CAPITOLO DICIOTTESIMO LA REGINA DELL’ALVEARE

L’evoluzione non aveva dato a sua madre un canale corporeo per partorirlo, né un seno per nutrirlo. Perciò la piccola creatura che un giorno si sarebbe chiamata Human non ebbe via d’uscita dal ventre di lei, se non quella che la sua cieca fame e i suoi denti avrebbero aperto. Così lui e i suoi fratelli venivano alla luce, divorando il corpo delle loro madri. E poiché Human era più forte e vigoroso degli altri, mangiò di più e diventò ancor più forte.

Human si trovò però nella tenebra più completa. Quando sua madre non ci fu più, da mangiare restò soltanto il dolce liquido che colava sulla superficie del suo mondo. Lui non sapeva che quella parete verticale era l’interno di un enorme albero cavo, e che il liquido di cui si nutriva era linfa vegetale. Né sapeva che le creature vermiformi molto più grosse di lui erano maiali già un po’ più cresciuti, quasi pronti a lasciare la tenebra dell’albero. E neppure sapeva che le altre creature, quelle più piccole di lui, erano maiali più giovani, usciti più di recente dal corpo delle loro madri.

Tutto ciò che per lui contava era mangiare, muoversi, e vedere la luce. Perché di tanto in tanto, a intervalli che non comprendeva, un’improvvisa luce s’insinuava in quel buio. Essa cominciava sempre con un suono, proveniente da un luogo che Human non riusciva a concepire. Poi l’albero tremava leggermente, la linfa cessava di scorrere, e tutta l’energia della pianta si concentrava per cambiare la forma del tronco in un punto di esso, costruendo un’apertura da cui entrava il chiarore. Quando c’era la luce Human si muoveva subito da quella parte. Quando la luce andava via, lui smarriva il senso della direzione e vagava senza meta in cerca di liquido da bere.

Finché un giorno, quando tutte le altre creature che aveva attorno erano più piccole di lui, e nessuna era più grande di lui, venne la luce e lui fu abbastanza forte e svelto da raggiungere l’apertura prima che si chiudesse. Piegò il suo corpo intorno all’orlo di quell’uscita, e sentì il ruvido contatto della corteccia contro il suo tenero addome. Ma non avvertì neppure il dolore, perché la luce era d’un tratto tanta da abbagliarlo. Non proveniva da un solo posto, bensì da tutti i posti, e non era grigia ma d’un vivido verde, e gialla, e di molti altri colori. Il suo rapito sbalordimento durò molto minuti. Poi fu di nuovo affamato, e tuttavia lì, all’esterno dell’albero-madre, la linfa usciva solo da certe fessure della corteccia dov’era difficile da raggiungere, e invece di tutte quelle piccole creature che poteva spingere via facilmente, qui ce n’erano altre, più grosse di lui, che lo allontanavano dai posti dove era facile nutrirsi. Quella era una cosa nuova, un nuovo mondo, una nuova vita, e lui ne era spaventato.

In seguito, allorché imparò a parlare, avrebbe ricordato il viaggio dalle tenebre alla luce e capito che quello era stato il passaggio dalla prima vita alla seconda, dalla vita di tenebra a quella della mezza-luce.

Araldo dei Defunti, La Vita di Human, 1:1-5


Miro aveva deciso di andarsene da Lusitania. Forse l’unica soluzione era di prendere la nave dell’Araldo, dopotutto, e consegnarsi alle autorità di Trondheim. E forse, al processo, sarebbe riuscito a persuadere i Cento Mondi a non dichiarare guerra ai lusitani. Alla peggio sarebbe diventato un martire, avrebbe fatto presa sul cuore della gente, lo avrebbero ricordato e la sua vita non sarebbe stata inutile. Qualunque cosa era meglio che restare lì.

Nei primi giorni dopo l’incidente al recinto era migliorato rapidamente. Aveva ritrovato un certo controllo muscolare e parte della sensibilità alle braccia e alle gambe. Abbastanza da trascinarsi qua e là con passi incerti, come un vecchio rudere. Abbastanza da muovere le braccia e le mani. Abbastanza per metter fine all’umiliazione di dover farsi lavare e pulire da sua madre. Ma poi i suoi progressi erano rallentati fino a cessare. — Le cose stanno così — aveva detto Navio. — Hai raggiunto un livello di stabilità permanente del danno fisico. E devi ritenerti fortunato, Miro, perché riesci a camminare, a parlare, e sei un uomo completo con la possibilità di procreare. Non sei più limitato, diciamo così, di un centenario in buona salute. Mi piacerebbe poterti dire che il tuo corpo tornerà a essere com’era prima che ti arrampicassi su quel dannato recinto, con il vigore e i riflessi di un ventenne. Ma sono molto più contento di non doverti dire che trascorrerai la vita a letto, con dei cateteri infilati nel corpo per nutrirti e ripulirti, senza altro da fare che ascoltare musica e chiederti che fine farà il tuo corpo.

Così devo ringraziare il cielo, pensò Miro. Con le mani che terminano con cinque bastoncini quasi inutili, con una voce che suona come un borbottio incomprensibile ai miei stessi orecchi, incapace di modulare come si deve un parola, devo ritenermi fortunato di essere un vecchio centenario e di vedere davanti a me ottant’anni di vita da centenario fin da ora.

Una volta capito che lui non aveva più bisogno di costante attenzione, la sua famiglia aveva ripreso le attività abituali. Quelli erano giorni troppo eccitanti perché loro stessero a casa a deprimersi guardando quant’era depressa la sua faccia. Li capiva perfettamente. E non voleva che i familiari restassero a casa con lui. Ma avrebbe voluto essere con loro. Il suo lavoro era tutto da compiere. Adesso il recinto e le norme sul contatto ridotto al minimo erano solo un ricordo. Adesso avrebbe potuto farsi chiarire dai maiali tutti gli interrogativi su cui per anni s’era lambiccato il cervello.

Dapprima aveva cercato di lavorare per mezzo di Ouanda. Lei passava ogni mattina e ogni sera, e faceva i suoi rapporti di lavoro usando il terminale nell’atrio di Casa Ribeira. Lui esaminava quelle registrazioni, le poneva domande, ascoltava i suoi racconti spiccioli sui fatti accaduti. E Ouanda si scriveva con grande serietà le domande che Miro le chiedeva di fare ai maiali. Dopo qualche giorno di quell’andazzo, tuttavia, lui aveva notato che sebbene alla sera Ouanda si presentasse con tutte le risposte da lui desiderate, non c’era più discussione, niente di quei confronti verbali e intellettuali con cui un tempo avevano messo alla prova le loro teorie. Tutta l’attenzione di lei era adesso rivolta al lavoro, al suo lavoro. E Miro aveva smesso di farle prender nota delle sue domande. Le aveva mentito, le aveva detto che era molto più interessato a quello che lei stava facendo, e che le vie su cui lei procedeva con i suoi studi erano le più solide e importanti.

La verità era che odiava vedere Ouanda. Per lui, la rivelazione che la ragazza era sua sorella era stata dolorosa e terribile. E ancor peggio quando pensava che, se la decisione fosse dipesa da lui, avrebbe ignorato il tabù dell’incesto per sposarla e vivere, se necessario, nella foresta con i maiali. Perché Ouanda, comunque, era credente, era religiosa. Non sarebbe mai riuscita a violare l’unica legge umana a carattere universale. Aveva sofferto nel sentirsi dire che Miro era suo fratello, ma subito aveva cominciato a staccarsi da lui: dimenticare i contatti, i baci, i sussurri, le promesse, i litigi, le risate… dimenticare, cancellare dal suo banco-dati quel programma.

E anche Miro avrebbe voluto dimenticare. Ma non poteva. Ogni volta che la vedeva, soffriva nell’accorgersi quanto lei fosse riservata, quanto educata, quanto gentile. Lui era suo fratello, un bravo amico, un invalido, certo. E lei sarebbe stata tanto comprensiva. Ma l’amore era finito.

Spietatamente Miro paragonava Ouanda a sua madre. Novinha aveva saputo amare il suo uomo senza curarsi delle barriere poste fra loro dalla società. Ma l’amante di Novinha era stato un uomo sano, fisicamente valido, non la carcassa che lui era diventato.

Così Miro stava a casa e studiava i rapporti di lavoro stesi da qualcun altro. Era una tortura sapere ciò che stavano facendo, quando non poteva prendervi parte; ma era sempre meglio che girare i pollici, o guardare qualche spettacolo registrato, o istupidirsi con gli inutili esercizi rieducativi assegnatigli da Navio. Poteva ancora usare la tastiera del terminale, mirando accuratamente a ogni tasto con il suo dito più rigido, l’indice della mano destra. Non aveva abbastanza destrezza da compiere le operazioni più complicate, né velocità sufficiente per scrivere, ma poteva contattare l’archivio pubblico e leggere ciò che gli altri stavano facendo. Riusciva, se non altro, a mantenere un legame con quei lavori importanti che erano improvvisamente fioriti su Lusitania con l’apertura del recinto.

Ouanda era impegnata a compilare un vocabolario Stark-Lingua dei Maschi-Lingua delle Mogli, completo di un sistema fonetico, cosicché i maiali potessero scrivere nelle tre lingue. Quim la stava aiutando, ma Miro sapeva che il fratello aveva i suoi scopi personali: intendeva fare il missionario presso altre tribù di maiali, per insegnare loro il catechismo prima che leggessero La Regina dell’Alveare e l’Egemone, e voleva tradurre per loro almeno una parte delle sacre scritture, e predicare nella loro lingua. Tutto questo lavoro linguistico e culturale era un’ottima cosa, preservava il passato dei maiali, preparava gli uomini a comunicare con altre tribù, ma Miro sapeva che avrebbe potuto esser fatto dai seguaci di Dom Cristão, che già si avventuravano nel loro abito monacale fra i maiali per interrogarli e per rispondere alle domande con istintiva esperienza e professionalità. Ouanda si stava avviando a divenire superflua, Miro ne era certo.

Il lavoro più concreto con i maiali, a suo avviso, era quello portato avanti da Ender e da alcuni tecnici del municipio messi a disposizione da Bosquinha. Stavano stendendo tubature, pompe e depuratori, per portare l’acqua dal torrente alla radura delle mogli. Inoltre avevano già messo in funzione una linea elettrica, e insegnavano ad alcuni maiali a manovrare un terminale installato laggiù. Nello stesso tempo li istruivano sui sistemi più primitivi di agricoltura, e tentavano di addomesticare i cabras come animali da traino e da aratro. Era irrazionale fornire ai maiali tecnologie di livello così diverso tutte in una volta, ma Ender era venuto a discuterne con Miro, spiegandogli che per motivi psicologici voleva mostrare loro anche qualcosa di spettacolare come conseguenza del trattato: l’acqua corrente, un terminale olografico con cui potevano leggere tutto il materiale della biblioteca, e luce elettrica la notte. Ma questo per loro era ancora magia, qualcosa che comunque dipendeva dalla colonia umana. Perciò Ender conduceva in parallelo un lavoro di base teso a renderli autosufficienti, inventivi, capaci di sviluppare le loro risorse. La meraviglia delle luci elettriche avrebbe generato miti che si sarebbero sparsi da tribù a tribù, sul resto del pianeta, ma ciò sarebbe stato soltanto una voce e una favola per molti anni ancora. Sarebbero stati gli aratri di legno, le falci, gli erpici e i semi di amaranto a portare i cambiamenti reali, a migliorare il livello di vita delle tribù in un cerchio sempre più largo. E quelle novità potevano essere trasmesse da un maiale che andasse in giro con un sacchetto in pelle di cabras pieno di semi e le nozioni basilari nella sua memoria.

Questo era il lavoro a cui Miro avrebbe agognato di prender parte. Ma a cosa sarebbero servite le sue mani rigide e i suoi piedi incespicanti in un campo di amaranto? A chi avrebbe giovato la sua presenza fra i telai che tessevano la lana di cabras? Non riusciva neppure a parlare abbastanza chiaro da fare l’insegnante.

Ela stava lavorando per modificare varietà di piante terrestri, e anche piccoli animali ed insetti, in modo che potessero resistere alla Descolada, o perfino neutralizzarla. Sua madre la aiutava con qualche consiglio, ma non molto, perché era all’opera sul più importante e segreto di tutti quei progetti. E ancora era stato Ender a rivelare a Miro ciò che soltanto la sua famiglia e Ouanda conoscevano, e cioè che la Regina dell’Alveare esisteva davvero, era viva nel suo stadio larvale, e sarebbe stata tolta dal bozzolo non appena Novinha avesse trovato il modo di renderla immune alla Descolada, lei e tutti gli Scorpioni che sarebbero nati da lei. Presto, molto presto, la Regina avrebbe ridato vita alla sua razza.

E Miro non sarebbe stato parte neppure di questo. Per la prima volta gli esseri umani e ben due razze extraterrestri avrebbero vissuto insieme sullo stesso mondo, e lui non poteva partecipare a nulla di tutto questo. Era perfino meno umano di un maiale. Non riusciva a parlare la sua stessa lingua altrettanto bene, non poteva usare le mani con la stessa destrezza. Aveva smesso di essere un animale parlante e fabbricatore di utensili. Era una specie di varelse, adesso. Agli altri poteva servire tutt’al più come animale da compagnia.

Voleva andarsene. Meglio ancora, voleva sparire, allontanarsi perfino da se stesso.

Ma non in quel momento, a dir la verità. C’era un nuovo strano enigma di cui lui solo era al corrente, e che soltanto lui poteva risolvere. Il suo terminale si stava comportanto in modo misteriosamente assurdo.

Aveva cominciato ad accorgersene una settimana dopo essersi ripreso dalla paralisi totale. Stava cercando di richiamare sul video le registrazioni pubbliche di Ouanda, e ad un tratto, senza aver fatto nulla di speciale, il computer gli aveva dato accesso all’archivio privato della ragazza. Erano registrazioni protette da diversi blocchi, e lui non ne aveva mai conosciuto i codici-chiave, eppure una semplice ricerca di routine gli aveva fatto comparire davanti quelle note. Erano le teorie di Ouanda sull’evoluzione dei maiali, e sui probabili aspetti culturali della loro società prima della Descolada. Il genere di cose su cui fino a due settimane prima lei avrebbe parlato con Miro, vivacemente, per metterle alla prova con le obiezioni di lui. Ora la ragazza le teneva segrete, e con lui non ne accennava neppure.

Miro s’era ben guardato dal dirle che aveva letto quelle note, e nel parlare con lei si teneva su argomenti molto diversi. Ouanda chiacchierava volentieri con lui, a patto di non sentirgli uscire di bocca osservazioni personali, e poiché Miro era orgoglioso parlava esclusivamente di lavoro. Talvolta il sorriso di lei gli dava l’impressione d’essere tornato ai vecchi tempi. Ma poi sentiva il suono incerto e confuso della propria voce, che costringeva la ragazza a fargli ripetere spesso un’intera frase, e allora si rassegnava a tenere le sue opinioni per sé, limitandosi ad ascoltarla, lasciando passar via le cose su cui avrebbe voluto interromperla e far commenti. Tuttavia leggere il suo archivio segreto lo aiutava a capire ciò che la interessava di più.

Ma com’era riuscito ad averlo in visione?

Questo non era successo soltanto con lei: lo schermo gli aveva dato accesso anche agli archivi confidenziali di Ela, di sua madre, e di Dom Cristão. Mentre i maiali cominciavano a giocare con il loro nuovo terminale, Miro aveva seguito ogni loro operazione con un sistema-eco che credeva fosse impossibile con quell’apparecchiatura; questo lo aveva messo in grado di esaminare le loro richieste di vario genere, e di intervenire quando sbagliavano, dando loro gli opportuni suggerimenti. Vedere ciò che li interessava e che tentavano di fare lo aveva deliziato, e aiutarli di nascosto era molto divertente. Ma perché il computer gli stava dando quell’inusitato e incredibile potere d’accesso?

Inoltre, il terminale stava imparando ad adattarsi a lui. Invece di battere lunghe e faticose sequenze, gli bastava cominciarne una e il computer ubbidiva alle sue istruzioni. E dopo qualche giorno non aveva avuto neppure bisogno di far questo: gli bastava sfiorare un tasto, lo schermo gli mandava all’istante una lista delle attività che solitamente lo interessavano, e lo scanner scivolava dall’una all’altra. Lui toccava un altro tasto, e lo schermo, o il campo olografico, gli mandava tutte le immagini e le note che voleva, saltando dozzine di preliminari e risparmiandogli molti penosi minuti in cui avrebbe dovuto battere sulla tastiera un carattere alla volta.

Dapprima aveva pensato che Olhado, o qualcuno nell’ufficio del sindaco, avesse creato questo nuovo programma apposta per lui. Ma Olhado, sbattendo le palpebre stupito davanti a ciò che il terminale stava facendo, aveva esclamato: — Ehi, bacãna! — Questo è grande! E quando Miro decise di mandare un cauto messaggio a Bosquinha, per indagare su quel mistero, il sindaco non lo ricevette neppure. Invece, a fargli visita venne l’Araldo dei Defunti.

— Così, il tuo terminale ti è di grande aiuto — disse Ender.

Miro non rispose. Stava cercando di capire perché Bosquinha avesse mandato l’Araldo a rispondere alla sua richiesta.

— Il sindaco non ha avuto il tuo messaggio — rivelò Ender. — L’ho ricevuto io. Ed è meglio che tu non faccia parola con nessuno di quello che il tuo terminale sta facendo.

— Perché? — chiese Miro. Quella era una delle poche parole che riusciva a dire senza farfugliare troppo.

— Perché chi ti sta aiutando non è un nuovo programma. È una persona.

Miro rise. Nessun essere umano poteva essere veloce come il programma che s’era messo al suo servizio. La sua velocità era, in effetti, superiore a quella di qualsiasi programma si fosse servito in precedenza, ma soprattutto era più ingegnoso e intuitivo. Più veloce di un uomo, ma più intelligente di un programma di computer.

— È una mia vecchia amica, credo. O almeno, è stata lei a parlarmi del tuo messaggio al sindaco, e mi ha suggerito di farti capire che dovresti essere più discreto. Vedi, lei è un po’ timida. Non si è fatta molti amici, finora.

— Quanti ne ha?

— Al momento attuale, esattamente due. Nei tremila anni precedenti ad oggi, esattamente uno.

— Non è umana? — ipotizzò Miro.

— Raman — disse Ender. — Più umana di molti umani. Per molto tempo ci siamo voluti bene, aiutandoci a vicenda, dipendendo l’uno dall’altra. Ma nelle ultime settimane, dal mio arrivo qui, ci siamo un po’ allontanati. Io sono… più coinvolto nella vita di alcune persone che mi stanno intorno fisicamente. La tua famiglia.

— Mamma — annuì Miro.

— Sì. Tua madre, i tuoi fratelli, le tue sorelle, il lavoro con i maiali e quello con la Regina dell’Alveare. La mia amica ed io eravamo soliti parlarci continuamente. Adesso non ne ho più il tempo. Qualche volta abbiamo un po’ urtato i reciproci sentimenti, senza volerlo. Lei può sentirsi sola, capisci, e perciò penso che si sia trovata un altro amico.

— Não quero — borbottò lui. Non ne ho bisogno.

— Sì, ne hai bisogno — disse Ender. — Lei ti sta già aiutando. Ora che sai della sua esistenza, scoprirai che lei è… un’amica sincera. Non potresti trovarne una migliore. Né più leale, o più utile.

— Un cagnolino fedele?

— Non fare il somaro — lo ammonì Ender. — Io ti sto presentando a una quarta specie senziente. Si suppone che tu sia uno xenologo, no? Lei ti conosce, Miro. I tuoi problemi fisici non contano niente per lei. È una creatura priva di corpo. Lei esiste, in qualche modo, sovrapposta alla rete di comunicazioni filotiche che collegano via ansible i Cento Mondi. È la più intelligente creatura vivente in questa parte dell’universo, e tu sei il secondo essere umano a cui abbia mai deciso di rivelarsi.

— Perché? Com’è potuta nascere? Come mi ha conosciuto? Perché mi ha scelto?

— Domandaglielo tu stesso. — Ender toccò il gioiello che aveva all’orecchio. — Solo, una parola d’avvertimento: se lei porrà la sua fiducia in te, portala sempre con te. Non avere mai segreti con lei. Una volta, un suo amico molto amato la… tagliò fuori. Soltanto per un’ora. Ma le cose non furono più le stesse, dopo. Loro diventarono… soltanto amici. Buoni amici, leali fino alla morte di lui. Ma finché vivrà lui rimpiangerà quell’inconsulto atto di slealtà.

Gli occhi di Ender erano umidi, e Miro seppe che chiunque fosse quella creatura che viveva nei computer non era un fantasma, era parte della vita di quell’uomo. E adesso lasciava in eredità a lui, come un padre a un figlio, il diritto di conoscerla.

Ender se ne andò senza dir altro, e Miro, dopo essersi morso le labbra per qualche momento, si volse dalla parte del terminal. E là, nel campo olografico, c’era la figura tridimensionale di una ragazza. Miro ebbe un sussulto. Snella e delicata, la sconosciuta sedeva su uno sgabello, con le spalle poggiate a un muro olografico. Non poteva dirsi bella, ma certo neppure sgradevole d’aspetto. Il suo volto aveva carattere. Lo stava osservando con occhi un po’ fantomatici, innocenti, tristi. La piega della bocca era a metà fra il sorriso e il pianto. Indossava un abito velato e semitrasparente che tuttavia, invece di risultare provocante, accentuava la sua innocenza come la posa fanciullesca del suo corpo, le mani in grembo e le scarpe con le punte leggermente girate all’interno. Avrebbe potuto star seduta così sull’altalena di un parco-giochi come sul bordo del letto del suo amante.

— Bom dia — mormorò Miro, stupefatto.

— Salve — disse lei. — Gli ho chiesto di presentarci.

Appariva quieta e riservata, ma era Miro a sentirsi intimidito. Per molto tempo Ouanda era stata l’unica donna della sua vita, a parte quelle della famiglia, e non aveva una grande scioltezza nei rapporti sociali con l’altro sesso. Nello stesso tempo era consapevole che stava parlando a un ologramma. Uno del tutto convincente, ma pur sempre una proiezione costruita dai laser del terminale.

Lei alzò una mano e se la poggiò leggermente sul petto. — Non sento niente — disse. — Non ho nervi.

Miro si sentì inumidire gli occhi. Autocommiserazione, naturalmente. Il pensiero che con tutta probabilità non avrebbe mai avuto una donna più concreta di quella. Se avesse cercato di toccarne una, la sua carezza sarebbe stata un goffo annaspare. Qualche volta, quando non stava attento, sbavava come un idiota e non se ne accorgeva neppure. Che amante!

— Ma ho gli occhi — disse lei, — e gli orecchi. Io vedo ogni cosa, in tutti i Cento Mondi. Posso vedere il cielo attraverso mille telescopi. Intercetto un trilione di conversazioni al giorno. — Ebbe una risatina. — Sono la più terribile ficcanaso dell’universo.

Poi d’improvviso si alzò, ingrandì e si fece più vicina restando inquadrata nel campo solo a mezzo busto, come se si fosse accostata a un’immaginaria telecamera. — E tu sei uno studentello di una scuola parrocchiale, che nella sua vita non ha mai visto niente all’infuori del suo paese e dei boschi intorno ad esso.

— Non ho avuto molte possibilità di viaggiare — si difese lui.

— Vedremo che si potrà fare — disse lei. — Allora, in quali archivi vuoi cacciare il naso, oggi?

— Come ti chiami? — domandò lui.

— Non hai bisogno di sapere il mio nome — fu la risposta.

— Come faccio a chiamarti?

— Io sarò qui ogni volta che mi vorrai.

— Ma voglio saperlo.

Lei si toccò un orecchio. — Quando ti piacerò tanto che vorrai portarmi con te dovunque andrai, allora ti dirò il mio nome.

Impulsivamente lui le rivelò quello che non aveva mai detto a nessun altro: — Io devo andarmene da questo posto. Verresti con me anche fuori da Lusitania?

Subito lei si fece civettuola, maliziosa. — Ma ci hanno presentati appena cinque minuti fa! Davvero, senhor Ribeira, io non sono quel tipo di ragazza.

— Forse quando ci conosceremo meglio, allora — disse Miro, ridendo.

Lo sgabello e il muro scomparvero, e d’un tratto la ragazza nel campo olografico fu una figura femminile selvaggiamente felina, distesa in posa sensuale sul ramo di un albero. I suoi occhi scintillarono mentre gli mostrava unghie lunghe cinque centimetri e canini acuminati. — Umano, i miei artigli potrebbero strappare la tua bianca pelle — mugolò. La sua voce era lussuria e seduzione, le sue zanne promettevano la morte. — Se ti trovassi da solo, nel mio bosco, potrei sbranarti con un sol bacio.

Lui rise ancora. E in quel momento si rese conto che le aveva parlato dimenticando quale borbottio fossero per gli altri le sue parole. Eppure lei aveva capito tutto; mai gli aveva chiesto: «Cosa? Non ho capito quel che hai detto», o un’altra delle educatissime frasi irritanti che la gente diceva. Lei lo comprendeva, e senza nessuno sforzo apparente.

La ragazza tornò alla forma precedente. — Dunque, che programma hai per oggi?

— Voglio conoscere tutto — disse Miro. — Voglio capire tutto, e mettere ogni cosa insieme per poterne vedere il significato.

— Eccellente progetto — rispose lei. — Il signore vuole che gli faccia da guida turistica nei grandi panorami del sapere universale? Molto bene. Metta la monetina nella fessura, prego.


Ender aveva scoperto che Olhado era un pilota molto migliore di lui. Il ragazzo aveva la vista più acuta, e quando collegava i suoi occhi direttamente al computer di bordo, l’aereo sembrava scegliere la rotta da solo. Ender poteva così dedicarsi all’osservazione.

Quando avevano cominciato quei voli esplorativi il panorama gli era apparso monotono. Praterie sterminate, grandi branchi di cabras e ogni tanto la macchia scura di una foresta in distanza; a queste non si accostavano troppo, naturalmente, poiché non volevano attirare l’attenzione dei maiali che le abitavano. Inoltre, quello che cercavano era una località adatta alla Regina dell’Alveare, e non avrebbe dovuto essere nelle vicinanze di una tribù indigena.

Quel giorno s’erano diretti a ovest, sull’altro lato della Foresta di Rooter, e seguendo un piccolo fiume sinuoso ne raggiunsero la foce. Fecero una breve sosta sulla spiaggia, dove i cavalloni rotolavano lenti sui bassifondi sabbiosi, e Ender assaggiò l’acqua. Salata. Era un mare,

Olhado andò al terminale di bordo e fece comparire una carta di quella regione di Lusitania, individuando la loro posizione rispetto alla Foresta di Rooter e agli insediamenti di maiali più vicini. Il posto era buono, e nelle profondità della sua mente Ender poté sentire l’approvazione della Regina. A due passi dal mare, acqua potabile, molto sole.

Risalirono in volo il fiume, tenendosi a poche centinaia di metri d’altezza, fin dove la riva destra si sollevava in una bassa collina. — C’è un posto adatto all’atterraggio, qui? — chiese Ender.

Olhado trovò uno spiazzo erboso a una cinquantina di metri dalla sommità dell’altura. A piedi scesero poi lungo la sponda del fiume, dove le canne lasciavano il posto all’erba grama. Ogni corso d’acqua di Lusitania aveva quell’aspetto, ovviamente. Ela non aveva avuto difficoltà a chiarire i rapporti genetici fra le specie, appena Novinha le aveva messo a disposizione il suo archivio dandole il permesso di studiare quella materia. Canne che si co-riproducevano con i succiamosche. Grama che si accoppiava con i serpenti d’acqua. Le sterminate distese di capim, le cui vescichette ricche di polline strisciavano sui fertili ventri dei cabras per ingravidarli di un’altra generazione di animali produttori di concime. Intrecciato alle radici e agli steli del capim c’era il tropeço, il rampicante nei cui lunghi tralci Ela aveva trovato gli stessi geni degli xigadora, i volatili che sfruttavano le fibre della pianta per costruirsi i nidi al suolo. Simili schemi di accoppiamento continuavano anche nelle foreste: i vermi macios, che uscivano dai minuscoli baccelli della nerdona rampicante e a loro volta partorivano i semi di quel vegetale. I pulador, piccoli insetti che si accoppiavano con le luccicanti foglie dei cespugli del sottobosco. E soprattutto i inaiali e gli alberi, alla sommità ideale di quella piramide ecologica, piante ed animali mescolati in un solo e ormai immutabile schema vitale.

L’intero elenco della flora e della fauna che popolava le terre emerse di Lusitania era tutto qui. Nei mari c’era molta altra vita, ancora da studiare, ma la Descolada aveva reso il pianeta decisamente monotono.

Tuttavia la sua stessa monotonia conferiva al panorama una dolce e quieta bellezza. I particolari geografici erano quelli di un comune pianeta di tipo terrestre: fiumi, colline, deserti, montagne, oceani e isole. Il tappeto di capim e le chiazze più scure delle foreste erano il verde sottofondo di una sinfonia eterna fatta di venti e di piogge, e di pochi altri rumori. Gli occhi pian piano si assuefacevano a quel silente susseguirsi di ondulazioni, picchi rocciosi, pianure, e corsi d’acqua che scintillavano attraverso l’immutabile tappeto vegetale. Lusitania, come Trondheim, era uno di quei rari mondi in cui l’orchestra della natura suonava ovunque la stessa melodia, invece del continuo e caotico sovrapporsi di canzoni diverse. A Trondheim, però, questo accadeva perché il pianeta era al limite dell’abitabilità, con un clima a stento sopportabile per la vita animale e vegetale. Il clima e i territori di Lusitania cantavano invece un caldo benvenuto agli aratri, alle semenze, agli armenti. Portatemi alla vita, sembrava dire quel panorama.

Ender non si rendeva conto che amava quei luoghi perché li vedeva appiattiti e distorti come la sua stessa vita, come la sua infanzia, che era stata snaturata da eventi artificiosi paragonabili a quelli sparsi su grande scala dalla Descolada su quel pianeta. E ciò malgrado la natura era riuscita ad aggrapparsi alla terra con abbastanza forza da sopravvivere e prosperare. Dalla sfida della Descolada erano nati gli alberi viventi dei Piccoli; dalla Scuola di Guerra e da quegli anni d’isolamento era uscito Ender Wiggin. Si adattava a quei panorami come se li avesse progettati lui. Il ragazzo che gli camminava al fianco sull’erba grama aveva gli atteggiamenti di un figlio, e gli dava la sensazione d’averlo conosciuto fin dalla nascita. Io so come ci si sente ad avere un muro fra se stessi e il mondo, Olhado. Ma di tanto in tanto ho dovuto aprirvi delle brecce, perché la carne toccasse la terra e l’acqua, desse conforto, ricevesse amore.

La riva terrosa del fiume si apriva in terrazze digradanti, larghe una dozzina di metri, dalla base alla sommità dell’altura. Il suolo era abbastanza compatto da mantenere la sua forma. La Regina dell’Alveare aveva l’istinto della tana, del ricovero, e nella mente di Ender nacque l’impulso di scavare, così si accostò a una parete terrosa e scavò, con Olhado che lo aiutava. La terra morbida venne via facilmente, ma il soffitto della piccola caverna che s’affondava in essa rimase fermo e saldo.

((Sì. Qui.))

E così era deciso.

— Qui va bene — disse Ender ad alta voce.

Olhado sorrise. Ma in realtà era a Jane che lui s’era rivolto, e lei rispose: — Novinha pensa d’avercela fatta. Tutti i test risultano negativi. Con il nuovo Colador nelle cellule clonate degli Scorpioni la Descolada resta inattiva. Ela ha annotato che le margherite su cui sta lavorando possano essere mutate per produrre il Colador spontaneamente. Se funziona, dovrai piantarle in questa zona e gli Scorpioni potranno tenere a bada la Descolada succhiando i fiori.

Il tono di lei era vivace e ciarliero, ma sempre all’insegna di «prima il dovere» ormai. — Bene — le rispose Ender. E sentì una fitta di gelosia. Senza dubbio Jane parlava a Miro con molta più intimità, stuzzicandolo, divertendosi a prenderlo in giro come un tempo aveva fatto con lui.

Ma adesso gli era più facile scacciare il morso della gelosia. Poggiò una mano su una spalla di Olhado e gliela strinse; per un momento attrasse il ragazzo più vicino a sé, poi tornarono indietro assieme verso l’aereo in attesa. Olhado segnò il punto sulla carta e lo registrò. Per tutta la strada del ritorno rise allegramente e fece battute spiritose su tutto ciò che vedevano, risollevando l’umore di Ender. Il ragazzo non era Jane. Però era Olhado, aveva bisogno di lui e lui gli voleva bene, e queste erano le cose umane, ereditate da milioni di anni d’evoluzione, di cui Ender aveva maggior bisogno. Soddisfacevano la sete che lo aveva tormentato in tutti gli anni trascorsi con Valentine, e che lo aveva spinto a vagare di pianeta in pianeta. Questo ragazzo dagli occhi di metallo. Il suo intelligentissimo, distruttivo, devastante fratellino Grego. L’innocenza e il penetrante intuito di Quara. L’ascetismo e i tormenti che dilaniavano eppure illuminavano l’anima di Quim. L’affidabilità di Ela, ferma come una roccia nella tempesta e tuttavia capace di protendersi verso gli altri e agire. E Miro…

Miro. Io non ho consolazione da dare a Miro. Non su questo mondo, non in questi giorni. Gli sono stati strappati il lavoro che per lui era vita, il suo corpo, le sue speranze per il futuro, e niente che io possa dire o fare potrà restituirgli questo. Vive nel dolore, costretto a vedere la donna amata trasformata in una sorella, i maiali ormai protesi verso altri essere umani in cerca di amicizia e di conoscenza.

— Miro avrebbe bisogno… — mormorò Ender fra sé.

— Miro ha bisogno di andarsene da Lusitania — disse Olhado.

— Mmh! — borbottò lui.

— Tu hai un’astronave, no? — disse Olhado. — Ricordo di aver letto una storia, una volta. O forse era un video. Su un antico eroe delle Guerre contro gli Scorpioni, Mazer Rackham. Aveva salvato la Terra dalla distruzione, ma i terrestri sapevano che sarebbe invecchiato e morto prima della battaglia successiva. Così lo mandarono via su un’astronave a velocità relativistica, in modo che il tempo rallentasse per lui. E quando tornò sulla Terra era trascorso un centinaio d’anni, ma lui ne aveva vissuti soltanto due.

— Tu credi che Miro abbia bisogno di qualcosa altrettanto drastico?

— Si avvicina una guerra. Ci saranno decisioni da prendere. Miro è il ragazzo più intelligente di Lusitania, e il migliore. Non è diventato matto, tu lo sai. Neppure nei momenti peggiori con papà… con Marcão, scusa, sono stato abituato a chiamarlo papà.

— Ed è giusto. Per molti versi lo era.

— Miro ci penserà, e deciderà quel che ci converrà fare. Lui ha sempre visto qual era la cosa migliore. Mamma dipendeva da lui. Da come la vedo io, quando la Federazione Starways manderà la flotta contro di noi avremo bisogno di Miro. Lui studierà tutti i dati, tutto ciò che apprenderemo negli anni in cui starà assente, li metterà insieme e ci dirà che cosa fare.

Ender non poté fare a meno di ridere, divertito.

— È un’idea tanto sciocca? — sospirò Olhado.

— Tu hai la vista più acuta di chiunque io abbia mai conosciuto — disse Ender. — Dovrò pensarci sopra. Ma non escludo che tu abbia ragione.

Per un po’ continuarono a volare in silenzio.

— Quando parlavo di Miro — mormorò Olhado, — dicevo tanto per dire. Stavo solo immaginandolo capace di agire come l’eroe di quella vecchia storia. Che probabilmente non è neppure vera.

— È vera — disse Ender.

— Come lo sai?

— Conoscevo bene Mazer Rackham.

Olhado fece un fischio. — Sei vecchio. Più vecchio di qualunque albero del pianeta.

— E più di qualunque colonia umana. Ma sfortunatamente questo non mi rende più saggio.

— Tu sei davvero Ender? Quell’Ender?

— Ecco il perché del mio telecodice — annuì lui.

— È buffo. Prima che tu venissi qui il vescovo cercò di convincerci che eri Satana in persona. Della famiglia, soltanto Quim lo prese sul serio. Ma se il vescovo ci avesse detto che eri Ender, saremmo venuti all’atterraggio della navetta per lapidarti a morte.

— E ora perché avete cambiato idea?

— Ora ti conosciamo. La differenza sta tutta qui, vero? Anche Quim non ti odia più. Quando conosci veramente la gente, non puoi odiarla.

— O forse non puoi realmente conoscerla finché non smetti di odiarla.

— È un paradosso circolare? Dom Cristão dice che molte verità possono essere espresse soltanto con un paradosso circolare.

— Non credo che questo abbia molto a che fare con la verità, Olhado. È una questione di causa e di effetto. Cose che non possiamo mai identificare con precisione. La scienza rifiuta di definire «causa» un evento, salvo la causa originale: la prima pedina del domino, dopo la quale cadono anche tutte le altre. Ma quando si viene agli esseri umani, la sola causa che conta è quella che nasce in vista dell’obiettivo finale, lo scopo. Ciò che una persona ha in mente. Una volta capito quel che la gente vuole, non puoi più odiarla. Puoi averne paura, ma non odiarla, perché puoi trovare gli stessi desideri anche in fondo al tuo cuore.

— A mamma non va a genio che tu sia Ender.

— Lo so.

— Ma ti vuol bene lo stesso.

— So anche questo.

— E Quim… questa è buffa davvero, ma ora che sa che sei Ender gli piaci di più proprio per questo.

— E perché lui è un crociato, e io mi sono fatto la mia cattiva fama vincendo una crociata.

Olhado ebbe un sorrisetto. — Hai ucciso più esseri viventi che chiunque altro nella storia.

— Mia madre mi diceva sempre: sii il migliore, qualunque cosa fai.

— Ma quando hai fatto l’elegia per papà mi hai fatto sentire triste per lui. Tu riesci a far sì che le persone si amino l’un l’altra e si perdonino. Come hai potuto annientare quei miliardi di esseri viventi nello Xenocidio?

— Ero convinto di giocare un videogame. Non sapevo che quella era la realtà. Ma questa non è una buona scusa, Olhado. Se avessi saputo che stavo combattendo battaglie vere, avrei fatto la stessa cosa. Credevamo che loro volessero sterminarci. Eravamo in errore, però non avevamo modo di scoprirlo. — Ender scosse il capo. — Solo che io ne sapevo di più. Io conoscevo il nemico. Ed è così che le ho sconfitte, le Regine degli Alveari di tutti quei pianeti. Le conoscevo così bene da amarle, o forse le amavo tanto da conoscerle. E non volevo più combatterle, neppure per gioco. Ne avevo abbastanza. Volevo soltanto tornarmene a casa. Così misi fine a quello che credevo un gioco, e nell’ultima battaglia polverizzai il loro pianeta natale.

— E oggi abbiamo trovato un posto dove riportare alla vita l’ultima Regina. — Olhado s’era fatto serio. — Sei sicuro che non cercherà di vendicarsi? Come puoi dire che non tenterà di spazzar via l’umanità, a cominciare da te?

— Ne sono sicuro — disse Ender, — come posso esserlo di qualunque altra cosa.

— Non assolutamente sicuro — constatò Olhado.

— Sicuro abbastanza da ridarle il diritto alla vita — disse Ender. — Ma non possiamo pretendere l’assoluta certezza. Quando crediamo a fondo in una cosa, agiamo come se fosse vera. E questo tipo di sicurezza noi la chiamiamo conoscenza. Fatti. Scommettiamo la vita su di essi.

— Credo che tu stia facendo proprio questo. Scommetti la tua vita su di lei, su quel che pensi lei sia.

— Io sono molto più presuntuoso. Ci sto scommettendo anche la tua vita, e quella di tutti gli altri, e non ho neppure chiesto la loro opinione.

— È comico — disse Olhado. — Se domandassi a chiunque se si fiderebbe di Ender, per una decisione che coinvolge il destino della razza umana, mi risponderebbe di no senza esitare. Ma se chiedessi se si fiderebbe dell’Araldo dei Defunti, per la la maggior parte direbbero di sì. E nessuno immaginerebbe che stiamo parlando della stessa persona.

— Già — mormorò Ender. — È comico.

Nessuno dei due rise. Poi, dopo un lungo silenzio, Olhado ritrovò la voce. I suoi pensieri erano tornati all’argomento che gli stava più a cuore. — Non voglio che Miro se ne vada via per trent’anni.

— Diciamo venti.

— Fra vent’anni io ne avrò trentadue. Ma lui tornerà con l’età che ha adesso. Vent’anni. Dodici anni più giovane di me. Se mai ci fosse una ragazza disposta a sposare uno con gli occhi di metallo, potrebbe trovarmi sposato e con dei figli. Non mi riconoscerebbe neppure. Io voglio essere sempre il suo fratellino più piccolo. — Olhado deglutì. — Sarebbe come se lui morisse.

— No — disse Ender. — Sarebbe come se lui passasse dalla sua seconda vita alla terza.

— Anche questo è come morire — mormorò Olhado.

— È anche come rinascere — disse Ender. — E se uno sa che dovrà rinascere, può sopportare di morire.


Valentine chiamò il giorno dopo. Le mani di Ender tremavano nel battere le istruzioni sul terminale. Non si trattava di un semplice messaggio scritto, inoltre. Era una chiamata a voce, via ansible e in diretta, con precedenza assoluta sulla rete. Incredibilmente costosa, ma questo non era un problema. A emozionare Ender era il fatto che se Jane — con le comunicazioni ansible con i Cento Mondi interrotte — faceva passare quella chiamata, significava che era una cosa urgente. E solo allora Ender aveva riflettuto che Valentine poteva trovarsi in pericolo. La Federazione Starways doveva aver già capito che lui era coinvolto nella ribellione, e per loro sarebbe stato automatico piombare su sua sorella.

Era invecchiata di ventidue anni. Inquadrato nel campo olografico, il suo volto mostrava le sottilissime rughe lasciate dal sole e dal vento sulle isole, sui fiordi e sulle barche di Trondheim. Ma il suo sorriso era immutato, e negli occhi aveva la stessa luce. Ender rimase muto per alcuni secondi, guardando i mutamenti che il tempo aveva portato a sua sorella; e ammutolita fu anche lei, perché Ender non era cambiato affatto, una visione che risaliva a galla dal suo passato.

— Ah, Ender — sospirò. — Sono mai stata tanto giovane?

— E io sarò mai capace d’invecchiare con tanta bellezza?

Lei rise. Poi si poggiò una mano sugli occhi e pianse. Ender no; come avrebbe potuto? Sua sorella gli mancava soltanto da due mesi. A Valentine lui mancava da ventidue anni.

— Suppongo che tu abbia saputo dei nostri guai con la Federazione — disse lui.

— Immaginavo che tu ci fossi dentro.

— Fino al collo, a dir la verità — annuì Ender. — Ma sono contento d’esser qui. Ho deciso di restare per sempre.

Lei sorrise e si asciugò gli occhi. — Sì. L’aveva immaginato. Ma dovevo chiamarti per esserne certa. Non voglio buttar via vent’anni nello spazio, per poi arrivare lì e scoprire che te ne sei già andato.

— Tu verrai qui? — si stupì lui.

— Pare che io abbia trovato molto eccitante la vostra rivoluzione laggiù, Ender. Dopo vent’anni passati ad allevare una famiglia, a insegnare ai miei studenti, ad amare un marito e a vivere in pace con me stessa, credevo che non avrei più resuscitato Demostene. Ma poi è arrivata la notizia dei contatti illegali con i maiali, e subito dopo quella che Lusitania era in rivolta, e all’improvviso la gente si è messa a dire le cose più ridicole, e mi sono accorta che era l’inizio dello stesso antico odio. Ricordi i video sugli Scorpioni? Quanto apparivano terribili e spaventosi? D’un tratto qui ci siamo trovati con il video dei corpi che avevano trovato, quegli xenologi, non ricordo i nomi, e foto e conferenze impressionanti, trasmesse per far rinascere la febbre della guerra. E poi storie sulla Descolada, e sul fatto che chiunque lasci Lusitania per andare su un altro pianeta lo distruggerà… la peggior pestilenza mai immaginata negli incubi…

— Ed è la verità — disse Ender. — Ma ci stiamo lavorando sopra. Cerchiamo di scoprire un metodo per impedire alla Descolada di espandersi, se uno di noi andasse su un altro pianeta.

— Vero o no, Ender, tutto sta spingendo verso la guerra. Io ricordo cosa fu la guerra interstellare. Così ho resuscitato Demostene. Sono riuscita, neppure io so bene come, a mettere il naso in rapporti e documenti riservati, Ender. E ho scoperto che la flotta è armata con il Little Doc. Se decidessero di farlo, potrebbero polverizzare Lusitania. Proprio come…

— Proprio come io ho fatto altrove. Giustizia poetica finire nello stesso modo, non ti pare? Chi di spada ferisce…

— Non scherzare così con me, Ender! Adesso sono una rigida matrona di mezz’età, e non ho più pazienza per le frivolezze. Non in questo momento, almeno. Ho scritto alcune sporche verità su quello che la Federazione sta facendo, e ho pubblicato gli articoli firmandoli Demostene. Il loro servizio segreto mi sta addosso. Tradimento, è la parola che usano.

— E così ti trasferisci qui?

— Non soltanto io. Jakt ha intestato la flotta da pesca ai fratelli e alle sorelle. Ci scontriamo già con molti ostacoli, ma siamo riusciti a comprare un’astronave. Evidentemente qui c’è un movimento di resistenza che ci sta aiutando… un agente di nome Jane, che opera sui computer per mascherare le nostre attività.

— Conosco Jane — disse Ender.

— Allora avete un’organizzazione, lì! Bene. Quando il vostro agente mi ha fatto sapere che avrei potuto chiamarti sono rimasta sbalordita. Ufficialmente risultate tagliati fuori dalla rete ansible.

— Abbiamo amici potenti.

— Ender, Jakt e io partiamo oggi stesso. Con i nostri tre figli.

— La prima, la femmina…

— Sì, Syfte, quella di cui era in attesa quando sei partito. Adesso ha ventidue anni. Una gran bella ragazza. E con noi viene anche una cara amica, la sua madrina, Plikt.

— Avevo una studentessa di nome Plikt — si stupì Ender, e ripensò alla conversazione avuta con lei due mesi addietro.

— Oh, sì. Be’, questo è stato vent’anni fa, Ender. E portiamo anche parecchi dei migliori uomini di Jakt, con le loro famiglie. Una specie di arca. Non ti metteremo nei guai… hai ventidue anni per prepararti a riceverci. O meglio, un po’ di più, forse una trentina. Dovremo fare una tappa o due altrove, partire in un’altra direzione, perché nessuno scopra che siamo diretti su Lusitania.

Valentine viene qui. Fra trent’anni. Sarò più vecchio di quanto lo è lei adesso. Verrà qui. Per allora avrò già una famiglia, da un pezzo. Novinha e i nostri figli, se ce ne saranno, adulti come quelli di lei.

E da Novinha i suoi pensieri scivolarono su Miro, e ricordò ciò che Olhado gli aveva suggerito il giorno prima mentre tornavano dal luogo scelto per la Regina dell’Alveare.

— Avreste qualcosa in contrario — domandò, — se mandassi qualcuno a incontrarvi a metà strada?

— Incontrarci? In pieno spazio? No, non mandare nessuno, Ender, ti prego… sarebbe un sacrifico troppo grande per lui, con l’effetto relativistico, quando il computer di bordo potrà condurci con tutta facilità a…

— Non è solo per voi, a dire il vero, anche se ci tengo che sfrutti quest’occasione. È uno dei nostri xenologi. È rimasto gravemente minorato a causa di un incidente. Un danno cerebrale, come una mezza paralisi. Lui è… lui è la personza più intelligente di Lusitania, a dar retta a uno del cui giudizio posso fidarmi, ma ha perduto ogni contatto con la nostra vita, qui. Tuttavia avremo bisogno di lui, in futuro. Al vostro arrivo. È un gran bravo ragazzo, Val. E potrà rendere molto educativa la vostra ultima settimana di viaggio.

— Il vostro agente può darci una programmazione di rotta per il rendez-vous? Noi siamo navigatori, ma soltanto sul mare.

— Quando partirete, Jane introdurrà tutte le informazioni necessarie nel vostro computer di bordo.

— Ender… per te saranno trent’anni, ma per me… io ti rivedrò fra poche settimane. — Val ricominciò a piangere.

— Che ne diresti se venissi a incontrarti con Miro?

— Oh, non provarci! — esclamò lei. — Quando arriverò voglio trovarti vecchio e acciaccato come me. Non mi reggerebbe il cuore ad abbracciare il trentenne che vedo sul mio terminale.

— Trentacinquenne.

— Sarai lì, al mio arrivo? — domandò lei.

— Ci sarò — disse Ender. — In quanto a Miro, il giovane che vi mando incontro, consideralo come fosse mio figlio.

Lei annuì gravemente. — Questi sono tempi più pericolosi di quel che credevamo, Ender. Vorrei che avessimo con noi Peter.

— Io no. Se fosse lui a capeggiare la nostra piccola ribellione, finirebbe per diventare Egemone dei Cento Mondi. Noi non vogliamo altro che ci lascino in pace.

— Forse non sarà possibile ottenere l’una cosa senza l’altra — disse Val. — Ma su questo potremo litigare in seguito. Arrivederci, mio amato fratello.

Lui non rispose. Si limitò a guardarla, e continuò a tenere gli occhi in quelli di lei finché Val, con un sorriso un po’ stanco, interruppe la comunicazione.


Ender non ebbe bisogno di chiedere a Miro di partire; a informarlo ci aveva già pensato Jane.

— Tua sorella è Demostene, dunque? — gli chiese il giovane, appena lui fu entrato in casa. Ender stava imparando a decifrare la sua parlata, o forse la voce gli si era un po’ schiarita. Guardandogli le labbra, comunque, era molto facile capirlo senza equivoci.

— Siamo una famiglia piena di talento — scherzò Ender. — Spero che ti piacerà.

— Io spero di piacere a lei. — Miro sorrise, ma sembrava spaventato.

— Le ho raccomandato — disse Ender, — di considerarti come se fossi mio figlio.

Miro annuì. — Lo so — rispose. E poi, quasi in tono di sfida: — Lei mi ha mostrato la vostra conversazione via ansible.

Ender provò una sensazione di freddo.

Nel suo orecchio Jane disse subito: — Avrei dovuto chiederti il permesso. Ma sai anche tu che avresti detto di sì.

A disturbare Ender non era quell’intrusione nella sua intimità. Era il vedere Jane già così legata a Miro. Meglio che ti abitui, disse a se stesso. È lui quello che occupa la sua attenzione, adesso.

— Sentiremo la tua mancanza — disse.

— Chi sente la mia mancanza ora, la sentirà sempre — replicò Miro, — perché pensano a me come se fossi già morto.

— Abbiamo bisogno di te vivo — disse Ender.

— Quando sarò di ritorno avrò sempre diciannove anni. E sempre lo stesso danno cerebrale.

— Sarai ancora lo stesso Miro, brillante, degno di fiducia e amato. Il calcio d’avvio della nostra ribellione lo hai dato tu. Il recinto è stato spento per te. Non per chissà quale grande causa, ma per te. E ora ci aspettiamo che tu non ci abbandoni.

Miro sorrise. Ma Ender non avrebbe saputo dire se la smorfia che gli storse la bocca fosse dovuta alla paralisi o a un impeto di sarcastica amarezza.

— C’è una cosa di cui devi parlarmi — disse Miro.

— Se anche io non volessi — commentò Ender, — lo farebbe lei.

— Non è una gran cosa. Voglio soltanto sapere per cosa sono morti Pipo e Libo. Per quale motivo i maiali gli fecero onore.

Ender sapeva cosa c’era sotto quella richiesta. Capiva ancora meglio di Miro l’impulso recondito che lo spingeva a farla. Il giovane aveva saputo d’essere figlio di Libo solo poche ore prima d’aver perduto il suo futuro tentando di scavalcare il recinto. Pipo, e poi Libo, e poi Miro; padre, figlio e nipote; i tre xenologi che s’erano giocati la vita per amore dei maiali. Miro sperava che nel capire il significato della loro morte sarebbe riuscito a dare un senso anche al suo gesto, al suo destino.

Il guaio era che la verità avrebbe potuto anche persuadere Miro che nessuno dei tre sacrifici aveva avuto un gran significato. Così Ender rispose con un’altra domanda: — Tu non conosci già il perché?

Miro parlò lentamente e con cura, in modo da biascicare e farfugliare il meno possibile. — Io so che i maiali pensavano di far loro un grande onore. So che al loro posto avrebbero potuto morire Mandachuva e Mangia-Foglie. Per Libo so anche cosa fu a determinare tutto. Accadde dopo il primo raccolto di amaranto, quando ebbero cibo in abbondanza e vollero ricompensarlo per questo. Ma perché non prima? Perché non quando insegnò loro a cibarsi delle radici di nerdona? O quando impararono da lui a fare i vasi, e a costruire gli archi?

— Vuoi la verità? — chiese Ender.

Dal tono di lui Miro capì che la verità non sarebbe stata piacevole. — Sì — disse.

— Né Pipo né Libo meritarono, in realtà, quell’onore. Non fu il raccolto d’amaranto a far decidere le mogli in quel senso. Fu invece il fatto che Mangia-Foglie le aveva persuase a lasciar nascere un’intera generazione di maiali, sebbene non ci fosse abbastanza cibo per loro una volta che avrebbero lasciato l’albero-madre. Era un rischio terribile quello che si assumevano, perché se Mangia-Foglie fosse stato in errore tutti i piccoli maiali sarebbero morti. Libo procurò il raccolto. Ma fu Mangia-Foglie quello che portò, in un certo senso, la popolazione al punto di rottura determinando la necessità di cibo.

Miro annuì. — E Pipo?

— Pipo rivelò ai maiali la sua scoperta: che la Descolada, da cui gli umani erano stati uccisi, era parte della loro normale fisiologia. Disse che i loro corpi potevano controllare una cosa che invece sterminava noi. Mandachuva disse alle mogli che ciò significava che gli umani non erano semidei onnipotenti, che in certe cose eravamo più deboli dei maiali, che a rendere gli umani superiori a loro non erano doti intrinseche (come le nostre dimensioni, o il cervello, o il linguaggio) ma soltanto il fatto casuale che la nostra evoluzione tecnica era cominciata prima della loro. Disse che quando i maiali avessero acquisito la nostra scienza noi non avremmo avuto più nessun potere su di loro. La grande scoperta di Mandachuva fu dunque che i maiali erano potenzialmente uguali agli umani. Ecco ciò che le mogli premiarono. Non l’informazione di Pipo che fu il prologo a questa scoperta.

— Così, tutti e due…

— I maiali non volevano uccidere né Pipo né Libo. In entrambi i casi era un maiale ad aver meritato l’onore di passare alla terza vita. La sola ragione per cui Pipo e Libo morirono fu che non se la sentirono di prendere un coltello e uccidere un amico.

Miro doveva aver scorto la sofferenza sul volto di Ender malgrado il suo sforzo per nasconderla, perché fu alla sofferenza di lui che rispose. — Tu… — disse, — tu puoi uccidere chi vuoi, invece.

— È un dono con cui sono nato — disse sottovoce Ender.

— Hai ucciso Human perché sapevi che questo gli avrebbe dato una vita nuova e migliore?

— Sì.

— E io?

— Tu? — Ender lo fissò. — Si. Mandarti via da qui sarà quasi come averti ucciso.

— Anch’io per una vita nuova e migliore?

— Non lo so. Già ora riesci ad andare al cesso più velocemente di qualsiasi albero.

Miro rise. — Così ho pur sempre un vantaggio sul povero Human, vero? Io sono un vecchio tronco ambulante. E nessuno è costretto a prendermi a bastonate per farmi parlare. — Poi la sua espressione tornò triste. — Con la differenza che lui può avere diecimila figli.

— Non sperare di rimanere scapolo tutta la vita — disse Ender. — Potresti non avere questa fortuna.

— Spero d’essere sfortunato, allora — disse Miro. Poi, dopo una pausa di silenzio: — Araldo?

— Chiamami Ender.

— Ender, Pipo e Libo sono morti per niente, dunque?

Ender capì che la vera domanda era: anch’io sto sopportando questo per niente? — Loro non furono capaci di uccidere — rispose. — Ci sono ragioni peggiori per morire.

— E che mi dici di qualcuno — insisté Miro, — che non riesca ad uccidere, che non riesca a morire, e che non riesca neppure a vivere?

— Non ingannare te stesso — disse Ender. — Un giorno o l’altro farai tutte e tre le cose.

Miro partì il mattino dopo. Al decollo della navetta ci furono lacrime e abbracci. Per settimane, in seguito, Novinha non poté passare davanti alla camera del figlio senza provare una stretta al cuore. Anche se era stata pienamente d’accordo con Ender su ciò che era meglio per Miro, la sua assenza la faceva soffrire. E questo indusse Ender a chiedersi se i suoi genitori avessero patito tanto dolore quando lui era stato portato via di casa, alla Scuola di Guerra. Sospettava di no. Loro non avevano mai sperato nel suo ritorno. Ora amava già i figli di un altro uomo più di quanto i suoi genitori avessero amato lui. Che fosse una sorta di vendetta per il loro disinteresse nei suoi confronti? Comunque avrebbe mostrato loro, con tremila anni di ritardo, come doveva comportarsi un padre. Monsignor Peregrino li unì in matrimonio nella cattedrale, con una cerimonia molto intima. Novinha dichiarò che, secondo i suoi calcoli, era ancora abbastanza giovane da poter avere altri sei figli. Se facevano in fretta. E quello era un compito in cui nessuno dei due difettava di buona volontà.


Prima del matrimonio, tuttavia, vi furono due episodi degni di nota. In un giorno d’estate, Ela, Ouanda e Novinha presentarono a Ender i risultati delle loro ricerche e speculazioni, dettagliati il più possibile, sul ciclo vitale e sulla struttura sociale dei maiali, maschi e femmine, e la ricostruzione dei loro probabili schemi di vita prima che la Descolada li legasse per sempre agii alberi che, fin’allora, erano stati soltanto il loro habitat. Ender poté capire meglio chi fossero i maiali, e specialmente chi fosse stato Human prima del suo passaggio alla vita di luce.

Visse con la tribù per una settimana, mentre scriveva la Vita di Human. Mandachuva e Mangia-Foglie lessero il manoscritto, lo discussero, e lui lo corresse e ne fece una seconda stesura. Quando finalmente fu pronto, invitò tutti quelli che lavoravano con i maiali: la famiglia Ribeira, Ouanda e le sue sorelle, i numerosi operai che avevano portato i prodigi della tecnica nella foresta, i monaci-insegnanti dei Figli della Mente, monsignor Peregrino e il sindaco Bosquinha, e lesse loro il libro. Non era lungo, e un’ora fu sufficiente. S’erano riuniti sul pendio della collina, dove l’albero di Human era già un solido arbusto alto tre metri e quello di Rooter li rinfrescava con la sua ombra nella calura pomeridiana.

— Araldo — commentò il vescovo, — lei mi ha quasi persuaso a diventare un uomo di lettere.

Altri, meno propensi all’eloquenza, non trovarono molto da dire, né allora né in seguito. Ma da quel giorno in poi seppero chi erano i maiali, proprio come i lettori della Regina dell’Alveare avevano imparato a capire gli Scorpioni, e come i lettori dell’Egemone avevano compreso cosa fosse l’uomo nella sua interminabile ricerca della grandezza, alle prese con il proprio isolamento e la rivalità degli altri.

— È per questo che ti ho chiamato qui — gli disse Novinha. — Un tempo sognavo di scrivere questo libro. Ma farlo era compito tuo.

— È una storia a cui ho partecipato più a fondo di quanto avrei voluto — disse Ender. — Ma anche tu hai realizzato il tuo sogno, Ivanova: è il lavoro fatto da te che ha portato a questo libro. E siete stati tu e i tuoi figli a fare di me un uomo più completo e capace di scriverlo.

Lo firmò, come aveva firmato gli altri: l’Araldo dei Defunti.

Jane registrò il libro e lo distribuì via ansible attraverso gli anni-luce per i Cento Mondi. Ad esso accluse il testo del Trattato, e le riprese fatte da Olhado alla cerimonia del passaggio di Human alla piena luce. Lo trasmise a una gran quantità di banche dei dati e di archivi privati, e fece in modo che la gente ne conoscesse l’esistenza e lo leggesse. Copie di esso furono spedite ovunque sotto forma di corrispondenza da computer a computer, e quando il Consiglio della Federazione ne fu informato era già troppo tardi per poterlo ritirare dalla circolazione.

Tentarono comunque di farlo passare per un manoscritto apocrifo e di screditarlo: le immagini altro non erano che un filmato crudamente realistico, le analisi del testo rivelavano che non poteva essere opera dello stesso autore degli altri due libri, le registrazioni ansible confermavano che non poteva esser stato trasmesso da Lusitania, pianeta notoriamente tagliato fuori dalla rete ansible. Alcuni credettero alle dichiarazioni del Consiglio. Alla maggior parte della gente la cosa non importava. Molti, a cui la Vita di Human era parsa assai interessante, non ebbero però l’animo di accettare i maiali come ramans.

Altri invece li accettarono, e lessero di nuovo in pubblico le accuse che Demostene aveva scritto qualche mese addietro, e cominciarono a chiamare «Il Secondo Xenocidio» la flotta già partita alla volta di Lusitania. Era un nome irritante quanto incisivo. E nei Cento Mondi non c’erano abbastanza prigioni da contenere tutti quelli che osavano sussurrarlo, scriverlo, gridarlo. La Federazione Starways aveva creduto che la guerra sarebbe cominciata quando le loro astronavi avrebbero raggiunto Lusitania. Invece la guerra aveva già preso inizio, e si prospettava dura. Ciò che l’Araldo dei Defunti aveva scritto era creduto vero da molta gente, ed essi erano pronti ad accettare i maiali come ramans, e a chiamare assassino chiunque volesse puntare le armi contro di loro.

E poi ci fu il giorno, un caldo mattino di autunno, in cui Ender prese il bozzolo accuratamente avvolto in un morbido panno, e con Novinha, Olhado, Quim ed Ela sorvolò chilometri e chilometri di pianure verdi di capim, finché il loro velivolo atterrò sulla collina che si specchiava nel fiume. Le margherite piantate qualche settimana prima imbiancavano l’erba come una nevicata di petali; l’inverno sarebbe stato mite, e la Regina dell’Alveare non avrebbe avuto nulla da temere dalla Descolada.

Ender portò il bozzolo con cautela lungo la riva del corso d’acqua, e lo depose nella camera che lui e Olhado avevano preparato e ripulito. All’esterno di essa, al suolo, lasciarono la carcassa di un cabras appena macellato.

Poi Olhado li riportò indietro in volo. Ender pianse, sommerso dall’incontrollabile estasi che la Regina, vibrante di una gioia superiore alle umane capacità di sopportazione, trasmetteva come una musica silenziosa alla sua mente. Novinha lo strinse a sé, Quim pregò sottovoce, e infine Ela li rallegrò cantando una gaia canzone che aveva registrato fra le colline di Minas Geràis, fra i capiras e i mineiros ancora legati alle tradizioni brasiliane. Era una bella giornata, un buon posto per vivere, migliore di quanto Ender avesse mai sognato per sé negli asettici corridoi della Scuola di Guerra, quand’era un ragazzino solitario e triste che si batteva per il suo diritto di esistere.

— Adesso potrei anche morire — mormorò. — Tutto il lavoro della mia vita è stato fatto.

— Anche il mio — disse Novinha. — Ma questo, credo, significa che è giunto il momento di cominciare a vivere.

Dietro di loro, nell’umida e tiepida aria di una piccola caverna in riva a un fiume, forti mandibole recisero la seta del bozzolo, ed un corpo snello e scheletrico se ne trasse fuori con una serie di deboli sforzi. Le sue ali si distesero per gradi, e all’esterno cominciarono ad asciugarsi nel calore del sole. La creatura vacillò stancamente fin sulla riva, si chinò a sfiorare l’acqua e bevve, lasciando che pian piano la forza affluisse nel suo corpo delicato. Poi si nutrì con un poco di carne di cabras. Le uova già fertili che portava in sé gridavano la loro volontà di schiudersi. Lei ne depose una prima dozzina nelle viscere del cabras; poi mangiò le margherite più vicine, cercando di sentire i mutamenti che avvenivano nel suo corpo mentre finalmente assaporava la vita.

Il sole che scintillava su di lei, la brezza che le allargava le ali traslucide, l’acqua fresca sotto i suoi piedi, le sue uova che si scaldavano e maturavano nella carne del cabras: era la vita, da tanto tempo attesa. E soltanto allora lei sentì d’essere, lì in quel luogo verde e silente, non l’ultima del suo popolo, ma la prima.


FINE
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