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Dopo un po’ lo sforzo divenne puramente meccanico. Bernard smise di autocommiserarsi e concentrò tutte le energie fisiche e mentali nella necessità di mettere una gamba davanti all’altra. E i metri divennero chilometri, la distanza tra l’astronave e la colonia aliena si accorciò. Non c’è niente di meglio di una marcia di venti chilometri, a una temperatura di venticinque gradi o trenta gradi, per insegnare a un viaggiatore transmat che cosa significa il concetto di distanza pensò Bernard. E lui lo stava imparando: distanza significava sudore che cola lungo le guance e gocciola dalla fronte negli occhi, significava la vescica che a poco a poco si trasformava in una piaga su un tallone; significava quel senso di gonfiore e di crampo nei polpacci, l’indolenzimento atroce di tutti gli ossicini del piede, il dolore fisso nei muscoli anteriori della coscia. E quella era una marcia di soli venti chilometri.

«Chissà se il Tecnarca è anche un buon camminatore» brontolò Dominici, in tono non troppo rispettoso.

«Un ottimo camminatore, molto probabilmente» disse Bernard di rimando. «Altrimenti perché sarebbe Tecnarca? Lui deve fare tutto meglio di chiunque, sia che si tratti di marce sia di calcoli sui quanta.»

«Sarà, però mi piacerebbe vederlo sudare sotto questo sole della malora, con…» Il biofisico s’interruppe. «Ehi, là davanti si fermano. Forse siamo arrivati.»

«Sarebbe anche ora. Stiamo camminando da quasi tre ore.»

Il gruppetto di testa, infatti, si era fermato. Laurance e i suoi uomini si erano fermati sulla sommità di una lieve altura. Peterszoon indicava la vallata, e Laurance approvava con la testa.

Quando Bernard li raggiunse, vide l’oggetto del loro interesse: la colonia degli alieni.

La colonia era stata costruita sulla sponda occidentale di un fiume impetuoso, largo circa cento metri. Si annidava in un’ampia vallata verde limitata da una parte dal gruppo delle colline sulle quali si trovavano ora i Terrestri, dall’altra da un altipiano che saliva dolcemente fino a perdersi in una catena di montagne che sorgeva a parecchi chilometri di distanza.

Pareva che la parola d’ordine fosse: attività a oltranza. Gli strani esseri si affaccendavano come insetti industriosi.

Avevano costruito sei file di capanne a cupola, che si irradiavano verso l’esterno partendo da un grande edificio centrale. Il lavoro procedeva, o meglio, ribolliva, intorno ad altre capanne che avrebbero esteso i raggi di quella colonia a forma di ruota. In distanza, altri operai alzavano zampilli di terriccio dal suolo grazie a un congegno che assomigliava a una specie di escavatrice a mano di natura magnetica. Evidentemente, stavano scavando le fondamenta per altre capanne esagonali. Altri ancora erano al lavoro intorno al pozzo, dalla parte opposta al fiume, mentre un quarto gruppo si affaccendava attorno a strani utensili, coi quali toglievano dagli imballaggi e trascinavano attraverso la pianura grossi macchinari (generatori? dinamo?).

A nord, a un chilometro circa dalla scena principale di attività, una colossale astronave si levava verso l’alto: nel complesso aveva una forma approssimativamente cilindrica, ma era così stranamente dentellata e scanalata nel disegno di superficie da dare subito l’impressione di un oggetto di origini ignote. L’astronave aveva il portello aperto, e gli esseri stranieri entravano e uscivano di continuo, per scaricare nuovi materiali.

Dopo aver contemplato una prima visione d’insieme di quei colonizzatori dinamici e veloci, Bernard spostò l’attenzione sugli esseri stessi, non senza provare un brivido. Da quella distanza, oltre cinquecento metri, era difficile analizzare in modo particolareggiato l’aspetto delle misteriose creature. Comunque, si tenevano erette, come gli umani, e solo la pigmentazione della pelle e lo strano movimento snodato delle loro braccia a doppio gomito stava a testimoniare la loro provenienza extra-terrestre.

Bernard ne distingueva di due tipi: i verdi, che rappresentavano la grande maggioranza, e i blu. Questi ultimi sembravano degli ispettori. Supremazia del colore? si chiese Bernard. Sarebbe stato sociologicamente interessante imbattersi in una specie che ancora credeva nelle differenze di colore. Forse, pensava, questi stranieri resterebbero sorpresi, o scandalizzati, nell’apprendere che tra gli Arconti che reggono la Terra ci sono due negri e un giallo.

Comunque stessero le cose, era evidente che gli azzurri avevano posti di comando. Lo si capiva da come impartivano gli ordini, che erano quasi udibili anche da tanta distanza. E i verdi obbedivano. La colonia veniva edificata con una fretta quasi disgustosa.

«Ora scenderemo la collina e andremo nel bel mezzo della colonia» disse, calmo, Laurance. «Dottor Bernard, voi siete nominalmente incaricato dei negoziati, e naturalmente io non mi oppongo, ma ricordate che il responsabile della vita di tutti noi sono io, e quindi le mie istruzioni andranno eseguite alla lettera.»

A Bernard parve che Laurance si arrogasse anche troppo la responsabilità di quella spedizione. Il Tecnarca non aveva affatto dichiarato che Laurance dovesse essere il capo indiscusso. Ma, a questo punto, il sociologo non aveva voglia di sollevare questioni di supremazia. Laurance sembrava conoscere il fatto suo, e Bernard era contentissimo di lasciare le cose come stavano. Mordicchiandosi il labbro, continuò a scrutare l’animatissima vallata.

«La cosa più importante è di non mostrare alcun segno di paura. Dottor Bernard, voi camminerete davanti con me. Dominici, Nakamura e Peterszoon verranno subito dopo noi. Poi verranno Stone, Havig, Clave ed Hernandez. Formeremo una specie di triangolo spuntato. Restiamo in formazione serrata, camminiamo con calma, lentamente, e in ogni caso non date segno di tensione o di paura.» Laurance girò un rapido sguardo sul gruppo, come per controllare le risorse di coraggio di ciascuno. «Se vi guardano minacciosi, sorridete. Non rompete le righe e non perdete la testa a meno che non ci sia un attacco in piena regola. Restate calmi, a testa alta, e ricordatevi che siete Terrestri, i primi Terrestri che mai siano andati incontro a una specie diversa dicendo: «Salve». Perciò, cerchiamo di farlo nel modo migliore possibile. Dottor Bernard, qui davanti con me, per favore.»

Bernard si unì a Laurance e tutt’e due cominciarono a scendere la collina, mentre gli altri seguivano nell’ordine assegnato. Mentre camminava, Bernard si sforzava di rilassare i nervi. Spalle indietro, gambe sciolte. Via quella rigidità dal collo, Bernard! La tensione interna è visibile dall’esterno. Cerca di sembrare a tuo agio.

Sì, era presto detto, ma… le ossa gli dolevano per la lunga camminata, e le pastiglie di cloruro di sodio ingoiate poco prima non erano ancora riuscite a compensare la dispersione di sali causata dalla traspirazione abbondante. Bisognava lottare con la tensione fisica provocata dallo sforzo, e inoltre c’era la tensione mentale, il pensiero di essere diretto verso una comunità di esseri intelligenti ma niente affatto «umani».

Per un lungo istante parve quasi che gli alieni non intendessero affatto accorgersi dei nove Terrestri che avanzavano alla loro volta. Erano talmente affaccendati nelle loro costruzioni che non alzavano nemmeno lo sguardo da terra. Laurance e Bernard conducevano il drappello di buon passo, in silenzio, e avevano già coperto circa cento metri senza che gli extra-terrestri dessero segno di averli scorti.

La prima reazione ci fu quando un operaio intento a piallare dei ceppi alzò per un attimo lo sguardo e vide i Terrestri. L’essere parve paralizzato, e fissò con aria attonita il gruppetto che avanzava. Poi diede una gomitata al compagno di lavoro, con gesto comicamente umano.

«Ci hanno visti» bisbigliò Bernard.

«Lo so» rispose Laurance. «Continuiamo ad avanzare, come se niente fosse.»

Un attimo dopo, i verdi erano in preda alla costernazione. Tutti avevano smesso di lavorare per fissare i nuovi venuti. Adesso che era più vicino, Bernard riusciva a distinguere i lineamenti. I loro occhi erano grandissimi e stralunati, e davano alle espressioni dei volti una strana aria di stupore che forse non corrispondeva al vero stato d’animo.

Intanto, l’attenzione di uno degli azzurri si era risvegliata. L’essere si avvicinò per vedere come mai gli operai avessero interrotto il lavoro, poi, notando i Terrestri, retrocedette visibilmente, mentre le braccia a doppio gomito gli ricadevano molli lungo la persona in un gesto che forse significava sorpresa genuina.

L’azzurro diede la voce a un secondo azzurro che si trovava dall’altra parte dell’area di costruzione, e quello arrivò al piccolo trotto nell’udire quella specie di nitrito d’allarme. Con mosse caute i due avanzarono verso i Terrestri, camminando adagio e tenendosi evidentemente pronti a una veloce ritirata.

«Hanno tanta paura di noi quanta noi di loro» Bernard sentì mormorare alle sue spalle da Dominici. «Dobbiamo apparire come visioni da incubo che scendono giù dalla collina.»

Solo trenta metri, ormai, separavano i due «azzurri» da Bernard e Laurance. Gli altri, i verdi, avevano smesso completamente di lavorare. Abbandonati i loro utensili, si erano ammassati in un gruppo compatto dietro i due azzurri, e fissavano i Terrestri con espressione che poteva sembrare di angosciata perplessità.

Il sole ardeva spietato. Bernard sentiva la camicia appiccicata alla pelle. Mormorò a fior di labbra a Laurance: «Dovremmo fare un gesto amichevole, altrimenti potrebbero spaventarsi, e magari distruggerci per non correre rischi.»

«Giusto» bisbigliò Laurance, e a voce più alta ordinò, senza voltare la testa: «Attenzione, voialtri. Portate lentamente le mani verso l’alto e tenetele tese con le palme rivolte all’insù. Adagio! Questo potrebbe convincerli che siamo qui con intenzioni pacifiche.»

Col cuore che gli martellava, Bernard alzò lentamente le braccia e voltò le palme all’insù. Ormai, solo quattro o cinque metri separavano i due gruppi estranei. Gli azzurri avevano smesso di avanzare. Bernard e Laurance, invece continuavano a venire avanti attraverso la radura, sotto il sole cocente.

Bernard osservò attentamente i due azzurri. Parevano su per giù della statura media di un uomo, forse un po’ più alti. Indossavano solo un indumento color giallo sporco, rozzamente intessuto, avvolto attorno alla vita. La pelle azzurro cupo era lucida di sudore, dal che si capiva che quegli esseri erano metabolicamente molto simili all’uomo, e i loro grandi occhi a salsicciotto si spostavano velocissimi dall’uno all’altro dei Terrestri, mostrando una grande curiosità e rivelando un probabile schermo visivo stereoscopico.

Gli alieni non avevano un naso vero e proprio, ma solo fessure di narici coperte da una specie di filtro, le loro facce erano poco carnose, e pareva che la pelle aderisse ben tesa alle ossa.

Quando parlavano tra loro, Bernard coglieva una visione di denti rossi e di lingue talmente purpuree da sembrare quasi nere. Dunque differivano dai Terrestri per la pigmentazione e in altri particolari minori, ma l’impalcatura generale era più o meno la stessa, come se la vita intelligente potesse esprimersi nell’universo attraverso un unico sistema. Sempre la stessa mancanza di scelta si disse Bernard con un distacco filosofico che lo lasciò sorpreso, mentre le gambe tremanti continuavano a spingerlo innanzi. L’Universo comunica un’impressione di libera volontà, ma nelle cose che contano maggiormente c’è solo un modo possibile di realizzazione.

Le braccia di quegli esseri lo affascinavano. I doppi gomiti sembravano giunti universali, con possibilità di snodarsi in ogni direzione rendendo quelle creature capaci di fare con simili braccia cose impensate e fantastiche. Quelle braccia pensava Bernard, uniscono tutti i vantaggi di un tentacolo senza ossa e di un arto rigido.

I verdi sembravano in tutto identici ai loro capi azzurri, salvo che erano leggermente più bassi e robusti. Era più che evidente che i verdi erano nati per lavorare, gli azzurri per comandare.

Un terzo azzurro apparve, attraversando diagonalmente la zona dei lavori per raggiungere i colleghi. I tre extraterrestri aspettarono immobili.

Giunti a tre metri, Laurance ordinò l’alt.

«Coraggio» mormorò a Bernard. «Comunicate con loro. Dite loro che vogliamo essere amici.»

Il sociologo respirò a fondo. Era ironicamente conscio dell’attimo che stava per vivere: per la prima volta in tutta la storia conosciuta, un Terrestre si faceva incontro a un non-Terrestre per presentargli i suoi saluti.

Si sentiva intontito. La testa gli girava. Che dire? Siamo amici. Portateci dal vostro capo. Salve, esseri di un altro mondo.

Non c’è niente da fare pensò. Gli antichi clichés erano diventati tali proprio perché erano così maledettamente validi. Che altro si sarebbe potuto dire nel creare il primo contatto con esseri non-Terrestri? Ma Bernard si sentiva ugualmente imbarazzatissimo, in quell’attimo in cui il cliché diventava storia.

Si toccò il petto e indicò il cielo.

«Siamo terrestri» disse, pronunciando ogni sillaba con meticolosa chiarezza. «Veniamo dallo spazio. Vogliamo essere considerati amici.»

Le parole naturalmente, non significavano niente per gli altri. Potevano rappresentare solo suoni incomprensibili. Tuttavia, quella non era una scusa valida per non pronunciare le parole adatte al momento.

Tornò a indicare se stesso, poi il cielo. Poi, battendosi il petto, disse: «Io.» Indicò gli stranieri lentamente, per non spaventarli. «Voi. Io… voi. Io… voi… amici.»

Sorrise, chiedendosi nel farlo, se per caso mettere in mostra i denti non fosse considerato un fiero insulto dagli alieni. Quell’incontro era molto più delicato di quello tra due culture un tempo separate di abitanti dell’antica Terra. Tra un antico lupo di mare inglese e un capo polinesiano esisteva pure un tipo di sangue comune: c’era almeno d’aspettarsi un terreno biologico comune. Qui no. Qui nessun valore accettato poteva dirsi valido.

Bernard aspettò, e dietro di lui altri otto Terrestri aspettarono, condividendo la stessa tensione. Bernard fissava tranquillamente negli occhi sporgenti l’azzurro più vicino. Quegli esseri avevano un vago odore di muffa, non era sgradevole, ma piuttosto intenso. Bernard si domandava che odore potessero avere i Terrestri per l’altra razza.

Con precauzione tese la mano. «Amico» disse.

Seguì un lungo silenzio. Poi, esitando, l’azzurro più vicino sollevò la mano, rotolandola verso l’alto in un movimento stranamente fluido. L’essere si guardava la mano come se non gli appartenesse. Anche Bernard vi gettò una rapida occhiata: aveva sette o otto dita, e il pollice molto ricurvo. Da ogni dito sporgeva un’unghia blu lunga tre centimetri.

L’azzurro allungò il braccio, e per una frazione di secondo il calloso palmo azzurro sfiorò quello di Bernard. Poi, rapidamente, la mano ricadde.

L’extraterrestre mandò un suono. Poteva essere un’esclamazione gutturale di sfida, ma a Bernard suonò circa come «Mmmmiho!» e lui la prese per quel che sembrava. Sorridendo, accennò all’azzurro e ripeté: «Amico. Io… voi. Voi… io. Amico.»

La ripetizione venne, e stavolta il suono fu inconfondibile. «Mmmmmiho!» L’azzurro afferrò la mano tesa di Bernard e la strinse con energia. Bernard sorrise, trionfante e soddisfatto.

Comunque potessero procedere le cose, il primo contatto era stato stabilito.

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