L’INVERNO

Tenar si destò, anche se non avrebbe voluto svegliarsi mai. Dalle sottili fessure delle imposte filtrava nella stanza una pallida luce grigia. Perché avevano chiuso le imposte alla finestra? Si alzò in fretta e raggiunse la cucina. Non c’era nessuno accanto al fuoco, non c’era alcun corpo sul pavimento. Non c’era alcun segno, a parte le tre tazze sullo scolapiatti.

Therru si svegliò all’alba, e fecero colazione come sempre; sparecchiando, la ragazzina chiese: «Che cosa è successo?» Prese dalla tinozza del bucato un pezzo di tela sporco di rosso; anche l’acqua era sporca di rosso.

«Oh, mi sono venute le mie cose prima del tempo», disse Tenar, stupita della facilità con cui le era uscita quella bugia.

Per un istante Therru rimase immobile, con le narici dilatate e la testa leggermente piegata, come un animale che avesse fiutato una pista. Poi lasciò cadere la tela nell’acqua e uscì a dare da mangiare alle galline.

Tenar si sentiva girare la testa e le facevano male le ossa. Faceva ancora freddo: cercò di rimanere in casa il più possibile. Cercò di non far uscire Therru, ma quando si affacciò il sole e si levò una brezza fresca e sottile, la ragazzina volle uscire assolutamente.

«Resta con Prunella nel frutteto», disse Tenar.

Therru uscì senza dire niente.

Il lato ustionato del viso era irrigidito dallo spessore delle cicatrici, ma per Tenar, che, con il passare del tempo, aveva imparato a vederlo come una parte del viso e non come una deturpazione, aveva anch’esso le sue espressioni. Quando la bambina era spaventata, la cicatrice si «serrava», e si stirava. Quando era eccitata, o si concentrava, anche l’occhio cieco sembrava guardare, e la cicatrice si arrossava e scottava. Ma adesso, mentre usciva, aveva una strana espressione, come se non fosse un volto umano, bensì quello di un misterioso animale dalla pelle coriacea e con un solo occhio brillante, un animale silenzioso che fuggiva dalla sua prigione.

E Tenar era certa che, come lei le aveva mentito per la prima volta, così Therru per la prima volta avrebbe disobbedito ai suoi ordini. La prima, ma non certo l’ultima.

Con un sospiro, si sedette accanto al fuoco e per qualche tempo non fece assolutamente nulla.

Poi sentì bussare. Erano Rivochiaro e Ged… no, Falco, doveva chiamarlo… fermi sulla soglia. Il vecchio si dava grandi arie perché aveva molte storie da raccontare, Ged invece era silenzioso e aveva un’aria tranquilla, ed era ancora infagottato nel suo sudicio giaccone da pastore. «Entrate», disse Tenar. «Vi servo un po’ di tè. Che notizie ci sono?»

«Hanno cercato di scappare a Valmouth, ma gli uomini di Kahedanan, le guardie, sono arrivati e hanno scoperto subito che c’era qualcuno nella capanna di Ciliegia», disse Rivochiaro, agitando il pugno.

«È riuscito a scappare?» chiese Tenar, inorridita.

«Solo gli altri due», disse Ged. «Non quello.»

«Hanno trovato un corpo — con tutte le ossa rotte — nel vecchio macello, dietro la Collina Rotonda vicino a Kahedanan, e così una decina di loro si sono fatti nominare guardie e li hanno seguiti. Questa notte hanno cercato in tutti i villaggi, e stamattina, prima ancora che facesse chiaro, li hanno trovati nella capanna di Ciliegia. Erano mezzo assiderati.»

«Allora, è morto?» chiese Tenar, stupita.

Ged si era tolto il pesante giaccone e adesso sedeva accanto alla porta, per sfilarsi i gambali di cuoio. «Lui è vivo», disse, con il suo solito tono grave. «È con Edera, adesso. L’ho messo sulla carriola e l’ho portato giù questa mattina. C’era gente per strada ancor prima che facesse giorno, e davano la caccia a tutt’e tre. Hanno ucciso una donna, sui monti.»

«Che donna?» sussurrò Tenar.

Fissava negli occhi Ged, e questi le rivolse un fugace cenno d’assenso.

Rivochiaro, però, voleva essere lui a raccontare, e così riprese, alzando la voce: «Ho parlato con alcune di quelle guardie e mi hanno detto che i quattro si erano accampati dietro Kahedanan, per rubacchiare quello che trovavano, e la donna scendeva al villaggio a mendicare, piena di lividi e di scottature. Gli uomini la mandavano a mendicare, e lei diceva alla gente che, se tornava senza niente, la picchiavano ancora di più. La gente allora le chiedeva: perché ritorni? Ma se lei non fosse ritornata, sarebbero venuti a cercarla, e non l’avrebbero lasciata più andare. Ma poi hanno esagerato e l’hanno uccisa a forza di botte, e allora hanno lasciato il corpo nel vecchio macello, in un punto dove c’è ancora puzza di carogna, così speravano che nessuno se ne accorgesse. Poi sono scappati, e sono arrivati qui, proprio questa notte. E perché non hai chiamato aiuto, Goha? Falco dice che li ha trovati qui, che cercavano di entrare in casa, quando gli è arrivato addosso. Io ti avrei sentito, o Prunella, che forse ha l’orecchio più acuto del mio. Le hai già raccontato tutto?»

Tenar scosse la testa.

«Allora, vado a raccontarglielo», disse il vecchio, lieto di poter essere il primo a darle una notizia così importante. Si avviò verso la porta, ma si girò ancora per dire a Ged: «Non avrei mai pensato che tu fossi tanto abile con il forcone!» Gli diede una pacca affettuosa sul ginocchio e si allontanò, ridendo.

Ged si tolse i gambali e le scarpe piene di fango, li posò sulla soglia, poi, con ai piedi solo le calze, si recò a scaldarsi al fuoco. Calzoni e giubba e camicia di lana tessuta in casa: un tipico pastore di Gont, con l’aria guardinga, il naso aquilino e gli occhi scuri e limpidi.

«Arriverà gente», le disse. «Per raccontarti di nuovo tutto quello che è successo, e per sentire ancora una volta ciò che è successo qui. Hanno preso i due che erano scappati e li hanno chiusi in una cantina vuota, e ci sono quindici uomini che li sorvegliano e almeno venti bambini che cercano di vedere che cosa fanno…» Soffocando uno sbadiglio, si sgranchì le braccia e le spalle e con un’occhiata chiese a Tenar il permesso di sedersi accanto al fuoco.

Lei gli porse la sedia. «Devi essere esausto», mormorò.

«Ho dormito un poco, questa notte. Non riuscivo a rimanere sveglio.» Sbadigliò di nuovo. Guardò Tenar, per vedere come stava.

«Era la madre di Therru», disse lei, con un filo di voce.

Ged annuì. Sedeva un po’ piegato in avanti, con le mani appoggiate sulle gambe, come faceva sempre Selce, e guardava le fiamme. In alcune cose i due uomini erano simili, in altre erano completamente diversi, come una pietra sepolta sotto la terra e un uccello che vola nel cielo. Tenar aveva un peso al cuore, le facevano male le spalle, ed era ancora confusa da presentimenti e dolori, dal ricordo della paura: si sentiva stordita.

«Il nostro uomo è dalla strega», disse Ged. «Legato, nel caso che si senta troppo in forma. Con le ferite piene di ragnatele e di incantesimi per fermare l’emorragia. Lei ha detto che vivrà fino al giorno dell’impiccagione.»

«Impiccagione?»

«Lo stabilirà il tribunale del re, adesso che si riunisce di nuovo. O lo impiccheranno o lo manderanno ai lavori forzati.»

Lei scosse la testa, aggrottò la fronte.

«Non vorrai che lo rimettano in libertà, Tenar», disse dolcemente Ged, osservandola con attenzione.

«No.»

«Devono essere puniti», continuò, senza smettere di guardarla.

«’Puniti.’ È quello che diceva lui. Punire la bambina. È cattiva. Deve essere punita. Punire me, perché l’ho presa. Perché sono…» Dovette fare uno sforzo per parlare. «Non voglio una punizione. Non doveva andare così. Preferirei che tu l’avessi ucciso!»

«Ho fatto del mio meglio», si giustificò Ged.

Dopo qualche istante, lei rise, in modo un po’ sforzato. «Sì, certamente.»

«Pensa come sarebbe stato facile», riprese Ged, continuando a fissare la brace. «Quando ero un mago, avrei potuto mettere su di loro un incantesimo di legame, fin da quando li ho visti per la prima volta sulla strada, prima che se ne rendessero conto. Avrei potuto portarli a Valmouth come un gregge di pecore. O questa notte, qui a casa tua, pensa che fuochi artificiali avrei potuto fare! Non avrebbero neppure capito che cosa li colpiva.»

«Difatti non l’hanno ancora capito», osservò Tenar.

Ged la guardò. Aveva negli occhi una leggera e incontenibile espressione di trionfo.

«Vero», disse. «Non l’hanno capito.»

«’Abile con il forcone’», mormorò Tenar.

Ged fece un enorme sbadiglio.

«Perché non vai a dormire? La seconda stanza. A meno che tu preferisca stare in compagnia. Vedo arrivare Lodola e Margherita, accompagnate da qualcuno dei loro figli.» Nell’udire le voci si era alzata a guardare dalla finestra.

«Farò come dici», rispose Ged, e si allontanò.


Lodola e il marito, Margherita (la moglie del fabbro) e altri amici del villaggio arrivarono nel corso della giornata per raccontare di nuovo tutto quello che era successo, e per sentire ancora una volta ciò che era successo lì, come aveva detto Ged. Tenar trovò che la loro compagnia la faceva rivivere, la allontanava a poco a poco dalla costante presenza del terrore provato quella notte, finché riuscì a pensarci come a una storia ormai conclusa, e non come a una vicenda che la coinvolgeva ancora e che avrebbe continuato a coinvolgerla.

Era proprio quello che anche Therru doveva imparare a fare, ma non con gli eventi di una notte: con tutta la sua vita.

Quando gli altri se ne furono andati, Tenar confidò a Lodola: «Quel che mi fa irritare con me stessa è di essere stata una stupida».

«Te l’avevo detto, di sbarrare sempre le porte.»

«No, non solo per quello.»

«Ti capisco», rispose Lodola.

«Pensavo che mentre cercavano di entrare, sarei potuta correre da Prunella e Rivochiaro… magari portando con me anche Therru. Oppure, sarei potuta andare io nella capanna a prendere il forcone, o la roncola per potare gli alberi: ha un manico lungo due braccia ed è affilata come un rasoio; la tengo come la teneva Selce. Perché non l’ho fatto? Perché non ho fatto qualcosa? Mi sono limitata a chiudermi dentro, quando sapevo fin dall’inizio che la cosa era inutile. Se non ci fosse stato lui… Falco… Io non ho fatto altro che intrappolare me stessa e Therru. Alla fine sono uscita fuori con il coltello, e mi sono messa a gridare, ma solo perché ero come impazzita. Non credo che sarebbe bastato a metterli in fuga.»

«Non so», disse Lodola. «È stata un’azione folle, ma forse… non so. Che cosa potevi fare, più che mettere la sbarra alle porte? In fondo, è come se per tutta la nostra vita non facessimo altro che mettere la sbarra alle porte. È la casa in cui viviamo.»

Si guardarono attorno, e videro le pareti di pietra, i pavimenti di pietra, il focolare di pietra, la finestra piena di sole della Fattoria delle Querce, la casa dell’agricoltore Selce.

«La ragazza, la donna che hanno ucciso», disse Lodola, guardando Tenar con l’aria di chi la sa lunga. «Era la stessa.»

Tenar annuì.

«Uno di loro mi ha detto che era incinta. Di quattro o cinque mesi.»

Tutt’e due rimasero in silenzio.

«In trappola», ripeté Tenar.

Lodola raddrizzò la schiena e serrò le labbra. «È la paura», disse poi. «Perché abbiamo tanta paura? E perché permettiamo loro di dirci che abbiamo paura? Di che cosa hanno paura, loro?» Prese le calze che stava rammendando, guardò se c’era qualche altro buco, rimase in silenzio per qualche istante e infine chiese: «Perché hanno paura di noi?»

Tenar continuò a filare senza dire niente.

In quel momento arrivò Therru, di corsa, e Lodola la salutò: «Ma è la mia bambina! Vieni a darmi un bacio!»

Therru la abbracciò. «Chi sono gli uomini che hanno preso?» chiese con la sua voce roca, guardando Lodola e Tenar.

Tenar smise di filare e disse lentamente:

«Uno è Faina. L’altro è un uomo chiamato Lince. Il ferito si chiama Tinca». Fissò con attenzione la faccia di Therru e vide il fuoco, vide la cicatrice arrossarsi. «La donna che hanno ucciso si chiamava Senny, mi pare.»

«Senini», sussurrò la bambina.

Tenar annuì.

«L’hanno uccisa loro?»

Tenar annuì di nuovo.

«Girino mi ha detto che sono stati qui.»

Tenar annuì di nuovo.

La bambina si guardò attorno, come avevano fatto le due donne, ma la sua espressione era di assoluta ribellione: lei non vedeva pareti.

«Li ucciderete?»

«Forse li impiccheranno.»

«Per ucciderli?»

«Sì.»

Therru annuì, con indifferenza. Uscì e tornò a giocare con i figli di Lodola, che si erano riuniti attorno al pozzo.

Le due donne rimasero silenziose. Continuarono a rammendare e a filare, senza parlare, nella casa di Selce, accanto al fuoco.

Dopo qualche tempo, Lodola chiese: «E quell’uomo, il pastore, quello che li ha seguiti fin qui, dov’è finito? Falco, hai detto che si chiama?»

«È di là che dorme», spiegò Tenar, indicando la porta interna.

«Ah», disse Lodola.

La ruota dell’arcolaio fece qualche giro. «Lo conosco da parecchio tempo.»

«Ah. L’hai conosciuto a Re Albi, suppongo.»

Tenar annuì. La ruota continuò a girare.

«Per seguire quei tre e per attaccarli con un forcone, al buio, ci vuole un certo coraggio. E non si tratta di un giovanotto, vero?»

«No», rispose Tenar. Dopo qualche istante, proseguì: «È stato malato, e cercava lavoro. Perciò l’ho fatto parlare con Rivochiaro, perché lo prendesse alla fattoria. Ma Rivochiaro è convinto di poter fare tutto da solo, e l’ha mandato con i pastori, sulle montagne. Ieri sera stava appunto ritornando dai pascoli alti».

«Allora, conti di tenerlo qui.»

«Se lui accetta di rimanere.»


Dal villaggio giunse ancora un altro gruppo, che volle sentire la storia di Goha e raccontare a sua volta le proprie prodezze nella grande cattura degli assassini, guardare il forcone e confrontare le punte con le tre ferite sul petto dell’uomo chiamato Tinca, e ripetere ancora una volta la storia. Tenar fu lieta di veder arrivare la fine di quella lunga giornata, di chiamare Therru e di chiudere la porta.

Alzò la mano per tirare il chiavistello. Poi la abbassò e si impose di non sbarrare la porta.

«Sparviero è nella tua stanza», le disse Therru, che era andata nella dispensa a prendere le uova.

«Scusa. Mi sono dimenticata di dirti che era qui.»

«Lo conosco», disse Therru, lavandosi mani e faccia nel lavandino. E, quando arrivò Ged, spettinato e con gli occhi gonfi, corse da lui per abbracciarlo.

«Therru», disse Ged, prendendola in braccio. Lei lo strinse per qualche istante, poi lo lasciò.

«Conosco l’inizio della Creazione», gli disse con orgoglio.

«E me la canteresti?» rispose Ged. Guardò di nuovo Tenar per chiederle il permesso di sedersi, poi si accomodò accanto al fuoco.

«Posso solo recitarla.»

Lui fece un cenno affermativo e attese, con aria piuttosto grave. La bambina recitò:


La creazione dalla distruzione,

la fine dall’inizio,

chi sa distinguerli con certezza?

Noi conosciamo solo la porta tra di loro

in cui entriamo quando ce ne andiamo.

Tra gli esseri che ogni volta ritornano,

il più antico di tutti, il Guardiano della Soglia, Segoy…


La voce della bambina era come il fruscio di una spazzola di metallo su una lama, come le foglie secche, come il sibilo della fiamma. Arrivò alla fine della prima strofa:


Poi dalla schiuma sorse la fulgida Éa.


Ged fece un cenno d’assenso, con aria grave. «Brava», disse.

«Ieri sera», mormorò Tenar. «L’ha imparata ieri sera. Mi pare che sia passato un anno intero.»

«Posso imparare anche il resto», affermò Therru.

«Lo imparerai sicuramente», la incoraggiò Ged.

«Prima, comunque, devi pulire la zucca», disse Tenar, e la bambina obbedì.

«Che cosa devo fare?» chiese Ged.

«Bisogna riempire d’acqua quella pentola e metterla sul fuoco.»

Ged annuì; prese la pentola e andò a riempirla alla pompa.

Prepararono la cena, la consumarono e sparecchiarono.

«Ridimmi la Creazione fin dove la sai», disse Ged, più tardi, quando lui e Therru si sedettero accanto al focolare, «e proseguiremo insieme.»

La bambina recitò la seconda strofa una volta con lui, una volta con Tenar e una volta da sola.

«A dormire», disse Tenar.

«Non hai parlato a Sparviero del re», osservò la bambina.

«Parlagliene tu», le rispose Tenar, divertita da quella scusa per non andare a letto.

Therru si girò verso Ged. La sua faccia, sfregiata e intatta, cieca e veggente, era concentrata, rossa. «Il re è arrivato su una nave. Aveva la spada. Mi ha dato il delfino d’osso. La sua nave volava con il vento, ma io stavo male, perché Faina mi aveva toccata. Ma il re mi ha toccato nello stesso punto, e il segno è sparito.» Gli mostrò il braccio sottile. Tenar rimase a bocca aperta. Si era dimenticata del segno.

«Un giorno voglio volare fin dove abita il re», Therru rivelò a Ged. Lui annuì. «Lo farò», ripeté. «Tu lo conosci?»

«Sì, lo conosco. Insieme abbiamo compiuto un lungo viaggio.»

«Dove?»

«Dove il sole non sorge e le stelle non tramontano. E poi siamo ritornati indietro.»

«Hai volato?»

Ged scosse la testa. «Io posso solo camminare», mormorò.

La bambina rifletté su quelle parole; poi, soddisfatta, disse: «Buonanotte», e andò nella propria stanza. Tenar la seguì, ma la bambina le disse che non c’era bisogno di cantarle la ninna-nanna. «Posso recitare la Creazione anche al buio», le disse. «Le due strofe.»

Tenar fece ritorno in cucina e si sedette di fronte a Ged, dall’altra parte del focolare.

«Come cambia!» disse. «Non riesco a tenerle dietro. Sono troppo vecchia per allevare un’altra figlia. E lei… Lei mi obbedisce, ma solo perché è lei a volerlo.»

«È l’unica giustificazione dell’obbedienza», le fece notare Ged.

«Ma quando le verrà in mente di disobbedire, come potrò fare? In lei c’è qualcosa di selvatico. A volte è la mia Therru, e a volte è qualcosa d’altro, qualcosa di inafferrabile. Ho chiesto a Edera se poteva prenderla come apprendista. L’aveva suggerito Faggio. Ma Edera ha detto di no. ‘Perché?’ le ho chiesto. ‘Perché ho paura di lei’, mi ha risposto… Ma tu non hai paura di lei. E Therru non ha paura di te. Tu e Lebannen siete gli unici uomini da cui si lascia toccare. E io ho lasciato che quell’uomo… Faina… non posso parlarne. Oh, che stanchezza! Non riesco più a ragionare.»

Ged cercò un pezzo di legno duro e nodoso e lo gettò nel fuoco perché bruciasse piano e senza troppa fiamma. Tutt’e due rimasero per qualche tempo a guardare le fiamme che tremolavano e le lingue di fuoco che si alzavano e si spegnevano.

«Mi piacerebbe che tu rimanessi qui, Ged», disse infine Tenar. «Se vuoi, naturalmente.»

Lui non rispose subito, e la donna aggiunse: «Forse ritornerai a Flavnor».

«No. Non ho alcun posto dove andare. Cercavo un lavoro.»

«Be’, qui c’è molto da fare. Rivochiaro non lo ammetterebbe mai, ma, con l’artrite che ha, può solamente badare al frutteto. Fin dal mio arrivo ho constatato che mi serve un aiutante. Avrei potuto sgridare quel vecchio testone perché ti ha spedito in cima ai monti, ma non sarebbe servito a niente. Sarebbe rimasto della sua idea.»

«Per me è stato un bene», disse Ged. «Mi occorreva del tempo.»

«Badavi alle pecore?»

«No, alle capre. Proprio nel punto più alto del pascolo. Avevano un ragazzo, ma si è ammalato, e Serry mi ha mandato subito lassù. Cercano di tenerle il più possibile in quei pascoli alti, perché così la lana è più folta. Il mese scorso, ho avuto tutta la montagna per me, o quasi. Serry mi ha mandato quel giaccone e un po’ di provviste, e mi ha detto di tenere su le bestie finché mi era possibile, e io ho fatto come voleva. È un bel posto.»

«Solitario», commentò Tenar.

Lui annuì, con un mezzo sorriso.

«Tu sei sempre stato un solitario.»

«Sì.»

Tenar non fece commenti.

Ged la fissò. «Mi piacerebbe lavorare qui», disse.

«Allora, siamo d’accordo», rispose lei. Dopo qualche tempo, concluse: «Per tutto l’inverno, almeno».

Quella notte fu ancora più fredda della precedente. Il loro mondo era assolutamente silenzioso, a parte il bisbiglio del fuoco. Il silenzio era come una creatura viva, tra loro. Tenar sollevò la testa e fissò Ged.

«Allora», chiese, «in che letto devo dormire, Ged? In quello della bambina o nel tuo?»

Ged trasse lentamente il respiro. «Nel mio, se vuoi», mormorò.

«Lo voglio.»

Il silenzio lo bloccava come una catena. Tenar vedeva gli sforzi fatti da Ged per liberarsene. «Se mi sopporti», aggiunse.

«Ti sopporto da venticinque anni», rispose Tenar. Lo guardò e rise. «Vieni… caro… Meglio tardi che mai! Non sono più giovane come allora… ma niente va mai sprecato. Me l’hai insegnato tu.» Si alzò, e si alzò anche Ged; lei gli tese le braccia e lui le prese. Si abbracciarono e si strinsero. Si strinsero con tanta forza, con tanta passione, che ogni altro pensiero svanì. La scelta del letto non aveva più importanza. Scivolarono sul pavimento, davanti al fuoco, e lì Tenar gli insegnò dei segreti che nessun uomo, per saggio che fosse, sarebbe stato in grado di insegnargli.

Ged attizzò il fuoco e prese dalla panca la coperta buona. Questa volta, Tenar non trovò niente da ridire. Il mantello di Tenar e il giaccone di Ged furono le loro coperte.

Si svegliarono all’alba. Una debole luce argentea illuminava i rami scuri, quasi senza foglie, delle querce, davanti alla finestra. Tenar si strinse a Ged per sentire il suo calore, e dopo un poco gli mormorò: «Era steso proprio qui, Tinca. Dove siamo noi adesso».

Ged sbuffò in segno di protesta.

«Adesso sei davvero un uomo», continuò Tenar. «Prima hai riempito di buchi un tizio, e poi sei stato con una donna. Mi sembra una successione giusta.»

«Non dire queste cose», rispose Ged, girandosi verso di lei e posandole la testa sulla spalla.

«Invece le dirò ancora, Ged. Poveretto! Non c’è alcuna pietà in me, solo giustizia. Non mi hanno mai insegnato la misericordia. L’amore è la mia sola virtù. Oh, Ged, non avere paura di me! Eri già uomo, la prima volta che ti ho visto! Nessun’arma, nessuna donna, nessuna magia o Potere possono fare un uomo… soltanto lui stesso può rendersi tale.»

Avvolti nel tepore e nel dolce silenzio, non parlarono più.

«Dimmi una cosa», sussurrò Tenar, dopo un certo tempo.

Lui rispose con un mugolio di assenso, mezzo addormentato.

«Come hai fatto a sentire quel che dicevano quei tre, Tinca, Faina e l’altro? Come hai fatto a trovarti proprio in quel luogo e nel momento giusto?»

Lui si sollevò su un gomito, in modo che Tenar potesse guardarlo in faccia. Aveva un’aria così aperta e vulnerabile, in quel momento, così soddisfatta e tenera, che lei non poté fare a mano di baciarlo sulla guancia, proprio nello stesso punto dove l’aveva baciato la prima volta, tanti mesi prima. Così, lui la abbracciò, e la conversazione continuò senza parole.


C’erano talune formalità da sbrigare: innanzitutto dire a Rivochiaro e agli altri abitanti della Fattoria delle Querce che al posto del «vecchio padrone» aveva assunto un dipendente. Tenar lo comunicò subito e senza mezzi termini. Lei aveva tutti i diritti di farlo, e la cosa non costituiva una minaccia per i contadini. Una vedova poteva continuare ad amministrare la proprietà del marito, certo, ma solo se non c’erano eredi maschi. Nel caso di Selce, l’erede era il figlio Scintilla, il marinaio, e Goha si limitava a mandare avanti la fattoria per conto di lui. Se Tenar fosse morta, l’amministratore sarebbe diventato Rivochiaro, e se Scintilla non si fosse presentato, la proprietà sarebbe passata al cugino di Selce che abitava a Kahedanan. Le due coppie che non possedevano la terra ma che avevano una partecipazione a vita sia ai lavori sia ai profitti — un tipo di accordo assai comune nell’Isola di Gont — non potevano essere mandate via da un uomo che andasse ad abitare con la vedova, neanche se lei lo avesse sposato; però, Tenar temeva che si offendessero perché non era rimasta fedele alla memoria di Selce, che, dopotutto, era il loro padrone già prima di sposare lei. Vide tuttavia con soddisfazione che i mezzadri non avevano obiezioni. «Falco» aveva conquistato la loro stima con un colpo di forcone. Inoltre, il buonsenso le consigliava di avere un uomo in casa per difenderla. Se poi andavano a letto assieme, be’, le vedove non erano proverbiali per le loro voglie? E dopotutto lei era una forestiera.

Anche tra gli abitanti del villaggio, l’atteggiamento fu molto simile. Qualche bisbiglio e qualche sorriso, ma niente di più. A quanto pareva, guadagnarsi la rispettabilità era più facile di quanto non pensasse Muschio; o forse le cose usate avevano meno valore.

Si senti un po’ offesa e sminuita da quel genere di tacita accettazione; un po’ come se avesse incontrato un’aperta disapprovazione. Solo Lodola riusciva a liberarla dall’imbarazzo, perché non esprimeva alcun giudizio e non ricorreva alle solite parole — uomo, donna, vedova, forestiera — per dire quello che vedeva, ma perché si limitava a osservare lei e Falco con interesse, curiosità, invidia e simpatia.

E poiché Lodola non vedeva Falco attraverso le parole — pastore, bracciante, amante della vedova -, ma osservava lui, vedeva molte cose che la lasciavano disorientata. La sua dignità e la sua semplicità non erano molto diverse da quelle di tanti altri uomini che conosceva, ma erano più sottili, come se lui fosse un uomo più grande degli altri, non come statura o larghezza di spalle, ma di animo e di mente. Disse a Edera: «Quell’uomo non è sempre vissuto con le capre. Conosce il mondo più di quanto non conosca le fattorie».

«Potrebbe essere un mago che è stato scacciato o che ha perso in qualche modo il suo Potere», rispose la strega. «Sono cose che succedono.»

«Ah», commentò Lodola.

Ma la parola «Arcimago» era troppo grande e importante, per trasferirla dallo sfarzo e dai palazzi di isole lontane all’uomo dagli occhi scuri e dai capelli grigi che era andato ad abitare alla Fattoria delle Querce, e a Lodola non venne mai in mente di farlo. Se l’avesse fatto, non si sarebbe più trovata a proprio agio in presenza sua. Già l’idea che fosse stato un mago la inquietava un poco e, per qualche tempo, quell’etichetta si sostituì all’uomo, anche se, infine, lei riuscì a vederlo di nuovo com’era. Lui era salito su uno dei vecchi meli e tagliava i rami secchi, ma la vide arrivare e la salutò cordialmente. Il nome «Falco», pensò allora Lodola, stava davvero bene a quell’uomo appollaiato lassù in alto: perciò alzò il braccio per salutarlo e tornò a sorridergli.

Tenar, comunque, non si era dimenticata della domanda che gli aveva rivolto quel primo mattino, davanti al focolare, sotto il giaccone di pecora. Gliela rivolse di nuovo, qualche giorno o qualche mese più tardi: avevano perso il conto del tempo, nella casa di pietra, nella fattoria ferma per l’inverno. «Non mi hai mai spiegato», gli chiese, «come ti è successo di sentire quei tre, mentre venivano qui.»

«Te l’ho raccontato, mi pare», rispose Ged. «Mi ero nascosto perché li avevo sentiti arrivare dietro di me.»

«Perché?»

«Ero solo, e sapevo che in giro c’erano dei malfattori.»

«Certo… Ma poi, proprio mentre passavano, Tinca ha parlato di Therru?»

«Ha detto ‘Fattoria delle Querce’, se ben ricordo.»

«È una cosa del tutto possibile. Però, mi pare un po’ eccessivo che sia successo proprio così, per semplice combinazione.»

Ged capì che non lo diceva perché non credesse alle sue parole, ma per qualche altro motivo più profondo. Attese che continuasse.

«È il tipo di combinazione che capita ai maghi», disse Tenar.

«E anche ad altri.»

«Può darsi.»

«Mia cara, non cercherai di… reintegrarmi?»

«No. Niente affatto. Ti parrebbe ragionevole? Se tu fossi un mago, non saresti qui.»

Erano nel grande letto di quercia, ben coperti di pelli di montone e di piumini. Nella stanza non c’era il caminetto, e le notti erano gelide, perché, fuori, la neve era diventata ghiaccio.

«Però vorrei sapere una cosa. C’è qualcosa, oltre a quello che voi chiamate Potere, che forse viene prima di esso? Qualcosa di più profondo, e il Potere è solo uno dei modi di usarlo? Per esempio, Ogion ha detto una volta, parlando di te, che prima ancora che ti venissero impartiti le conoscenze e gli insegnamenti magici, tu eri già un mago. ‘Mago nato’, ha detto. Perciò ho pensato che una persona, per avere il Potere magico, prima deve avere un posto dove… metterlo. Uno spazio vuoto da riempire. E più grande è quel vuoto, maggiore è il Potere che ci può stare. Ma se non si arrivasse a ottenere il Potere, o il Potere fosse tolto, o consumato… il posto resterebbe.»

«Resterebbe il vuoto», disse Ged.

«’Vuoto’ è solo un modo per dirlo. Forse non è neppure quello giusto.»

«La potenzialità?» chiese Ged. Scosse la testa. «La possibilità di essere… di divenire?»

«Penso che ti sei trovato su quella strada, in quel preciso momento, perché ti sta succedendo quel tipo di cose. Non sei tu a farle succedere, non sei tu a causarle, non è stato il tuo Potere. Ma ti è successo, a causa di quel ‘vuoto’.»

Dopo qualche tempo, Ged osservò: «Non è molto diverso da quel che mi è stato insegnato a Roke quando ero bambino: che la vera magia sta nel fare solo quel che devi fare. Ma questo è ancora di più: non fare, ma essere spinto a fare».

«Non credo che sia così. Piuttosto, è l’origine da cui nascono le azioni giuste. Sei venuto a salvarmi la vita, hai colpito Tinca con il forcone. Questo è ‘agire’, certamente. Fare quel che doveva essere fatto.»

Ged rifletté a lungo su quelle parole, e alla fine le chiese: «È una cosa che ti è stata insegnata quando eri la Sacerdotessa delle Tombe?»

«No.» Sbadigliò leggermente, e si guardò attorno nell’oscurità. «Ad Arha veniva insegnato che per essere potente doveva sacrificare se stessa e altri. Uno scambio: dare per avere. E non posso dire che non fosse vero. Ma la mia anima non può vivere in quello spazio ristretto: una cosa per l’altra, dente per dente, vita per vita. C’è una libertà superiore a tutto questo. Superiore allo scambio, alla punizione, alla redenzione. Al di là di tutti gli equilibri e di tutti i patti c’è la libertà.»

«La porta tra di loro», citò Ged, a bassa voce.

Quella notte, Tenar sognò la porta della Creazione di Éa. Era una finestra piccola e bassa, di vetro grezzo, pesante, opaco e difettoso, nella parete occidentale di una vecchia casa sopra il mare. La finestra era sbarrata con il chiavistello. Lei voleva aprirla, ma c’era una parola o una chiave, qualcosa di cui si era dimenticata — una parola, una chiave, un nome — che bisognava usare per aprirla. Lei continuò a cercare dentro camere di pietra che diventavano sempre più piccole e più scure, finché non si accorse che Ged la teneva ferma e cercava di svegliarla dicendo: «È tutto a posto, cara, non c’è niente!»

«Non riesco a liberarmi!» gemette lei, abbracciandolo.

Ged cercò di calmarla, accarezzandole i capelli; tutt’e due si stesero di nuovo sulla schiena, e lui mormorò: «Guarda».

La luna era sorta. La sua luce bianca si rifletteva sulla neve ed entrava nella stanza, perché, anche se faceva freddo, Tenar non voleva chiudere le imposte. Tutta l’aria sopra di loro era luminosa. Il punto dove si trovava il letto era in ombra, ma pareva che il soffitto fosse un semplice velo tra loro e l’infinita, tranquilla, argentea distesa di luce.


A Gont fu un inverno di forti nevicate, che si protrasse a lungo. Ma il raccolto era stato abbondante, e c’era da mangiare per tutti, uomini e animali, e poco da fare, oltre che mangiare e tenersi al caldo.

Therru imparò la Creazione di Éa. Il giorno del Ritorno del Sole recitò il Canto dell’inverno e Le gesta del giovane re. Imparò a fare le torte, a usare l’arcolaio e a fare il sapone. Imparò il nome di tutte le piante che spuntavano sopra la neve e molte altre cose ancora di erbe e di parole, che Ged aveva appreso durante il breve apprendistato con Ogion e i lunghi anni alla scuola di Roke. Ma non presero dalla mensola del caminetto il libro delle Rune e quello dei Miti, né insegnarono alla bambina la Lingua della Creazione.

Ged e Tenar ne avevano parlato, e lei gli aveva raccontato di aver insegnato a Therru una sola parola, tolk, e poi di essersi fermata, perché non le sembrava giusto continuare, anche se lei stessa non avrebbe saputo dirne il motivo.

«Ho pensato che dipendesse dal fatto che non avevo mai usato veramente quel linguaggio, non l’avevo mai usato per fare magia. Pensavo che forse avrebbe dovuto impararlo da una persona che lo parla.»

«Nessun uomo lo parla.»

«E tantomeno le donne.»

«Voglio dire che solo i draghi lo parlano come propria lingua.»

«E lo imparano da qualcuno?»

Colpito dalla domanda, Ged non rispose subito, ma passò in rassegna tutto quel che sapeva dei draghi. «Non saprei», disse infine. «Non sappiamo se se lo insegnano come facciamo noi, la madre al figlio, il vecchio al giovane. O se sono come gli animali, che hanno bisogno di imparare alcune cose, ma che possiedono già alla nascita gran parte delle loro conoscenze. Non lo sappiamo. Ma io penso che il drago e la sua lingua siano una cosa sola. Un solo essere.»

«E non parlano altre lingue.»

Ged annui. «I draghi non hanno bisogno di imparare», disse. «I draghi sono.»

Therru, infagottata in una vecchia giacca di agnello, entrò nella cucina. Uno dei suoi incarichi consisteva nel portare la legna per il focolare, e in quel momento stava andando a prenderne nella legnaia. Posò la legna nella cesta vicino al focolare e uscì di nuovo.

«Che cosa canta?» chiese Ged.

«Chi, Therru?»

«Sì, quando è sola.»

«Ma non canta mai. Non può farlo.»

«Canta a modo suo. ‘Più a ponente del tramonto del sole…’»

«Ah!» disse Tenar. «Quella storia. Ogion non ti ha mai parlato della donna di Kemay?»

«No», rispose Ged. «Raccontamela.»

Tenar gli raccontò la storia mentre filava, accompagnando le parole con il suono dell’arcolaio. Alla fine della storia, aggiunse: «Quando il Maestro dei Venti mi ha detto di essere venuto a cercare ‘una donna di Gont’, pensai subito a lei. Ma ormai sarà morta, senza dubbio. Inoltre, una donna che era un drago potrebbe essere Arcimago?»

«Be’, il Maestro degli Schemi non ha detto che la donna di Gont dovesse essere Arcimago», rispose Ged. Si stava riparando un brutto strappo sui calzoni, e sedeva sul davanzale della finestra per approfittare di tutta la luce possibile, in quel giorno scuro. Erano passati quindici giorni dal Ritorno del Sole, e si era nel periodo più freddo dell’anno.

«Allora, che cosa ha detto?» chiese Tenar.

«’Una donna di Gont.’ Esattamente come hai detto a me.»

«Ma volevano sapere chi dovesse essere il prossimo Arcimago.»

«E non hanno avuto una risposta a quella domanda.»

«Infinita è la sottigliezza dei maghi», citò Tenar, in tono un po’ asciutto.

Ged tagliò con i denti il filo e si avvolse sul dito il pezzo avanzato.

«Ho imparato a cavillare, a Roke», dovette ammettere. «Ma questi non sono cavilli. ‘Una donna di Gont’ non può diventare Arcimago, perché nessuna donna può diventarlo. Per diventarlo, dovrebbe distruggere quello che è. I maghi di Roke sono uomini; il loro Potere è quello degli uomini, la loro conoscenza è quella degli uomini. Magia e mascolinità sono costruiti sulla stessa pietra, ossia il Potere appartiene agli uomini. Se le donne avessero il Potere, gli uomini sarebbero solo delle donne che non possono mettere al mondo i figli. E le donne sarebbero solo uomini con questa facoltà.»

«Ah!» esclamò Tenar e, con astuzia, osservò: «Non sono esistite anche delle regine? Anch’esse avevano il Potere».

«Una regina è solo un re in gonnella», disse Ged.

Lei sbuffò.

«Voglio dire che il Potere glielo danno gli uomini. Le permettono di usare il loro Potere. Ma esso non è della regina. È potente non perché è una donna, ma nonostante il fatto che lo sia.»

Tenar annuì. Raddrizzò la schiena, dopo essere stata curva sull’arcolaio. «Allora», chiese, «qual è il Potere delle donne?»

«Non credo di conoscerlo.»

«Quand’è che una donna ha Potere per il fatto di essere una donna? Con i figli, forse. Per un certo periodo.»

«Nella propria casa, forse.»

Lei si guardò attorno, osservò le pareti di pietra della cucina. «Ma le porte sono chiuse a chiave», osservò.

«Perché siete importanti.»

«Oh, sì. Siamo preziose. Purché si resti prive di Potere… Ricordo ancora il giorno in cui l’ho capito per la prima volta! Kossil mi aveva minacciato… minacciato me, la Sacerdotessa delle Tombe. E capii di non poter fare niente. Io avevo gli onori, ma lei aveva il potere, che le veniva dal Diore, l’uomo. Oh, come me la sono presa! E come mi sono spaventata… Io e Lodola abbiamo parlato di queste cose, una volta, e lei ha chiesto: ‘Perché gli uomini hanno paura delle donne?’»

«Se la propria forza consiste solo nella debolezza altrui, si vive nella paura», le fece notare Ged.

«Sì, ma le donne danno l’impressione di avere paura della propria forza, di temere se stesse.»

«Vi hanno mai insegnato a fidarvi delle vostre forze?» chiese Ged, e mentre parlava giunse Therru, con la legna. Incrociò lo sguardo con quello di Tenar.

«No», disse la donna. «La fiducia non è una materia che ci hanno insegnato.» Guardò la bambina che metteva la legna nella cesta. «Se il Potere fosse fiducia…» riprese. «Mi piace quella parola. Se non ci fossero tutte quelle gerarchie… uno sopra l’altro… re e maestri e maghi e possidenti. Sembra tutto inutile. Il vero Potere, la vera libertà, dovrebbe basarsi sulla fiducia, non sulla forza.»

«Come i bambini si fidano dei genitori», commentò Ged.

Tutt’e due rimasero in silenzio.

«In realtà», riprese poi Ged, «anche la fiducia corrompe. I maghi di Roke si fidano di se stessi e dei compagni. Il loro Potere è puro, niente lo macchia, e perciò credono che quella purezza sia anche saggezza. Non riescono a concepire la possibilità di commettere qualcosa di sbagliato.»

Tenar lo fissò con stupore. Ged non aveva mai parlato di Roke in quel modo, come se ne fosse del tutto all’esterno, come se ne fosse libero del tutto.

«Forse avrebbero bisogno di qualche donna che gliene ricordi la possibilità», commentò lei, e Ged rise.

Tenar rimise in movimento l’arcolaio. «Ancora non mi è chiaro: che cosa impedisce a una donna di diventare Arcimago, visto che può essere regina?»

Therru li stava ascoltando.

«Sì, come la neve bollente e l’aria asciutta», disse Ged, ricordando un proverbio di Gont. «I re ricevono il Potere da altri uomini. Il Potere di un mago è solamente suo.»

«Ed è un Potere maschile. Perché non conosciamo quale sia il Potere delle donne. Capisco. Però, perché non riescono a trovare un Arcimago… di sesso maschile?»

Ged studiò per qualche istante l’orlo sbrindellato dei calzoni. «Be’», disse infine, «se il Maestro degli Schemi non ha risposto alla loro domanda, è perché rispondeva a una domanda che non gli era stata fatta. Forse dovrebbero chiedergli che domanda era.»

«È un indovinello?» chiese Therru.

«Sì», disse Tenar, «ma non conosciamo la domanda. Conosciamo solo la risposta, ed è: ‘Una donna di Gont’.»

«Ce ne sono tante», concluse Therru, dopo averci pensato per qualche momento. Poi, evidentemente soddisfatta, uscì per andare a prendere un altro carico di legna.

Ged la guardò allontanarsi. «’Tutto è cambiato’», disse. «A volte mi chiedo, Tenar, se il regno di Lebannen non sia solo l’inizio. Una porta. E lui il guardiano, che non potrà mai oltrepassarla.»

«È così giovane», disse Tenar, con tenerezza.

«Giovane come Morred quando combatté contro le Navi Nere. Giovane come me quando…» S’interruppe e guardò fuori della finestra, i rami senza foglie e i campi grigi e gelidi. «O come te, Tenar, in quel luogo buio. Che cosa significano la gioventù o la vecchiaia? Non lo so. A volte mi sembra di avere mille anni, altre volte che la mia vita sia una rondine in volo, vista da una fessura della parete. Sono morto e sono rinato, sia nel deserto sia qui sotto il cielo, più di una volta. E la Creazione ci dice che ritorniamo sempre alla nostra fonte, eternamente, e che essa non si prosciuga mai. ‘Solo nella morte è vita…’ Pensavo a questo, quando ero con le capre sulla montagna, e il giorno si prolungava in eterno, ma si aveva la sensazione che la sera giungesse in un attimo, e cosi il mattino dell’indomani. Ho imparato la saggezza delle capre, e così ho finito per chiedermi: per chi è questo mio dolore? Di chi piango la morte? Di Ged l’Arcimago? Perché Falco il pastore deve soffrire e vergognarsi per lui? Che cosa ho fatto, di cui debba vergognarmi?»

«Niente!» esclamò Tenar. «Mai!»

«No, invece», disse Ged. «Ogni grandezza degli uomini si basa sulla vergogna, è fatta di quella. E così Falco il pastore ha pianto per Ged l’Arcimago. E si è preso cura delle capre, anche, come poteva prendersene cura uno della sua età.»

Dopo qualche istante, Tenar sorrise. Disse, timidamente: «Muschio sosteneva che eri un quindicenne».

«Non aveva torto. Ogion mi aveva dato il nome vero in autunno, e l’estate successiva ero a Roke. Chi era quel ragazzo? Un vuoto… Una libertà.»

«Chi è Therru, Ged?»

Lui non rispose, e alla fine Tenar pensò che non le avrebbe più risposto. Poi Ged disse: «Nelle sue condizioni… che libertà può esserci per lei?»

«Ciascuno di noi è la propria libertà, quindi?»

«Credo di sì.»

«Quando avevi il Potere, tu mi sembravi l’uomo più libero che esistesse. Ma a quale costo? Che cosa ti dava quella libertà? E io… io ero stata creata, plasmata come creta, dalla volontà delle donne che servivano gli Antichi Poteri, o che servivano gli uomini che avevano creato tutti i riti, i costumi e i luoghi, non sapevo chi. Poi sono stata libera, con te, per un momento, e anche con Ogion. Ma non era la mìa libertà. Però, mi permetteva la scelta, e io ho scelto. Ho scelto di plasmarmi come creta per servire una fattoria, un marito e dei figli. Sono diventata un vaso, e conosco la forma di quel vaso. Ma non la creta di cui è fatto. La vita mi ha fatto danzare. Conosco la danza, ma non so chi sia il danzatore.»

«E lei», disse Ged, dopo un lungo silenzio, «se dovesse mai danzare…»

«Finiranno per avere paura di lei», sussurrò Tenar. Poi Therru entrò nella cucina, e la conversazione si spostò sulla pasta del pane che lievitava nella madia. Continuarono a parlare a quel modo, tranquillamente e a lungo, passando da un argomento all’altro, per poi ritornare al primo, molte volte per metà di quelle brevi giornate, filando e cucendo insieme, con le parole, le loro vite, gli anni e le azioni e i pensieri che non avevano condiviso. Poi tacevano per riflettere, per lavorare e per sognare, e con loro c’era la bambina silenziosa.

Cosi passò l’inverno, finché non giunse la stagione degli agnelli, e per qualche tempo il lavoro divenne molto pesante, mentre i giorni si allungavano e diventavano sempre più chiari. Poi le rondini fecero ritorno dalle isole illuminate dal sole, dalle Terre Meridionali, dove la stella più splendente è Gobardon della costellazione del Termine; ma i discorsi delle rondini tra loro parlavano solo di inizi.

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