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«Volete dire che ci siamo smarriti?» chiese Dominici, con voce addirittura stridula per l’incredibilità.

«Proprio così.»

«Perché non ce l’avete detto prima?» disse Bernard. «Perché ci avete lasciati qui a macerarci nell’incertezza per tanto tempo?»

Laurance scrollò lentamente il capo. «Stavamo tentando delle compensazioni di rotta. Cercavamo di ritrovare la via per tornare sui nostri passi, ma è stato inutile. Non c’era traccia di nessuno dei nostri riferimenti di rotta. Tutto quanto facevamo serviva solo a peggiorare le cose. In ultima analisi, non sappiamo proprio niente in fatto di navigazione a velocità ultra-luce.» Laurance adesso aveva le spalle chine. «Poco fa, abbiamo deciso di rinunciare ad altri tentativi, e siamo tornati nell’Universo normale. Ma non c’è un solo punto di riferimento noto. Ci siamo completamente smarriti.»

«Ma com’è potuto succedere?» chiese Stone. «Credevo che la nostra rotta fosse calcolata in precedenza, che tutto fosse predisposto automaticamente in anticipo.»

«In un certo senso è così» ammise Laurance. «Ma le regolazioni minori, i dati di posizione, sono ancora affidati all’uomo, e a un certo punto tutto si è confuso. Forse si è trattato di una deviazione meccanica, forse di un errore di calcolo. Non possiamo saperlo.»

«Ha importanze, ormai?» chiese Bernard.

«Oh, per niente. Un errore di un milionesimo di secondo del parallasse nel momento della Conversione, comporta una deviazione di centinaia di anni-luce dalla rotta segnata. E perciò… eccoci qua.»

«Dove?» chiese Stone.

«Tutto quello che posso dirvi è pura deduzione; ipotesi campata in aria. Pensiamo di essere emersi dall’iperspazio su per giù nella regione della Nuvola Maggiore Magellanica. Hernandez è di là che fa osservazioni e rilievi. Abbiamo individuato una stella che ci sembra quasi certamente la S Doradus, e in questo caso la nostra ipotesi sarebbe esatta.»

«Perciò non siamo poi tanto distanti da casa» disse Dominici con una risatina isterica. «Solo nella galassia accanto, in fondo. Cosa sono cinquantamila parsec, eh?»

«Sapendo dove siamo» disse Stone, «dovrebbe essere possibile ritrovare la strada di casa?»

«Non è detto» rispose Laurance. «Il viaggio nel nonspazio non segue alcuno schema logico. Non c’è correlazione tra tempo e distanza, e nessuna possibilità di stabilire la direzione. Si viaggia alla cieca. In teoria si potrebbe lanciare una nave sperimentale telecomandata, e scoprire dove emerge seguendo la sua rotta con gli strumenti di bordo. Qualora la nave sperimentale emergesse in un punto dell’Universo conosciuto, noi saremmo in grado di duplicare la rotta e quindi di raggiungerla. Purtroppo, noi qui non abbiamo astronavi sperimentali da mandare in avanscoperta. La nostra unica speranza di tornare a casa si affida a calcoli che possono essere anche sbagliati, e bisogna essere preparati al fatto che il nostro prossimo punto di emersione può essere tanto Andromeda quanto la nostra galassia.»

«Ma se non altro avremo provato, vi pare?» disse Bernard.

«Già. Solo che non so se è prudente farlo. Ora come ora, ci troviamo in una galassia molto simile alla nostra. Potrebbe essere più saggio scegliere un pianeta di tipo Terra e stabilirci là, piuttosto che balzellare alla cieca per lo spazio e l’ipersapzio, magari perdendoci tra le galassie e morendo di fame lungo la strada.»

«Meglio morire di fame nel tentativo di raggiungere casa nostra» obbiettò Havig, rompendo il silenzio, «che arenarci su un mondo sconosciuto.»

«Forse avete ragione voi» ammise Laurance. «Però dovremo calcolare tutto accuratamente prima di ulteriori tentativi. A bordo abbiamo riserve di cibo per tre mesi. Questo ci dà tempo sufficiente per calcolare e perlustrare. Alla disperata potremo sempre riparare su un pianeta sconosciuto del tipo-Terra. Secondo me…»

Nakamura entrò a precipizio nella cabina. Sottovoce disse a Laurance: «Comandante, puoi venire un momento a prua? Vorrei mostrarti qualcosa.»

«Vengo subito. Vogliate scusarmi, signori.»

I due ufficiali uscirono insieme. Nella cabina seguì un lungo silenzio.

Bernard fissò lo schermo. Una vista che mozzava il respiro: una sconfinata distesa di stelle, una galassia che nessun occhio umano aveva mai visto prima di allora. Enormi astri dalla luce bianco-azzurra e stelline fioche, rossastre, punteggiavano il campo visivo. E giù, nella parte inferiore dello schermo, era sospesa una piccola e abbagliante nuvola bianca, una specie di matassa con due braccia rotanti alle due estremità. Bernard capì che quella era la sua galassia. La Via Lattea. In qualche punto di quell’immensa macchia di luce, c’era il Sole, la Terra e le migliaia di mondi che costituivano l’impero terrestre. Là in mezzo, c’erano anche mondi norglani, e infine altrettanti milioni di mondi disabitati e inesplorati. I due imperi rivali, e forse tutta la vita intelligente dell’Universo, erano là, in quel piccolo insignificante blocco luminoso, non più grande del pugno d’un uomo.

Bernard trattenne il respiro. È allucinante, pensò, contemplare la propria galassia da una distanza di cinquantamila parsec. La prospettiva cambia radicalmente. I valori cambiano. L’Uomo con tutte le sue ambizioni rimpicciolisce drasticamente e quasi si annulla di fronte all’immensità di uno, due… infiniti Universi. Da questa distanza assurda, inconcepibile, nessuna stella della nostra galassia può essere individuata a occhio nudo. E tuttavia, in quella insignificante massa stellare che s’intravvede lì, nell’angolo dello schermo, quanti progetti grandiosi per la conquista dell’Universo sono nati e nascono ogni nuovo giorno?

La risata amara di Stone interruppe i pensieri di Bernard. «Che cos’è peggio?» chiese Stone. «Smarrirsi qua fuori, a cinquantamila parsec da casa, o tornare sulla Terra con l’ultimatum dei Norglani? Tutto sommato, io preferirei aggirarmi in quest’immensità piuttosto che passare alla storia come degli ambasciatori dell’ultima catarsi terrestre.»

«Io no, invece» disse Dominici senza esitare. «Già, noi due non siamo nella stessa barca. Se torneremo sulla Terra, io sopravviverò di certo alla collera del Tecnarca, e chi sa che non sia tanto fortunato da sopravvivere anche alla guerra con i Norglani. O, altrimenti, potrei sempre sperare in una morte rapida. No, mio caro, non ci tengo affatto a smarrirmi qua fuori. Restare in eterno negli spazi, sul limitare del nulla, in nove Adami e nemmeno una Eva? Eh, no! Non fa per me, amici.»

Bernard, ignorando la discussione continuava a fissare il cielo sconosciuto attraverso lo schermo televisivo.

Pochi giorni prima, diecimila anni-luce gli erano sembrati una distanza quasi assurda. Una distanza raccapricciante, inconcepibile. In realtà non lo era affatto. Basta vedere le cose nella loro vera prospettiva. La Terra e Norgla sono praticamente vicine di casa, se il punto di osservazione si sposta a cinquantamila parsec. Spesso, col crescere della distanza, cresce anche il senso della relatività di ogni cosa. Bernard sorrise ironicamente.

E pensare che noi e i Norglani siamo già convinti di poterci dividere tutto l’Universo. Che arroganza cosmica, che idiozia! Che diritto abbiamo noi, nella nostra piccola insignificante galassia, di avanzare pretese su tutta questa immensità sconfinata?

«E voi che ne dite, Bernard?» chiese Dominici. «Non avete quasi aperto bocca. Che pensate dell’idea di Stone? Preferireste smarrirvi in eterno tra queste galassie sconosciute o essere l’ambasciatore della brutta notizia?»

«Be’, francamente preferirei tornare a casa» rispose Bernard. «Penso di esserne certo. Sento la mancanza dei miei libri, della mia musica… perfino dei miei studenti.»

«Non avete famiglia?» chiese Dominici.

«No, per la verità.» Bernard si adagiò contro lo schienale. «Due matrimoni, e tutt’e due falliti. Ho anche un figlio da qualche parte, avuto dalla mia prima moglie. Si chiama David Martin Bernard, e non lo vedo da quindici anni. Credo che non porti nemmeno il nome di suo padre. Gli hanno fatto credere di essere figlio di un altro. Se lo incontrassi per strada, non mi riconoscerebbe, nemmeno sentendo il mio nome.»

«Oh!» Il biofisico era imbarazzato. «Senza volerlo vi ho rattristato con questi ricordi. Scusatemi.»

Bernard si strinse nelle spalle. «No, non vi scusate. Non si tratta di una ferita interna, o di qualcosa di simile. Semplicemente, non ero tagliato per avere una famìglia. Sono incapace di mantenere rapporti umani veri, forse solo come insegnante. Più che altro, mi dispiace di non essermene accorto in tempo, questo sì.» Bernard si chiese perché mai stesse raccontando tutti i fatti suoi. «Invece, solo dopo la rottura del secondo matrimonio, mi resi conto che non avevo il temperamento adatto del marito, che ero uno scapolo nato. E così, allo stato attuale, non ho legami familiari sulla Terra. E comunque vorrei tornarvi.»

«Credo che sia così per tutti» disse Stone. «Anch’io, prima, non dicevo sul serio. Era solo un paradosso, il mio.»

«Una volta ero sposato anch’io» raccontò Dominici, a nessuno in particolare. «Lei era una tecnica di laboratorio, aveva i capelli biondi. Andammo in luna di miele a Farraville, su Arcturus X. Poi, lei morì, dieci anni fa.»

E naturalmente, tu non sei riuscito a consolarti pensò Bernard, vedendo un’improvvisa angoscia dipingersi sul volto di Dominici.

Il sociologo si sentiva a disagio. Fino a quel momento, tra i quattro uomini c’era stata molta riservatezza. Ora, invece, le confidenze venivano spontanee, quasi come un sollievo all’immane tensione. Però, continuando di quel passo, se ognuno avesse preteso di esporre la propria autobiografia a base di delusioni, di amori perduti, di dolori patiti, ben presto la situazione si sarebbe fatta intollerabile. Tutti avrebbero voluto parlare di sé, e gli altri avrebbero dovuto aspettare che venisse il loro turno. E Bernard sapeva che la colpa sarebbe stata sua, per aver toccato per primo il tasto delle rivelazioni.

Stone, nel frattempo, aveva preso la parola. «Non mi sono mai sposato» stava dicendo, «e perciò in un certo senso non ho nessuno sulla Terra. Be’, naturalmente di ragazze ne ho avute anch’io, ma la cosa non è andata mai in porto, e… be’, tanto ormai non ha importanza. Però non voglio finire la mia vita su qualche pianeta sconosciuto, lontano dalla Terra. Morire come un cane, solo, dimenticato…»

«Sarebbe la volontà di Dio, no?» osservò Dominici. «Tutto è volontà di Dio. Tanto vale starsene tranquilli e lasciare che Dio ci cosparga di guai. Noi non possiamo fare altro che scuotere stoicamente le spalle e affidarci alla Sua Volontà. Amen.» La voce di Dominici aveva adesso un tono stridulo, provocatorio. «Dico bene, vero, Havig? Voi siete un esperto di Dio. Come mai non avete ancora cominciato a sputare sentenze per consolarci. Come mai… Havig!»

Bernard si girò di scatto.

Uno spettacolo sconcertante. Seduto in disparte tutto solo, come sempre, nella sua cuccetta in un angolo, senza prendere parte alla conversazione, l’allampanato Neopuritano stava vivendo silenziosamente una specie di attacco isterico.

Perfino la nevrastenia, in lui, era contenuta e repressa, come tutte le altre sue manifestazioni. Il corpo era squassato da profondi singulti, ma Bernard si accorse che Havig riusciva a soffocarli con una intensità di concentrazione quasi demoniaca. Gli occhi erano umidi di pianto, la mascella contratta, le mani stringevano spasmodicamente l’orlo della brandina. I singulti lo scuotevano e lui li ricacciava indietro con aria cupa, senza permettere che un solo gemito gli sfuggisse dalle labbra. Il conflitto tra la disciplina ferrea alla quale era abituato e il collasso nervoso era evidente. E l’effetto era quanto mai penoso.

I tre colleghi per un attimo lo fissarono paralizzati dalla sorpresa. Poi Dominici proruppe subito: «Havig! Havig, cosa vi succede? State male, amico?»

«No… non male» rispose Havig con voce fonda, stranamente atona.

«Ma che avete allora? Possiamo fare qualcosa?»

«Sì… lasciatemi solo» mormorò Havig.

Bernard fissò costernato il Neopuritano. Per la prima volta, «sentì» di essere riuscito a penetrare oltre la maschera di Havig.

«Non capite a che cosa sta pensando?» mormorò sottovoce a Dominici e a Stone. «Sta pensando d’essere stato un brav’uomo tutta la sua vita, d’avere pregato, lavorato, obbedito alle leggi del suo Dio. Ha venerato il Signore come pensava che andasse adorato. E… e poi gli succede questo. Smarrirsi quaggiù, a bilioni e bilioni di chilometri dalla sua casa, dalla sua chiesa, dalla sua famiglia. Moglie, figlioli, tutto sparito… e perché? È questo che l’ha stravolto, che gli fa smarrire la ragione. Non sa spiegarsi il perché.»

Havig si alzò e mosse qualche passo in avanti barcollando, con gli occhi vitrei, le guance chiazzate di rosso.

«Prendetelo!» urlò Dominici terrorizzato. «È fuori di se! Fermatelo!»

Senza esitare un solo istante, gli furono addosso in tre. Bernard e Stone afferrarono Havig per le lunghe braccia smisurate. Dominici, alzandosi praticamente sulla punta dei piedi, riuscì a posargli le mani sulle spalle gracili. Insieme, e usando tutta la loro forza, lo costrinsero a ricadere sulla cuccetta e ve lo tennero ben stretto.

Gli occhi di Havig mandarono lampi di indignazione selvaggia. «Lasciatemi andare! Togliete quelle mani dalla mia persona! Vi proibisco di toccarmi, capito?»

«State giù e calmatevi» ordinò Bernard. «Su, Havig, rilassatevi. Non fate così.»

«Tenetelo d’occhio» disse Dominici.

Ma Havig ormai non faceva più resistenza. Fissava il pavimento e borbottava con voce meditabonda: «Ho commesso qualche grosso peccato, per forza, altrimenti perché mi sarebbe accaduto questo? Perché Lui mi ha abbandonato. Perché ci ha abbandonati tutti?»

«Non siete il primo a farvi questa domanda» disse Dominici. «Consolatevi, siete in buona compagnia.»

Quell’osservazione blasfema in un momento simile irritò Bernard per ragioni che lui stesso non riusciva a spiegarsi. «Tacete, idiota» disse fra i denti. «Volete farlo impazzire del tutto? Andate a prendermi un sedativo, invece.»

«Devo averlo offeso in qualche modo senza saperlo» continuò Havig. «Ed Egli mi ha tolto la Sua luce. Mio Dio, perché ci hai abbandonati?»

Bernard avvertì un’onda di pietà e di compassione così intense da rimanerne quasi sbalordito. Quell’uomo, un tempo, lui l’aveva disprezzato giudicandolo un fanatico del misticismo, l’aveva attaccato a mezzo della stampa usando termini che adesso riconosceva come meschini e poco leali, e adesso gli ispirava tanta pietà, e proprio perché lo scudo della fede che l’aveva protetto stava per infrangersi.

Chinandosi su Havig, disse bruscamente: «Avete torto, Havig. Non siete stato abbandonato. Questa è una prova, una prova per la vostra fede. Dio vi manda delle tribolazioni, ma dovete ricordarvi di Giobbe. Havig, ricordate: Giobbe non perse mai la sua fede.»

Gli occhi di Havig s’illuminarono, un lieve sorriso si fece strada attraverso tanta disperazione. «Sì, forse… Una prova per la mia fede, e anche per la vostra. Come Giobbe, sì. Ma come possiamo superarla? Smarriti qua fuori… Forse Dio ha distolto il Suo sguardo da noi, forse…» Havig tacque, e le lacrime presero a rotolargli lungo le guance scarne.

Havig guardava Bernard con aria implorante, mentre tutta la sua forza di volontà lo abbandonava.

Allungando la mano dietro di sé, Bernard prese abilmente la siringa-spray dalle mani di Dominici e l’applicò con destrezza contro una vena del sottile braccio di Havig.

Poi premette il pulsante, iniettando istantaneamente il fluido. Havig mormorò qualche parola incomprensibile e rabbrividì, gli occhi gli si appannarono. Qualche istante, e i suoi nervi si rilassarono: finalmente il Neopuritano scivolò nel sonno.

Bernard si sollevò, asciugandosi la fronte madida di sudore. «Poveri noi! Non m’aspettavo proprio una cosa del genere.»

«Pazzo. Completamente pazzo» dichiarò Stone. «Come è possibile che una persona dal sistema nervoso così instabile venga mandata in una missione come questa?»

Bernard scosse la testa. «Havig non ha i nervi instabili, nonostante la scena di poco fa.»

«E allora, come la spiegate?»

«È perfettamente comprensibile, direi. Havig ha costruito tutta la sua vita attorno a convinzioni ben radicate. Lui le ha vissute le sue convinzioni, non si è limitato a predicarle. Chiamatelo fanatico, se volete, certo io di epiteti gliene ho affibbiati anche troppi. Bene, adesso, improvvisamente, tutto viene messo in discussione. Per una volta, Havig non è riuscito ad attribuire la sua avventura alla volontà di Dio, e quindi a sopportarla stoicamente. È rimasto a corto di spiegazioni. E questo l’ha sconvolto.»

«Starà bene quando si sveglierà?» chiese Dominici. «Oppure tornerà nello stato di adesso?»

«Secondo me, starà benissimo. Lo spero, almeno. Gli ho iniettato una dose abbastanza forte da tenerlo quieto per ore. Probabilmente, quando l’effetto della droga passerà lui avrà superato la crisi.»

«Se gli piglia un’altra crisi isterica» disse Stone «dovremo imbavagliarlo. Oppure tenerlo sempre sotto droga, per il bene suo e nostro.»

«Sono certo che riacquisterà il suo equilibrio» disse Bernard. «È troppo solido, di fondo, per mettersi a dare i numeri.»

«Mi pare di ricordare che proprio voi l’avevate definito un mattoide» disse Dominici. «Non starete dando i numeri anche voi, per caso?»

«Forse adesso riesco a capire meglio Havig e le sue convinzioni» rispose Bernard senza scomporsi. «Be’, sarà quel che sarà. In ogni modo, quando si sveglia, dobbiamo continuare a insistere sul tema di Giobbe. Se riusciamo a inculcargli quell’idea, diventerà una torre di forza, e non ci sarà pericolo di nuove crisi.»

«Giobbe? Che roba è?» chiese Stone.

«Una figura tolta dai libri della religione Giudaico-Cristiana» spiegò Bernard. «È una storia piuttosto bella, a pensarci bene. Racconta che il diavolo aveva fatto una scommessa con Dio, affermando che questo Giobbe avrebbe perso la fede se fosse stato sottoposto a una prova. Così gli fu permesso di inviare a Giobbe ogni genere di pestilenze e di calamità. Tutte cose al cui confronto perdersi nello spazio è un’avventuretta senza importanza. Ma Giobbe tenne duro ugualmente, e non perse mai la sua fede nemmeno nei momenti peggiori. E alla fine…»

La porta della cabina si aprì. Entrò il Comandante Laurance, seguito da Clive e da Nakamura.

«Che diavolo sta succedendo qua dentro?» chiese Laurance. «Abbiamo sentito delle grida, poco fa.»

«Havig aveva perso la trebisonda» rispose Dominici.

«Cosa?»

«Be’, non è niente di tragico» disse Bernard. «Ha soltanto avuto una specie di collasso nervoso, e per un momento ha perso il controllo.»

«Ha fatto dei danni?»

«No» disse Bernard. «Siamo riusciti a inchiodarlo subito alla sua cuccetta. Adesso è sotto l’effetto di un sedativo, e penso che al risveglio si sentirà benissimo.»

«Da prua sembrava come minimo un ammutinamento» disse Clive. «Pensavamo che vi foste accapigliati, che voleste farvi la pelle l’un l’altro.»

E non ve ne importava un accidente pensò fra sé Bernard. Purché non mettessimo a repentaglio la vostra incolumità personale.

«Starà benissimo» ribadì a voce alta. «Che novità ci portate da prua? Siete riusciti a stabilire dove siamo? O è un’informazione riservata?»

Laurance gli scoccò un’occhiataccia. «Nuvola Magellanica Maggiore.»

Dominici alzò la testa. «È sicuro?»

«Sicurissimo» dichiarò Laurance. «Abbiamo individuato la S Doradus, luminosa come un faro. E alcune RR Lyrae variabili delle quali siamo abbastanza sicuri. Dal tipo di popolazione stellare, una quantità di Cefeidi, molte stelle O, B e K supergiganti, c’è senz’altro da credere che siamo nelle Magellaniche.»

«E astri di tipo Sole» chiese ansiosamente Stone. «Ne avete trovati, sì o no? Quelli di tipo diverso non sono adatti per tentare atterraggi sui rispettivi pianeti, vero?»

«Di questo non credo che dovremo preoccuparci molto» rispose Laurance, con un sorriso nervoso.

«Come sarebbe a dire?» saltò su Dominici.

«Sarebbe a dire che, a quanto pare, la cosa non dipende più da noi» replicò Laurance.

Per la prima volta, Bernard si rese conto di ciò che avrebbe dovuto comprendere dal primo momento, salvo che era proprio una cosa alla quale nessuno avrebbe pensato. Si accorse tutt’a un tratto che i cinque ufficiali avevano lasciato la cabina di comando contemporaneamente. Un fatto del genere non si era mai verificato in tutto il viaggio. Eppure Laurance, Clive e Nakamura erano lì, mentre Peterszoon e Hernandez stavano subito oltre la soglia. E se nella cabina di comando non c’era nessuno…

«Che cosa sta succedendo?» chiese Bernard, preso improvvisamente dal panico. «Chi sta governando la nave?»

«È quello che vorrei sapere anch’io» disse Laurance. Si avvicinò allo schermo. «Circa mezz’ora fa, qualche misteriosa forza esterna ha preso la nave in sua balìa. Non abbiamo potuto in nessun modo liberarci dal suo raggio di attrazione. Siamo trascinati da una mano invisibile, si direbbe verso quel sole giallo lassù.»

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