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L’astronave si lanciò «all’ingiù» tagliando attraverso il piano ellittico per cercare l’orbita del quarto tra gli undici mondi di quel sistema. Assumendo un orbita di osservazione a mille chilometri al di sopra del pianeta, la VUL-XV la percorse quattro volte prima di scorgere, la zona in cui si erano acquartierati gli alieni.

Era nella parte in ombra del pianeta. L’ombra della notte. Lo spicchio luminoso che andava allargandosi, fugando le tenebre del pianeta roteante, annunciava che nella zona degli esseri sconosciuti tra non molto avrebbe albeggiato.

Nella cabina posteriore, Martin Bernard e gli altri parlamentari erano legati sulle cuccette, protetti contro l’urto dell’atterraggio, e contavano i minuti via via che la VUL-XV scendeva in una spirale sempre più stretta verso l’oscurità sottostante. Bernard si sentiva stranamente indifeso mentre l’astronave compiva le manovre per l’atterraggio. Sono qui si disse, immobilizzato su un materasso come un nascituro in un grembo in attesa di venire al mondo. E altrettanto incapace di fare atterrare l’astronave, che un nascituro di venire al mondo da sé e tagliare il cordone ombelicale.

Una strana nausea lo assalì. La sua vita, la vita di tutti, era nelle mani di cinque uomini stanchi e con i nervi a pezzi. Un piccolo errore nei calcoli di uno di loro, e l’astronave sarebbe andata a schiantarsi su un pianeta senza nome, alla velocità di diecimila chilometri al secondo. Oppure poteva mancare il pianeta, e allora avrebbero dovuto ricominciare da capo quelle manovre snervanti. Bernard cercò di girare la testa fino a incontrare gli occhi di Stone. La faccia grassoccia del diplomatico era pallidissima e madida di sudore. Ma Stone si sforzò ugualmente di sorridere.

«Non mi riesce di apprezzare questi voli spaziali» disse Bernard. «E voi?»

«Ah, quanto rimpiango i nostri transmat» mormorò Stone. «Ma questo viaggio non contempla nessuna forma di libera scelta, di libero arbitrio. Non da parte nostra per lo meno.»

«Credo propio di no» ammise Bernard. «In realtà non abbiamo nessuna possibilità di scelta.»

Ritornò silenzioso, perché quelle parole gli avevano rammentato una volta di più che un essere umano ha, in fondo, possibilità di scelta limitatissime. Quella verità deterministica gli era stata inculcata fin dai tempi dell’università, quando per la prima volta si era imbattuto nella serie maledettamente assiomatica delle equazioni sociometriche, che riguardavano quasi tutte le caratteristiche e gli schemi di condotta umani. Non c’è quasi mai scelta, in realtà. Siamo prigionieri della… be’, chiamiamola necessità, visto che manca un termine più esatto. Le uniche scelte che possiamo effettuare sono di natura irrilevante, e forse non effettuiamo nemmeno quelle.

L’astronave penetrò nell’atmosfera. L’urto fu considerevole. Bernard benediceva la cuccetta che lo riparava dai colpi. Non si era mai reso conto che un viaggio per astronave potesse essere così scomodo e incerto. Con il transmat tutto era rapido e sicuro: si entrava, si usciva, e ci si trovava a destinazione. Niente di tutto quel faticoso alternarsi di accelerazione e decelerazione, di azioni e reazioni uguali e contrarie.

Sorrise, meditando su quanto poco sapesse in realtà a proposito della fisica spaziale. Lui, che aveva passato la luna di miele su un ameno pianeta del sistema di Sirio, che aveva trascorso le vacanze su pianeti dell’orbita di Beta Centauro, Bellatrix, ed Eta Orsa Maggiore, ne sapeva, sulle leggi newtoniane, meno di uno scolaretto che costruiva un modellino spaziale. Colpa del transmat pensò. Perché preoccuparsi di come funziona un razzo quando basta muovere un passo entro quella fresca luminosità verdastra per trovarsi a quattrocento anni-luce da casa?

Bernard sbriciò il pianeta che adesso ingigantiva sullo schermo televisivo. Ormai erano troppo vicini per vederlo come una sfera. Si era spaventosamente appiattito, e quasi un terzo della sua area usciva dall’angolo visivo dello schermo.

Quando la VUL-XV nelle sue orbite di avvicinamento, sfrecciava verso la parte illuminata, Bernard coglieva la visione di grandi continenti che giacevano su mari verdazzurri come fette di carne su un tavolo. Tutto era immobile, perfino i lievi cirri di nuvole sottostanti, e le scure zone di tempesta. Poi l’astronave si tuffava di nuovo nella notte, e allora era possibile intravedere solo forme indistinte.

Ecco, adesso c’era di nuovo la zona luce, e si potevano discernere i filamenti vividi dei fiumi maggiori. Un vasto corso d’acqua pareva attraversare diagonalmente uno dei continenti, aprendo un canale da nordest a sudovest, e alimentato da centinaia di corsi più piccoli. All’estremo ovest e a nord, catene di montagne si levavano come gibbosità accartocciate. La maggior parte del continente era di un verde pallido, con tonalità più scure verso il nord e negli altipiani.

Bernard chiuse gli occhi cercando di dominare il senso di stordimento, e aspettò il momento dell’atterraggio.

Ma questo avvenne solo più tardi. Bernard si accorse di essersi appisolato, certo a causa delle pillole anti-decelerazione che Nakamura gli aveva propinato con l’ultimo pasto. Si trovò sveglio di soprassalto, quasi per un presentimento dell’arrivo, e infatti, qualche istante dopo, ci fu un lieve scossone. Nient’altro.

L’atterraggio era stato perfetto.

La voce di Laurance arrivò dall’altoparlante: «L’atterraggio è avvenuto senza incidenti. Il punto di atterraggio è a diciotto, venti chilometri a est della colonia aliena. Il sole dovrebbe sorgere tra un’ora circa. Lasceremo l’astronave non appena terminata l’operazione di decontaminazione.»

La decontaminazione richiese solo pochi minuti. Poi, il portello stagno si aprì e l’aria di un nuovo mondo entrò a fiotti nell’astronave.

Bernard si fermò sulla soglia del portello, inspirando quell’aria a pieni polmoni. Era molto simile a quella della Terra, conteneva però una maggior percentuale di ossigeno, quanto bastava per renderla gradevole, tonificante e senza pericolo alcuno per la salute. L’ossigeno in più, produceva un effetto lievemente euforizzante. Bernard, nell’aspirare quell’aria a pieni polmoni, ritrovò la sicurezza che l’aveva abbandonato durante le ore tetre precedenti l’atterraggio.

«Andiamo, dottor Bernard» lo sollecitò Peterszoon dal basso. «Non possiamo aspettare fino a sera per metterci in cammino.»

«Scusate» disse Bernard. Arrossì e si affrettò giù per la passerella. I cinque uomini dell’equipaggio erano già sbarcati. Stone, Dominici e Havig scesero dopo di lui.

Una fresca brezza mattutina, frizzante, soffiava attraverso il prato sul quale era atterrata l’astronave. Il cielo era ancora grigio, e le ultime stelle si andavano spegnendo. Le tinte rosee dell’aurora cominciavano a striare l’orizzonte. La temperatura era mite, e prometteva una mattinata tiepida. L’aria aveva la limpidezza trasparente che si trova solo nelle terre vergini, dove nessun impianto inquina l’atmosfera con i suoi miasmi.

Così doveva essere la Terra nelle mattinate del nono secolo, pensò Bernard. C’erano però alcune differenze, sottili e tuttavia essenziali. L’erba sotto i loro piedi, per esempio. I fili verdazzurri germogliavano tripli dallo stelo, attorcigliandosi l’uno intorno all’altro prima di allungarsi verso l’alto. Nessun’erba terrestre era mai cresciuta seguendo una struttura così complessa.

Anche gli alberi erano diversi. C’erano dei sempreverdi alti circa sessanta metri, e con tronchi che alla base avevano una circonferenza di tre o quattro metri. Dal più vicino pendevano dei coni lunghi novanta centimetri; la corteccia era di un giallo chiaro, con striature nere orizzontali; le foglie, grosse lame verdi e lucenti, erano larghe cinque centimetri e lunghe trenta. Nell’erba cantavano i «grilli», ma come Bernard ne scorse uno, si accorse che si trattava di una creatura grottesca, lunga otto o dieci centimetri, verde, con occhi a palla dorati e un becco dall’aria feroce. Grandi funghi ovali, con cappelle piatte del diametro di circa mezzo metro, spuntavano qua e là: macchie di un rosso purpureo nel verde quasi azzurro dell’erba. Dominici si chinò per toccarne uno, e il fungo si accartocciò appena il suo dito ne sfiorò l’orlo.

Per un lungo istante, nessuno parlò. Bernard provava una sorta di stupore riverente, e sapeva che anche gli altri condividevano la sua emozione: la meravigliosa sensazione di mettere piede su un pianeta che l’umanità e la civiltà non avevano ancora alterato. Questo era il pianeta allo stato primitivo, com’era uscito dalla mano del Creatore, e perfino uno scettico come Bernard si commoveva di fronte a quella scoperta.

Poi quello stupore svanì.

Questo mondo non è più allo stato vergine, pensò Bernard. L’umanità non ha ancora fondato qui una sua colonia, ma altri esseri l’hanno fatto.

Questo pensiero ridimensionò drasticamente il fascino di quella bellezza primordiale, ricordandogli lo scopo che li aveva condotti lassù. L’espressione di Bernard si fece cupa. Come poteva, un mondo così ridente, rappresentare una minaccia per la Terra? Be’, quel mondo in sé non rappresentava nessuna minaccia. Stava solo a simboleggiare la possibilità di uno scontro tra due culture diverse.

Laurance ruppe il filo di quei pensieri annunciando con calma: «Procediamo a piedi verso il villaggio degli alieni. Ci sono due scivoli a bordo, ma non ho intenzione di usarli.»

«È proprio necessario andare a piedi?» chiese Bernard.

«Penso di sì» disse Laurance, riuscendo solo in parte a nascondere la sua irritazione per l’eccessivo amore di Bernard per le comodità. «Arrivare rombando sui nostri veicoli, potrebbe sembrare un po’ troppo aggressivo. In questo caso gli altri, gli alieni, potrebbero anche decidere di non concederci nemmeno la possibilità di avvertirli che abbiamo intenzioni amichevoli.»

«Nel dubbio, non sarebbe meglio che anche noi fossimo armati?» chiese Dominici. «Avete armi anche per noi quattro?»

«Armi?» ripeté Laurence sorpreso. «Ma veramente pensate di presentarvi armati?»

«Be’…» s’inceppò il biologo, sconcertato dal tono di Laurance. «Certo che pensavo di andarci armato, tanto per precauzione. Questi esseri sconosciuti… voi stesso avete osservato che potrebbero accogliere male il nostro arrivo.»

Laurance batté con aria truce sulla pistola che portava al fianco. «Porto io l’unica arma di cui avremo bisogno.»

«Ma…»

«Se gli stranieri reagiranno ostilmente alla nostra presenza» disse Laurance in tono deciso, «niente di più facile che tutti voi diventiate dei martiri della causa della diplomazia terrestre. Spero che ognuno di voi si senta rassegnato fin d’ora a questa eventualità. Quanto a me, preferirei che fossimo tutti ridotti in cenere dalle armi di quegli sconosciuti piuttosto di sapere che uno dei nostri negoziatori s’è messo a sparare all’impazzata su quegli esseri solo perché il suo sistema nervoso ha perso l’equilibrio. Non è prudente addentrarsi per dieci miglia in un territorio completamente sconosciuto senza almeno un’arma, e infatti io sono armato. Ma il diavolo mi porti se vi lascerò entrare nella colonia aliena con l’aria di una pattuglia d’invasori.» Si guardò attorno, e i suoi occhi si soffermarono sui quattro parlamentari. «Ci siamo capiti bene?» chiese.

Nessuno rispose. A disagio, Bernard si grattò una guancia e finse di essersi perfettamente adattato all’idea dell’eventuale martirio. Ma non lo era per niente.

«Nessuna obiezione?» chiese Laurance, più calmo. «Bene. Tutti d’accordo, allora. L’arma la porto io. E io solo sarò responsabile per le conseguenze che potrebbero derivarne. Credetemi, non è della mia sopravvivenza, che mi preoccupo, quanto dell’impulsività di qualcun altro. Altre domande?» Poiché non ce ne furono, Laurance si strinse nelle spalle. «Benissimo. Possiamo metterci in cammino subito.»

Si voltò, controllò la posizione con una piccola bussola inserita, con parecchi altri indicatori, nella manica del giaccone di cuoio, e fece cenno verso ovest avviandosi. Nakamura e Peterszoon gli andarono dietro senza pronunciare verbo, Clive ed Hernandez si mossero subito dopo.

Nessuno di loro si prese la briga di voltarsi per veder se i quattro parlamentari li seguivano.

Con una scrollata di spalle, Bernard si affrettò a mettersi in coda dietro i cinque piloti, e Dominici lo affiancò. Dietro veniva Stone, e Havig stava alla retroguardia.

«Non ci trattano certo come se fossimo molto importanti» si lamentò Bernard rivolto a Dominici. «Pare che abbiano dimenticato la ragione per cui siamo qui.»

«Non l’hanno dimenticato» brontolò Dominici. «Solo che nutrono un certo disprezzo verso i poveri posapiano come noi. Non ci possono sopportare. «Quelli del transmat» ci chiamano, e dovreste sentire con che tono di scherno. Come se ci fosse qualcosa di moralmente sbagliato nello scegliere la via più breve possibile tra due punti.»

«C’è, ma solo in quanto indebolisce la capacità fisica di sopportazione» spiega Havig dalla retroguardia. «Tutto ciò che ci rende meno adatti a sopportare il fardello dell’esistenza terrena è moralmente sbagliato.»

«Prendere il transmat effettivamente finisce per consolidare le cattive abitudini» ammise Bernard, sorpreso egli stesso di trovarsi una volta tanto d’accordo con Havig. «Si finisce col non sapere più valutare l’Universo. Da quando il transmat è stato inventato, abbiamo completamente dimenticato il significato della parola distanza. Per noi, ormai, il tempo non è più in funzione della distanza. Per gli astronauti sì. E siccome noi non siamo in grado di dominare la nostra impazienza, agli occhi degli astronauti siano soltanto dei deboli.»

«E tutti noi siamo deboli agli occhi di Dio» continuò Havig. «Ma alcuni di noi sono più preparati ad andare da Lui di quanto lo siano gli altri.»

«State zitto» disse Dominici senza acredine. «Quando meno ce lo aspettiamo, potremmo ritrovarci tutti da Lui. Non fatemelo ricordare.»

«Avete paura di morire?» chiese Havig.

«Be’, mi scoccia il pensiero di non aver potuto compiere tutto ciò che avrei voluto» disse Dominici. «Cambiamo discorso, per favore.»

«E non tiriamolo più in ballo» concluse secco Bernard.

«Attento» lo avvertì Stone.

Proseguirono tutti in silenzio. Il sentiero era lievemente in salita, e nonostante la percentuale extra di ossigeno contenuta nell’aria, ben presto Bernard si ritrovò a sudare e a sbuffare. S’era fatto un dovere di mantenersi fisicamente in forma frequentando regolarmente una palestra di Giacarta, ma adesso stava velocemente scoprendo la differenza tra il fare degli esercizi in palestra in uno stato d’animo tranquillo, e l’arrampicarsi su per un sentiero ripido, in un pianeta sconosciuto.

Suo malgrado, le tossine dell’angoscia gli legavano i muscoli, e il veleno della paura si aggiungeva alla fatica fisica, rallentandogli i movimenti. Rimase un poco indietro, lasciando che Dominici continuasse da solo. A un tratto inciampò, e Havig fu pronto ad afferrarlo per un gomito e a sostenerlo. Nel voltarsi, Bernard colse un sorrisetto sulle labbra del Neopuritano, e lo sentì mormorare: «Fratello, tutti barcolliamo lungo il sentiero.»

Bernard era troppo stanco per ribattere. Havig sembrava dotato di un estro infernale per trasformare anche l’incidente più insignificante in un pretesto per fare predicozzi. Però pensò Bernard, e se Havig volesse solo scherzare, e facesse continuamente la parodia di se stesso, così, solo perché ha un senso dell’umorismo un po’ goffo? Macché si disse poi, Havig non sa nemmeno dove stia di casa l’umorismo. Quando dice una cosa, intende proprio e soltanto dire quella cosa.

Bernard continuò ad avanzare. Laurance e i suoi uomini, che marciavano alla testa del gruppo, sembravano freschi come rose. Avanzavano come se avessero gli stivali delle sette leghe, aprendosi il passo fra il sottobosco a volte impenetrabile che bloccava il passaggio, o girando abilmente attorno a un albero caduto, il cui tronco alto come un uomo, già coperto di funghi, creava una vera barriera, o fermandosi a calcolare la profondità di un torrente scuro e impetuoso prima di guadarlo, scendendo nell’acqua che a volte arrivava a lambire l’orlo dei loro stivaloni alti fino alla coscia.

Bernard cominciava a sentire un po’ meno il fascino di tanta bellezza inesplorata. Anche la bellezza può impallidire, specialmente quando diventa scomoda e faticosa. La gloria abbacinante dei fiori purpurei lasciava Bernard del tutto indifferente. La grazia snella degli animaletti candidi simili a gatti che saltellavano attraverso il sentiero, non gli comunicava nessuna allegria. Le grida rauche degli uccelli sugli alberi torreggiami non lo divertivano più; anzi, gli sembravano estremamente sgradevoli.

Non si era mai reso conto in modo così concreto che il termine astratto «venti chilometri» corrispondeva a un numero interminabile di passi faticosi. Aveva i piedi indolenziti, le caviglie e i polpacci in fiamme, le gambe che non lo reggevano. E abbiamo appena cominciato a camminare pensò disperato. Mezz’oretta appena di marcia, e io mi sento già uno straccio.

«Siamo ancora molto lontani?» chiese a Dominici.

Il solido biologo lo guardò con aria di benevolo scherno. «Volete scherzare? Avremo fatto sì e no quattro o cinque chilometri al massimo. Coraggio, Bernard. Ce n’è di strada da fare!»

Bernard assentì. Forse il calcolo di Dominici era anche troppo ottimista. E lui già non ne poteva più.

Ma non c’era niente da fare, bisognava andare avanti. Sportivamente. Il giorno ormai era sorto, il cielo era vivido, e il sole pareva nascondersi dietro gli alberi più lontani, pronto a saltar fuori da un momento all’altro. L’aria si era fatta molto più calda, la temperatura saliva. Bernard si era slacciato la giacca. Di tanto in tanto beveva dalla sua fiasca, augurandosi che l’acqua gli bastasse anche per il ritorno. L’ultima volta che erano stati lassù, Laurance e i suoi uomini avevano esaminato l’acqua e avevano scoperto che si trattava senza dubbio della stessa formula H2O, e che presumibilmente era anche potabile. Non c’era stato tempo però per analisi elaborate allo scopo di controllare la quantità e la qualità di vita micro-organica. Ma anche se era improbabile che quel liquido potesse avere effetti dannosi sull’organismo di un terrestre, Bernard non era disposto a fare da cavia.

Dopo un’ora si riposarono, appoggiandosi ai tronchi massicci degli alberi.

«Stanchi?» chiese Laurance.

Stone annuì, Bernard grugnì qualche parola d’assenso. Negli occhi di Laurance apparve una luce maliziosa. «Anch’io» confessò l’ufficiale. «Ma dobbiamo proseguire ugualmente.»

Il sole sorse qualche minuto dopo che la marcia era ripresa. Apparve glorioso nel cielo, accendendolo di una luce radiosa. La temperatura continuò a salire. Ormai, si era sui ventidue gradi. Bernard pensava avvilito che verso mezzogiorno sarebbe arrivata a trentadue o anche a trentacinque. Si sovvenne di un antichissimo proverbio: «Solo i cani randagi e gli inglesi escono sotto il sole di mezzogiorno». Sorrise. Forse solo un paio di volte all’anno si ricordava d’essere inglese, sebbene fosse nato a Manchester e abitasse a Londra. Anche quello era un effetto dell’era del transmat. Nessuno si sentiva più effettivamente legato a una nazione, a un continente, o addirittura a un mondo. Solo in rari momenti d’improvvisa introspezione capitava a Bernard di ricordarsi d’essere inglese, e perciò erede, in senso vago e misterioso, di tradizioni e di uomini come Shakespeare, Riccardo Cuor di Leone, William Churchill, nonché d’altri fantasmi del passato.

Solo i cani randagi e gli inglesi escono sotto il sole di mezzogiorno. Il dottor Martin Bernard si asciugò il sudore dalla fronte, e stringendo i denti costrinse le sue povere gambe a continuare a trasportarlo.

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