All’ombra chiara del mattino, nei lunghi pascoli del Signore di Re Albi, che si stendevano su tutto il fianco della montagna, si stava raccogliendo il fieno. Tre dei mietitori erano donne e, dei due uomini, uno era un ragazzo — Tenar lo vide mentre si avvicinava — e l’altro era curvo e grigio. Si avviò lungo la parte già falciata e chiese a una delle donne informazioni dell’uomo con il berretto di cuoio.
«Quello venuto da Valmouth, ah», rispose la donna. «Non so dove sia andato.» Anche gli altri si avvicinarono, lieti di poter fare una pausa. Nessuno sapeva dove fosse finito l’uomo della Valle di Mezzo, né perché non fosse con loro a falciare. «Quel tipo di persona non sta mai fermo in un posto», disse l’uomo dai capelli grigi. «È irrequieto. Voi lo conoscete, signora?»
«Non per scelta mia», rispose Tenar. «Si è introdotto di nascosto in casa mia, mi ha spaventato la bambina. Non so neppure come si chiama.»
«Si chiama Faina», disse il ragazzo. Gli altri non dissero niente. Cominciavano a capire chi era: la donna di Karg che abitava in casa del vecchio mago. Erano fittavoli del Signore di Re Albi, avevano pochi rapporti con gli abitanti del villaggio e guardavano con superbia tutto quel che aveva a che fare con Ogion. Affilarono le falci, si girarono e tornarono al lavoro. Tenar scese dal prato, passò in mezzo ad alcuni noci e raggiunse la strada.
Laggiù c’era un uomo che la aspettava. Tenar senti un tuffo al cuore. Si avviò verso di lui.
Era Pioppo, il mago del castello. Si appoggiava al suo alto bastone di pino, sotto uno degli alberi della strada. Quando Tenar giunse vicino a lui, l’uomo disse: «Cercate lavoro?»
«No.»
«Il mio signore cerca braccianti. Il caldo sta per finire, bisogna portare il fieno al riparo.»
Per Goha, vedova di Selce, quel discorso sarebbe andato bene, e infatti lei rispose, educatamente: «Senza dubbio la vostra abilità riuscirà a fermare la pioggia finché il grano non sarà stato messo al coperto». Ma il mago sapeva che quella era la donna cui Ogion aveva confidato il suo nome vero prima di morire, e perciò la frase costituiva un tale insulto, ed era così dichiaratamente falsa da costituire un chiaro avvertimento. Tenar stava per chiedergli dove si trovasse Faina. Invece, disse: «Ero venuta ad avvertire il sorvegliante che uno degli uomini da lui scelti era un ladro e forse anche peggio; non certo il tipo di persona che fa piacere avere al proprio servizio. Ma sembra che quell’uomo se ne sia andato».
Fissò con calma Pioppo finché questi non rispose, con sforzo: «Non so nulla di quella gente».
Il giorno della morte di Ogion, il mago le era parso un uomo ancor giovane: un giovanotto alto e di bella presenza, con un mantello grigio e un bastone con gli anelli d’argento. Adesso si rese conto che non era giovane come le era sembrato, o che, se lo era, era come prosciugato, rinsecchito. Il suo atteggiamento e il suo tono di voce erano chiaramente sprezzanti, e Tenar rispose come avrebbe fatto Goha: «Certo. Vogliate scusarmi». Non voleva guai con il mago. Fece per avviarsi verso il villaggio, ma Pioppo le gridò:
«Aspettate!»
Tenar si fermò.
«Avete detto ‘un ladro e forse anche peggio’, ma gli insulti non costano niente, e la lingua di una donna è peggio di qualsiasi ladro. Siete venuta qui per mettere cattivo sangue tra i braccianti, attraverso calunnie e bugie, il seme di drago che ogni strega sparge dietro di sé. Credevate che non vi avessi riconosciuta come strega? Quando ho visto quell’empio demone che sta sempre attaccato a voi, credete che non abbia capito subito come è nato e a che scopo? L’uomo che ha cercato di distruggere quella creatura ha fatto bene, ma occorre finire il lavoro. Mi avete sfidato una volta, sul corpo del vecchio mago, e io ho rinunciato a punirvi allora, per rispetto a lui e perché eravamo in presenza di altri. Ma adesso siete andata troppo oltre, e vi avverto, donna! Non dovete più mettere piede su queste terre. E se vi opporrete a me, od oserete parlarmi ancora, vi farò cacciare da Re Albi, sguinzaglierò i cani e vi farò buttare giù dal Grande Precipizio. Mi avete capito?»
«No», disse Tenar. «Gli uomini come voi non li ho mai capiti.»
Si voltò e fece per allontanarsi.
E allora sentì come un solletico lungo la schiena, e i capelli le si rizzarono sulla nuca. Si voltò di scatto, e vide che il mago levava verso di lei il bastone, sulla cui punta si raccoglieva un alone di scintille nere. A quel punto Pioppo aprì la bocca per parlare. Tenar pensò, in quel momento: poiché Ged ha perso la sua magia, ho pensato che l’avessero persa tutti gli uomini, ma mi sbagliavo!… Però in quell’istante una voce cortese disse:
«Oh, guarda chi c’è qui!»
Due degli uomini di Havnor mettevano piede in quel momento sulla strada. Arrivavano dal frutteto, dietro le spalle di Pioppo, e guardavano il mago e Tenar con aria di blanda superiorità, come se rimpiangessero di dover impedire a un mago di scagliare una maledizione contro una vedova di mezza età, ma, insomma, certe cose non si fanno.
«Signora Goha», la salutò l’uomo dalla camicia con i ricami in filo d’oro, rivolgendole un inchino.
Anche l’altro, quello con gli occhi chiari, si inchinò e sorrise. «La signora Goha», disse, «è una persona che, come il nostro re, porta apertamente il suo nome, senza timore. Ma visto che ora abita a Gont, forse preferisce che usiamo il suo nome locale. Tuttavia, conoscendo le sue gesta, vorrei poterle rendere omaggio; perché ha portato l’Anello che nessuna donna aveva portato dopo Elfarran». Appoggiò a terra un ginocchio, come se fosse la cosa più naturale del mondo, prese delicatamente la mano di Tenar e le sfiorò con la fronte il polso. Poi le lasciò la mano e si alzò, sorridendole gentilmente e con l’aria di averle confidato un segreto.
«Ah», disse Tenar, arrossendo compiaciuta, «c’è davvero ogni tipo di Potere, al mondo! Grazie.»
Il mago fissava la scena, immobile. Aveva chiuso le labbra senza pronunciare la fattura e aveva tirato indietro il bastone, ma sulla punta e negli occhi c’era ancora un nembo nero.
Lei non sapeva se il mago fosse già a conoscenza che era Tenar dell’Anello. Comunque, non aveva importanza. Non avrebbe potuto odiarla più di quanto non la odiasse già. La sua colpa era quella di essere una donna: la colpa più grave che potesse esserci, una colpa da cui non poteva esserci riscatto; contro una simile colpa, nessuna punizione poteva essere sufficiente. Il mago aveva visto quel che era stato fatto a Therru, e lo approvava.
«Signore», disse Tenar, rivolta all’inviato del re, «qualsiasi cosa diversa dall’onestà e dalla sincerità sarebbe offensiva verso il re che voi rappresentate… e per cui agite, ora. Vorrei rendere onore al re e ai suoi messaggeri. Ma il mio onore sta nel silenzio, finché un amico non mi libererà dall’impegno. Sono sicura, signori, che a tempo debito vi farà sapere. Ma dategli il tempo, vi prego.»
«Certo», disse uno dei due. E l’altro aggiunse:
«Tutto il tempo che desidera. E la vostra fiducia, signora, ci onora più di ogni altra cosa».
Infine, Tenar fu libera di avviarsi verso Re Albi, scossa dal cambiamento della situazione, dall’odio del mago, dal proprio disprezzo verso di lui, dal terrore nello scoprire che poteva e voleva farle del male, dalla fine improvvisa di quel terrore grazie al rifugio offerto dagli uomini del re… gli uomini venuti — con una nave dalle bianche vele — dal rifugio stesso, la Torre della Spada e del Trono, centro del diritto e dell’ordine. Il suo cuore si sollevò per la gratitudine. Adesso c’era davvero un re su quel trono, e la principale gemma della sua corona era la Runa della Pace.
La faccia del più giovane dei due inviati le piaceva: intelligente e gentile, e le piacevano il modo in cui si era inginocchiato davanti a lei, lo stesso modo in cui ci si inchina davanti a una regina, e il suo sorriso, che aveva anche una punta di malizia. Si voltò e si guardò alle spalle. I due messaggeri salivano verso il castello, insieme con il mago Pioppo. Parevano conversare amichevolmente con lui, come se non fosse successo niente.
Questo smorzò un poco le sue speranze. D’altra parte, erano uomini di corte. Non dovevano litigare, giudicare o disapprovare. E Pioppo era un mago: il mago del loro ospite. Comunque, pensò Tenar, non avrebbero dovuto camminare e parlare con lui tanto amichevolmente.
Gli uomini di Havnor rimasero per vari giorni con il Signore di Re Albi, nella speranza, forse, che l’Arcimago cambiasse idea e si recasse da loro; tuttavia non lo cercarono, né fecero pressioni su Tenar per sapere dove si trovasse. Quando alla fine si allontanarono, Tenar si disse che doveva decidere un piano d’azione. Non aveva alcun vero motivo che la trattenesse laggiù, mentre aveva due buone ragioni per andarsene: Pioppo e Faina, che certamente non avrebbero lasciato stare né lei né Therru.
Eppure non riusciva a decidersi: le era difficile pensare di andarsene. Lasciando Re Albi, avrebbe lasciato anche Ogion, l’avrebbe perso, mentre, nel prendersi cura della sua casa e nel togliere le erbacce dalle sue cipolle, le pareva che fosse ancora presente. E pensò: «Non sognerò mai più il cielo, laggiù». Lassù, dove si era posato Kalessin, lei era Tenar; laggiù nella Valle di Mezzo era solo Goha. Perciò rinviò il momento di partire. Si disse: «Devo temere quei banditi, fuggire da loro? È ciò che vogliono. Devo andare e venire a loro ordine?» Disse a se stessa: «Aspetterò finché non avrò finito di fare il formaggio». Tenne costantemente vicino a sé Therru. E i giorni passarono.
Venne a trovarla Muschio, che le raccontò una strana storia. Tenar le aveva chiesto informazioni sul mago Pioppo, senza raccontarle l’intera storia, ma limitandosi a dirle che l’aveva minacciata, cosa che, in effetti, forse era tutto quello che intendeva fare. Di solito, Muschio si teneva alla larga dalle terre del vecchio signore, ma quel che succedeva nel castello la incuriosiva, e aveva accolto di buon grado l’occasione di andare a chiacchierare con qualche sua vecchia conoscenza: una donna che le aveva insegnato l’arte della levatrice e altre che aveva curato o per le quali aveva fatto incantesimi di ritrovamento. Muschio le fece parlare di quel che avveniva al castello. Le donne odiavano Pioppo ed erano più che disposte a parlare male di lui, ma probabilmente gran parte delle loro accuse nasceva unicamente dall’odio e dalla paura. Comunque, una base di realtà doveva indubbiamente esserci. La stessa Muschio testimoniava che fino all’arrivo di Pioppo, tre anni prima, il giovane signore, nipote del castellano, aveva goduto di buona salute, anche se era un giovane timido e silenzioso; «spaventato», lo descrisse. Poi, quando era morta la madre del giovane, il vecchio signore aveva fatto venire da Roke un mago. «Perché? Con Lord Ogion a meno di un miglio di distanza? E su al castello sono tutti un po’ stregoni.»
Così era giunto Pioppo, che aveva presentato i suoi omaggi — nulla di più — a Ogion, e che, riferì Muschio, non usciva mai dal castello. Da allora, aveva continuato la strega, il nipote non si era più visto, e si diceva che stesse tutto il giorno a letto. «Sembra un bambino malato, tutto raggrinzito», aveva detto una delle donne che erano entrate nel castello per qualche commissione. Mentre il vecchio signore, «che ha cent’anni, forse più che meno», spiegò Muschio — la strega non aveva paura dei numeri, né alcun rispetto per loro -, ebbene, il vecchio signore era rifiorito, «pieno di linfa», lo definivano. E uno degli uomini (al castello tutta la servitù era composta di uomini) aveva detto a una delle confidenti di Muschio che il vecchio signore aveva fatto venire il mago perché lo facesse vivere per sempre, e che così il mago stava facendo, nutrendolo, aveva detto l’uomo, con la vita del nipote. In tutto questo, l’uomo non aveva visto niente di male, e si era limitato a commentare: «E chi non vorrebbe vivere per sempre?»
«Be’», confermò Tenar, «è davvero una brutta storia. Nel villaggio non dicono niente?»
Muschio alzò le spalle. Era la solita reazione: «Lascia perdere». La gente comune non doveva giudicare la condotta dei potenti. E c’era una sorta di fedeltà cieca, di legame con le proprie origini: il vecchio era il loro signore, il Signore di Re Albi, e nessuno poteva sindacare il suo comportamento… La stessa Muschio la pensava così, almeno in parte. «È rischioso», fu l’unico commento che fece. «Una simile trovata rischia di non riuscire», ma non disse che era qualcosa di malvagio.
Al castello nessuno aveva visto quel giovane, Faina. Per assicurarsi che avesse lasciato la zona, Tenar chiese a un paio di conoscenti, al villaggio, se avessero visto uno che gli assomigliava, ma ottenne solo qualche risposta ambigua. Non volevano avere a che fare con le sue faccende: «Lascia perdere», le dicevano come al solito. Soltanto il vecchio Ventaglio la trattava con amicizia, come una compaesana, ma probabilmente solo perché era molto miope e non aveva visto bene Therru.
Adesso, Tenar prendeva con sé la bambina quando si recava al villaggio o quando si allontanava dalla casa.
A Therru, la vicinanza forzata non dispiaceva. Stava accanto a Tenar come avrebbe fatto una bambina molto più piccola, e lavorava con lei o giocava. I suoi giochi consistevano nel ripiglino, nel fare cestini, e nel baloccarsi con un paio di figurine intagliate nell’osso che Tenar aveva trovato in un sacchettino di fili d’erba, tra le cose di Ogion. Una di esse era un animale che poteva essere un cane o una pecora, e l’altra era una figura umana, uomo o donna. Tenar non aveva percepito in essi alcuna magia, e Muschio aveva sentenziato: «Sono solo giocattoli». Per Therru, comunque, costituivano una grande meraviglia. Li muoveva per ore, creando con essi, in silenzio, lunghissime storie; quando giocava, non parlava mai. A volte costruiva casette per l’uomo e l’animale, fortini di pietre, capanne di paglia e fango. Le aveva sempre con sé: in tasca o nella loro borsa di fili d’erba. Intanto, la bambina imparava a filare: teneva la conocchia nella mano bruciata e il fuso nell’altra. Avevano continuato a pettinare con regolarità le capre fin dal giorno del loro arrivo, e adesso avevano un grosso sacco di lana da filare.
«Dovrei cominciare a istruirla», pensava Tenar, preoccupata. «Ogion mi ha detto di insegnarle tutto, e io che cosa le insegno? A cucinare e a filare?» E un’altra parte della sua mente le rispondeva, con la voce di Goha: «E non sono due arti utili e nobili? La saggezza risiede solo nelle parole?»
La cosa, però, continuò a preoccuparla, e un pomeriggio, mentre Therru pettinava la lana per pulirla e renderla più lavorabile, e lei stessa la cardava, all’ombra del pesco, disse: «Therru, forse dovresti cominciare a imparare il vero nome delle cose. C’è una lingua in cui tutte le cose hanno un nome vero, e parole e azioni sono tutt’uno. Parlando quella lingua Segoy ha innalzato le isole dal profondo del mare. È la lingua parlata dai draghi».
La bambina ascoltava in silenzio.
Tenar posò il pettine e prese da terra una piccola pietra. «In quella lingua», disse, «la pietra si chiama tolk.»
Therru la osservò attentamente e ripeté la parola, tolk, ma senza voce, limitandosi a formarla con le labbra, che erano sempre tirate verso la parte destra, a causa della cicatrice.
La pietra continuò a rimanere una semplice pietra sul palmo di Tenar.
Nessuna delle due fece commenti.
«È ancora presto», disse infine Tenar. «Forse ci sono altre cose che devo insegnarti, adesso.» Lasciò cadere a terra la pietra e riprese il pettine e una massa di lana grigia e soffice che Therru aveva preparato per la cardatura. «Forse è meglio aspettare che ti sia dato il tuo nome vero. È ancora presto. Ascolta, questo, invece, è il momento di insegnarti le storie. Posso raccontarti storie dell’Arcipelago e delle terre di Karg. Una volta ti ho narrato una storia che mi era stata raccontata dal mio amico Aihal il Taciturno. Adesso te ne racconterò un’altra che ho imparato dalla mia amica Lodola, quando la raccontava ai nostri figli. La storia di Andaur e Avad. In un tempo lontano come mai, in un paese distante come Selidor, c’era un uomo chiamato Andaur, un boscaiolo, che si recò da solo nella foresta. Un giorno, in mezzo ai boschi, abbatté una grande quercia che, nel cadere, gridò con voce umana…»
Fu un piacevole pomeriggio per tutt’e due.
Ma quella notte, mentre giaceva accanto alla bambina addormentata, Tenar non riuscì a prendere sonno. Era assillata da mille piccole preoccupazioni… Ho chiuso il cancello del recinto? La mano mi fa male perché ho cardato tanta lana, oppure sarà un inizio di artrite? E così via. Poi cominciò ad allarmarsi, perché le parve di sentire dei rumori dall’esterno. Mi sarei dovuta prendere un cane, pensò. Che sciocchezza, non avere un cane. Oggigiorno, una donna e una bambina che vivono da sole dovrebbero avere un cane. Ma questa è la casa di Ogion! Nessuno si sognerebbe di venire qui con intenzioni malvagie. Ma Ogion è morto, l’hanno sepolto tra le radici del suo albero preferito, ai margini del bosco. E non verrà nessuno ad aiutarti. Sparviero se n’è andato, è scappato via. E non è neppure più Sparviero, è un’ombra, inutile a tutti, un morto costretto a vivere. E io non ho forza, non c’è niente di buono in me. Dico la Parola della Creazione ed essa mi muore sulle labbra, è priva di significato. Una pietra. Sono solo una donna, vecchia, debole e stupida. Tutto quel che faccio è sbagliato. Tutto quel che tocco diventa cenere, ombra, pietra. Sono la creatura delle Tenebre, gonfia di Tenebre. Solo il fuoco può purificarmi. Solo il fuoco può divorarmi, consumarmi come…
Si rizzò a sedere, e gridò, nella sua lingua materna: «La maledizione ritorni su chi l’ha scagliata!» Alzò quindi la mano destra e l’abbassò, puntandola in direzione della porta. Poi balzò giù dal letto e corse alla porta, la spalancò e urlò alla foschia della notte: «Sei arrivato troppo tardi, Pioppo. Io sono già stata divorata molti anni fa. Va’ a ripulire col fuoco casa tua!»
Non ci fu risposta, non si udì alcun rumore, tranne un vago, sgradevole puzzo di bruciato, come se avessero dato fuoco a dei capelli o a della lana.
Tenar sbarrò la porta, vi appoggiò il bastone di Ogion, e andò a controllare Therru, per vedere se dormiva ancora. Però, quella notte, non riuscì a prendere sonno.
La mattina seguente, Tenar portò Therru al villaggio: intendeva chiedere a Ventaglio se voleva la lana che lei e la bambina avevano filato. Era soprattutto una scusa per allontanarsi dalla casa e per stare per qualche tempo tra la gente. Il vecchio disse che sarebbe stato lieto di tessere la sua lana, e parlarono per qualche minuto, sotto il grande ventaglio dipinto, mentre l’apprendista li guardava imbronciata e continuava a manovrare la spola. Quando Tenar e Therru lasciarono la casa del tessitore, qualcuno corse a nascondersi dietro la casetta in cui, un tempo, Tenar era andata ad abitare. La donna si sentì pungere il collo come da api o vespe, e udì un ticchettio, come se piovesse… ma in cielo non c’erano nuvole. Poi vide i sassolini che cadevano a terra. Therru si fermò e si guardò attorno, senza capire. I due ragazzini che si erano nascosti dietro la casupola corsero via, senza preoccuparsi eccessivamente di non farsi riconoscere, ridendo e schiamazzando.
«Andiamo via», disse Tenar, seccamente. In breve tempo raggiunsero la casa di Ogion.
Tenar tremava: un tremito che era peggiorato mentre si avvicinava alla casa. Cercò di non farsi vedere da Therru, che era perplessa ma non impaurita, poiché non aveva ancora capito che cosa fosse successo.
Non appena entrata in casa, Tenar capì che c’era stato qualcuno, durante la loro assenza. Le stanze puzzavano di capelli e di carne bruciati. Sul letto, la coperta era in disordine.
Quando cercò di ragionare sul da farsi, capì che le avevano fatto una fattura. La fattura era scattata quando lei era entrata nella casa. Tenar continuava a tremare e aveva la testa confusa, lenta; si sentiva incapace di decidere. Non riusciva a connettere bene. Aveva detto la parola, il nome vero della pietra, e la pietra era stata scagliata contro di lei, contro la sua faccia… la faccia del male… Aveva osato parlare… Non dovevo parlare…
Pensò, nella sua lingua materna: non posso pensare in hardico. Non devo farlo.
Poteva ancora pensare, invece, nella lingua di Karg. Lentamente, però, perché era come dover chiedere alla bambina Arha, che era il nome di Tenar, molto tempo addietro, di uscire dal buio e di pensare per lei. Di aiutarla. Come l’aveva aiutata quella notte, quando aveva rispedito l’incantesimo contro il mago che l’aveva scagliato. Arha non conosceva tante cose che invece erano note a Tenar e a Goha, ma sapeva come lanciare una maledizione, come vivere al buio, e come non fare rumore.
Era difficile, però, non fare rumore. Avrebbe voluto mettersi a gridare. Avrebbe voluto correre da Muschio per riferirle quel che era successo, perché aveva capito che doveva andarsene e desiderava almeno salutarla. Cercò di dire a Erica: «Adesso, le capre sono tue», e riuscì a dirlo in hardico, perché la ragazza capisse, ma Erica si limitò a fissarla e a ridere. «Sono di Lord Ogion!» rispose.
«Allora…» Tenar si sforzò di dire, «continua… a custodirle per lui», ma sentì un’orribile nausea e si trovò invece a dire, in tono stridulo: «Stupida deficiente, testa vuota!» Erica la fissò e smise di ridere. Tenar si coprì la bocca e prese per mano la ragazza: la condusse nella capanna della mungitura. Là le indicò i formaggi che invecchiavano sugli scaffali e poi indicò la stessa Erica, e poi i formaggi, e poi Erica… varie volte, finché la ragazza non le fece un cenno affermativo e poi rise di nuovo perché Tenar si comportava in modo strano.
Tenar fece un cenno del capo a Therru: «Andiamo!» ed entrò nella casa, dove l’odore sgradevole era ancora più forte. Therru rabbrividì.
Tenar prese i loro zaini e le loro scarpe da viaggio. Infilò nel proprio zaino le camicie e le vesti di ricambio, i vecchi abiti di Therru e quello non ancora terminato, la tela avanzata; i fusi che aveva preparato per se stessa e per Therru, un po’ di cibo e una borraccia d’acqua per il viaggio. Nello zaino di Therru mise invece i suoi cestini, la figurina umana e quella dell’animale nella loro borsa di fili d’erba, alcune penne, un piccolo tappeto a disegni geometrici che Muschio aveva regalato alla bambina e un sacchetto di noci e di altra frutta secca.
Avrebbe voluto dirle: «Va’ a bagnare il pesco», ma non osò farlo. Prese la bambina e glielo mostrò. Therru bagnò con attenzione la pianticella.
Spazzarono e misero in ordine la casa, lavorando in fretta e in silenzio.
Nel mettere sullo scaffale una pentola, scorse dall’altra parte dell’asse di legno i tre grossi libri di Ogion.
Arha li vide senza attribuire loro alcuna importanza: tre grosse copertine di cuoio piene di fogli di carta.
Ma Tenar li fissò e si morse le mani, aggrottando la fronte per la difficoltà di prendere una decisione, di sapere che cosa farne, di trovare il modo di trasportarli. Non aveva posto per loro. Ma doveva portarli via. Non potevano rimanere in quella casa sconsacrata, la casa dove era entrato l’odio. Erano di Ogion. Di Ged. Suoi. Contenevano la conoscenza. «Insegnale tutto!» Tolse dalla sacca la lana e la stoffa, e al loro posto mise i libri, uno sull’altro, e chiuse la sacca con una cinghia di cuoio che permetteva di portarla come una borsa. Poi disse: «Dobbiamo andare via, Therru». Lo disse nella lingua di Karg, ma il nome della bambina era lo stesso, era una parola Karg, «fiamma». La bambina la seguì senza fare domande, dopo essersi messa sulle spalle tutti i suoi averi, chiusi nel piccolo zaino.
Presero i bastoni, quello di nocciolo e quello di ontano. Lasciarono il bastone di Ogion al suo posto, dietro la porta, nell’angolo buio. Non chiusero la porta: la lasciarono aperta al vento di mare.
Con un sesto senso quasi animalesco, Tenar si tenne lontana dai campi e dalla strada montana che avevano percorso all’andata. Prese una scorciatoia che passava per i pascoli sulle pendici del monte, e raggiunse la strada carreggiabile che scendeva a Porto Gont, con stretti tornanti. Sapeva che un incontro con Pioppo le sarebbe stato fatale, e pensò che il mago la aspettasse lungo la strada. Ma, si augurò, non su quella strada.
Dopo circa un miglio di cammino, fu di nuovo in grado di pensare. Il suo primo pensiero fu di soddisfazione per avere fatto la cosa giusta. Le parole hardiche le ritornavano in mente, e dopo qualche tempo anche quelle vere: per controllare, si chinò a raccattare un ciottolo e lo tenne in mano, dicendo mentalmente tolk; s’infilò in tasca il ciottolo. Poi alzò gli occhi verso le vaste distese di cielo e di nubi, e disse mentalmente, una sola volta: «Kalessin». E la mente le ritornò pulita, come era pulito quel cielo.
Arrivarono in un punto dove la strada passava tra alti argini di terra e rocce, e laggiù Tenar provò una vaga sensazione d’ansia. Quando giunsero alla curva, videro sotto di loro la baia dalle acque color azzurro cupo e una bellissima nave che entrava tra i promontori, a vele spiegate. Tenar aveva temuto la nave giunta in precedenza, ma non quella. Sentì il desiderio di correre verso di essa, di raggiungerla.
Ma non poteva farlo. Camminavano al passo di Therru. Era un passo più veloce di quello di due mesi prima, e anche il fatto di andare in discesa aveva la sua importanza. Ma la nave correva verso di loro. Doveva avere nelle vele il vento magico: attraversò la baia come un cigno in volo, e attraccò al molo prima ancora che Tenar e Therru fossero giunte al tornante successivo.
Tutte le città, di qualsiasi dimensione, erano luoghi strani per Tenar, che non aveva mai abitato in una di esse. Una volta aveva visto la più grande città di Earthsea, Havnor, e vi era rimasta per qualche tempo; ed era già stata a Porto Gont con Ged, anni prima; però, anche allora, si erano diretti subito verso la strada per Re Albi, senza soffermarsi nelle vie. La sola altra città che conosceva era Valmouth, dove abitava sua figlia: un piccolo porto sonnolento, dove l’arrivo di una nave dalle Andrades costituiva un grande avvenimento, e la maggior parte delle conversazioni degli abitanti aveva per oggetto il pesce secco.
Quando lei e la bambina giunsero a Porto Gont, il sole era ancora alto al di sopra dell’orizzonte occidentale. Therru aveva percorso quindici miglia senza lamentarsi ed era in grado di camminare ancora, anche se certamente doveva essere stanca. Anche Tenar era stanca, sia perché non aveva dormito la notte precedente, sia perché era preoccupata; e anche il peso dei libri di Ogion aveva contribuito a stancarla. A metà strada li aveva tolti dalla sacca a mano e li aveva messi nello zaino a spalla, al posto di una parte dei vestiti; era stato un miglioramento, certo, ma limitato. Così giunsero finalmente alle case fuori della cinta, e poi alla porta della città, dove la strada passava tra due draghi di pietra e diventava una via cittadina. Un uomo, messo laggiù di guardia, le studiò. Therru piegò sulla spalla la guancia ustionata e nascose sotto il grembiule la mano rattrappita.
«Andate da qualcuno in città, comare?» chiese la guardia, osservando con la coda dell’occhio la bambina.
Tenar non seppe che cosa rispondere. Non aveva mai pensato che ci fossero delle guardie, alle porte delle città. Non aveva denaro con cui pagare un pedaggio o una locanda. Non conosceva nessuno a Porto Gont, tolto — le venne in mente all’improvviso — il mago che era venuto a seppellire Ogion, come si chiamava? Non l’aveva mai saputo. Rimase a bocca aperta davanti all’uomo, come Erica.
«Andate, andate», disse la guardia, annoiata, e si girò dall’altra parte.
Tenar avrebbe voluto chiedergli la strada per il promontorio a sud, quella che passava per la costa e arrivava a Valmouth, ma non osò destare nuovamente il suo interesse, con il rischio che l’uomo la prendesse per una vagabonda, una strega o altre cose, quali che fossero, che lui e i draghi di pietra dovevano tenere lontano da Porto Gont. Cosi passarono in mezzo ai draghi — e Therru alzò per un istante lo sguardo, perché voleva vederli — e proseguirono camminando sul selciato, sempre più stupite e timorose. Tenar aveva l’impressione che, nonostante i draghi, tutte le cose e le persone del mondo fossero presenti in quella città. Alte case di pietra, carri di tutte le dimensioni, carretti a mano, mucche, asini, mercati, negozi e botteghe, folla, gente, e ancora gente: più strada facevano, più la gente era fitta. Therru si aggrappò alla mano di Tenar, piegò di lato la testa, si nascose la faccia dietro i capelli. E Tenar strinse con forza la mano della bambina.
Non sapeva come pagarsi la permanenza in quella città, e perciò le parve che l’unica cosa da fare fosse quella di andare verso sud e di camminare fino al tramonto (ormai mancava poco) con la speranza di potersi accampare nei boschi. Tenar vide una donna grassa, con un grembiule bianco, che metteva le imposte alla porta di un negozio, e si diresse verso di lei, per chiederle come raggiungere l’uscita sud della città. La donna aveva una faccia rossa e larga e l’aria socievole, ma mentre Tenar si faceva coraggio per parlarle, Therru le strinse forte la mano e fece per nascondersi dietro di lei; girandosi da quella parte, Tenar vide venire verso di loro, lungo la strada, l’uomo dal berretto di cuoio, Faina. Questi le vide nello stesso momento e si fermò.
Tenar prese Therru per il braccio e la tirò, trascinandola via. «Vieni!» disse, e passò davanti all’uomo, poi accelerò il passo e scese verso le macchie di luce e di buio del mare illuminato dal sole al tramonto, verso i magazzini e i moli ai piedi della ripida stradina. Therru corse con lei, ansimando come il giorno in cui era stata bruciata.
Sullo sfondo del cielo rosso e giallo si vedevano dondolare altissimi alberi. La nave che Tenar aveva visto arrivare aveva ammainato le vele ed era ferma accanto al molo, dietro una galea.
Tenar si guardò alle spalle. L’uomo le seguiva, a poca distanza da loro. Pareva non avere fretta.
Corsero lungo il molo, ma dopo qualche tempo Therru incespicò e non fu più in grado di proseguire: era esausta. Tenar la prese in braccio, e la bambina si tenne a lei, nascondendo la faccia contro la sua spalla. Ma Tenar, con quel peso, riusciva a malapena a camminare. Le tremavano le ginocchia. Fece un passo, poi un secondo e un terzo. Arrivò alla passerella che avevano gettato tra il molo e la tolda della nave. Si tenne alla ringhiera.
Un marinaio appoggiato alla murata — un individuo magro e muscoloso, dalla testa calva — la guardò con attenzione. «Qualcosa non va, comare?» chiese.
«Questa nave… viene da Havnor?»
«Dalla Città del Re, certo.»
«Fatemi salire!»
«Be’, io non sono autorizzato a farlo», rispose il marinaio, sorridendo, e subito distolse lo sguardo; ora guardava l’uomo che si era affiancato a Tenar.
«Non dovete fuggire», disse Faina. «Non voglio farvi del male. Voi non capite. Sono stato io a cercare aiuto per la bambina, non lo sapete? Mi è davvero dispiaciuto per quello che è successo. Ma voglio aiutarvi a tenere la bambina.» Così dicendo, alzò la mano, come se qualcosa di irresistibile gli imponesse di toccare Therru. Tenar non riusciva a muoversi. Aveva promesso alla bambina che quell’uomo non l’avrebbe mai più toccata, ma ora la mano di Faina stava toccando il braccio nudo e tremante di Therru.
«Che cosa volete, voi?» chiese un’altra persona. Al posto del marinaio calvo ne era comparso un altro: un giovanotto. Tenar pensò che fosse suo figlio.
Faina parlò in fretta. «Ha preso… ha rapito la bambina. Mia nipote, è mia. L’ha stregata, è scappata via con lei, e…»
Tenar non poteva parlare. Le avevano di nuovo portato via le parole. Il giovane marinaio non era suo figlio. Aveva un volto affilato e severo, occhi chiari. Guardando quel volto, Tenar trovò le parole: «Lasciatemi salire a bordo. Vi prego!»
Il giovane le tese la mano. Tenar la prese, e lui la aiutò ad attraversare la passerella e a salire sul ponte della nave.
«Aspettate laggiù», disse a Faina; poi si rivolse a Tenar: «Venite con me».
Ma Tenar non riusciva a reggersi in piedi. Si afflosciò, come un fagotto di stracci, sul ponte della nave venuta da Havnor. Si lasciò sfuggire il sacco pesante, ma non la bambina. «Non permettetegli di prenderla, oh, non permetteteglielo più!»