CONVALESCENZA

Sembrava morto, ma non lo era. Dove era stato? Che cosa aveva passato? Quella sera, alla luce del fuoco, Tenar gli tolse i vestiti sporchi, lisi e intrisi di sudore. Lo lavò e lo adagiò, senza niente addosso, sulle lenzuola di lino e gli stese sopra una coperta di lana di capra, morbida e calda. Anche se Sparviero era un uomo minuto e di bassa statura, un tempo era stato robusto e muscoloso; ora, invece, sembrava che qualcosa l’avesse consumato fino all’osso, rendendolo smunto ed emaciato. Anche le cicatrici sulla spalla e sulla parte sinistra del viso, dalla tempia alla mascella, erano ormai pallide, quasi argentee. E i capelli ora erano grigi.

Sono stanca di lutti, pensò Tenar. Stanca di pianti, stanca di dolore. Non voglio piangere per lui! Non è arrivato da me a cavallo di un drago?

Una volta avrei voluto ucciderlo, ricordò poi. Adesso invece cercherò di farlo sopravvivere, se potrò. Fissò l’uomo con aria di sfida, senza pietà.

«Chi di noi ha salvato l’altro dal Labirinto, Ged?»

Ma l’uomo non poteva ascoltarla e, immobile, continuò a dormire. Anche Tenar era molto stanca. Fece il bagno nell’acqua che aveva riscaldato per lavarlo, e scivolò nel letto accanto a quel piccolo, caldo silenzio di seta che era il sonno di Therru. Dormì, e il sonno le spalancò un ampio spazio ventoso, venato di rosa e d’oro. Volava e chiamava: «Kalessin!» E una voce, dagli abissi di luce, le rispondeva.


Quando Tenar si svegliò, gli uccelli cinguettavano nei campi e sul tetto. Nel rizzarsi a sedere, la donna vide la luce del mattino attraverso il vetro irregolare della finestra che dava a ponente. C’era qualcosa in lei, un seme o un barlume, troppo piccolo per essere visto o per poterlo immaginare, ma nuovo. Therru era ancora addormentata. Tenar rimase seduta accanto a lei, con lo sguardo fisso alla finestra, alle nubi e alla luce del sole, e pensò a sua figlia Melina, cercando di ricordarsela quando era appena nata. Solo una rapida immagine, che svanì quando cercò di definirne i contorni: il corpicino grassoccio che tremolava per una risata, i capelli sottili e impalpabili… E il secondo figlio, che era stato chiamato Scintilla per gioco, perché era nato da Selce. Tenar non conosceva il suo nome vero. Al contrario di Melina — che era sempre stata sanissima — Scintilla era un bambino debole e malaticcio. Nato in anticipo, e molto piccolo alla nascita, era quasi morto di difterite all’età di due mesi e in seguito, per due anni, allevarlo era stato come prendersi cura di un passerotto implume: non si sapeva mai se l’indomani mattina sarebbe stato ancora vivo. Ma aveva tenuto duro, la piccola scintilla non si era lasciata spegnere. E, crescendo, era diventato un giovane magro ma robusto, attivissimo e irruento; assolutamente inutile nella fattoria — poiché non aveva pazienza con gli animali, con le piante e con le persone -, abituato a usare le parole solo per le proprie esigenze, mai per il piacere di parlare o per il desiderio di scambiarsi amore e conoscenze.

Ogion era passato dalla fattoria, durante uno dei suoi vagabondaggi, quando Melina aveva tredici anni e Scintilla undici. In quell’occasione, il mago aveva dato il vero nome a Melina e l’aveva fatto alle fonti del Kaheda in cima alla valle; la giovinetta bellissima si era immersa nell’acqua dai riflessi verdi, e il mago le aveva dato il suo vero nome, Hayohe. Poi Ogion era rimasto alla Fattoria delle Querce per un giorno o due e aveva chiesto al ragazzo se volesse accompagnarlo a fare un giro nei boschi. Scintilla si era limitato a scuotere la testa. «Che cosa faresti, se potessi?» aveva chiesto allora il mago, e il ragazzo gli aveva detto quel che non aveva mai rivelato ai genitori: «Andrei per mare». Così, dopo che Faggio gli aveva dato il suo vero nome, tre anni più tardi, Scintilla si era imbarcato come marinaio su un mercantile che faceva rotta da Valmouth a Oranéa e a Nord Havnor. Di tanto in tanto tornava alla fattoria, ma non molto spesso, e non ci rimaneva a lungo, anche se alla morte del padre la proprietà sarebbe passata a lui. Aveva la pelle chiara come quella di Tenar, ma era diventato alto come Selce, con un viso affilato. Non aveva mai detto ai genitori il suo nome vero e, forse, non lo aveva mai rivelato a nessuno. Tenar non lo vedeva da tre anni. Era possibile che non gli fosse mai giunta notizia della morte del padre. Magari aveva fatto naufragio ed era morto, ma Tenar pensava di no. Qualsiasi cosa gli fosse accaduta, avrebbe saputo condurre la sua scintilla di vita al di sopra delle acque e attraverso la tempesta.

Ed era ciò che Tenar provava in quel momento: la sensazione di una scintilla di vita, un fremito simile a quello che il corpo prova quando sente di avere in sé il nucleo di una nuova esistenza; un cambiamento, qualcosa di nuovo. Ma lei non intendeva chiedersi che cos’era. Erano cose che non si chiedevano, cosi come non si chiedeva il nome vero. O ti veniva dato, o continuavi a ignorarlo.

Tenar si alzò e si vestì. Anche se era ancora presto, faceva già caldo, quindi decise di non accendere il fuoco. Si sedette sulla soglia per bere una tazza di latte e osservò l’ombra del Monte di Gont ritirarsi progressivamente dal mare. Non c’era molta aria, per una rupe come quella, sempre spazzata dai venti, e la brezza aveva qualcosa di estivo, di ricco e di morbido, che profumava di erba. C’era una particolare dolcezza nell’aria, un cambiamento.

«Tutto è cambiato!» aveva sussurrato il vecchio prima di morire. E l’aveva sussurrato con gioia. Prendendole la mano, le aveva fatto il dono, il suo nome.

«Aihal!» mormorò Tenar. Per tutta risposta, un paio di capre si mise a belare: una dietro la capanna della mungitura, in attesa che arrivasse Erica, faceva «Be-eh!», mentre l’altra, in tono più profondo e metallico, lanciava il suo «Ble-eh! Ble-eh!» Quando c’è da rovinare qualcosa puoi sempre contare sulle capre, diceva Selce, ma lui era un allevatore di pecore e odiava le capre. Ged invece badava alle capre, da ragazzo, in quella stessa isola.

Entrò in casa e vide che Therru era ferma davanti al malato e lo stava osservando. Le passò un braccio intorno alle spalle, e la bambina, anche se in genere si ritraeva da quel genere di contatti o li accettava passivamente, questa volta si appoggiò leggermente a Tenar.

Ged continuava a dormire, sopraffatto dalla stanchezza. Era girato dall’altra parte, e si scorgevano le quattro cicatrici pallide che gli solcavano la guancia. «L’hanno bruciato?» sussurrò Therru.

Tenar non rispose subito. Non aveva mai saputo dove Ged si fosse procurato quelle cicatrici. Tempo addietro, nella Sala Dipinta del Labirinto di Atuan, gli aveva chiesto, per celia: «Un drago?» E lui aveva risposto con grande serietà:

«Non un drago. Uno dei Senza Nome; ma io ho poi scoperto il suo nome.» Tenar non aveva mai saputo altro. Ma sapeva che cosa intendesse la bambina, nel dire «bruciato».

«Sì», rispose.

Therru continuò a osservare l’uomo addormentato. Aveva piegato la testa per osservarlo con l’unico occhio sano, e questo la faceva assomigliare a un uccellino: un passero o una cinciallegra.

«Vieni con me, passerotto», le disse Tenar, «lui ha bisogno di dormire, tu hai bisogno di una pesca. Ce ne sarà qualcuna matura, questa mattina?»

Therru uscì per andare a vedere; Tenar la seguì.

Mentre mangiava la sua pesca, la bambina continuò a studiare il punto dove aveva piantato il nocciolo il giorno prima. Era chiaramente delusa dal fatto di non vedere alcun alberello, ma non disse nulla.

«Continua a bagnarlo», le suggerì Tenar.


Zia Muschio arrivò a metà mattino. Una delle sue abilità di strega tuttofare era la fabbricazione di cestini con i giunchi dello stagno, e Tenar le aveva chiesto di insegnarle a farli. Da bambina, ad Atuan, Tenar aveva appreso l’arte di imparare. E da forestiera, a Gont, aveva scoperto che alla gente piaceva insegnare. Aveva constatato che, se permetteva agli altri di insegnarle, veniva accettata più facilmente, le veniva perdonata la sua origine straniera.

Ogion le aveva insegnato le sue conoscenze, e poi Selce le aveva insegnato le sue. Era un’abitudine di tutta la vita, per Tenar, quella di imparare. Pareva sempre che ci fossero moltissime cose da imparare, più di quante non pensasse quando era un’apprendista sacerdotessa o l’allieva di un mago.

I giunchi erano rimasti a lungo nell’acqua, e quella mattina dovevano spezzarli: un compito noioso, ma non difficile, che non richiedeva eccessiva attenzione.

«Zia», disse Tenar, dopo che si furono sedute sulla soglia di casa, con la vasca dei giunchi ammollati fra loro e davanti una stuoia per posarvi quelli divisi. «Come fai a capire se un uomo è un mago?»

Come sempre, Muschio non affrontò direttamente l’argomento, ma prima fece una lunga digressione, passando per le solite frasi sentenziose e oscure. «Il profondo riconosce il profondo», disse, con voce grave, e aggiunse: «Ciò che c’è non può fare a meno di rispondere». Poi le raccontò la storia della formica che aveva raccolto sul pavimento del palazzo del re un minuscolo peluzzo ed era corsa a portarlo nel formicaio. Nella notte quel formicaio, posto sottoterra, brillava come una stella, perché il peluzzo non era altro che un capello caduto dalla testa del grande mago Brost. Ma solo i sapienti potevano vedere il formicaio luminescente. Agli occhi delle persone comuni era buio come prima.

«Allora, è una cosa che si impara», disse Tenar.

Sì e no, fu il succo dell’enigmatica risposta di Muschio. «Qualcuno nasce con quel dono», disse. «Anche se loro non sanno di averlo, il dono c’è. Come il capello del mago nel buco sottoterra, il dono risplende.»

«Sì», disse Tenar, «l’ho visto anch’io.» Suddivise prima in due parti, poi in quattro, uno dei giunchi, e posò i pezzi sulla stuoia. «Come fai a sapere, allora, che un uomo non è un mago?»

«Lo so perché non c’è», rispose Muschio. «Non c’è il dono, cara. Non c’è il Potere. Ascolta. Se ho gli occhi posso vedere che anche tu li hai, vero? E se sei cieca, me ne accorgo. E anche se hai un occhio solo, come la povera piccola, o se ne hai tre, io li vedo, no? Ma se non ho neppure un occhio per vedere, non saprò mai che hai gli occhi, finché tu stessa non me lo dirai. Se invece li ho, li vedo da sola. È il terzo occhio!» Si toccò la fronte e fece una risata forte e chioccia, come il verso della gallina che annuncia trionfalmente di avere fatto l’uovo. Era contenta di avere trovato le parole esatte con cui esprimere il suo pensiero. Tenar cominciava a sospettare che quel modo di parlare oscuro e spesso astruso fosse semplicemente dovuto alla scarsità di parole e di idee. Nessuno le aveva mai insegnato a pensare in modo rigoroso. Nessuno aveva mai ascoltato quello che aveva da dire. Quel che ci si aspettava da lei, quel che si voleva da lei, era vaghezza, mistero, formulette, rituali. Zia Muschio era una strega di paese. Non aveva niente a che vedere con i significati chiari.

«Capisco», disse Tenar. «Allora… ma forse non vorrai rispondere a questa domanda… quando guardi una persona servendoti del tuo terzo occhio, del tuo Potere, vedi il suo Potere, oppure no?»

«È più una conoscenza che non qualcosa di visibile», rispose Muschio. «’Vedere’ è solo un modo di dirlo. Non è come vedere te o questo giunco o quella montagna. È una conoscenza. So che cosa c’è in te e invece non c’è in quella povera testa vuota di Erica. So che cosa c’è nella povera bambina e non nell’uomo che c’è dentro la casa. So…» Non riuscì a proseguire; mormorò uno scongiuro e sputò in terra. «Qualsiasi strega che valga una forcina da un soldo sa riconoscere un’altra strega!» disse infine, con ira.

«Vi riconoscete tra voi.»

Muschio confermò. «Sì, è la parola giusta. Ci riconosciamo.»

«E un mago riconoscerebbe il tuo Potere, vedrebbe la tua magia…»

Ma Muschio le sorrideva. Un sorriso sdentato in mezzo a una ragnatela di rughe. «Cara», chiese, «intendi un uomo, un mago? Che importanza vuoi che abbia, io, per un uomo con un grande Potere?»

«Ogion, però…»

«Lord Ogion era gentile», disse Muschio, senza ironia.

Per qualche tempo, si limitarono a spezzare i giunchi, senza parlare.

«Attenta a non tagliarti un dito, cara», l’avvertì Muschio.

«A me», disse Tenar, riprendendo il discorso di prima, «Ogion ha insegnato la sua arte. Come se non fossi stata una donna. Come se fossi stato il suo apprendista, come Sparviero. Mi ha insegnato la Lingua della Creazione, Muschio. Qualsiasi cosa gli chiedessi, me la insegnava.»

«Non c’è mai stato un altro come lui», commentò la strega.

«Sono stata io a non voler imparare altro. L’ho lasciato. Che cosa me ne facevo, dei suoi libri? A che cosa mi servivano? Volevo vivere, volevo un marito, volevo dei figli, volevo una vita mia.»

Infilò l’unghia nello stelo del giunco e, senza sforzo, lo divise nel senso della lunghezza.

«E l’ho avuta», aggiunse.

«Con una mano si prende, con l’altra si getta via», disse la strega. «Be’, cara, che ti posso dire? Più di una volta mi sono messa nei guai, per stare con un uomo. Ma non ho mai voluto sposarmi, mai! No, no, non fa per me!»

«Perché?» chiese Tenar.

Presa alla sprovvista, Muschio rispose semplicemente: «Be’, dove lo trovi, un uomo disposto a sposare una strega?» E poi, muovendo di lato la mascella come fa la pecora che sposta il suo bolo: «E dove la trovi, una strega disposta a sposarsi?»

Continuarono a spezzare i giunchi.

«Che cosa c’è che non va negli uomini?» chiese Tenar, cautamente.

E con altrettanta cautela, abbassando la voce, Muschio rispose: «Non saprei, cara. Me lo sono chiesto molte volte. La migliore risposta che ho trovato potrebbe essere questa: un uomo sta dentro la sua pelle come una noce nel suo guscio». Sollevò la mano e gliela mostrò, curvando le dita lunghe e bagnate come se tenesse una noce fra il pollice e l’indice. «Il guscio è duro e robusto, ed è pieno di lui. Pieno della sua polpa di uomo, della sua personalità. E nient’altro. Dentro il guscio c’è solo lui e nient’altro.»

Tenar rifletté su quelle parole e infine chiese: «Ma se è un mago…?»

«Allora, dentro c’è solo il suo Potere. Il suo Potere è lui, devi capire. Per un mago, è così. Quando il suo Potere sparisce, sparisce anche lui. Resta un guscio vuoto.» Fece finta di schiacciare la noce immaginaria e di gettare via i pezzi. «Non resta niente.»

«E per una donna, allora?»

«Oh, be’, cara, per una donna è completamente diverso. Chi può dire dove inizia e dove finisce una donna? Ascolta, io ho radici più profonde di quest’isola. Più profonde del mare, più antiche della creazione della terraferma. Io risalgo fino alle Tenebre.» Gli occhi arrossati della strega brillavano in modo strano, e la sua voce vibrava come uno strumento musicale. «Io risalgo alle Tenebre! Esistevo prima che esistesse la luna. Nessuno sa che cosa sono, nessuno lo può dire, nessuno sa che cosa sia una donna, una donna di Potere, né il Potere delle donne, che è più profondo delle radici degli alberi, più profondo delle radici delle isole, più antico della Creazione, più antico della luna. Chi oserà mai rivolgere domande alle Tenebre? Chi oserà mai chiedere alle Tenebre il loro nome?»

La vecchia dondolava la testa e parlava come se salmodiasse una formula magica, persa nel suo incantesimo; ma Tenar rizzò la schiena e con l’unghia tagliò un altro giunco.

«Lo farò io», disse.

Spezzò un altro giunco.

«Sono vissuta abbastanza a lungo nelle Tenebre», aggiunse.


Tenar si alzò: come faceva di tanto in tanto si diresse verso casa per controllare se Sparviero dormiva ancora. Una volta tornata a sedersi vicino a Muschio, preferì non riprendere il discorso di prima, perché la vecchia aveva l’aria imbronciata e severa. Disse, invece: «Questa mattina, quando mi sono alzata, mi è sembrato che si fosse levato un vento diverso dal solito. Che ci fosse stato un cambiamento. Forse è solo il tempo. Tu l’hai sentito?»

Ma la strega non volle pronunciarsi. «I venti che soffiano qui sul Precipizio sono tanti: alcuni sono buoni, altri maligni. Alcuni portano le nubi e altri il bel tempo, e alcuni portano notizie a coloro che sanno ascoltarle, ma chi non le sa ascoltare non può conoscerle. Che cosa posso sapere io, una vecchia che non ha mai conosciuto gli insegnamenti dei maghi, che non ha mai studiato sui libri? Tutte le mie conoscenze vengono dalla terra, dalla terra buia e tenebrosa. Loro la tengono sotto i piedi, pieni del loro orgoglio. Gli orgogliosi signori maghi. Che cosa può sapere una vecchia strega?»

Doveva essere terribile, si disse Tenar, avere quella donna per nemica. Ed era difficile anche averla per amica.

«Zia», le disse, raccogliendo uno stelo di giunco, «io sono cresciuta fra donne. Solo donne. Nella terra di Karg, a oriente, lontano da qui, ad Atuan. Sono stata portata via dalla mia famiglia quando ero ancora piccola, per divenire una sacerdotessa in un luogo del deserto. Non so come si chiami; noi, nella nostra lingua, lo chiamavamo solo così, ‘il Posto’. L’unico posto che conoscessi. C’erano dei soldati di guardia, all’esterno delle mura, ma non potevano entrare. E noi non potevamo uscire dalle mura. Solo in gruppo, tutte donne e ragazze, con gli eunuchi a custodirci, per allontanare gli uomini.»

«Chi sono, quelli di cui parli?» chiese la strega.

«Gli eunuchi, intendi dire?» Senza accorgersene, Tenar aveva usato la parola nella lingua di Karg. «Castrati», disse.

La strega la fissò per un istante, poi esclamò: «Tsekh!», e fece uno scongiuro. Si morse il labbro, talmente sorpresa da scordarsi dell’irritazione di poco prima.

«Uno di loro è stato come una madre, per me, laggiù… Ma capisci, Zia, io non avevo mai visto un uomo: quando ho visto il primo, ero già donna fatta. Ho visto solo altre donne. Eppure non sapevo che cosa fossero le donne, perché conoscevo solo quelle. Come gli uomini che vivono solo con altri uomini, i marinai e i soldati, e i maghi di Roke… possono dire di sapere veramente che cos’è un uomo? No, secondo me, perché non parlano mai con una donna.»

«Li pigliano e gli fanno come ai maschi delle pecore e delle capre?» chiedeva intanto la strega. «Con il coltello del castratore?»

Il gusto dell’orrore e del macabro, e forse anche una sorta di spirito vendicativo contro gli uomini, aveva avuto il sopravvento sia sulla sua collera, sia sulla ragione. Adesso, l’unico argomento che interessasse a Muschio era quello degli eunuchi.

Purtroppo, Tenar non poteva dirle molto. Comprese di non avere mai dato gran peso alla cosa. Quando era ad Atuan, da bambina, sapeva che c’erano degli uomini evirati; uno di loro le aveva voluto bene come a una figlia, e lei aveva ricambiato l’affetto; poi, Tenar l’aveva ucciso per fuggire. Di lì era poi giunta nell’Arcipelago, dove non c’erano eunuchi, e non aveva più pensato a loro, li aveva lasciati affondare nelle Tenebre come il corpo di Manan.

«Penso di sì», disse, per venire incontro a Muschio e alla sua sete di particolari. «Prendono dei ragazzi ancora giovani, e…» S’interruppe. Smise anche di lavorare.

«Come Therru», riprese, dopo una lunga pausa. «A che cosa serve un bambino? Per usarlo. Per violentarlo, per castrarlo… Ascolta, Muschio. Quando vivevo nel luogo delle Tenebre, era quel che facevano laggiù. E quando sono venuta qui, ho pensato di essermi affacciata alla luce. Avevo imparato le parole vere. E avevo il mio uomo, avevo messo al mondo dei figli, vivevo tranquilla. Alla luce del sole. E proprio alla luce del sole hanno fatto quello… alla bambina. Sul prato, vicino al fiume. Il fiume che nasce dalla sorgente dove Ogion ha dato il nome a mia figlia. Alla luce del sole. Io cerco ancora di scoprire dove posso vivere, Muschio. Capisci quello che intendo dire?»

«Be’…» disse la donna più anziana; e, dopo qualche istante, aggiunse: «Cara, ci sono abbastanza dolori al mondo senza andare a cercarli». Poi, nel vedere che a Tenar tremavano le mani e che non riusciva a spezzare un giunco particolarmente robusto, ripeté: «Attenta a non tagliarti un dito, cara».


Dovettero attendere fino all’indomani perché Ged riprendesse i sensi. Muschio, che era un’infermiera molto brava, anche se terribilmente sporca, riuscì a fargli inghiottire un po’ di brodo. «Chissà da quanto tempo non mangia», disse, «ed è arso dalla sete. Dovunque sia stato, laggiù non devono né mangiare né bere molto.» E, dopo avergli dato un’altra occhiata: «Ma ormai è troppo tardi, secondo me. Si indeboliscono, sai, e non riescono neppure a bere, anche se ne hanno bisogno. Ho visto tanti uomini forti morire così. In pochi giorni, ridotti all’ombra di se stessi».

Tuttavia, con pazienza, riuscì a dargli qualche cucchiaio del suo brodo di carne e verdura. «Adesso vedremo», disse. «Ma è troppo tardi, secondo me. Sta scivolando via.» Lo disse senza rimpianto, forse con soddisfazione. Quell’uomo non era niente per lei; un morto, invece, era un avvenimento. Forse le avrebbero lasciato seppellire quel mago. Quando era morto quello vecchio non glielo avevano permesso.

Ged si svegliò il giorno seguente, mentre Tenar gli stava spalmando un unguento sulle mani. Doveva avere fatto molta strada in groppa a Kalessin, perché la stretta feroce sulle scaglie di ferro del drago gli aveva inciso profondamente i palmi, e anche i polpastrelli erano pieni di tagli vecchi e nuovi. Anche adesso, mentre dormiva, continuava a stringere le mani, come per non lasciare il drago ormai lontano. Tenar dovette aprirgli le dita con la forza, per medicargli le piaghe. E, quando lo fece, Ged gridò e alzò le braccia, come se stesse cadendo. Aprì gli occhi. Lei gli disse qualcosa per rassicurarlo, e Ged la guardò.

«Tenar», disse, senza sorridere. Un puro segno di riconoscimento, al di là di qualsiasi emozione. E Tenar provò un piacere puro — come per un gusto dolce o per un fiore — nel constatare che c’era ancora un uomo che conosceva il suo nome, e che era quell’uomo.

Si chinò su di lui e lo baciò sulla guancia. «Sta’ fermo», gli disse, «e lasciami finire.» Lui obbedì; quasi subito scivolò di nuovo nel sonno, questa volta con le mani aperte e rilasciate.

Più tardi, nell’addormentarsi vicino a Therru, dopo il tramonto, Tenar pensò: non l’avevo mai baciato, prima. E l’idea la lasciò di stucco. In un primo momento si disse che non era vero. Certo, in tutti quegli anni… Non nelle Tombe, ma dopo, quando avevano viaggiato insieme sulle montagne… Sul Vistacuta, quando avevano fatto vela insieme per Havnor… Quando lui l’aveva portata a Gont…

No. E neanche Ogion l’aveva mai baciata, né lei l’aveva baciato. La chiamava figlia, e le voleva bene, ma non la toccava mai, e lei, che era stata allevata come una sacerdotessa solitaria e intoccabile, come un oggetto di culto, non aveva mai cercato il contatto, non aveva mai saputo di averne bisogno. Posava per un istante la guancia o la fronte sulla mano di Ogion, e lui, di tanto in tanto, le passava la mano sui capelli, una volta sola, con molta delicatezza.

Ma Ged non aveva mai fatto nemmeno quello.

Non ho mai pensato a queste cose? si chiese, incredula e stupita.

Non lo sapeva. Adesso che rifletteva sull’argomento, provò per un attimo un forte orrore, un senso di trasgressione, che subito svanì, senza assumere alcun significato. Sulle labbra aveva sentito il contatto con la sua guancia destra, vicino alla bocca, e la pelle asciutta e fredda: solo quella constatazione aveva senso.

Dormì, e sognò che qualcuno gridava il suo nome: «Tenar! Tenar!» e che lei rispondeva con un grido simile a quello di un uccello marino che volava immerso nella luce, al di sopra del mare; ma al risveglio non ricordò il nome da lei gridato.


Ged fu una delusione per Zia Muschio. Continuò a vivere, e dopo un paio di giorni lei lo dichiarò fuori pericolo. Gli portò il suo brodo di carne di capra e di radici e di erbe, facendolo appoggiare contro di sé, circondandolo con il denso afrore del suo corpo, e, una cucchiaiata alla volta, brontolando, gli ridiede la vita. Anche se Ged l’aveva riconosciuta e la chiamava con il suo nome d’uso, e anche se la strega non poteva negare che l’uomo somigliava a quello chiamato Sparviero, avrebbe voluto negarlo. Il nuovo venuto non le piaceva. Le cose erano tutte storte, diceva. Tenar rispettava le intuizioni della strega quanto bastava per essere preoccupata, ma dentro di sé non riusciva a trovare alcun sospetto del genere. Era semplicemente contenta che Ged fosse con lei e riprendesse a poco a poco le forze. «Quando sarà di nuovo lui, vedrai anche tu», diceva a Muschio.

«Lui!» esclamava la strega, e faceva il gesto di rompere tra le dita un guscio di noce.

Fin dai primi giorni, Ged chiese di Ogion: la domanda che Tenar temeva più di ogni altra. Si era detta — ed era quasi riuscita a convincersi — che Ged non aveva bisogno di chiedere, che l’aveva già saputo alla maniera dei maghi, come l’avevano saputo i maghi di Porto Gont e di Re Albi, i quali erano accorsi quando Ogion era morto. Ma la mattina del quarto giorno, nel controllare le sue condizioni, Tenar si accorse che era sveglio. Alzando lo sguardo verso di lei, Ged le disse: «Questa è la casa di Ogion».

«La casa di Aihal», rispose lei, trattenendo il fiato; le risultava ancora difficile pronunciare il nome vero del mago. Ged non le aveva mai detto di conoscere quel nome, ma certo lo conosceva, o perché gliel’aveva detto lo stesso Ogion, o perché non c’era bisogno che glielo dicesse.

Per qualche momento non ci fu alcuna reazione da parte di Ged, che poi, senza particolari intonazioni, disse: «Allora è morto».

«Dieci giorni fa.»

Ged rifletté su queste parole, come se cercasse qualche particolare di cui si era dimenticato.

«Quando sono arrivato?» domandò infine.

Lei dovette accostarsi ancora di più, per sentire.

«Quattro giorni fa; verso sera.»

«Non c’era nessun altro sulle montagne», disse Ged. Poi rabbrividì, come per una fitta di dolore o per il ricordo di una sofferenza insopportabile. Chiuse gli occhi, aggrottando la fronte, e trasse un profondo respiro.

A mano a mano che riprendeva le forze, quel suo accigliarsi, l’uso di trattenere il respiro e di stringere le mani a pugno divennero per Tenar immagini familiari. La forza gli ritornò, ma non la serenità, non il benessere.

Sedeva sulla soglia, al sole del tardo pomeriggio estivo. Era il tragitto più lungo che avesse compiuto fino allora dal letto a lì. Sedeva e fissava il sole al tramonto e Tenar, che faceva ritorno dal filare di fagioli, lo osservò con attenzione. Aveva ancora un aspetto cinereo, buio. Non era solo dovuto ai capelli grigi, ma a qualcosa che aveva nella pelle e nelle ossa, e pelle e ossa era tutto quel che restava di lui. Non aveva alcuna luce negli occhi. Eppure quell’ombra, quell’uomo di cenere, era lo stesso che lei aveva visto, per la prima volta, illuminato dal suo stesso Potere, il forte viso dal naso aquilino e le labbra ben disegnate, un bel volto. Era sempre stato un bell’uomo, con un portamento orgoglioso.

Tenar lo raggiunse.

«Hai bisogno di sole», gli disse, e lui annuì. Ma anche mentre sedeva al tepore del sole dell’estate continuava a stringere i pugni.

Era così taciturno che Tenar si chiese se non fosse la sua presenza a dargli fastidio. Forse non riusciva più a comportarsi con la familiarità di un tempo. Adesso era l’Arcimago: Tenar tendeva a dimenticarsene. Ed erano passati venticinque anni da quando avevano superato le montagne di Atuan e avevano attraversato sul Vistacuta il Mare Orientale.

«Dov’è il Vistacuta?» gli chiese all’improvviso, sorpresa da quell’idea. Poi pensò: come sono sciocca! Sono passati tanti anni, e lui è Arcimago, chissà da quanto tempo ha rinunciato a quella barca così piccola.

«A Selidor», rispose Ged, e sul viso gli comparve la sua immutabile, incomprensibile angoscia.

In un tempo remoto come mai; in un luogo lontano come Selidor…

«L’isola più lontana», disse Tenar, ed era in parte anche una domanda.

«La più lontana a occidente», rispose Ged.


Sedevano a tavola, dopo avere terminato il pasto serale.

Therru era uscita a giocare.

«Allora, sei venuto da Selidor, portato da Kalessin?» Nel dire il nome del drago, le parve di nuovo che quel nome si pronunciasse da sé, le atteggiasse la lingua e le labbra alla sua forma e al suo suono, trasformasse il respiro in fuoco.

Nell’udire il nome, Ged la fissò per un istante, con grande attenzione, e lei, in quell’istante, comprese che di solito evitava di guardarla negli occhi. Ged annuì. Poi, a fatica, ma per amore del vero, precisò: «Da Selidor a Roke. E poi da Roke a Gont».

Quante miglia potevano essere? Mille? Diecimila? Tenar non ne aveva idea. Aveva visto le grandi mappe tra i tesori di Havnor, ma nessuno le aveva insegnato i numeri, le distanze. Un luogo lontano come Selidor… E il volo di un drago si poteva misurare in miglia?

«Ged», gli disse, usando il suo nome vero perché erano soli, «so che hai sofferto molto, che hai corso gravi rischi. E se non vuoi, o non puoi, non dirmi niente… Ma se sapessi qualcosa di più, forse potrei aiutarti. Ne sarei lieta. Presto arriveranno da Roke a prenderti, manderanno una nave per l’Arcimago oppure un drago, che so! E tu sarai di nuovo lontano. E non ci saremo parlati.» Nel dirlo, però, dovette stringere i pugni, offesa dalla falsità delle proprie parole. Fare dell’ironia sul drago… lamentarsi come una moglie tradita!

Ged aveva chinato la testa e fissava il tavolo: era cupo, ostinato, come un contadino che dopo avere trascorso una faticosa giornata nei campi doveva affrontare una noiosa lite domestica.

«Non verrà nessuno da Roke, penso», disse, e quelle parole dovettero costargli un notevole sforzo, perché poi, per qualche minuto, rimase in silenzio. «Dammi tempo», aggiunse.

Tenar pensò che non volesse dire altro, e rispose: «Sì, certo. Scusa». Si stava alzando per sparecchiare, quando Ged continuò, senza alzare gli occhi dal tavolo, e con voce malferma disse:

«Adesso ho tempo».

Poi si alzò a sua volta, portò i piatti nell’acquaio e finì di sparecchiare. Lavò i piatti mentre Tenar riponeva le pietanze. Il suo affaccendarsi incuriosì la donna che mentalmente lo stava paragonando a Selce; ma Selce non aveva mai lavato un piatto in tutta la sua vita. Lavoro da donne. Però tanto Ogion quanto Ged erano vissuti lì, scapoli, senza donne; e Ged, anche negli altri luoghi dove era vissuto, non aveva mai avuto donne con sé. Perciò faceva un «lavoro da donna», senza porsi il problema. E sarebbe stato un peccato, pensò, se se lo fosse posto, se avesse cominciato a temere che la sua dignità fosse affidata a un canovaccio per asciugare i piatti.

Nessuno era giunto da Roke a cercarlo. Da quando ne avevano parlato, difficilmente ci sarebbe stato il tempo di arrivare, se non con una nave sospinta da un vento magico per l’intero tragitto. Ma i giorni passarono senza che giungesse alcun messaggio per lui. A Tenar pareva strano che lasciassero solo, per tutto quel tempo, il loro Arcimago. Doveva avere vietato loro di chiamarlo, oppure doveva essersi nascosto con la sua magia, per non farsi trovare e per non essere riconosciuto. Infatti, stranamente, dal villaggio non era giunto nessuno a chiedere di lui.

Meno strano era, invece, che nessuno fosse giunto dal castello di Re Albi. Tra i signori del castello e Ogion non era mai corso buon sangue. Le donne della casa, così si diceva nel villaggio, praticavano un tempo la magia nera; una era andata sposa a un signore del Nord che aveva poi finito per seppellirla viva sotto una pietra, un’altra aveva fatto qualcosa al figlio che portava ancora in seno, perché nascesse con grandi Poteri, e infatti era già in grado di parlare fin dalla nascita, ma non aveva ossa. «Come un sacchettino di pelle», aveva sussurrato la levatrice alle altre donne del villaggio, «un sacchettino con gli occhi e la voce, e non è mai arrivato a prendere il latte, ha solo pronunciato qualche parola in una lingua incomprensibile e poi è morto…» Vere o false che fossero queste storie, i signori di Re Albi si erano sempre tenuti da parte. Come accompagnatrice del mago Sparviero, pupilla del mago Ogion, portatrice a Havnor dell’Anello di Erreth-Akbe, Tenar avrebbe potuto chiedere di essere accolta al castello, al suo arrivo a Re Albi; ma lei non lo aveva fatto. Era invece andata ad abitare, con grande soddisfazione, nella piccola casa appartenente al tessitore del villaggio, Ventaglio, e aveva visto solo da lontano gli abitanti del castello, e raramente. Muschio le aveva detto che nella dimora, al momento, non c’era una castellana, ma solo il vecchio signore, ormai molto anziano, e il nipote, oltre al giovane mago chiamato Pioppo, venuto dalla scuola di Roke.

Da quando Ogion era stato sepolto con in mano l’amuleto di Zia Muschio, sotto il suo faggio preferito, accanto al sentiero che portava alla cima della montagna, Tenar non aveva più visto Pioppo. Per quanto la cosa fosse strana, questi forse non sapeva della presenza dell’Arcimago nel suo stesso villaggio o, se lo sapeva, si teneva lontano da lui. E, al pari di lui, il mago di Porto Gont, anch’egli venuto a seppellire Ogion, non si era più fatto vedere. Tuttavia, benché non sapesse che Ged era lassù, quel mago sapeva perfettamente chi era lei, la Signora Bianca, che aveva al polso l’Anello di Erreth-Akbe, che aveva reintegrato la Runa della Pace… E quanti anni sono passati da allora, vecchia mia? chiese a se stessa. La superbia ti ha fatto perdere la ragione?

Comunque, era stata lei a rivelare il nome vero di Ogion. Le pareva di meritare un po’ di cortesia.

Ma i maghi, per loro natura, non avevano niente a che fare con la cortesia. Erano uomini di Potere. Era solo il Potere a muoverli. E che Potere aveva lei, adesso? Che Potere aveva avuto in passato? Da ragazza, da sacerdotessa, lei era solo un contenitore; il Potere delle Tenebre scorreva in lei, la usava, la lasciava vuota e intatta. Da giovane donna le era stata insegnata una conoscenza di Potere, da un uomo di Potere, e lei aveva rinunciato a quella conoscenza, non l’aveva toccata. Da donna adulta aveva scelto i Poteri di una donna, e li aveva usati, a tempo debito, ma quel tempo era ormai passato; il suo periodo di moglie e di madre era finito. Non c’erano Poteri riconoscibili, adesso, in lei.

Ma un drago le aveva parlato. «Io sono Kalessin», le aveva detto, e lei aveva risposto: «Io sono Tenar».

«Che cos’è un Signore dei Draghi?» aveva chiesto a Ged, nel luogo oscuro, il Labirinto, per negare il suo Potere e per costringerlo ad ammettere quello di lei; e lui le aveva risposto con la semplicità e l’onestà che sempre la disarmavano: «Un uomo con cui i draghi sono disposti a parlare».

Così, lei era una donna con cui i draghi erano disposti a parlare. Era quella la cosa nuova, la conoscenza nascosta, il minuscolo seme che aveva sentito in se stessa quando si era svegliata sotto la piccola finestra d’occidente?

Qualche giorno dopo la breve conversazione a tavola, Tenar toglieva le erbacce dall’orto di Ogion per salvare dalle male piante estive le cipolle da lui piantate in primavera. Ged si era recato al cancello del recinto che impediva alle capre di entrare nell’orto, e toglieva le erbacce da quella parte. Lavorò un poco e poi si fermò, guardandosi le mani.

«Da’ loro il tempo di guarire», disse Tenar, in tono pacato.

Lui annui.

Le alte piante di fagiolo del filare successivo erano in fiore e spandevano un profumo molto dolce. Ged sedette, appoggiando sulle ginocchia le braccia esili, e fissò l’intrico di viticci, di fiori e di baccelli illuminati dal sole. Tenar, continuando a lavorare, mormorò: «Prima di morire, Aihal ha detto: ‘Tutto è cambiato…’ E dal giorno della sua morte ho continuato a piangerlo, ma c’è qualcosa che allevia il mio dolore. Qualcosa sta per nascere… è stato liberato. L’ho capito nel sonno e, al mio risveglio, qualcosa era cambiato».

«Si», ammise lui. «Un male è finito. E…»

Dopo un lungo silenzio, Ged riprese a parlare. Non guardò Tenar, ma per la prima volta la sua voce tornò a essere quella che lei ricordava: pacata, bassa, con la secca cadenza di Gont.

«Ricordi, Tenar, il giorno in cui siamo arrivati a Havnor?»

Come potrei dimenticarmene? si chiese lei, ma non disse niente, per paura che Ged si chiudesse nel silenzio.

«Abbiamo condotto il Vistacuta in porto e siamo saliti sul molo… i gradini erano di marmo. E la gente, tutta la gente… e tu che sollevavi il braccio per mostrare loro l’Anello…»

…e io ti tenevo la mano; non ero mai stata così terrorizzata: le facce, le voci, i colori, le torri e le bandiere, l’argento, l’oro e la musica, e l’unico che conoscevo eri tu… in tutto il mondo, l’unico che conoscevo eri tu, che camminavi al mio fianco…

«Gli scudieri del palazzo reale ci hanno accompagnato fino ai piedi della Torre di Erreth-Akbe, attraverso le strade piene di gente. E siamo saliti sui suoi alti scalini, noi due soli. Ricordi?»

Lei annuì. Posò le mani sulla terra che aveva ripulito dalle erbacce, e la sentì fredda e granulosa.

«Ho aperto la porta. Era pesante; a tutta prima non voleva aprirsi. Poi siamo entrati. Ricordi?»

Pareva che Ged le chiedesse di rassicurarlo. È davvero successo? Ricordo bene?

«Era una stanza alta, grande», disse Tenar. «Mi ha fatto pensare alla mia Sala, quella in cui ero stata divorata, ma solo perché era tanto alta. La luce giungeva da finestre collocate molto in alto sulla Torre. Raggi di luce che si incrociavano come spade.»

«E il trono», disse Ged.

«Il trono, sì. Tutto oro e rosso. Ma vuoto. Come il trono nella Sala di Atuan.»

«Non più», disse Ged. Guardò in direzione di Tenar, fra le verdi foglie delle cipolle. Aveva la faccia tesa, ansiosa, come se parlasse di una gioia che non riusciva bene ad afferrare. «Adesso c’è un re, a Havnor», disse. «Al centro del mondo. Le profezie si sono avverate. La Runa è integra, e il mondo è riunito. I giorni della pace sono arrivati. Lui…»

S’interruppe e guardò in terra, stringendo i pugni.

«Lui mi ha riportato dalla morte alla vita. Arren di Enlad. Lebannen, nei canti che verranno composti in futuro. Ha assunto il suo nome vero, Lebannen, re di Earthsea.»

«E questa, allora», chiese lei, guardandolo attentamente, «la gioia, la luce?»

Lui non rispose.

C’è un re a Havnor, pensò Tenar, e disse forte: «C’è un re a Havnor!»

L’immagine della bellissima città era rimasta vivissima in lei: le strade larghe, le torri di marmo, i tetti coperti di tegole rosse e di bronzo, le navi dalle bianche vele ancorate nel porto, la meravigliosa sala del trono, trapassata dai raggi di sole come da lame di spada, la ricchezza, la dignità, l’armonia e l’ordine che vi regnavano. Da quel centro luminoso, Tenar vedeva l’ordine allargarsi verso la periferia come una serie di anelli perfetti che si formano su uno specchio d’acqua, come la linea retta di una strada lastricata o la rotta di una nave con il vento in poppa: qualcosa che va come deve andare, portando con sé la pace.

«Hai fatto bene, caro amico», disse Tenar.

Ged fece un piccolo gesto, come per fermare le sue parole, poi si girò e si portò la mano davanti alla bocca. Tenar non sopportava di vederlo piangere. Si chinò sulle sue erbacce. Tirò una foglia, poi un’altra, e la radice si spezzò. Scavò con le mani, cercando la radice dell’erbaccia nel suolo duro, nel buio della terra.

«Goha», disse Therru, con la sua voce debole e roca, dal cancello, e Tenar guardò nella sua direzione. La mezza faccia della bambina era rivolta verso di lei; la guardava sia con l’occhio buono sia con quello cieco. Tenar si chiese: devo dirle che a Havnor c’è un re?

Si alzò e si avvicinò alla bambina perché non si sforzasse troppo le corde vocali per farsi sentire. Faggio le aveva detto che, quando Therru, priva di sensi, era caduta nel fuoco aveva respirato le fiamme. «Le hanno bruciato la voce», aveva spiegato.

«Guardavo Sippy», sussurrò Therru, «ma è uscita dal pascolo. Non riesco a trovarla.»

Era uno dei più lunghi discorsi che avesse fatto. Tremava perché aveva corso e perché si sforzava di non piangere. Non possiamo piangere tutti, si disse Tenar… è una cosa sciocca, non possiamo! «Sparviero!» disse, voltandosi verso di lui, «è scappata una capra.»

Ged si alzò immediatamente e guardò nel recinto.

«Prova nel capanno», disse.

Guardò Therru come se non vedesse le sue orrende ferite, come se non la vedesse affatto: era soltanto una bambina che aveva perso una capra e aveva bisogno di ritrovarla. In quel momento, Ged vedeva solo la capra. «Oppure è andata a unirsi al gregge del villaggio», aggiunse.

Therru stava già correndo al capanno.

«È tua figlia?» chiese Ged. Non aveva mai parlato della bambina, fino a quel momento, e per un attimo Tenar riuscì solo a pensare che talvolta gli uomini erano davvero strani.

«No, e neanche mia nipote. Ma è la mia bambina», disse. Perché le era di nuovo venuta voglia di prenderlo in giro?

Ged si staccò dal recinto proprio mentre Sippy correva verso di loro — un lampo marrone e bianco — seguita a grande distanza da Therru.

«Ehi!» esclamò Ged, e con un balzo bloccò la strada alla capra, spingendola verso il cancello e verso le braccia di Tenar, che riuscì ad afferrarla per il collare. La capra s’immobilizzò immediatamente, tranquilla come un agnellino, e con uno dei suoi occhi gialli fissò Tenar, con l’altro guardò i filari delle cipolle.

«Via!» disse Tenar, allontanandola da quel paradiso delle capre e facendola entrare nel pascolo, molto più sassoso, a lei riservato.

Ged si era seduto a terra, trafelato come la bambina, o anche di più, perché ansimava e aveva le vertigini; ma almeno non piangeva. Quando c’è da rovinare qualcosa puoi sempre contare sulle capre.

«Erica non doveva incaricarti di sorvegliare Sippy», disse Tenar, rivolta a Therru. «Nessuno può sorvegliare quella capra. Se scappa di nuovo, devi dirlo a Erica, e non devi preoccuparti. Va bene?»

Therru annuì. Stava guardando Ged. Era difficile che guardasse la gente, e soprattutto gli uomini, per più di un istante, ma ora lo fissava, con la testa inclinata come quella di un passero. Che fosse nato un eroe?

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