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Entro una settimana diventò possibile comunicare, sia pure in modo incerto e sommario.

Gli extraterrestri afferrarono il concetto al volo. Capirono, senza che fosse necessario pregarli, che uno dei due gruppi doveva apprendere la lingua dell’altro, e che più presto si faceva, tanto di guadagnato. Nessuno pensò di discutere su chi di loro dovesse imparare per primo il linguaggio dell’altro. Gli alieni avevano un idioma articolato, con sfumature costituite da variazioni di tono, timbro e intensità. A parte i problemi grammaticali molto complessi, era evidente che i Terrestri si sarebbero slogati le mascelle nel tentativo di riprodurre i brontolii, i sibili, e tutte le strane emissioni di voce del linguaggio alieno. Sul terreno fisiologico era veramente impossibile che i Terrestri imparassero la lingua degli ospiti, toccava perciò agli ospiti imparare il linguaggio dei visitatori.

E gli ospiti se la cavavano benissimo. Havig, come filologo della spedizione, era incaricato del compito, e per lunghe ore, ogni giorno di quella settimana, gli otto Terrestri dovettero fungere da sillabari animati per mimare i verbi umani. Era un lavoro snervante, specialmente con quella temperatura, che si manteneva sui trentacinque gradi per buona parte della giornata, ma Havig non risparmiò nessuno, e meno che mai se stesso.

«Insegnate i verbi e il resto verrà da sé» continuava a ripetere. «I nomi sono facili… basta indicare un oggetto e dire come si chiama. Sono i verbi che bisogna insegnare prima di tutto. Specialmente i verbi astratti.»

La prima lezione durò quasi sei ore.

I tre azzurri che sembravano a capo della colonia si acquattarono in posizioni che a vederle sembravano incredibilmente scomode, conficcando i talloni nella parte posteriore delle cosce, mentre Havig faceva giostrare i sudatissimi Terrestri, urlando istruzioni a tutto spiano.

«Chinatevi! Chinatevi!» E il linguista si voltava verso gli «azzurri», indicando i poveri Terrestri piegati in due, e spiegava: «Chinarsi.»

«Chinarsi» ripetevano a turno gli alieni.

Pareva impossibile che in quel modo si potesse imparare una lingua, ma gli stranieri avevano una memoria di ferro, e Havig si era dedicato al compito di istruirli come se si trattasse di una sua sacra missione nel cosmo. Quando il sole cominciò ad abbassarsi dietro le colline al di là della colonia, parecchi concetti chiave erano stati stabiliti: essere, costruire, viaggiare. Per lo meno, Havig sperava che lo fossero davvero. Così sembrava, ma era impossibile esserne certi.

Gli extraterrestri sembravano soddisfatti delle loro nuove cognizioni. Si battevano i petti ossuti esclamando: «Io… Norglano. Voi… Terrestre.»

«Io… Terrestre. Noi… Terrestri.»

«Terrestri venire. Cielo. Stella.»

Bernard approvava tra sé. Sebbene fosse assolutamente contrario alle teorie fondamentali di Havig, sulle culture antiche, nonché alle sue sciocche idee Neopuritane sui tempi presenti, doveva ammettere che in quelle poche ore l’allampanato linguista aveva svolto un lavoro encomiabile.

Tuttavia, stava per cadere la sera e anche la temperatura si abbassava rapidamente. Quella doveva essere una zona di grandi sbalzi termali, in cui si passava da ore caldissime a ore di freddo pungente.

«Dite loro che dobbiamo tornare indietro» disse Laurance a Havig. «Cercate di sapere se hanno dei mezzi di trasporto, e se possono riaccompagnarci all’astronave.»

Havig impiegò un buon quarto d’ora per chiarire quei punti, con l’aiuto di smorfie, saltelli e cenni disperati. Gli azzurri se ne stavano placidamente acquattati mentre Havig faceva il mimo e parlava. Ripetevano parole a caso se queste colpivano la loro fantasia. Bernard già si vedeva in cammino per altri venti chilometri nel freddo e nell’oscurità. Ma alla fine, una scintilla di comprensione si accese. Uno degli azzurri si alzò in piedi con un movimento rapido, anatomicamente incomprensibile, e abbaiò alcuni ordini imperiosi a un verdolino in attesa.

Qualche istante dopo tre piccoli veicoli molto simili a grosse culle arrivarono rotolando sul terreno, ciascuno condotto da un «verde». I veicoli erano ovali, rivestiti in un metallo che pareva rame, e poggiavano su tre ruote. L’azzurro che aveva fatto più progressi di tutti in lingua terrestre indicò le macchine e disse: «Voi. Terrestri. Viaggiare.»

Le macchine erano mosse da una specie di generatore turboelettrico, e parevano capaci di una velocità massima di sessanta chilometri all’ora. I «verdi» guidavano impassibili, senza mai dire parola, seguendo semplicemente le istruzioni che Laurance dava loro. Arrivati al torrente, lo guadarono senza esitare, come se i veicoli fossero stati carri armati in miniatura. Il viaggio di ritorno alla VUL-XV durò meno di un’ora, anche calcolando i larghi giri attorno ai boschi impenetrabili per un veicolo. Quando i Terrestri scesero dalle piccole macchine, era ormai notte fonda. Costellazioni luminosissime e sconosciute punteggiavano il cielo con le loro strane configurazioni. E stava sorgendo la luna… una piccola scheggia rossastra, che saliva di traverso nel cielo contro il buio della notte. Saliva rapidamente, a una velocità sbalorditiva per uomini abituati al comportamento più pacato del satellite terrestre.

I «verdi» se ne andarono senza una parola.

I Terrestri erano altrettanto silenziosi, mentre rientravano nella loro astronave. Era stata una giornata lunga e massacrante; Bernard non ricordava di essersi mai sentito tanto stanco. Nessuna responsabilità accademica gli era mai parsa tanto gravosa. Nessun problema personale lo aveva snervato a quel punto. Ma sebbene fossero tutti abbrutiti dallo sforzo compiuto, non potevano impedirsi di provare un profondo, stimolante senso di orgoglio e di soddisfazione. Quel giorno la Terra si era messa in contatto con un’altra razza, e attraverso l’immenso golfo che separava le due specie si era creato un ponte di comunicazione.

Nell’astronave, Martin Bernard si accostò ad Havig, con riluttanza, eppure mosso da un istinto che sembrava addirittura imperioso.

Il Neopuritano non si era nemmeno slacciato la stretta tonaca nera dal rigido colletto inamidato. Si era gettato sulla brandina lungo disteso, e completamente vestito.

Bernard gli si fermò accanto. Havig aveva gli occhi aperti, ma non parve accorgersi del sociologo.

«Havig?»

Lo sguardo di Havig si spostò su Bernard. «Che c’è?»

Bernard esitò, lottando con la tentazione di rimettersi a discutere con il rivale. «Ecco, io… volevo dirvi che avete fatto un lavoro splendido, oggi» disse, buttando fuori le parole. «In passato abbiamo avuto le nostre divergenze, Havig, ma questo non può impedirmi di farvi le mie congratulazioni per il modo come avete condotto la lezione di oggi. So riconoscere un lavoro ben fatto, credetemi.»

Il Neopuritano si sollevò sulla brandina. I suoi severi occhi grigi si piantarono in quelli azzurri e più dolci di Bernard. Con voce ferma e priva di ogni emozione Havig replicò: «Non cerco congratulazioni per il mio lavoro, dottor Bernard. Ciò che posso avere compiuto, l’ho fatto solo per merito del Signore che si è servito di me, perciò non debbo vantare alcun merito personale.»

«Be’… d’accordo, diciamo che Dio ha lavorato attraverso voi» balbettò Bernard meravigliato. «Ma penso ugualmente che abbiate fatto un lavoro ottimo, e…»

«Non merito il vostro plauso, dottor Bernard. Ma mi compiaccio se una maggiore larghezza di vedute vi consente di esprimerlo.» Le parole furono accompagnate da un lievissimo sorriso. «Buonanotte, dottor Bernard.» E Havig tornò a sdraiarsi sulla sua cuccetta.

Bernard batté le palpebre, trasecolato. Era stato così contento di scoprire in sé l’obiettività necessaria per presentare le sue congratulazioni all’altro, che aveva considerato quel gesto un sensibile sacrificio del suo orgoglio. Invece, sebbene non respinto del tutto, quel gesto era stato accolto da Havig con suprema indifferenza. Bernard era irritato. Fece per aggiungere qualcosa.

Dominici glielo impedì gentilmente. «Lasciatelo stare, Bernard. Tutt’e due avete fatto un passo nella direzione buona. Ora non rovinate tutto. Cosa vi aspettavate che facesse? Che vi ringraziasse sorridendo? Se non pensa di meritarle, le vostre lodi…»

«Allora tanto valeva che risparmiassi il fiato» brontolò Bernard.

Voltò le spalle e si preparò per la notte. Havig, a occhi chiusi, sembrava già immerso nel sonno. Stone prendeva appunti in un taccuino, e Dominici si stava massaggiando sotto la vibrodoccia.

Bernard si spogliò e raggiunse il biofisico sotto il tonificante getto molecolare: una corrente di ioni lo liberò ben presto dalla spossatezza e dal sudore della giornata.

Dominici continuò: «Non prendetevela se non s’è commosso per le vostre congratulazioni. Voi vi siete comportato in modo egregio con lui. E lui, per la verità, ha svolto effettivamente un lavoro encomiabile.»

«Sì, bisogna ammetterlo» dichiarò Bernard. «Però, come uomo è un vero limone. Non c’era bisogno che mi rispondesse in quel modo. Se…»

«Ma lui è sinceramente convinto d’essere stato solo uno strumento nelle mani di Dio» gli spiegò Dominici. «Risparmiatevi il fiato, Bernard, e non tentate di fargli cambiare idea. Siate lieto che Havig abbia dimostrato di conoscere così bene il fatto suo, e prendete le cose come vengono.»

Bernard scivolò nella sua cuccetta e tentò di rilassare i nervi. Cercò di vedere le cose dal punto di vista di Havig, chiedendosi che specie d’uomo potesse essere uno che rinunciava a tutte le gioie della vita, a tutti i piaceri delle conquiste, passando cupamente le sue giornate avvolto in lugubri vestimenti neri. Senza dubbio Havig quel giorno aveva compiuto un lavoro superbo, di primissima qualità, ma che male c’era ad accettare delle congratulazioni per il risultato conseguito? Forse si disse Bernard, Havig è uno di quei tipi che non possono sentirsi lodare senza sentirsi tremendamente imbarazzati, ecco perché si rifugia dietro la comoda maschera altruistica che il suo credo gli fornisce.

Bernard chiuse gli occhi, premendosi le dita sulle palpebre indolenzite. Pensò per un attimo alla sua vita comoda, la vita che aveva lasciato dietro di sé, così diversa da quella che Havig concepiva. Senza dubbio Havig avrebbe considerato scandaloso, o addirittura blasfemo, trascorrere una serata ascoltando musica, leggendo poesia, sorseggiando un buon cognac, quando quelle ore avrebbe dovuto trascorrerle in preghiera, o in meditazione, o in attività benefiche.

Eppure, nonostante tutta la sua rigida disciplina, Havig non era più valente nel suo campo di quanto lo fosse Bernard nel proprio. E Bernard, nonostante le concessioni che faceva a se stesso, sentiva di non aver niente da invidiare, come sociologo, ad Havig come linguista. Io sono un uomo di gusti raffinati e amante della bella vita, magari anche un po’ egoista, però so il fatto mio. E anche Havig sa il fatto suo, salvo quando mescola la sua propaganda religiosa con questioni culturali più generali. Per formare una civiltà, occorreva tutta una gamma di personalità diverse.

Bernard continuò a pensare ad Havig, cercando di scoprire quale molla lo muovesse, di stabilire se si trattasse di un fanatico o se veramente in lui ci fosse qualcosa di particolare.

Poi si addormentò.


Il mattino dopo si strappò dal sonno a fatica. Nakamura, in piedi accanto alla sua cuccetta, lo scuoteva energicamente.

«È tempo di alzarsi, dottore.» Il sociologo fissò intontito la faccia sorridente dell’astronauta. «Il Comandante Laurance dice che avete dormito abbastanza» concluse Nakamura.

Il Comandante Laurance non aveva torto, dovette riconoscere Bernard; un’occhiata all’orologio gli fece scoprire d’aver dormito più di undici ore. Eppure sentiva ancora la testa pesante, e brontolava tra sé mentre si fregava gli occhi per destarsi del tutto.

Il sole era sorto da un’ora. Su quel pianeta, il giorno corrispondeva a ventotto ore terrestri e venti minuti. Ancora intontito, Bernard si trascinò a prua per fare colazione. Laurance aveva già fatto trasportare a terra due scivoli. Terminata la colazione, il Comandante ordinò: «Ci divideremo in quest’ordine. Clive, tu piloterai il numero Uno, Havig e Stone verranno con te, e anch’io. Tu, Hernandez, prendi l’altro. Porterai Bernard, Dominici, Peterszoon e Nakamura.»

La corsa in scivolo a motore richiese poco più di un’ora. Quando i Terrestri raggiunsero l’accampamento norglano, la scena era più o meno quella del giorno innanzi: i costruttori erano al lavoro, con tutte le loro incredibili energie impegnate. I tre «azzurri» che avevano ricevuto la lezione di lingua il giorno innanzi, si fecero incontro ai Terrestri per accoglierli, offrendo a mo’ di saluto un campionario di vocaboli.

«Io… voi. Viaggiare. Venire. Qui. Noi, Norglani. Voi, Terrestri.»

Bernard sorrise. Per il momento, la conversazione aveva un andazzo abbastanza comico, ma lui sapeva benissimo che perfino il raggiungimento di quei balbettii sconnessi rappresentava una vittoria sbalorditiva. E si era appena all’inizio.

Dopo tre ore di lezione, un paio di «verdi» si avvicinarono esitando con dei vassoi di cibi: erano piatti levigati, rozzamente dipinti di giallo, sui quali erano disposte alcune fette di carne rosea, dal profumo dolciastro, e delle fiasche di una sorta di terraglia piene di un vino nero dall’odore pungente. Havig guardò dubbioso Laurance, che consigliò: «Rifiutate, nel modo più gentile possibile. Non possiamo toccare niente se prima Dominici non avrà avuto modo di eseguire alcune analisi.»

Il cibo venne respinto cortesemente. I Terrestri tirarono fuori le loro provviste, e Havig spiegò come poteva che sarebbe stato imprudente per i Terrestri mangiare cibi norglani, che potevano essere non adatti. Gli ospiti parvero comprendere.

Durante quel giorno, e il seguente, e l’altro ancora, Havig si adoperò senza risparmiarsi, mentre gli altri Terrestri sedevano in disparte, in attesa di essere chiamati per mimare la figurazione di un verbo. Bernard trovava quelle lezioni tremendamente snervanti.

Ma i progressi erano strabilianti. Il quinto giorno, i Norglani cominciavano a mettere insieme frasi sensate attingendo da un elenco di quasi cinquecento parole. Cinque parole su sei riuscivano a infilarle giuste fin dal primo tentativo. E, naturalmente, più si allargavano le loro conoscenze linguistiche, più era facile insegnare loro nuovi vocaboli.

Verso il settimo giorno, si era raggiunta una comprensione reciproca sufficiente a intavolare negoziati seri. Il primo ordine del giorno fu di erigere un luogo dove riunirsi. Starsene seduti per terra all’aperto, mentre attorno gli operai lavoravano, non era l’ideale per discutere con calma. Su consiglio di Havig, i Norglani innalzarono una tenda nel mezzo dell’area da colonizzare: lì si sarebbero tenute le conversazioni.

Appena la tenda fu eretta, i Terrestri sorrisero di sollievo. Una settimana su quel pianeta, all’aria aperta, li aveva bruciacchiati e mezzo accecati dal sole. Ai Norglani la cosa non dava fastidio. Sudavano, ma la loro pigmentazione li proteggeva evidentemente dai danni della lunga esposizione ai raggi cocenti. Bernard, invece, sembrava un’aragosta. Dominici aveva ormai una bella abbronzatura, ma quasi tutti gli altri Terrestri stentavano a guarire dalle scottature.

Il nono giorno, i negoziati ebbero inizio. Stone, come era stato deciso, avrebbe tenuto le conferenze, e Havig avrebbe fatto da interprete. Bernard avrebbe fatto le osservazioni culturali, e Dominici le analisi, perché i Terrestri potessero arrivare a capire meglio i Norglani. Il Tecnarca aveva scelto i suoi uomini con cura.

Sotto la tenda, era stato sistemato un tavolo di legno grezzo. Da una parte, i Norglani sedevano acquattati sui talloni. Evidentemente non avevano bisogno di sedie. I Terrestri, in mancanza di sedili, adottarono una posizione alla turca.

Havig esordì. «Questo terrestre si chiama Stone.»

Il più grosso dei tre Norglani si consultò brevemente con i suoi compagni, poi rispose: «Io sono Zagidh. Tu sei Stone.»

Poi seguì un lungo conciliabolo tra Havig e il norglano, per stabilire se quelli erano nomi o titoli onorifici. I Terrestri friggevano d’impazienza. Se andiamo avanti di questo passo pensò Bernard, come faremo a raggiungere qualcosa di conclusivo? Ma questi sono dei pignoli, che il diavolo se li porti.

Finalmente Havig riuscì a soddisfare l’amore di precisione del norglano, e Stone si lanciò lungo un tortuoso sentiero verbale, con molto aiuto e correzioni da parte di Havig. Dopo due ore il conferenziere grondava sudore, però era riuscito a stabilire alcuni punti essenziali:

La Terra era il nucleo di un impero coloniale.

Il Pianeta Norglano, ovunque si trovasse, era a sua volta centro di un’espansione coloniale. Un contatto tra Terrestri e Norglani era dunque inevitabile. E infine, era necessario, seduta stante, stabilire quale parte della galassia dovesse essere riservata ai Norglani e quale ai Terrestri, per la reciproca espansione coloniale.

Zagidh e i suoi compagni studiarono quei quattro punti e mostrarono almeno apparentemente una perfetta comprensione del loro significato. Tra i due Norglani seguì una breve ma fervida discussione. Poi il norglano alla sinistra di Zagidh si alzò e lasciò la tenda.

Zagidh atteggiò il volto alla strana espressione, ormai nota ai Terrestri, che precedeva ogni dichiarazione di una certa importanza.

Lentamente disse: «La questione è seria. Io-noi non avere autorità. Noi-voi non potere parlare ancora. Altri-noi dovere venire.»

Quelle quattro frasi parvero costargli tutte le sue energie. Il norglano restò con la lingua fuori, ansimando come un cane. Poi, lui e l’altro azzurro si alzarono senza aggiungere altro, e uscirono lasciando soli gli sconcertatissimi Terrestri.

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