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Quella sera Martin Bernard se ne stava comodo e tranquillo nel suo appartamento di South Kensington, a due passi da Cromwell Road. Fuori, la cupa nebbia londinese gravava sulla città, ma Martin Bernard non se ne ac corgeva. Dentro casa, tutto era intimo, tiepido e confortevole, proprio come piaceva a lui. Una musica antichissima arrivava dolcemente dallo schermo sonoro posto proprio sopra la sua testa: una sonata di Bach per clavicembalo. Bernard aveva regolato il volume sul minimo, in modo che il suono gli giungesse come un mormorio di fondo. In quel modo, Bach non impegnava la sua attenzione, ma lui ne avvertiva la presenza, dolce e rasserenante.

Bernard se ne stava disteso sulla sua vibrosedia, con un volume di Yeats in grembo, mentre la lampada da spalla oscillava e si torceva a più non posso nel tentativo di dirigere il suo raggio sulla pagina qualunque fosse la posizione che Bernard assumesse. Una bottiglia di cognac finissimo, stravecchio, importato da uno dei mondi di Procione, era a portata di mano. Bernard aveva il suo liquore, la sua musica, la sua poesia, il tepore della sua casa. Quale modo migliore, si chiedeva, per distendere i nervi, dopo aver passato due ore a cercare di ficcare gli elementi essenziali della sociometrica nelle teste di legno di un ottuso corso di studenti del second’anno?

Ma, nonostante tutto, provava un senso di rimorso per i lussi che si concedeva. Gli accademici, in genere, non erano considerati dei sibariti, ma Bernard ripeteva a se stesso che in fondo si meritava quelle concessioni. Era un’autorità, nel suo campo. Inoltre, aveva scritto un romanzo che aveva avuto molto successo. Le sue poesie, molto apprezzate, figuravano in tutte le antologie. Aveva lottato non poco per raggiungere quel livello, e adesso, a quarantatré anni, risolto il problema finanziario per sempre, e risolto anche il problema del suo secondo matrimonio, non c’era ragione al mondo che lo inducesse a privarsi della gioia di quelle serate comode e solitarie.

Sorrise. Katha aveva chiesto il divorzio; l’aveva accusato di crudeltà mentale. E sì che Bernard si considerava una delle persone meno crudeli che fossero mai esistite. In verità, l’insegnamento, la sua attività di scrittore, e gli studi ai quali si dedicava, non gli avevano lasciato tempo sufficiente per occuparsi di sua moglie. Lei aveva voluto divorziare, e così… amen! Ora si rendeva conto, dopo due matrimoni falliti, che in fondo non aveva la stoffa del marito.

Si abbandonò contro lo schienale, sfogliando le pagine di Yeats. Un poeta meraviglioso, pensava Bernard, forse il migliore dell’Ultimo Medioevo.

Il telefono trillò, disturbando la sua lettura. Bernard si accigliò, sollevandosi su un gomito. Posato a terra il libro, si diresse alla cabina telefonica e premette il pulsante del contatto. Non aveva mai pensato di farsi installare una derivazione che gli permettesse di rispondere senza alzarsi dalla poltrona. Non era sibarita al punto tale da tenere le sue conversazioni telefoniche standosene comodamente sdraiato.

Lo schermo s’illuminò, ma invece di una faccia, apparve l’immagine dello stemma del Tecnarca. Bernard fissò stupito quell’emblema giallo e azzurro.

Una voce impersonale chiese: «Il dottor Martin Bernard?»

«Sono io.»

«Il Tecnarca McKenzie vuole parlarvi. Siete solo?»

«Sì. Solissimo.»

«Applicate l’isolatore, prego.»

Bernard abbassò la levetta di fianco all’apparecchio. Un attimo dopo, lo stemma del Tecnarca sparì per cedere il posto alla testa e alle spalle del Tecnarca stesso. Bernard fissò tranquillamente la faccia forte e ossuta di McKenzie. Lui e il Tecnarca si erano incontrati solo poche volte. McKenzie l’aveva decorato dell’Ordine al Merito sette anni prima, e da quel momento i loro sentieri si erano incrociati in parecchie occasioni formali del mondo scientifico. Ma lui aveva udito la voce risonante del Tecnarca in centinaia di solennità nazionali e di riunioni di vario genere. Ora, Bernard chinò rispettosamente la testa e disse: «Ai vostri ordini, Tecnarca.»

«Buonasera, dottor Bernard. Accade qualcosa di insolito, è sorto un problema nuovo. Penso che possiate aiutarmi… aiutare tutti noi.»

«Se è nelle mie possibilità, Tecnarca…»

«Sì, dottor Bernard, lo è. Abbiamo mandato in ricognizione un’astronave sperimentale a velocità ultra-luce. L’astronave ha raggiunto un sistema che si trova a diecimila anni-luce di distanza. Là sono stati scoperti degli esseri di una razza sconosciuta, intelligenti, e colonizzatori. Dobbiamo negoziare con loro, dottore. Subito. Voglio che siate voi a capo della commissione addetta ai negoziati.»

Le frasi brevi, categoriche, lasciarono Bernard stordito. La dichiarazione finale lo colpì con la violenza di uno schiaffo.

«Volete… che io sia a capo della commissione per i negoziati?» ripeté stordito.

«Sarete accompagnato da altri tre colleghi e da un equipaggio di cinque uomini. L’equipaggio è pronto; manca soltanto l’adesione dei vostri colleghi. Questione di poco tempo. La partenza sarà immediata. La durata del viaggio è trascurabile. Quella dei negoziati dipenderà da quello che saprete fare. Potreste essere di ritorno sulla Terra in meno di un mese.»

Bernard provò un senso di capogiro.

Tutto pareva sparire nel vortice: il libro di poesie, il cognac, il tepore, l’intimità della casa… tutto svanito in un attimo in seguito a quella telefonata transatlantica.

Parlò con voce esitante: «Come… come mai avete scelto proprio me per questo incarico?»

«Perché siete il migliore, tra i vostri colleghi» replicò semplicemente il Tecnarca. «Potete liberarvi dai vostri impegni per alcune settimane almeno?»

«Penso di sì.»

«Ho la vostra conferma, allora, dottor Bernard?»

«Be’… sì, Eccellenza. Accetto.»

«I vostri servizi non resteranno senza ricompensa. Presentatevi alla Sede dell’Arconato il più presto possibile, dottore; e comunque non più tardi di domani sera, ora di New York. Avete tutta la mia gratitudine, dottor Bernard.»

Lo schermo si spense.

Bernard fissava a bocca aperta il puntolino di luce che un attimo prima era stato la faccia del Tecnarca. All’improvviso, abbassò lo sguardo, colto da un senso di vertigine. Mio Dio, pensò perché mai mi sono cacciato in una storia del genere? Un viaggio interstellare!

Poi sorrise, con ironia. Il Tecnarca gli aveva appena offerto la possibilità di essere uno dei primi esseri umani a trovarsi faccia faccia con altri esseri intelligenti non terrestri. E lui stava lì a rammaricarsi, solo perché doveva separarsi momentaneamente dalle sue piccole comodità.

Dovrei esultare di gioia si disse, altro che rammaricarmi. Il cognac e le vibrosedie possono aspettare. Questa è senz’altro l’esperienza più importante di tutta la mia vita!

Spense lo schermo sonoro. La musica per clavicembalo tacque nel bel mezzo di un’armoniosa cadenza. Yeats tornò nella libreria. Bernard ingollò un ultimo sorso di cognac, e ripose la bottiglia nel bar.

Mezz’ora più tardi aveva già compilato un elenco delle persone che andavano informate della sua partenza, e programmato il suo robosegretario perché provvedesse ad avvertirle… dopo. Meglio mettere tutti quanti dinanzi al fatto compiuto della sua partenza, e lasciare che se la sbrigassero da soli.

Fare i bagagli era un problema più complesso. Scartò alcuni libri troppo voluminosi, ne prese con sé solo due di piccolo formato, infine mise in valigia alcuni indumenti personali e qualche memodisco. Non riuscì a prendere sonno, nemmeno con i tranquillanti. Verso l’alba era già in piedi, e passeggiava su e giù, agitatissimo, per l’appartamento. Verso le undici decise di raggiungere via transmat New York, ma dall’orario scoprì che sarebbe arrivato dall’altra parte dell’Atlantico alle prime luci dell’alba. Aspettò un’altra ora, manovrò il quadrante apposito per ottenere il benestare alla traversata e regolò il suo trasmat per farsi portare alla Sede dell’Arconato.

Entrò nella cella, un po’ preoccupato come sempre al pensiero del percorso trasmat. Il suo pensiero venne interrotto a mezzo mentre il campo transmat si impossessava di lui. Quando emerse al capo opposto, terminò il pensiero.

Le facce arcigne degli uscieri addetti all’Arconato lo aspettavano.

«Da questa parte, dottor Bernard.»

Li seguì, sentendosi stranamente osservato, come una vittima che venga condotta all’altare del sacrificio. Gli uscieri lo condussero in una sala attigua, la cui imponenza rivelava a prima vista che si trattava dello studio privato del Tecnarca McKenzie: l’incarnazione della forza e dell’ambizione umana.

Al momento il Tecnarca non era nel suo studio. C’erano invece altri tre signori, che subito si fecero attenti all’entrare di Bernard, squadrandolo con l’ansia di gente ancora incerta sulla propria posizione.

Bernard li osservò a sua volta.

Alla sua sinistra, nell’angolo più lontano della stanza, c’era un tipo alto, con le labbra tirate in una linea austera, quasi tetra. Il suo corpo, lungo e angoloso, sembrava fatto di tubi e bastoni tanto era rigido. Indossava abiti scuri, che indicavano la sua affiliazione al movimento dei Neopuritani. Bernard si mise istintivamente sulla difensiva; era avvezzo a considerare i Neopuritani con aperto disgusto, come gente i cui ideali erano talmente lontani dai suoi da non permettere alcuna possibilità d’intesa.

Più vicino a Bernard, c’era un secondo individuo, più basso, ma sempre di statura notevole. Era un tipo affabile e bonario, sulla cinquantina, con una faccia rosea e rasata di fresco che irradiava buona salute e gioia di vivere. Il terzo era basso e corpulento, con occhi neri e vividi, e la fronte solcata da rughe profonde. Sembrava una pila di energia, contenuta ma pronta a esprimersi nel momento più impensato.

Bernard si guardò attorno, cercando di mascherare il suo disagio. «Salve» disse, prima che qualcun altro avesse aperto bocca. «Sono Martin Bernard, sociologo, nonché uno dei coscritti; piuttosto perplessi direi, di questa strana impresa. Voi tre siete qui solo per conferire col Tecnarca, o fate parte anche voi della spedizione?»

L’uomo dalla faccia rosea e l’aria affabile sorrise cordialmente e porse la mano. Bernard la strinse. Una mano morbida, liscia, e tuttavia molto energica… «Roy Stone» si presentò l’uomo. «In linea di massima sono un politico, penso. Ufficialmente, sono Vicearconte per gli Affari Coloniali.»

«Piacere» mormorò Bernard.

«E io sono Norman Dominici» disse l’uomo corpulento, attraversando la stanza a passi nervosi, che esasperavano l’impressione di energia compressa che emanava da lui. «Sono un biofisico… quando non mi spediscono a fare visita a strane creature verdognole, cioè. Benvenuto nel nostro piccolo gruppo, Bernard.»

Solo il Neopuritano non si era presentato. Rimase dov’era, accanto alla parete ma senza addossarvisi.

Bernard si sentì punto sul vivo da quella mancanza di cortesia, ma l’innato desiderio di stabilire rapporti cordiali prese il sopravvento, e lui si rivolse al Neopuritano ben deciso a fare il primo passo.

«Salve» disse, un po’ dubbioso.

«Attento» lo avvertì Dominici a fior di labbra. «Sembra un tipo poco socievole.»

L’omone si voltò lentamente dalla parte di Bernard. Aveva quell’espressione assente e chiusa non rara in chi, fin da piccolo, si è sentito emarginato per cause non inerenti la sua volontà. Nel suo caso specifico, all’origine della sua emarginazione c’era sicuramente la statura abnorme. Un quindicenne che ha superato il metro e novanta difficilmente riesce a sentirsi a suo agio con i coetanei sui quali torreggia, e con gli anni il senso di isolamento finisce, com’è logico, per ingigantire.

«Sono Thomas Havig» disse lo spilungone, con voce acuta e stridula, sorprendente in un individuo così alto. «Non credo che ci siamo mai incontrati, dottor Bernard, ma negli ultimi tempi abbiamo figurato insieme sulle pagine di alcune dotte riviste.»

Gli occhi di Bernard si spalancarono per l’improvvisa meraviglia e costernazione. Ma pensa un po’, tra tanta gente… «Siete Thomas Havig della Columbia?» chiese.

«Thomas Havig della Columbia, sì» confermò l’altro. «Quel Thomas Havig che ha scritto «Congetture sui morfemi etruschi», dottor Bernard.» Una vaghissima traccia di sorriso apparve sulle labbra di Havig. «Un articolo che probabilmente non avrete apprezzato.»

Bernard guardò gli altri due, poi di nuovo Havig. «Be’, ecco… semplicemente non sono riuscito a mandar giù nemmeno una delle vostre supposizioni. Vedete, Havig, mi sono trovato in disaccordo fin dalla premessa di base, e via via fino all’ultima riga del vostro scritto. Voi negavate senza riguardi tutto ciò che si conosce sulla personalità e la cultura degli Etruschi, tentavate spietatamente di deformare addirittura l’essenza stessa della conoscenza per fare posto alla vostra preconcetta filosofia sociale… Insomma, voi non avete affrontato la questione in modo equo, scusate!»

«E di conseguenza» dichiarò tranquillamente Havig «voi vi siete sentito in dovere di tentare di distruggere la mia reputazione e la mia importanza nel mondo accademico.»

«Io mi sono limitato a esporre un’opinione dissenziente» replicò Bernard, accalorandosi. «Non potevo permettere che le vostre affermazioni restassero senza risposta. E il «Journal» ha trovato la mia replica degna d’essere stampata. Era…»

«Era un articolo perverso e diffamatore» disse Havig, senza alzare la voce al livello assunto da Bernard. «Con la scusa della polemica erudita mi avete coperto di ingiustificato ridicolo, e avete irriso alle mie convinzioni personali.»

«Che però incidevano sull’argomento che stavate presentando.»

«Ciò nonostante, tutto il vostro atteggiamento, dottor Bernard, non era certo degno di un erudito. Il vostro attacco così poco obiettivo contro di me faceva perdere di vista l’argomento base, e rendeva impossibile agli osservatori disinteressati distinguere quale fosse in realtà il motivo del nostro dissenso. Il vostro articolo era un’esibizione di ingegno e di arguzia, un’esibizione brillantissima, mi dicono, ma ben lontana dalla confutazione di un erudito.»

Stone e Dominici si erano tenuti in disparte, con aria piuttosto perplessa durante quell’acceso scambio di accuse. Ora, evidentemente, Stone aveva deciso che la disputa fosse andata troppo oltre. Fece un risolino, il risolino conciliante del diplomatico di professione, e disse in tono mellifluo: «A quanto pare, signori miei, siete vecchi amici, pur senza esservi mai incontrati. O forse sarebbe più esatto dire vecchi nemici?»

Bernard guardò sdegnato il Neopuritano. Brutto impostore baciapile pensò. «Abbiamo avuto delle divergenze culturali» ammise.

«Ma non penserete di trascinarvi appresso queste divergenze per diecimila anni-luce, spero!» osservò Dominici. «Temo che l’aria diverrebbe piuttosto irrespirabile su quell’astronave, se voi due continuaste ad azzuffarvi sui morfemi etruschi. Non pare anche a voi?»

Bernard sorrise suo malgrado. Non si sentiva particolarmente ben disposto nei riguardi di Havig, ma tanto non aveva niente da guadagnare nel continuare quella lite. Le cause, pensava Bernard, sono troppo profonde perché si possa sperare di eliminarle facilmente. Era convinto che Havig lo odiasse con tutte le sue forze, e che fosse impossibile placarlo. D’altra parte, l’armonia della spedizione contava assai più delle beghe personali. «Immagino che possiamo anche lasciare da parte gli Etruschi, durante il viaggio» disse. «Che ne dite, Havig? In fondo, la nostra divergenza di opinioni riguarda un campo molto limitato, direi.»

Tese la mano. Dopo un attimo di esitazione, il gigantesco Neopuritano la prese, sia pure con riluttanza. La stretta fu breve, e le due mani ricaddero subito inerti. Bernard e Havig avevano battagliato senza esclusione di colpi su una questione, per la verità, piuttosto secondaria. Era una di quelle polemiche in cui spesso gli specialisti si imbarcano quando le loro diverse specialità si scontrano su un punto di comune interesse. Però non era certo di buon auspicio che proprio lui e Havig facessero parte della stessa spedizione; la barriera che esisteva tra le loro convinzioni personali era troppo grande per permettere una possibilità di vera collaborazione, e questo impensieriva Bernard.

«Bene» osservò innervosito Roy Stone «ormai la partenza può avvenire da un minuto all’altro.»

«Il Tecnarca ha detto che avremmo avuto tempo come minimo fino a stasera» disse Bernard.

«Già. Ma ormai siamo tutti riuniti. Anche l’astronave e l’equipaggio sono pronti. Perciò, non c’è ragione di rimandare oltre la partenza.»

«Il Tecnarca non ama perdere tempo» brontolò cupamente Havig.

«E infatti non c’è tempo da perdere» replicò Stone. «Quanto prima riusciremo a trattare con quegli esseri sconosciuti, tanto prima saremo riusciti a evitare una guerra tra le nostre civiltà.»

«La guerra è inevitabile, Stone» obiettò Dominici con ostinazione. «Non occorre essere un sociologo per capirlo. Due culture sono entrate in collisione. Non facciamo che sprecare tempo e fiato, andando a sbattere fin là per impedire l’inevitabile.»

«Se la pensate così» disse Bernard «perché mai, allora, avete accettato di partecipare alla spedizione?»

«Perché il Tecnarca mi ha chiesto di partecipare» rispose semplicemente Dominici. «Non c’è altro motivo, ma questo basta e avanza. Comunque, non ho fiducia nel successo di questa missione.»

La porta si dissolse all’improvviso. Il Tecnarca McKenzie entrò, imponente e massiccio nei suoi abiti da parata. I Tecnarchi, oltre che per le loro qualità mentali, erano scelti anche in base alla figura e al portamento.

«Avete già pensato a presentarvi?» chiese McKenzie.

«Sì, Eccellenza» disse Stone.

McKenzie sorrise. «Tra quattro ore partirete dall’Australia Centrale. Ora prenderemo il transmat, nella stanza accanto. Il Comandante Laurance e i suoi uomini sono già sul campo, per un ultimo controllo dell’astronave.» Gli occhi del Tecnarca andarono con espressione significativa da Bernard ad Havig, poi ancora a Bernard. «Ho scelto voi quattro per le vostre capacità, naturalmente. So che alcuni di voi hanno divergenze di vedute, in campo professionale. Dimenticatele. Siamo intesi?»

Bernard assentì. Havig fece un cenno scontroso.

«Bene» tagliò corto il Tecnarca. «Ho nominato il dottor Bernard capo della spedizione. Questo significa che le decisioni finali, se le trattative dovessero arrivare a un punto morto, spetteranno a lui. Se qualcuno di voi non è d’accordo, lo dica subito.»

Il Tecnarca fissò Havig dritto negli occhi. Nessuno obiettò.

McKenzie continuò: «Non occorre che vi raccomandi di collaborare col Comandante Laurance e col suo equipaggio. Sono persone ottime, ma sono appena rientrati da un viaggio snervante, e stanno per intraprenderne un altro. Non mettete alla prova i loro nervi. Se qualcuno di loro dovesse sbagliare a premere un tasto, potrebbe essere la fine per tutti.»

Il Tecnarca tacque, come se si aspettasse qualche domanda conclusiva. Non ce ne furono. Allora, voltandosi, fece strada verso la cella transmat. Stone, Havig e Dominici lo seguirono, con Bernard alla retroguardia.

Formiamo un gruppo stranamente assortito per essere una spedizione in viaggio verso le stelle pensò Bernard. Ma il tecnarca sa di certo quello che fa. Almeno, spero che lo sappia.

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