Tutto era deciso.
Grazie a qualche loro misteriosa magia, i Rosgollani avevano evocato, là in mezzo al campo, un modello su scala ridotta della parte dell’Universo che comprendeva la Terra e Norgla.
Il modello fluttuava a mezz’aria, una spirale con due estremità ricurve come serpenti, composta di milioni e milioni di particelle luminose. Il modellino, che nella sua bianca leggiadria era di una bellezza da mozzare il fiato, sembrava autentico mentre stava là sospeso, scintillante di gelidi bagliori.
All’improvviso, sorgendo dal nulla entro il modellino galattico, una linea di luce verde circondò una sfera del diametro di circa trenta centimetri, una luminescente sezione di spazio entro la lente appiattita, larga circa tre metri, che costituiva il modellino.
«Questa è la sfera di dominio terrestre» li informò una voce rosgollana.
Un istante dopo una seconda sfera spiccò entro il modellino, stavolta rossa, più o meno della stessa misura.
«E questa è la sfera di dominio norglano» fu l’avvertimento dei rosgollani.
Norglani e Terrestri fissavano il modello, e i due insignificanti imperi stellari delimitati all’interno di esso. Aspettavano, sapendo già quello che sarebbe successo di lì a poco.
Una linea di accecante luce violetta partì infatti a zig-zag attraverso il modellino, dividendolo dall’orlo al centro, passando attraverso i fitti gruppi di stelle per dividere la galassia in due rozzi segmenti, perfettamente uguali. Ora il modello appariva come un microorganismo nel primo stadio di fissione; il violento riverbero del confine violetto feriva gli occhi di tutti. Bernard guardò altrove, e si accorse che anche gli altri facevano lo stesso.
I colori cominciarono a diffondersi attraverso tutto il modello; la luce verde riempì tutta la metà terrestre, quella rossa si diffuse nella metà norglana. Il portavoce rosgollano riprese: «Questi saranno i confini eterni del vostro dominio. Attraversarli per qualsiasi ragione, sarebbe letale in modo definitivo. Terrestri e Norglani saranno i padroni assoluti del proprio settore, ma non dovranno mai uscirne.»
«Noi… noi non abbiamo alcuna autorità per accettare un accordo senza prima informare il nostro governo dei patti concordati» protestò Stone balbettando. «Sinceramente, ci manca il potere di…»
«Gli accordi conclusi qui non vanno discussi» replicò il rosgollano. «Non perdiamo di vista i fatti. Il consenso ufficiale delle autorità non è affatto necessario. Questo non è un trattato al quale si sia giunti dopo negoziati: questa è un’imposizione dall’esterno. La situazione è chiara. Rispetterete la linea stabilita di confine. Non avete altra alternativa.»
Adesso non ci sono più dubbi pensò Bernard. I trattati vengono concordati tra poteri uguali. Questo dei Rosgollani non è un trattato, è qualcosa di completamente diverso. È un ordine perentorio.
I Norglani, logicamente sembravano piuttosto soddisfatti da quella intimazione. Skrinri dichiarò: «Voi… ci ordinate di obbedire alla vostra decisione?»
«Sì. Ve l’ordiniamo. Questi sono i confini. Vi manterrete all’interno di essi senza farvi guerra gli uni contro gli altri. Ve lo comandiamo nel nome dell’armonia galattica. Non tollereremo disubbidienze. Siamo stati chiari?»
Undici figure fissarono attonite il modello e le aeree creature che l’avevano costruito. Nessuno parlò: né i Norglani, né i Terrestri. Parecchi secondi passarono nel più assoluto silenzio, senza che ci fosse risposta.
«Intesi?» chiese il rosgollano, in tono piuttosto aspro.
Qualcuno doveva pur parlare, ammettere ciò che ciascuno in cuor suo già accettava come ineluttabile. Martin Bernard si strinse nelle spalle e dichiarò tranquillamente: «Sì. Abbiamo compreso la situazione.»
«E quelli di Norgla?»
«Compreso» disse Skrinri, imitando non solo la risposta di Bernard, ma perfino il tono rassegnato.
«E così, è deciso.»
Il modello con i confini segnati si dissolse.
«Sarete riportati sui vostri pianeti. Là informerete i capi dei rispettivi governi dell’esistenza di questi confini che noi abbiamo tracciato. Avvertirete questi governi che ogni trasgressione avrà per effetto una punizione immediata.»
Tutto era compiuto.
Irrevocabilmente?
Indiscutibilmente?
Una luce fosforescente avvolse le due tozze figure degli ambasciatori Norglani e immediatamente Skrinri e Vortakel sbiadirono e scomparvero. Un attimo dopo, la maggior parte dei Rosgollani era stata trasportata altrove con lo stesso sistema.
Ancora una frazione di secondo, poi i Terrestri sentirono che un’ondata di calore li sommergeva, e senza alcuna sensazione di movimento, si ritrovarono nuovamente accanto alla loro astronave.
Nel silenzio si udì una voce rosgollana che ordinava gentilmente: «Entrate nella vostra astronave. Vi riporteremo nella galassia alla quale appartenete.»
Bernard alzò gli occhi per un attimo, e incontrò lo sguardo di Laurance. Il Comandante sembrava deluso, sconcertato, umiliato. Laurance guardò subito altrove. Bernard non osò guardare nessun altro. L’intero gruppo di Terrestri, silenzioso, vergognoso, si arrampicò sull’astronave in attesa.
Peterszoon, l’ultimo a salire a bordo, attivò i comandi dei portelli, chiudendo a tenuta stagna quello principale. Si udì un leggero sibilo mentre gli equilibratori di pressione entravano in azione. Laurance e il resto dell’equipaggio si avviarono in fila indiana verso la loro cabina di prua. Bernard, Havig, Stone e Dominici si avviarono stancamente verso poppa, nella cabina passeggeri.
Nessuno parlò.
I quattro diplomatici si sistemarono sulle cuccette antiaccelerazione e aspettarono incerti, ciascuno evitando accuratamente lo sguardo dei compagni. Un senso di generale umiliazione, deprimeva i loro spiriti.
L’astronave decollò quasi immediatamente, senza che nessuno provasse la minima sensazione. Lo scafo venne semplicemente staccato dal suolo e fatto fluttuare verso lo spazio, come se la velocità di decollo sul pianeta di Rosgolla fosse zero, e i concetti inerzia e massa, parole altrettanto prive di significato.
Fu Stone quello che decise di rompere il silenzio opprimente, mentre l’astronave guadagnava quota.
«È andata così» mormorò amareggiato, fissando la parete. «Avremo una bella storia da raccontare al nostro ritorno! Farà sensazione, eh? Gli audaci Terrestri s’imbattono non in una razza estranea, ma in due, e la seconda li prende a calci ancora più forti che la prima. Certo che in questa simpatica conferenza siamo arrivati terzi su tre, vero?»
Dominici scosse la testa. Non era d’accordo. «Be’, non direi che c’è andata così male.»
«No?» disse Stone meravigliato.
«Neanche un po’» sostenne Dominici. «Direi che, tutto sommato, i Norglani ne sono usciti più spennati di noi. Non dimenticate che i Norglani pretendevano l’intero Universo salvo la nostra piccola sfera di dominio… prima che entrassero in campo i Rosgollani. E adesso anche loro devono accontentarsi di un misero cinquanta per cento della comune galassia: niente più.»
«E questa, immagino, la chiamate una vittoria per noi!» disse Stone. «Ma ragionando in questo modo si può negare anche l’evidenza più lampante di un fatto.»
«E inoltre equivale a credere che i Norglani si atterranno alla linea di confine» disse Havig.
«Io penso che lo faranno» disse Bernard. «Del resto, non vedo proprio come potrebbero fare altrimenti. Devono stare ai patti, lo vogliano o no. Questi Rosgollani sembrano dotati di poteri mentali senza limiti. Probabilmente non perderanno mai d’occhio la nostra galassia, fungendo da servizio di sicurezza e mandando all’aria ogni incidente che potrebbe sorgere da una eventuale violazione di confine.»
«Pattugliare la nostra galassia, insomma» disse cupo Stone. «Piacevole idea, vero? Così noi partiamo da Terra con squilli di tromba, come rappresentanti della razza dominante dell’Universo, e torniamo confinati in un angolino della nostra stessa galassia, e a libertà vigilata, per di più. Voglio vedere come la prenderà l’Arconato, cari miei.»
«Nessuno può prenderla bene» disse Bernard. «Ma la verità fa sempre male. E questa è una di quelle verità che ogni terrestre si dovrà ficcare bene in testa. La cosa che ora sappiamo, e che prima ignoravamo, è che non siamo affatto la razza dominante dell’Universo. Non ancora, per lo meno. I Rosgollani, e forse altri in galassie ancora più distanti, hanno il vantaggio di avere iniziato un processo evolutivo cinque o seicentomila anni prima di noi. E così noi siamo stati rimessi al nostro posto. Eravamo un gruppo di ragazzetti che credevano d’avere l’Universo in tasca. Be’, non è così, ecco tutto, e bisognerà che l’Arconato e tutti i Terrestri si adattino a quest’idea.»
«Come volete; però questa è la più grande disfatta che la Terra abbia mai subito in tutta la sua storia» tornò a insistere Stone.
«Disfatta?» rise Bernard. «Sentite, Stone, se voi battete una mano contro la paratia di metallo e vi fate male, la chiamate una disfatta? Certo, la paratia sfida la vostra mano. E sarà sempre così. È nella natura stessa del metallo d’essere più forte di una mano nuda, e sarebbe ridicolo mettersi a piagnucolare sugli aspetti filosofici della situazione.»
«Se io voglio sconfiggere una paratia, non uso le dita» disse Stone. «Uso una fiamma ossidrica. E nove volte su dieci la spunto io.»
«Ma non disponiamo di una fiamma ossidrica da usare contro i Rosgollani» replicò Bernard. «Non siamo fatti della loro stessa lega, tutto qui. È nella natura stessa delle cose che razze molto più evolute, che vantano mezzo milione di anni di priorità sulla nostra, siano più potenti di quanto siamo noi. Perché farne una tragedia?»
«Bernard ha ragione» disse Havig con voce pacata. «La grande ruota della vita continua a girare. Un giorno i Rosgollani spariranno dall’Universo, e noi, ormai al tramonto della nostra esistenza, osserveremo altre razze più giovani e più forti che tenteranno di farla da padroni negli spazi. E che cosa faremo? Esattamente quello che hanno fatto i Rosgollani con noi: confineremo queste razze, per amore della nostra pace. Ma, probabilmente, a quell’epoca sapremo anche Chi ci ha creati, e non agiremo solo per il nostro interesse.»
Stone, prendendosi la testa tra le mani, mormorò: «Quello che dice Bernard non fa una grinza finché restiamo in un ambito teorico, intellettuale. Non voglio negarlo, tutt’altro. Ma cerchiamo di vedere la situazione nella sua realtà. Cosa diremo all’umanità che si crede il non plus ultra della creazione? Che abbiamo scoperto di essere vagiti, balbuzie, finale di voci arroganti disperse tra Universi immensamente più evoluti?»
«Questo è un problema che riguarda gli Arconti, non noi» disse Dominici.
«Ma che importanza ha di chi sia il problema?» chiese Stone sempre più infuriato. «La Terra ne resterà stravolta. Si tratta di un’umiliazione planetaria.»
«Si tratta di un’apertura mentale planetaria» disse secco Bernard. «Un ampliamento di vedute, che distruggerà ogni traccia di auto-compiacimento. Per la prima volta abbiamo altre razze con le quali misurarci. Sappiamo che i Norglani valgono tanto quanto noi almeno per adesso, e che i Rosgollani valgono centomila volte di più. Perciò sappiamo che dobbiamo progredire, per tener testa ai Norglani, e per portarci al livello dei Rosgollani. E ci arriveremo.»
Hernandez entrò nella cabina passeggeri e si arrestò sulla soglia, guardando incerto dall’uno all’altro.
«Ho interrotto una discussione importante?» chiese.
«Cosa potrebbe essere importante, ormai?» disse Stone con voce tetra.
«Stavamo solo discutendo sui nuovi sviluppi della nostra situazione» spiegò Bernard. «C’è qualcosa che non va a prua, Hernandez?»
Il pilota scosse la testa. «No, dottor Bernard, va tutto bene. Il Comandante Laurance mi ha mandato per avvertirvi che a quanto pare i Rosgollani ci hanno riportato nel punto in cui ci siamo smarriti, e quindi stiamo per eseguire la conversione nell’iperspazio e dirigerci verso casa.»
«Ma è impossibile!» disse Stone.
Contemporaneamente, Dominici mandò un’esclamazione di sorpresa. «Cosa? Volete dire che siamo già rientrati nella nostra galassia? Ma…»
«Proprio così» disse tranquillamente Hernandez. «È passata solo mezz’ora, tempo della nave, da quando abbiamo lasciato Rosgolla. E siamo già arrivati.»
«Ne siete certo?» chiese Bernard.
«Il Comandante è sicurissimo.»
Hernandez uscì. Un brivido di sbigottimento scosse Bernard.
L’astronave, dunque, aveva attraversato il golfo galattico in poco più di venticinque minuti, grazie alla spinta dei Rosgollani. Era un fatto che andava oltre le possibilità di comprensione della mente umana. Ma, Bernard se ne rendeva conto, poteva essere la cosa più semplice del mondo per una razza progredita come quella Rosgollana. Una passeggiatina igienica, una giterella attraverso migliaia di anni-luce, una cosetta di cui non metteva nemmeno conto di parlare.
Bernard si sentiva profondamente a disagio.
Però, nonostante tutto, provava anche un senso di conforto. Sul piano dell’evoluzione i Rosgollani si trovavano in vantaggio di almeno mezzo milione di anni. Perciò, potevano fare miracoli. Ma quanti risultati raggiunti dall’Uomo contemporaneo sarebbero sembrati miracoli all’Homo Sapiens di poche centinaia d’anni prima? Per non parlare di quello di mezzo milione d’anni prima.
Dove eravamo, e cosa eravamo, mezzo milione d’anni fa? si chiese Bernard. Ci battevamo il petto, balzavamo allegramente da un ramo all’altro, cucinavamo i nostri zii per cenare, se pure non ce li mangiavamo crudi, perché probabilmente l’idea di cucinare non era ancora venuta a nessuno. Eppure, abbiamo compiuto tutto il percorso dal Pitecanthropus eretto all’era del transmat, in mezzo milione d’anni… e il progresso ha fatto passi sempre più veloci. Si tratta di un bel viaggio, e non si può dire che abbiamo impiegato troppo tempo a compierlo. Perciò, chi può dirci quale grado evolutivo avremo raggiunto quando saremo vecchi quanto i Rosgollani?
Quel pensiero era confortevole. Per la prima volta da quando la spedizione era partita, dalle distese desolate dell’Australia Centrale, Bernard provò un attimo di certezza, di comprensione per la relazione Uomo-Universo.
Quella certezza quasi lo stordiva…
«Ehi, Bernard… Bernard? Vi sentite bene?» chiese Dominici.
«Eh? Sì, certo, Perché?»
«Avete fatto una faccia così strana, all’improvviso. Avevate una specie di sorriso estatico sul volto. È durato qualche secondo, ma non vi avevo mai visto sorridere in quel modo.»
«Pensavo… a una cosa» rispose Bernard, tranquillamente. «Tessere di un mosaico che andavano a posto. E io… be’, per un secondo sono stato felice. E lo sono ancora.» Si protese in avanti. «Dominici, ditemi dei Norglani, biologicamente parlando. Tutto quello che siete riuscito a intuire.»
Il biologo si accigliò. «Be’… prima di tutto, è evidente che sono mammiferi.»
«Naturalmente. E quanto alla loro evoluzione?»
«Hanno avuto origine da qualche essere del tipo dei primati, sarei pronto a scommetterlo. Naturalmente ci sono enormi differenze, ma questo è logico tenendo conto che c’è di mezzo una distanza di dodici o quindicimila anni-luce. Le otto dita, i doppi gomiti… Ma a parte questo, almeno a giudicare dall’esterno, direi che sono molto simili a noi.»
«Una razza più giovane della nostra, secondo voi?»
Lo sguardo di Dominici esprimeva l’incertezza. «Più giovane? No, non direi. Forse più vecchia.»
«Che cosa ve lo fa pensare?»
Dominici si strinse nelle spalle. «Intuizione, diciamo così. Sembrano più definiti nei loro atteggiamenti. Più stratificati, direi. La differenza non può essere sensibilissima… due o tremila anni, su per giù, ma ho l’impressione netta che siano civilizzati da più tempo.»
«Sono d’accordo con voi» disse Havig dal suo angolino. «Da quel poco che ho potuto afferrare del loro complicato linguaggio, direi che è molto evoluto… proprio il tipo di linguaggio che una razza potrebbe avere raggiunto dopo un paio di migliaia di anni. Ma perché, Bernard? Come mai queste domande improvvise? Che cosa avete in mente?»
Bernard tentennò la testa.
«Stavo mettendo assieme alcune cose da dire al Tecnarca, al nostro arrivo» disse soltanto, e non accennò a volere aggiungere ulteriori spiegazioni.
Il gong suonò dando il segnale di conversione. Poco dopo, Nakamura si affacciò nella cabina per avvertire i passeggeri che la nave seguiva regolarmente la sua rotta, e che tra poco sarebbe stato servito il pranzo.
Mangiarono tranquillamente. Non c’era ragione di mostrarsi euforici dopo una simile avventura tra le stelle. Tutti sapevano molto bene che stavano facendo ritorno alla Terra dopo una missione che era terminata con un’inaspettata diminuzione di spazio per l’Uomo nell’Universo. Le notizie di cui erano latori non sarebbero certo suonate gradite ai mondi terrestri, né a quell’uomo inflessibile, duro, altero, che li aveva costretti a quel viaggio. Le verità amare difficilmente sono bene accolte.
Havig rimase nel saloncino per dare una mano a Nakamura che doveva rimettere in ordine dopo il pasto. Bernard ritornò in cabina con Stone e Dominici. Erano tornati tutti di umore cattivo. Ogni minuto che passava, ormai, li portava più vicini alla Terra, e all’incontro col Tecnarca.
Stone sedeva quieto sulla sua cuccetta, e si teneva il volto tra le mani. Bernard alzò gli occhi all’improvviso e si accorse che il paffuto diplomatico stava piangendo.
Andò da lui.
«Stone, non fate così!»
«Lasciatemi in pace» fu la risposta soffocata.
«Ma via, scuotetevi…»
«Andatevene.»
«Maledizione» disse Bernard, «ma perché piangete? Si può sapere? Possibile che il fatto che i Terrestri non siano più quei padreterni che si credevano vi abbia sconvolto a questo modo? O piuttosto siete fuori di voi pensando che forse perderete il posto che avevate all’Arconato?»
Stone rialzò la testa, pallido, con gli occhi rossi, e l’espressione sorpresa di un uomo che vede svelati i suoi segreti più riposti. «Come osate dire…»
«È la verità, no?»
«Cosa vorreste…»
«Confessatelo» proruppe Bernard in tono volutamente aspro. «Affrontate la verità. È un’abitudine che almeno noialtri dovremmo cominciare a prendere.»
Il diplomatico assunse un’espressione come se l’avessero frustato. Si rannicchiò su se stesso, e dopo un attimo di silenzio disse con voce bassa e distante: «Va bene, è la verità. È inutile che cerchi di nasconderlo, ormai. Per venticinque anni hanno continuato ad addestrarmi per l’Arconato, e adesso tutto crolla. La mia carriera è finita. Volete che sia allegro dopo la piega che hanno preso gli avvenimenti? Credete che sceglierebbero mai come Arconte l’ambasciatore che è tornato con la notizia che l’Uomo… che l’Uomo…»
Non poté continuare.
I singhiozzi ricominciarono. Bernard si sentiva a disagio nell’osservare quelle spalle massicce scosse da un tremito incontrollabile.
Tanto vale lasciarlo piangere pensò. Forse la sua carriera è finita, o forse no, ma questo sfogo gli farà bene ugualmente. Dio sa quanto ne avremmo bisogno, tutti quanti.
Ritornò alla sua cuccetta. Dopo un po’ vide Stone che si alzava, si lavava la faccia, si asciugava gli occhi e si faceva una puntura di sedativo nel braccio. Il diplomatico si sdraiò di nuovo, e poco dopo si addormentò. Bernard rimase sveglio, a fissare il grigiore dello schermo televisivo, a osservare il movimento implacabile delle lancette dell’orologio. Anche lui era d’umore depresso, eppure non così cupo come ci sarebbe stato da aspettarsi. Quel viaggio, Bernard lo sapeva, era stata un’esperienza preziosa per lui, come lo sarebbe stato per chiunque. La Terra aveva appreso alcune cose sul proprio conto che aveva sempre avuto un bisogno disperato di apprendere, e lo stesso si poteva dire di Martin Bernard. Riandando con la memoria all’immediato passato, si sorprese di alcune sue azioni. L’improvviso senso di simpatia e di comprensione per Havig, per esempio.
Quel viaggio gli aveva allargato le idee, aveva ampliato la sua conoscenza di se stesso e degli altri. Ora poteva guardarsi indietro e osservare il Martin Bernard di un tempo in una nuova, fredda e distaccata prospettiva.
E ciò che vedeva non lo lasciava molto soddisfatto.
Vedeva un individuo egocentrico, quasi odiosamente egoista, con una punta di crudeltà ben camuffata da modi amabili. Il suo articolo polemico contro Havig, per esempio, non era stato un’espressione di dissenso culturale, quanto un attacco contro una filosofia che chiamava in causa le sue concezioni edonistiche. E anche la relazione con sua moglie gli appariva con mortificante chiarezza. Non era affatto vero che lui non fosse nato per essere un buon marito. Semplicemente, non aveva fatto niente per diventarlo. Lei non era invadente, era solo una donna che desiderava dividere la vita del marito, mentre ne era stata completamente tagliata fuori.
Bernard guardava fisso dinanzi a sé. Quella segregazione obbligatoria, ben diversa dall’influenza cullante del suo nido così intimo di Londra, l’aveva costretto a un esame di coscienza, indotto a dare un’occhiata oggettiva al suo vero io racchiuso finora in un guscio di auto-compiacimento.
Un identico risveglio altrettanto brusco, avrebbe avuto la Terra, tra poco. Bernard si chiese se la gente in generale avrebbe imparato qualcosa dall’urto di quelle verità buttate in faccia, o se invece non avrebbe immediatamente innalzato meccanismi di difesa per impedire all’amara realtà di farsi strada nelle menti e nei cuori. Bernard si accigliò. Non se la sentiva di rispondere a quella domanda.
Intanto, il tempo scorreva veloce. Solo dodici ore, poi ci sarebbe stata di nuovo la conversione. Le lancette si muovevano, lente ma inesorabili.
Dieci ore.
Otto.
Sei.
Quattro.
Due.
Gli ultimi minuti parvero a tutti infiniti. La faccia di Bernard era una rigida maschera, gli occhi gli dolevano a forza di fissare l’orologio. Da ore, nessuno aveva detto una parola.
I colpi di gong echeggiarono, finalmente, e la loro risonanza riempì la cabina, solenne come l’annuncio del Giudizio Universale. L’attimo della conversione si compì. Lo schermo visivo s’illuminò mentre la VUL-XV usciva dal vuoto misterioso e rompeva la barriera per ritornare nell’Universo conosciuto.
Da prua, in tono lento, misurato, arrivò il messaggio di Laurance: «In questo momento stiamo attraversando l’orbita di Nettuno, diretti verso l’interno del sistema solare. Ho comunicato via radio con la Terra e loro hanno ricevuto il mio messaggio. Sanno che stiamo per rientrare.»