«Aspettalo», le aveva detto Ogion, che adesso era chiamato Aihal, un attimo prima che il vento della morte lo scuotesse per staccarlo dal mondo dei vivi. «È finita. Tutto è cambiato», le aveva detto, in un bisbiglio, e poi: «Tenar, aspettalo…» Ma non le aveva detto chi o che cosa. Forse Ogion aveva visto il cambiamento… ma che cambiamento? Che intendesse parlare della propria morte, della vita che lo stava abbandonando? Aveva parlato con gioia, con esultanza. E con le sue parole le aveva conferito l’incarico di rimanere là ad attendere.
«Che altro posso fare?» si chiese Tenar mentre spazzava il pavimento della casa di Ogion. «Che cos’altro ho fatto, in tutta la mia vita?» E, rivolgendosi al ricordo di lui, gli domandò: «Devo attendere qui, nella tua casa?»
«Si», le rispose Aihal il Taciturno senza parlare e le sorrise.
Cosi, lei spazzò la casa, svuotò il focolare della cenere, e portò fuori i giacigli. Gettò via un po’ di terraglia sbreccata e una pentola che perdeva, ma le trattò affettuosamente. Accostò anche la guancia a un piatto con una grossa crepa, prima di buttarlo tra le immondizie, perché era una testimonianza di quanto il mago fosse malato l’anno precedente. Era un uomo semplice, vissuto poveramente come un qualsiasi contadino, ma quando i suoi occhi erano limpidi e aveva ancora tutta la sua forza, non avrebbe mai usato un piatto sbreccato, né avrebbe permesso a una pentola di rimanere con un buco. Questi segni della sua debolezza addoloravano la donna, le facevano rimpiangere di non essere venuta a prendersi cura di lui. «Sarei stata lieta di farlo», disse al ricordo di lui, ma il mago non le rispose. Non aveva mai desiderato che qualcun altro si occupasse di lui: voleva essere sempre in grado di badare a se stesso. Le avrebbe detto: «Non hai qualcosa di meglio da fare?» Tenar non lo sapeva. Ogion rimase in silenzio. Ma adesso era sicura di poter stare nella sua casa.
Prunella e il suo vecchio marito, Rivochiaro, che abitavano nella fattoria della Valle di Mezzo già da prima che lei ci arrivasse, potevano prendersi cura degli animali e delle piante; l’altra coppia che abitava nella fattoria, Tiff e Sis, si sarebbe occupata dei campi. Il resto sarebbe rimasto com’era, almeno per un po’ di tempo. I lamponi di Tenar li avrebbero raccolti i figli dei vicini. Peccato; i lamponi le piacevano. Lassù, sopra il Grande Precipizio, con la brezza del mare che non cessava mai, faceva troppo freddo per coltivare i lamponi. Ma il vecchio pesco di Ogion, nel suo angolo riparato e rivolto a sud, aveva diciotto frutti, e Therru li teneva d’occhio come un gatto che sorveglia un topo, finché, un giorno, la bambina entrò in casa e, con la sua voce roca, disse a Tenar: «Due delle pesche sono tutte rosse e gialle».
«Ah», commentò la donna. Si recarono insieme all’albero, staccarono le due pesche mature e le mangiarono immediatamente, senza sbucciarle, imbrattandosi di succo il mento e leccandosi le dita.
«Posso piantarlo?» chiese Therru, mostrando il suo rugoso nocciolo di pesca.
«Certo. Il posto è buono, vicino all’altro albero. Ma non troppo vicino. Tutt’e due devono avere spazio per le radici e per i rami.»
La bambina scelse un punto e scavò una piccola fossa. Vi collocò il nocciolo e poi lo coprì. Tenar la osservò attentamente. Nel poco tempo trascorso da quando erano andate ad abitare lassù, Therru le pareva cambiata. Era ancora priva di reazioni, senza collera e senza gioia; ma in quei giorni la sua assoluta concentrazione, la sua immobilità si erano quasi impercettibilmente allentate. Therru aveva desiderato quelle pesche. Le era venuto in mente di piantare il nocciolo, di aumentare il numero di pesche che esistevano al mondo. Alla Fattoria delle Querce c’erano solo due persone di cui non avesse paura: Tenar e Lodola; ma a casa di Ogion aveva fatto subito amicizia con Erica, la pastorella di Re Albi, una giovane di vent’anni, un po’ debole di mente ma dalla voce forte e dal carattere dolce, che trattava la bambina come se appartenesse anche lei al gregge, come un capretto zoppo. Tenar non aveva niente in contrario. E non aveva niente contro Zia Muschio, indipendentemente dalla sua scarsa pulizia.
Quando Tenar era giunta a Re Albi, venticinque anni prima, Muschio non era una vecchia fattucchiera ma una giovane strega. Si inchinava davanti alla «giovane signora», alla «Signora Bianca», pupilla e allieva di Ogion, e le parlava sempre con il massimo rispetto. Tenar aveva avuto l’impressione che quel rispetto fosse falso e che nascondesse un’invidia, un’antipatia e una sfiducia che aveva incontrato molte volte nelle donne rispetto alle quali si era trovata in posizione di superiorità, donne che vedevano se stesse come normali e lei come straordinaria e privilegiata. Sacerdotessa delle Tombe di Atuan o pupilla straniera del mago di Gont, lei era distante dalle altre, superiore. Gli uomini le avevano dato il Potere, avevano condiviso il loro Potere con lei. Le donne la guardavano da lontano, a volte con rivalità, a volte con aria leggermente beffarda.
E Tenar si era sempre sentita abbandonata, esclusa. Era fuggita via dai Poteri delle Tombe del deserto, e poi era fuggita dai Poteri delle conoscenze e delle capacità che le offriva il suo tutore, Ogion. Aveva voltato la schiena a tutto questo, era andata dall’altra parte, nell’altra stanza, dove vivevano le donne, per essere una di loro. Una moglie, la moglie di un agricoltore, una padrona di casa, che si serviva dei Poteri che spettavano per nascita alle donne, dell’autorità che le concedeva il mondo.
E laggiù nella Valle di Mezzo, a Goha, moglie di Selce, le donne avevano sempre dato il benvenuto; certo, lei era una straniera dalla pelle bianca, che parlava in modo bizzarro, ma era anche una buona padrona di casa, bravissima a filare, con dei figli robusti e bene educati, e una fattoria ricca: una persona rispettabile. E per gli uomini lei era la moglie di Selce, che faceva quel che doveva fare una donna: letto, figli, torte, minestre, pulizia, filatura, cucito, lavare i piatti e servire in tavola. Un’ottima donna. La approvavano. Selce, dopotutto, non aveva sbagliato, dicevano. Come sarà fatta, una donna bianca? Sarà bianca dappertutto? dicevano i loro occhi, quando la guardavano, finché non raggiunse la mezza età e gli uomini non le badarono più.
Ma ora, nella casa di Ogion, le cose erano diverse. Da quando lei e Muschio avevano vegliato insieme il morto, la vecchia le aveva fatto capire di volerle essere amica, seguace, serva, qualsiasi cosa Tenar le chiedesse. Tenar non sapeva bene in quale veste preferire la strega, che era una donna imprevedibile, inaffidabile, misteriosa, collerica, ignorante, astuta e sporca. Ma Muschio voleva bene alla bambina. E forse era proprio merito di Muschio il cambiamento avvenuto in Therru, quel rilassamento appena percettibile. All’inizio, quando era con la strega, Therru si comportava come sempre: era assente, non reagiva, era docile come può esserlo un oggetto inanimato, una pietra. Ma la vecchia aveva continuato a blandirla, offrendole dolci e altri tesori, pregandola e supplicandola. «Vieni con Zia Muschio, cara! Vieni, e Zia Muschio ti mostrerà la cosa più bella che hai mai visto…»
Muschio aveva un naso lungo lungo, labbra sottili ed era sdentata; su una guancia spiccava una verruca grossa come un nocciolo di ciliegia; i suoi capelli grigi erano un solo, indescrivibile garbuglio di ricci e di nodi magici; e aveva un afrore forte e pungente, profondo e complesso come quello di una tana di volpe. «Carina, vieni con me nella foresta!» dicevano le vecchie streghe nelle favole che si raccontavano ai bambini di Gont. «Vieni con me, che ti mostrerò qualcosa di bello!» E poi la strega ficcava la bambina nel forno, la arrostiva ben bene e se la mangiava, o la trasformava in mostro e la gettava nel pozzo, dove poi la poverina gracidava e saltava, triste e disperata, per tutta l’eternità, o la metteva a dormire per cent’anni dentro una grande pietra, finché non giungeva il Figlio del Re, il Principe Mago, che con una sola parola spezzava la pietra, con un bacio ridestava la giovane e poi uccideva la strega cattiva…
«Vieni con me, cara!» E portava la bambina nei campi e le mostrava un nido di allodola in mezzo al verde del grano, la portava nella palude per raccogliere funghi, menta selvatica e mirtilli. Non aveva bisogno di chiudere la bambina nel forno, di trasformarla in un mostro o di sigillarla nella pietra. Gliel’avevano già fatto.
Muschio era gentile con Therru e la viziava; quando erano insieme, le parlava a lungo. Tenar non sapeva che cosa la strega raccontasse o insegnasse alla bambina, e se dovesse permetterle di riempirle la testa dei suoi insegnamenti. Debole come la magia delle donne, perfido come la magia delle donne, le avevano detto centinaia di volte. E in effetti Tenar aveva visto quanto la magia di donne come Muschio o Edera avesse, spesso, poco senso e a volte fosse addirittura malvagia, intenzionalmente o per ignoranza. Le streghe di villaggio, anche se conoscevano molte formule e molti incantesimi e alcuni dei grandi canti, non conoscevano mai le Grandi Arti e i princìpi della magia. Nessuna donna riceveva quel genere di insegnamenti. L’alta magia era un lavoro per uomini, richiedeva capacità maschili; l’alta magia era fatta da uomini. Non c’era mai stato un mago di sesso femminile. Anche se alcune donne si erano date il nome di maga o incantatrice, il loro Potere non era addestrato, era una forza priva di arte e conoscenza, per metà superficiale, per l’altra metà pericolosa.
Le comuni streghe di villaggio, come Muschio, campavano su alcune parole della Lingua Vera tramandate come un grande tesoro da streghe più anziane, o comprate a caro prezzo dai maghi, oltre che su un certo numero di incantesimi banali per trovare e per riparare, e molti rituali inutili che servivano solo a fare impressione sugli altri, una buona esperienza come levatrici, come conciaossa, e nel curare le malattie degli uomini e degli animali, una buona conoscenza delle erbe unita a un mucchio di superstizioni… il tutto in aggiunta a eventuali doti naturali di curare, incantare, cambiare forma o fare fatture. Una simile miscela poteva essere indifferentemente buona o cattiva. Alcune streghe erano donne cattive e amareggiate, pronte a fare del male e prive di ragioni che impedissero loro di farne. In genere erano levatrici e guaritrici con in più qualche pozione amorosa, qualche incantesimo per la fertilità e contro l’impotenza, e un fondamento di recondito cinismo. Alcune, quelle che disponevano di una certa dose di saggezza istintiva, usavano il loro dono solamente per fare del bene, anche se non avrebbero saputo spiegare, diversamente da qualsiasi apprendista mago, il motivo delle loro azioni, e ciarlavano dell’Equilibrio e della Via del Potere per giustificare le loro azioni o le loro rinunce. «Io seguo il mio cuore», aveva detto una di queste donne a Tenar, che allora era l’allieva e la protetta di Ogion. «Lord Ogion è un grande mago. Vi fa un grande onore, insegnandovi. Ma guardate dentro di voi, bambina, e vedrete che quel che vi insegna è, in fondo, seguire il vostro cuore.»
Tenar già allora aveva pensato che la donna avesse ragione, ma non del tutto; oltre a quello, ci doveva essere anche dell’altro, e ne era tuttora convinta.
Ora, mentre guardava Muschio e Therru, pensò che Muschio seguiva il proprio cuore, ma che era un cuore scuro, selvatico, strano come quello di un corvo: un cuore che badava comunque ad assecondare i propri interessi. E pensò che ad attrarre Muschio non era solo la compassione per Therru, ma la sventura della bambina, il male che le era stato fatto con la violenza e con il fuoco.
Nulla di ciò che Therru faceva o diceva, però, sembrava frutto degli insegnamenti di Zia Muschio, se non il modo per scoprire il nido dell’allodola o individuare il luogo in cui raccogliere i mirtilli, oppure la maniera per fare il ripiglino con una mano sola. La mano destra di Therru era stata talmente consumata dal fuoco che, quando si era rimarginata, le era rimasto solo il pollice, e lei lo usava come una chela di granchio. Ma Zia Muschio aveva una sorprendente quantità di figure di ripiglino per quattro dita e un pollice, ciascuna con la sua poesiola:
Batti batti abbatti tutto!
Brucia brucia interra tutto!
Vieni, drago, vieni!
e il cordino formava quattro triangoli che si trasformavano in un quadrato… Therru non cantava mai i versetti, ma Tenar glieli sentiva bisbigliare mentre giocava da sola, con il cordino, seduta sulla soglia della casa di Ogion.
E, si chiedeva Tenar, quale legame univa lei, lei stessa, alla bambina, oltre alla pietà e al dovere di aiutare gli infelici? Se non l’avesse presa Tenar, Lodola l’avrebbe voluta con sé. Ma Tenar l’aveva presa con sé senza neppure chiedersene la ragione. Aveva seguito il proprio cuore? Ogion non le aveva chiesto niente della bambina, ma aveva detto: «Impareranno a temerla…» E Tenar aveva risposto: «La temono già adesso», ed era vero. Forse lei stessa aveva temuto la bambina, perché temeva la violenza e il fuoco. Era il timore, il legame che la univa a lei?
«Goha», disse Therru, seduta sui calcagni, sotto il pesco, lo sguardo fisso sul punto dove aveva piantato il nocciolo di pesca nel duro terreno estivo. «Che cosa sono i draghi?»
«Grandi creature», spiegò Tenar, «simili alle lucertole, ma lunghe più di una nave, più di una casa. Hanno le ali come gli uccelli, e soffiano fuoco dalla bocca.»
«Vengono qui?»
«No», rispose Tenar.
Therru non fece altre domande.
«È stata Zia Muschio a parlarti dei draghi?» chiese Tenar.
Therru scosse la testa. «Sei stata tu», disse.
«Ah», rispose Tenar. E, dopo qualche istante: «La pesca che hai piantato ha bisogno di acqua per poter crescere. Una volta al giorno, finché non arriverà la stagione delle piogge».
Therru si alzò in piedi e trotterellò fino al pozzo che si trovava dietro la casa. Gambe e piedi della bambina erano perfetti, indenni. A Tenar piaceva vederla correre o camminare: era bello vedere quei piccoli piedi, scuri e impolverati, che si alzavano e si abbassavano sul terreno. La bambina tornò con l’innaffiatoio di Ogion, curva sotto il suo peso, e versò un filo d’acqua sulla piantina.
«Allora, ti ricordi la storia di quando uomini e draghi erano una sola razza», disse Tenar. «Parlava di come gli uomini sono giunti qui, mentre i draghi sono rimasti nelle lontane Isole Occidentali. Molto, molto lontano.»
Therru annuì. Pareva che non prestasse attenzione, ma quando Tenar, dicendo «isole dell’Occidente», puntò la mano verso il mare, la bambina si voltò a guardare l’alto, chiaro orizzonte che si vedeva tra i paletti dell’orto di fagioli e la capanna della mungitura.
Sul tetto della capanna comparve una capra, che si fermò di profilo rispetto a loro, la testa nobilmente levata; sembrava convinta di essere uno stambecco.
«Sippy è di nuovo uscita», disse Tenar.
«Hess! Hess!» cominciò a fare Therru, imitando il richiamo di Erica; e la stessa Erica comparve accanto al cancello dell’orto, e si mise a fare «Hess!» alla capra, che tuttavia la ignorò per continuare ad adocchiare i fagioli.
Tenar le lasciò giocare ad «acchiappa-Sippy». Attraversò il filare di fagioli e si diresse verso il ciglio del burrone, per poi mettersi a passeggiare su di esso. La casa di Ogion era la più lontana dal villaggio e la più vicina al Precipizio che, in realtà, vicino al villaggio era solo un pendio coperto d’erba, interrotto da sporgenze di roccia dove potevano pascolare le capre. Andando a nord, invece, il pendio diventava sempre più ripido, finché non diventava un vero e proprio strapiombo; percorrendo il sentiero, si vedeva affiorare progressivamente la roccia dalla terra finché, a circa un miglio dal villaggio, la sporgenza si riduceva a una stretta cornice di arenaria rossa, sospesa sul mare che ne erodeva la base duemila piedi più sotto.
A quell’estremità del Precipizio crescevano solo pochi licheni e muschi, e qua e là una viola raggrinzita dal vento, come un bottone caduto sulla pietra scabra ed erosa. Andando invece dal ciglio verso l’interno dell’isola, a nord e a est, dietro una stretta fascia di paludi, si innalzava la scura e tremenda pendice del Monte di Gont, coperto di foresta fino alla cima. La rupe era cosi alta al di sopra della baia che occorreva sporgersi per vedere la costa e la pianura di Essary. Al di là di quelle, a sud e a ovest, c’erano solo cielo e mare.
Durante gli anni trascorsi a Re Albi, a Tenar era sempre piaciuto recarsi in quel luogo. Ogion amava le foreste, ma lei era vissuta in un deserto dove gli unici alberi nel giro di cento miglia erano quelli di un frutteto di meli e di peschi rachitici, che dovevano essere bagnati a mano nel corso di estati interminabili, dove nulla cresceva verde, umido e con facilità, dove non c’era nulla al di fuori della montagna, di una grande pianura e del cielo: Tenar preferiva quindi il ciglio del Precipizio al bosco avvolgente. Preferiva non avere alcunché sopra la testa.
Anche i licheni, il muschio grigio, le viole senza stelo le erano cari; erano presenze familiari. Si sedette sulla roccia, a poca distanza dall’orlo del Precipizio, e fissò il mare come faceva un tempo. Il sole era caldo, ma la brezza, che soffiava senza interruzione, le rinfrescava il viso e le braccia. Appoggiò le mani a terra e non pensò a niente: il sole, l’aria, il cielo e il mare colmavano tutto il suo essere, la rendevano trasparente a sole, aria, cielo, mare. Ma la mano sinistra le ricordò la propria esistenza, e lei si girò a guardare che cosa le pungeva il palmo. Era un piccolo cardo, nascosto in una fessura della pietra, che levava alla luce e all’aria le sue spine sottili. Si inclinava rigidamente al soffio del vento, e gli si opponeva, con le radici sprofondate nella roccia. Tenar lo osservò a lungo.
Quando tornò a guardare in direzione del mare, scorse una linea più blu sul blu del cielo e delle acque. Il profilo di un’isola: Oranéa, la più orientale delle Isole Interne.
Fissò quella debole forma di sogno, e si perse in una fantasticheria, finché lo sguardo non le cadde su un uccello che veniva da ovest e che volava sul mare. Non era un gabbiano, perché volava senza mai cambiare direzione, ed era troppo in alto per essere un pellicano. Che fosse un’oca selvatica o un albatro, il grande, raro trasvolatore degli oceani aperti, venuto sulle isole? Osservò il lento battito delle ali, lontano, nell’aria talmente chiara da ferire gli occhi. Poi si alzò e indietreggiò un poco, senza fiato e con il cuore che le batteva all’impazzata, e osservò il corpo sinuoso, scuro come il ferro, sostenuto da ampie ali rosse come il fuoco, i lunghi artigli, le spire di fumo che svanivano dietro di lui nell’aria.
Il drago volava verso Gont, direttamente verso il Grande Precipizio, direttamente verso di lei. Tenar vide lo scintillio delle scaglie scure e il balenio del grande occhio. Scorse la rossa lingua che era una lingua di fiamma. L’odore di bruciato riempì l’aria quando il drago, con un ruggito, si girò per posarsi sulla cengia di roccia ed emise un sospiro di fuoco.
Con un forte rumore metallico, le zampe del drago urtarono la pietra. La coda munita di aculei si contorse e risuonò come quella di un serpente a sonagli, e le ali, la cui trasparenza scarlatta lasciava filtrare la luce del sole, frusciarono e mossero l’aria come giganteschi ventagli nel ripiegarsi contro i fianchi corazzati. Poi il drago voltò lentamente la testa e guardò la donna ferma sulla cengia, a portata dei suoi artigli affilati come falci. Tenar ricambiò il suo sguardo, avvertendo il calore del corpo dell’animale.
Le avevano sempre detto che non si deve mai fissare un drago negli occhi, ma lei ignorò l’avvertimento. Gli occhi del drago erano gialli ed enormi, molto distanziati tra loro e protetti dalla cresta della corazza; sotto gli occhi, Tenar scorse il muso affilato e le froge rosse e fumanti. Il drago la fissava, ma la donna non abbassò gli occhi neri né girò altrove il piccolo viso, mantenendo la sua espressione dolce e tranquilla.
Nessuno dei due parlò.
Il drago scostò di lato la testa, per non distruggere la donna con il suo fiato, ed emise un grande «Aah!» di fiamma arancione, che forse era un sospiro, forse una risata.
Poi si piegò sulle ginocchia e questa volta parlò davvero, ma non si rivolse alla donna.
«Ahivaraihe, Ged», disse, con voce sommessa, tra una nuvoletta di fumo e un guizzo della sua lingua di fiamma; poi abbassò la testa.
E allora, per la prima volta, Tenar vide l’uomo seduto sul suo dorso, nell’incavo tra due delle grandi spine che gli correvano lungo la schiena, sopra l’attaccatura delle ali. Con le mani, l’uomo si teneva alle squame color ruggine del collo, e appoggiava la testa alla spina, lunga e appuntita come una spada, come se dormisse.
«Ahi eheraihe, Ged!» disse il drago, un poco più forte. La sua lunga bocca pareva sempre sorridere; vi si scorgevano denti lunghi come l’avambraccio della stessa Tenar, giallo-avorio e con la punta acuminata e bianca.
L’uomo non si mosse.
Il drago voltò la lunga testa e guardò Tenar.
«Sobriost», le disse, con un fruscio simile a quello dell’acciaio che scivola sull’acciaio.
Tenar conosceva quella parola della Lingua della Creazione. Ogion le aveva insegnato tutte le parole che lei era disposta a imparare. «Sali», le aveva detto il drago. «Monta.» E Tenar scorse gli scalini su cui doveva salire: la zampa con i suoi artigli, il gomito piegato, la spalla, il muscolo dell’ala; quattro scalini.
Anche lei disse «Aah», ma senza ridere, e solo per riprendere il fiato che pareva bloccarsi in gola; abbassò poi la testa, perché se la sentiva girare. Infine avanzò, passando dinanzi agli artigli, alla lunga bocca priva di labbra e al largo occhio giallo, e salì sulla spalla del drago. Sollevò il braccio dell’uomo. Questi non si mosse, ma certamente era vivo, perché il drago l’aveva portato laggiù e gli aveva parlato. «Su», gli disse Tenar; poi, dopo avergli sciolto la stretta della mano sinistra con cui continuava a tenersi alle squame, aggiunse: «Su, Ged. Vieni…»
L’uomo sollevò leggermente la testa. Aveva gli occhi aperti, ma vuoti. Tenar dovette arrampicarsi sul dorso del drago, graffiandosi le gambe sulle sue scaglie, e staccare la mano destra dell’uomo da una sporgenza ossea, alla base della spina. Lo afferrò per le braccia e lo trascinò lungo i quattro scalini del drago giungendo così a terra.
L’uomo si riprese un poco e cercò di aggrapparsi a Tenar, ma era completamente privo di forze: scivolò quindi sulla roccia come un sacco vuoto, e non si mosse più.
Il drago voltò l’immensa testa e — con un gesto del tutto animalesco — toccò con la punta del muso il corpo dell’uomo, e l’annusò.
Poi risollevò il capo, e, con un forte rumore metallico, anche le sue ali si mossero. Allontanò la zampa da Ged, spostandola verso il ciglio del Precipizio. Poi girò di nuovo la testa verso Tenar e disse, con una voce simile al secco ruggito delle fiamme di una fornace: «Thesse Kalessin».
La brezza del mare frusciò tra le ali del drago, già semiaperte.
«Thesse Tenar», rispose la donna, con voce chiara, anche se un po’ tremante.
Il drago voltò lo sguardo a occidente, in direzione del mare. Si girò con un rumore metallico, tra il cupo sferragliare delle scaglie, poi aprì all’improvviso le ali, si rannicchiò per il balzo e si gettò giù dal ciglio, nel Precipizio, incidendo profondamente la roccia con l’enorme coda. Le rosse ali si abbassarono e si sollevarono un paio di volte, e in pochi istanti Kalessin fu lontano dalla terra, in volo verso l’Occidente.
Tenar continuò a guardarlo finché la sua immagine non fu più grossa di quella di un’oca selvatica o di un gabbiano. L’aria, non più riscaldata dai fuochi del drago, era di nuovo fredda. Tenar rabbrividì. Si sedette sulla roccia vicino a Ged e cominciò a piangere nascondendo il viso tra le mani e gemendo: «Che cosa posso fare? Che cosa posso fare, adesso?»
Alla fine si asciugò gli occhi e si soffiò il naso, si ravviò i capelli e si voltò verso l’uomo steso accanto a lei. Era talmente immobile, cosi tranquillo sulla roccia nuda, che pareva volesse rimanerci per sempre.
Tenar sospirò. Non poteva fare alcunché, ma c’era sempre qualcosa che si doveva fare.
Da sola, non poteva trasportarlo. Doveva chiedere aiuto a qualcuno. E questo significava che doveva lasciarlo solo. Ma le pareva che fosse troppo vicino all’orlo del Precipizio: se avesse cercato di alzarsi, sarebbe potuto cadere, debole e stordito com’era. Come fare, per spostarlo? Tenar parlò e cercò di scuoterlo, ma Ged non reagì. Provò quindi ad afferrarlo per le spalle e, con una certa sorpresa, riuscì a spostarlo; era un peso morto, ma quel peso non era granché. Con decisione, lo trascinò per quattro o cinque passi, allontanandolo dalla roccia e portandolo sulla terra, dove l’erba secca gli offriva una certa protezione. E là dovette lasciarlo. Tenar non poteva correre, perché le tremavano le gambe e aveva ancora il respiro affannoso. Raggiunse il più rapidamente possibile la casa di Ogion, e nell’avvicinarsi chiamò Erica, Muschio e Therru.
La bambina uscì dalla capanna e si fermò, come faceva sempre, in attesa che lei la raggiungesse.
«Therru, corri al villaggio e di’ a qualcuno di venire… qualcuno robusto. C’è un uomo ferito, sul Precipizio.»
Therru non si mosse. Non era mai andata da sola al villaggio, e adesso, combattuta tra l’obbedienza e la paura, non sapeva come fare. Tenar lo capì e chiese: «C’è Zia Muschio? C’è Erica? In tre possiamo portarlo. Ma fa’ in fretta, Therru!» Temeva che Ged, lasciato solo, potesse morire o cadere nel Precipizio; i draghi poi potevano tornare a riprenderlo. Poteva succedere qualsiasi cosa. Tenar sapeva di dover fare in fretta: Selce era morto di un colpo al cuore, mentre era nei campi, e lei non lo aveva assistito. Era stato il loro pastore a trovarlo, disteso vicino al cancello. Ogion era morto, e lei non aveva potuto impedirglielo, non aveva potuto dargli il respiro che gli mancava. Ged era ritornato a casa per morire, e quella era la fine di tutto, lei non poteva fare niente, eppure doveva provare. «In fretta, Therru! Falle venire tutte!»
Si avviò a sua volta verso il villaggio, ma vide la vecchia Muschio arrivare lungo il pascolo, con in mano il massiccio bastone di biancospino. «Mi hai chiamato, cara?»
Con l’arrivo di Muschio, Tenar provò un immediato sollievo. Riprese fiato e riuscì finalmente a riflettere. Muschio non perse tempo a fare domande, ma, nell’udire che c’era un ferito da trasportare, sollevò la pesante coperta, usata di solito per rivestire il giaciglio e che Tenar aveva steso a prendere aria e la portò fino al ciglio del burrone. Lei e Tenar vi avvolsero Ged e cominciarono a trascinarlo verso casa, mentre Erica arrivava trotterellando, seguita da Therru e da Sippy. Erica era giovane e forte; con il suo aiuto poterono sollevare il telo come se fosse una barella e portare l’uomo fino alla casa.
Tenar e Therru dormivano nella nicchia a ponente della lunga stanza. All’altra estremità c’era solo il letto di Ogion, coperto da un pesante lenzuolo di lino. Lì portarono l’uomo, e Tenar gli distese sopra la coperta di Ogion, mentre Muschio mormorava incantesimi protettivi. Erica e Therru la fissarono incuriosite.
«Ora lasciamolo riposare», disse Tenar, conducendole tutte dall’altra parte della stanza.
«Chi è?» domandò Erica.
«Che cosa faceva sul Precipizio?» chiese Muschio.
«Lo conosci, Muschio. Era l’apprendista di Ogion… di Aihal… un tempo.»
La strega scosse la testa. «Quello era il ragazzo venuto dal villaggio di Dieci Ontani, cara», disse. «Adesso è Arcimago a Roke.»
Tenar annuì.
«No, cara», disse Muschio. «Questo gli assomiglia. Ma non è lui. Quest’uomo non è un mago. E neppure uno stregone.»
Erica passava lo sguardo dall’una all’altra, affascinata. Non capiva granché di quel che diceva la gente, ma amava sentirla parlare.
«Ma io lo conosco, Muschio. È Sparviero.» Nel pronunciare il nome d’uso di Ged, Tenar provò un’improvvisa tenerezza e per la prima volta si rese conto che era davvero lui, e che tutti gli anni trascorsi da quando lo aveva visto per la prima volta erano il legame che li univa. Si rammentò di una luce simile a una stella, comparsa nell’oscurità, sottoterra, molti anni prima, e della sua faccia illuminata da quella luce. «Lo conosco, Muschio», ripeté sorridendo. Il suo sorriso si allargò. «È il primo uomo che ho visto», aggiunse.
Muschio borbottò qualcosa e si spostò. Non le piaceva contraddire la «signora Goha», ma non era per niente convinta. «Esistono trucchi, travestimenti, trasformazioni, metamorfosi», disse. «Meglio andarci piano, cara. Com’è giunto nel posto dove l’hai trovato? Qualcuno l’ha visto, quando è passato dal villaggio?»
«Nessuna di voi ha visto…?»
Tutte la fissarono. Tenar cercò di dire «il drago», ma si accorse di non riuscirci. Le sue labbra e la sua lingua non volevano articolare quella parola. Ma un nome si formò da solo, e usò le sue labbra per pronunciarsi. «Kalessin», disse.
Therru la fissava. Dalla bambina parve irradiarsi un’onda di calore, come se avesse la febbre. Tenar non disse niente, ma mosse le labbra come per ripetere il nome e il calore tornò a bruciare attorno a lei.
«Trucchi!» esclamò Muschio. «Adesso che il nostro mago è morto, qui arriverà ogni sorta di imbroglioni!»
«Io ho viaggiato da Atuan a Havnor e da Havnor a Gont, con Sparviero, su una barca scoperta», disse Tenar, seccamente. «L’hai visto anche tu quando mi ha portata qui, Muschio. Non era Arcimago, allora. Ma era lo stesso uomo. Hai forse mai visto altre cicatrici come le sue?»
La vecchia rimase in silenzio, pensando a una risposta. Lanciò un’occhiata a Therru. «No», ammise. «Ma…»
«Mi credi incapace di riconoscerlo?»
Muschio fece per parlare, aggrottò la fronte, si strofinò un pollice sull’altro, si guardò le mani. «Ci sono tante cose malvagie, nel mondo», disse. «Cose che prendono la forma e il corpo di un uomo, ma la sua anima non c’è più… è stata divorata…»
«Il gebbeth?»
Muschio trasalì nel sentir pronunciare apertamente la parola. Annui. «Dicono che il mago Sparviero era già stato qui, prima che portasse te. E che si era allontanato perché con lui c’era una creatura delle Tenebre… che lo seguiva. Forse lo segue ancora. Forse…»
«Il drago che l’ha portato qui», disse Tenar, «l’ha chiamato con il suo vero nome. E io conosco quel nome.» La sua voce lasciava trasparire la collera per l’ostinazione della strega.
Muschio non replicò. Il suo silenzio era più eloquente di qualsiasi parola.
«Forse l’ombra su di lui è la sua morte», suggerì Tenar. «Forse sta per morire. Non lo so. Se Ogion…»
Al pensiero di Ogion la donna scoppiò di nuovo in pianto, pensando che Ged era arrivato troppo tardi. Frenando le lacrime, andò a prendere nuova legna per il fuoco. Diede a Therru il bricco da riempire, e nell’impartirle l’ordine l’accarezzò sul viso. Le cicatrici rosse e frastagliate erano calde, ma non di febbre. Tenar si inginocchiò per accendere il fuoco. Qualcuno, in quella bella casa — una strega, un’invalida, una vedova e una giovane un po’ debole di mente -, doveva occuparsi di fare le faccende, invece di spaventare la bambina con piagnistei. Ma adesso che il drago era andato via, che cosa poteva ancora arrivare, tranne la morte?