto di Ogion, se volevano mangiarne la verdura quell’estate. Ricordò i filari di fagioli e il profumo delle loro infiorescenze. Pensò alla piccola finestra d’occidente. «Penso che potremo davvero vivere quassù», disse.