CAPITOLO TREDICESIMO ELA

MIRO: — I maiali si autodefiniscono maschi, ma su questo abbiamo solo la loro parola.

OUANDA: — Perché dovrebbero mentirci?

MIRO: — Che sei giovane e ingenua lo sapevo. Ma basta guardarli per capire che non hanno l’equipaggiamento necessario.

OUANDA: — Conosco anch’io la favola delle api e dei fiori. Ma chi ti dice che loro lo facciano nel nostro stesso modo?

MIRO: — Nel nostro modo non lo auguro a nessuno. Comunque loro non ne parlano. Forse sono riuscito a capire quali sono i loro organi genitali: quel gonfiore che hanno sull’addome, dove la peluria è più fine e rada.

OUANDA: — Vestigia di capezzoli. Anche tu li hai.

MIRO: — Ieri ho visto Mangia-Foglie e Orcio. Erano a una dozzina di metri da me, e non ho potuto vedere bene, ma Orcio stava strofinando l’addome di Mangia-Foglie, e credo che quella protuberanza si fosse inturgidita.

OUANDA: — Non puoi affermare che c’è un’equivalenza fra una reazione umana e una reazione dei maiali.

MIRO: — Una cosa è certa: l’addome di Mangia-Foglie era bagnato. Luccicava al sole. E lui aveva l’aria di godersela.

OUANDA: — Allora sono pervertiti.

MIRO: — Perché non dovrebbero? Sono scapoli, no? E sono adulti, ma le loro cosiddette mogli non hanno introdotto nessuno di loro alle gioie della paternità.

OUANDA: — A me sembra che uno zenador troppo esuberante e affamato di sesso stia proiettando le proprie frustrazioni sui suoi soggetti di studio.

Marcos Vladimir «Miro». Ribeira von Hesse e Ouanda Quenhatta Figueira Mucumbi. Note di lavoro. 1.4.1970


Nella radura tutto era silenzio. Miro capì subito che c’era qualcosa che non andava. I maiali non stavano facendo niente. Si limitavano a starsene seduti qua e là. E immobili, quasi senza respirare. Tenevano lo sguardo abbassato al suolo.

A eccezione di Human, che usciva in quel momento dalla boscaglia alle loro spalle. Lentamente e con andatura rigida il maiale girò loro attorno. Miro sentì che Ouanda gli si stringeva al fianco, ma non la guardò. Sapeva che la ragazza stava pensando la stessa cosa che pensava lui. È questo il loro modo di agire quando si preparano ad uccidere, com’è successo con Pipo e con Libo?

Human li guardò fissamente per alcuni minuti, finché quell’attesa e quella tensione divennero snervanti. Ma Miro e Ouanda mantennero l’autocontrollo; non aprirono bocca, non permisero neppure ai loro volti di perdere l’espressione rilassata e indifferente che da anni era la loro abituale maschera da lavoro. L’arte di non comunicare era la prima che avevano dovuto apprendere, prima che Libo gli permettesse di accompagnarlo lì. Finché la faccia non rivelava nulla dei loro scopi, finché il respiro non tradiva emozione davanti a certe cose, i maiali ne sarebbero rimasti all’oscuro. Come se questo servisse a qualcosa… Human era troppo perspicace nel tradurre le risposte evasive e le frasi vuote in constatazioni, deduzioni chiare, dichiarazioni di fatto. Anche la loro assoluta immobilità senza dubbio gli parlava ora di paura e di sconcerto, ma da questo non c’era via di fuga. Ogni cosa comunicava qualcosa.

— Voi ci avete mentito — disse Human.

Non rispondergli, disse Miro in silenzio, e Ouanda tacque come se lo avesse udito. Probabilmente anche lei stava cercando d’inviargli lo stesso messaggio.

— Rooter dice che l’Araldo dei Defunti vuole venire da noi.

Di nuovo quel loro modo psicotico di comportarsi. Ogni volta che avevano qualcosa di offensivo su cui recriminare, attribuivano la lamentela a qualche maiale morto come per farla cadere ancor più dall’alto. Senza dubbio in ciò era coinvolto un rituale religioso: andare davanti all’albero-totem, fargli la domanda del giorno, e poi sedersi lì a contemplare le foglie o la corteccia o qualcos’altro finché non prendeva forma proprio la risposta che si era pensato di ottenere.

— Non vi abbiamo mai detto il contrario — disse Miro. Sentì il respiro di Ouanda farsi leggermente più rapido.

— Avete detto che lui non voleva venire.

— Questo è vero — annuì Miro. — Non intendeva farlo. Deve ubbidire alla legge come chiunque altro. Se cercasse di oltrepassare il recinto senza permesso…

— Questa è una menzogna.

Miro tacque.

— È la legge — disse con calma Ouanda.

— La legge è già stata infranta altre volte — replicò Human. — Voi potreste portarlo qui, ma non lo fate. Tutto dipende dalla sua venuta qui. Rooter dice che la Regina dell’Alveare non potrà darci i suoi doni finché lui non verrà.

Miro represse un mugolio d’impazienza. La Regina dell’Alveare! Non aveva già detto una dozzina di volte ai maiali che gli Scorpioni erano stati completamente sterminati? E adesso questa regina morta stava parlando loro, come il morto Rooter. Trattare con i maiali sarebbe stato molto più agevole, se avessero smesso di prendere ordini dai morti.

— È la legge — ripeté Ouanda. — Se anche osassimo chiedergli di venire, lui potrebbe fare rapporto alle autorità e noi verremmo mandati via, senza poter più tornare da voi.

— Lui non vi farà rapporto. Vuole venire.

— Come lo sai?

— Lo ha detto Rooter.

C’erano momenti in cui a Miro veniva una voglia matta di abbattere l’albero-totem cresciuto sul luogo dell’eccidio di quel maiale. Magari questo li avrebbe fatti smettere con l’abitudine di citare Rooter. Ma probabilmente si sarebbero limitati a dare il nome di Rooter a un altro albero, e la cosa li avrebbe offesi. Non lasciargli mai capire che si dubita della loro religione: era una regola da libro di testo. Qualunque xenologo, perfino gli antropologi, la rispettavano.

— Domandateglielo — disse Human.

— A Rooter? — chiese Ouanda.

— Lui non parlerebbe a voi - precisò Human. Con disprezzo? — Domandate all’Araldo se vuol venire o no.

Miro attese che a rispondere fosse Ouanda. Lei sapeva già quel che lui avrebbe detto. Non ne avevano discusso una dozzina di volte negli ultimi due giorni? È un brav’uomo, diceva Miro. È un imbonitore di professione, diceva Ouanda. È stato abile con Grego e Quara, diceva Miro. Lo sono anche i molestatori di bambini, diceva Ouanda. Possiamo fidarcene, diceva Miro. Lui ci tradirà, diceva Ouanda. E lì era dove la discussione arrivava a un punto morto.

Ma i maiali stavano cambiando i termini dell’equazione. I maiali aggiungevano la loro spinta a quella di Miro. Quando chiedevano l’impossibile, di solito Miro aiutava Ouanda a farli desistere; ma questa non era una pretesa impossibile e lui non voleva deluderli, così non disse niente. Continua a far pressione, Human, perché stavolta tu hai ragione e Ouanda dovrà cedere.

Sentendosi in minoranza e conscia che Miro non l’avrebbe spalleggiata, lei avanzò una concessione: — Forse. A patto che lui non entri per più di un passo nella boscaglia.

— Portatelo qui — insisté Human.

— Non è possibile — disse lei. — Ma guardatevi! Indossate vesti. Mangiate pane. Fabbricate vasi.

Human sorrise. — Sì — disse. — Tutte queste cose. Portatelo qui.

— No — replicò Ouanda.

Miro s’irrigidì, trattenendosi a stento dal voltarsi a toccarla. Era un’altra delle cose che mai avevano fatto: un secco rifiuto a una richiesta. Fin’allora avevano adottato il «Non è possibile, perché…» oppure «Vorrei poterlo fare, ma…» evitando come la peste il rifiuto personale, il «No. Io non voglio».

Il sorriso di Human si spense. — Pipo ci ha detto che le vostre donne non decidono. Ci ha detto che uomini e donne decidono insieme. Perciò tu non puoi dire no, se non dice no anche lui. — Si volse a Miro. — Tu dici di no?

Miro non rispose. Sentì un gomito di Ouanda toccare il suo.

— Tu non dici niente - osservò Human. — Non dici né sì né no.

Di nuovo Miro non diede risposta.

Alcuni maiali nelle vicinanze si alzarono. Il giovane non seppe immaginare quali fossero le loro intenzioni, ma dopo il suo silenzio così provocante quel movimento gli parve pericoloso. Ouanda, che avrebbe saputo tener testa all’ostilità diretta a lei, nel veder minacciato Miro cedette. — Lui dice di sì — mormorò.

— Lui dice sì, ma per te sta zitto. Tu dici no, ma non stai zitta per lui - Con un dito Human si tirò fuori di bocca un groppo di muco denso e lo sbatté al suolo. — Tu non sei niente.

D’improvviso Human fece una capriola all’indietro, atterrando a piè pari, volse loro le spalle e si allontanò svelto. Immediatamente gli altri maiali tornarono in vita e si accodarono a Human, che li condusse verso l’estremità più lontana della radura.

Ma presso la boscaglia si fermò di colpo. Uno dei maiali, invece di seguirlo, era corso davanti a lui e gli bloccava la strada. Era Mangia-Foglie. A causa della distanza Miro non poté capire se i due si stessero scambiando qualche parola; vide però che Mangia-Foglie toccava l’addome di Human. La sua mano restò a contatto della pelliccia dell’altro per alcuni secondi, poi il maiale girò su se stesso e corse via nel sottobosco, saltellando vivacemente.

Pochi momenti dopo tutti i maiali erano scomparsi fra i cespugli.

— Abbiamo assistito a una contesa — disse Miro. — Human e Mangia-Foglie fanno parte di due fazioni opposte.

— Che genere di contesa? — domandò Ouanda.

— Vorrei saperlo. Però posso immaginarlo. Se portiamo qui l’Araldo, Human vincerà. Se non lo facciamo, il vincitore sarà Mangia-Foglie.

— E cosa c’è da vincere? Se l’Araldo vedrà i maiali ci tradirà, e in questo caso avremmo perso tutti quanti.

— Non ci tradirà.

— Perché non dovrebbe? Tu hai appena tradito me!

La voce di lei era così tagliente che Miro incassò quelle parole con una smorfia di sofferenza. — Io, tradire te? — sussurrò. — Eu não. Jamais. — Non io. Mai.

— Papà diceva sempre: mostratevi uniti davanti ai maiali, non lasciategli mai capire che non siete d’accordo, e tu…

Io! Non sono stato io a dir loro di sì. Sei tu quella che dice no, sei tu quella che prende posizione e mostra loro che fra noi c’è un contrasto!

— Allora, quando c’è un disaccordo, è tuo compito…

La ragazza tacque, rendendosi conto di quello che stava per dire: è tuo compito fare ciò che io dico. Come se lui fosse il suo apprendista. Miro strinse i denti. — Ero convinto che qui lavorassimo insieme! — sbottò, e si avviò nella boscaglia in direzione di Milagre.

— Miro! — lo raggiunse la voce di lei, un po’ più avanti. — Miro, non volevo dire che…

Il govane si fermò ad aspettarla, poi la afferrò per le braccia e sussurrò aspramente: — Smettila di gridare! O non t’importa che i maiali possano sentirci? La maestra zenador ha deciso di fargli sapere tutto, adesso, anche il modo in cui rimette in riga il suo apprendista?

— Io non sono la tua maestra, io…

— Proprio così, non lo sei. — Si girò e riprese a camminare.

— Ma Libo era mio padre, così è naturale che io sia…

— Zenador per diritto di sangue? — ringhiò lui. — Diritto di sangue, è vero? E così per diritto di sangue io cosa sono? Un cretino ubriacone che picchia la moglie? — La prese per le spalle, stringendo crudelmente. — È così che vuoi che ti tratti? Vuoi una copia del mio paizinho?

— Lasciami, mi fai male.

Miro la spinse via. — Il tuo apprendista pensa che oggi sei stata una stupida — disse. — Il tuo apprendista pensa che avresti dovuto fidarti del suo giudizio sull’Araldo. E il tuo apprendista pensa che dovevi prendere sul serio quello che ha detto sulla gravità di ciò che stavano facendo i maiali, perché eri grossolanamente in errore e la tua stupidità adesso potrebbe condurre Human alla morte.

Era un’accusa ingiusta, e lo era ancor più perché rifletteva un timore che entrambi sentivano oscuramente già da tempo, e cioè la possibilità che Human finisse per seguire il destino di Rooter e di altri, smembrato, con una pianticella che cresceva fra i suoi organi sparsi al suolo.

Miro era conscio d’aver parlato senza riflettere, e sapeva che la ragazza non avrebbe avuto tutti i torti se ora si fosse infuriata. Biasimare lei era assurdo, dal momento che lui stesso non aveva capito fino all’ultimo momento quale pericolo incombesse su Human.

Ma Ouanda non s’infuriò. Fece invece uno sforzo visibile per calmarsi i nervi, traendo lunghi respiri, finché il suo atteggiamento non placò anche Miro. — Quello che ora conta — disse la ragazza, — è di non far precipitare le cose. Le esecuzioni hanno sempre avuto luogo la sera tardi. Se vogliamo avere una speranza di salvare Human, dobbiamo portare qui l’Araldo oggi pomeriggio, prima del tramonto.

Miro annuì. — Sì — disse. — E… mi dispiace, scusami.

— Dispiace anche a me — mormorò lei.

— Visto che non sappiamo ciò che stiamo facendo, quando le cose vanno male la colpa non è di nessuno.

— Vorrei soltanto esser certa che una scelta giusta fosse almeno possìbile.


Ela sedeva su una roccia piatta e muoveva pigramente i piedi nell’acqua, in attesa dell’Araldo dei Defunti. A pochi metri di distanza il recinto oltrepassava il fiume, sostenuto da una griglia semisommersa che doveva impedire alla gente di uscire a nuoto. Come se qualcuno avesse avuto voglia di provarci. Quasi tutti gli abitanti di Milagre sembravano far finta che il recinto non esistesse neppure. Nessuno vi si avvicinava mai. Questo era il motivo per cui aveva dato appuntamento lì all’Araldo. Anche se la giornata era calda e le scuole erano chiuse, i ragazzi non venivano a nuotare lì a Vila Ultima, dove il recinto incrociava il fiume e la boscaglia esterna era tanto vicina. Anche gli operai del piccolo stabilimento dove si fabbricavano mattoni, ceramiche e vetro a quell’ora non passavano di lì. Avrebbe potuto dire quel che doveva dire, senza timore che altri sentissero o vedessero.

Non dovette aspettare molto. L’Araldo stava arrivando sul fiume in una piccola barca a remi, di quelle usate dai contadini nella zona in cui non c’erano ponti. La sua schiena era bianca in modo sorprendente. Anche i pochi Lusos, la cui pelle era così chiara da farli chiamare loiros, avevano un incarnato un tantino olivastro. Il suo pallore glielo fece vedere più snello e debole di quel che era; ma poi notò la velocità con cui la barca andava controcorrente, il movimento ampio e fluido dei remi, la potenza della spinta e il gioco della solida muscolatura sulle spalle di lui. Per un attimo sentì una fitta d’angoscia, e poi capì che questo le ricordava dolorosamente suo padre, a dispetto dell’odio che aveva avuto per lui. Fino a quel momento avrebbe giurato di non aver mai amato niente del genitore, e invece aveva nostalgia della forza che emanava dalla sua schiena e dalle sue spalle, del sudore che luccicava sulla sua pelle abbronzata come una pellicola vitrea sotto il sole.

No, disse in silenzio, non sto soffrendo per la tua morte, Cão. Se soffro è perché tu non assomigliavi a questo Araldo, quest’uomo che non ha nessun legame con noi ma che in tre giorni ci ha dato più cose buone di quante tu ce ne abbia dato in tutta la vita. E soffro perché il tuo corpo così virile era distrutto fino in fondo all’anima.

L’Araldo la vide e diresse la prua verso le rocce su cui lei sedeva. Ela si alzò e avanzò fra le canne, nel terreno molle, poi lo aiutò a tirare l’imbarcazione in secca.

— Mi spiace che tu abbia dovuto infangarti così — disse lui. — Ma da un paio di settimane non facevo un po’ di vero movimento, e il fiume oggi era troppo invitante.

— Lei rema molto bene — disse Ela.

— Il pianeta da cui sono partito, Trondheim, è un ammasso di ghiaccio e acqua. Le coste non offrono molto ai turisti, e su una barca come questa si rema più per non finire assiderati che per divertirsi.

— Lei non è nato su quel mondo?

— No. È l’ultimo posto dove ho fatto un’elegia. — Andò ad accovacciarsi sull’erba e lasciò vagare lo sguardo sul fiume.

Ela sedette al suo fianco. — Mamma è molto arrabbiata con lei.

L’Araldo piegò le labbra in un sorrisetto. — Non me l’ha nascosto.

D’istinto Ela cominciò subito a difendere la madre. — Lei ha cercato di leggere le sue registrazioni.

— Ho letto le sue registrazioni. Quasi tutte. Ma non quelle che m’interessavano.

— Lo so. Quim me l’ha detto. — S’accorse di provare un fremito d’orgoglio al pensiero che i sistemi protettivi di sua madre lo avessero sconfitto. Poi ricordò a se stessa che in quella faccenda non stava dalla parte di lei, e che per anni aveva cercato di convincerla a lasciarle vedere quei dati. Ma altre emozioni la trascinavano, facendole dire cose che avrebbe preferito tenersi in bocca. — Ho lasciato Olhado seduto in casa, con gli occhi chiusi, ad ascoltare musica in cuffia. Era sconvolto.

— Sì, pensa che io lo abbia tradito.

— E non è così? — Anche questo era qualcosa che non voleva dire.

— Io sono un Araldo dei Defunti. Ho la brutta abitudine di dire la verità quando parlo, e di indagare nei segreti degli altri.

— Lo so. È per questo che ho chiamato un Araldo. Voi non avete rispetto per nessuno.

Lui parve seccato. — Perché mi hai chiamato qui? — chiese.

Così stava rovinando tutto. Gli stava parlando come se fosse contro di lui, come se non gli fosse grata per ciò che aveva già fatto alla sua famiglia. Gli stava parlando come a un nemico. Quim mi ha influenzata al punto da farmi dire il contrario di quello che vorrei?

— Tu mi hai invitato qui sul fiume. I tuoi familiari non è che mi parlino molto, ma ecco che mi arriva un messaggio da te. Per lamentarti sul fatto che indago dove non dovrei? Per dirmi che non rispetto nessuno?

— No — mormorò lei, a disagio. — Non è questo che intendevo fare.

— Non hai mai pensato che difficilmente avrei scelto d’essere un Araldo se non avessi rispetto per il prossimo?

Nella frustrazione la voce le divenne rauca: — Vorrei che lei avesse letto tutto il suo archivio! Vorrei che lei le tirasse fuori tutti i suoi segreti e li spargesse ai quattro venti sui Cento Mondi! — Sentì che i suoi occhi si riempivano di lacrime, senza saperne il perché.

— Capisco. Vorresti che lei si fidasse almeno di te.

— Sou aprendiz dela, não sou? E porque choro, diga-me! O senhor tem o jeito!

— No, non sono molto portato a far piangere gli altri, Ela — rispose dolcemente lui. La sua voce era una carezza. No, qualcosa di più saldo: era una mano che afferrava la sua, che la teneva ferma, che le dava forza. — È dire la verità che ti fa piangere.

— Sou ingrata, sou mà filha…

— Sì, sei ingrata, e sei una figlia terribile — disse lui, e rise divertito. — In tutti questi anni di caos e di abbandono tu hai tenuto unita la famiglia senza il minimo aiuto da parte di tua madre, e quando l’hai seguita nella sua stessa professione lei non ha voluto condividere con te i suoi segreti. Tu non le chiedevi altro che amore e fiducia, e lei ha risposto chiudendoti fuori dalla sua vita a casa e sul lavoro. E poi, alla fine, hai detto a qualcuno che questo ti angoscia. Oh, certo, sei proprio la persona peggiore che io abbia mai conosciuto!

Lei si trovò a ridere, fra le lacrime, per il modo in cui s’era accusata. Ma subito, come una bambina, il fatto che si ridesse di lei la irritò. — Non stia a lisciarmi il pelo, adesso — replicò, cercando di mettere disprezzo e rabbia nella voce.

Lui lo notò. I suoi occhi si fecero distanti e freddi. — Non sputare sulla mia amicizia — disse.

Ela non voleva che lui si ritraesse a quel modo; ma non poté fare a meno di replicare con la stessa freddezza: — Lei non è mio amico.

Per un istante la ragazza ebbe paura che lui le credesse. Poi sul volto dell’Araldo comparve un sorriso. — Tu non sapresti riconoscere un amico, se ne vedessi uno.

Sì che lo riconoscerei, pensò lei. Ne vedo uno proprio adesso. Gli restituì il sorriso.

— Ela — disse lui, — tu sei una brava xenobiologa?

— Sì.

— Hai diciotto anni. Avresti potuto dare gli esami, a sedici. Ma non lo hai fatto.

— Mia madre non ha voluto. Diceva che non ero pronta.

— Dopo i sedici anni non hai bisogno del permesso di tua madre.

— Un apprendista deve avere il permesso dell’insegnante.

— Ma ora hai diciotto anni, e non hai bisogno neppure di questo.

— Lei è la xenobiologa di Lusitania, e quello è il suo laboratorio. Che succederebbe se passassi l’esame, ma lei non mi lasciasse mai più mettere piede in laboratorio?

— Ti ha minacciato di questo?

— Mi ha detto chiaro e tondo che non darò l’esame.

— Perché appena tu non sarai più un’apprendista, se ti ammettesse alla Stazione come collega, tu avresti pieno accesso a…

— A tutte le registrazioni di lavoro. A quelle che lei ha nascosto.

— Così, ha impedito a sua figlia di seguire le sue orme; e ha messo nel tuo fascicolo una nota con cui, come esaminatrice, dichiara che non sarai pronta per i test di xenobiologia neppure a diciott’anni. E tutto per tenerti lontana dall’archivio.

— Sì.

— Tu come la vedi?

— Mia madre è pazza.

— No. Qualunque cosa Novinha sia, non è pazza.

— Ela è boba mesma, senhor Falante.

Lui rise e si distese sull’erba. — Dimmi perché è boba, allora.

— Posso fargliene l’elenco. Tanto per cominciare, non permette nessuna indagine sulla Descolada. Trentaquattro anni fa la Descolada per poco non sterminò la colonia. I miei nonni, Os Venerados, Deus os abençoe, riuscirono a bloccare l’epidemia. È indubbio che l’agente infettivo, lo «scollatore» del DNA, sia sempre presente nell’ambiente, tant’è vero che qui dobbiamo aggiungere all’acqua e al cibo un prodotto che impedisce a questo agente di tornare attivo. Questo le è stato detto, no? Prima di atterrare lei è stato informato che una volta venuto a contatto con il nostro ambiente dovrà continuare a prendere l’antidoto per tutta la vita, anche dopo che sarà partito da qui.

— Sì, sono al corrente.

— Lei rifiuta di lasciarmi fare qualunque tipo di studio sull’agente della Descolada. O comunque, questi sono dati che ha chiuso con qualche codice. Ha nascosto tutte le scoperte di Gusto e Cida sull’argomento. Non c’è modo di ottenere quelle note.

L’Araldo strinse le palpebre. — D’accordo. E poi?

— Ma non capisce? Qualunque cosa sia questo agente, microbo o virus, è stato capace di adattarsi al nostro organismo e di divenire un parassita delle cellule umane dieci anni dopo la fondazione della colonia. Dieci anni! Se ha potuto mutare una volta, potrà mutare e adattarsi ancora.

— Forse lei non la pensa così.

— Forse io dovrei avere il diritto di controllarlo con i miei occhi.

Lui le poggiò una mano su un ginocchio, per placarla. — Sono d’accordo con te. Ma prosegui. La seconda ragione per cui è boba.

— Non permette nessuna ricerca teorica. Niente tassonomia. Nessun modello evoluzionario. Se vede che provo a farne, dice che evidentemente non ho abbastanza lavoro di cui occuparmi e mi assegna dei compiti interminabili finché non pensa che io abbia rinunciato.

— Tu non hai rinunciato, a quanto pare.

— È per questo che esiste la xenobiologia. Oh, sì, è splendido che lei possa creare patate capaci di sfruttare al massimo questi terreni. È stata grande nell’ottenere un buon pane di amaranto, dando alla colonia la possibilità di avere tutte le proteine che le servono con dieci soli acri sotto coltura. Ma questi sono soltanto giochetti molecolari.

— Questa è sopravvivenza.

— Ma noi non sappiamo niente. È come nuotare alla superficie dell’oceano: puoi muoverti qua e là, puoi far finta di godertela, però non sai se da qualche parte sotto di te c’è uno squalo. Noi potremmo essere circondati da squali, e lei rifiuta di immergersi per guardare.

— Terza cosa?

— Non vuole scambiare informazioni con gli zenador. Niente. E questo è veramente pazzesco. Noi non possiamo uscire dalla zona recintata. Ciò significa che non abbiamo modo di studiare neppure un albero. E non sappiamo niente sulla flora e la fauna di questo pianeta, eccetto per gli esemplari contenuti nel recinto: un gregge di cabras, la loro erba da pascolo, un’ecologia un tantino diversa lungo la riva del fiume, e questo è tutto. Niente sulle specie animali della foresta, nessuno scambio d’informazioni. Noi non diciamo niente agli zenador, e quando loro ci mandano dei dati lei cancella tutto senza leggere neppure. È come se costruisse intorno a noi un muro invalicabile: niente deve entrare, niente deve uscire.

— Forse ha le sue ragioni.

— Oh, è chiaro che le ha. I pazzi hanno sempre le loro ragioni. Per dirne una, odiava Libo. Lo odiava. Non permetteva a Miro di parlare di lui, non ci lasciava giocare con i suoi figli… China e io eravamo molto amiche, ma lei mi aveva proibito di portarla in casa e di andare da lei dopo la scuola. E quando Miro ha voluto diventare suo apprendista, non gli ha più rivolto la parola per degli anni. Non gli preparava neppure il posto a tavola.

Si accorse che l’Araldo dubitava di quelle parole. In realtà aveva un po’ esagerato.

— Per un anno, voglio dire. Il giorno che lui andò per la prima volta alla Stazione Zenador come apprendista di Libo, tornò a casa e lei non lo guardò e non gli disse una parola. E quando sedette a tavola, lei gli tolse il piatto e le posate di sotto il naso, come se non ci fosse. Miro rimase lì dov’era per tutto il pranzo, zitto e con gli occhi fissi su di lei, finché papà non ne poté più di quell’atteggiamento e gli gridò di andarsene fuori.

— E lui che fece, se ne andò?

— No. Lei non conosce Miro! — Ela ebbe una risata secca. — Non si azzuffa, però non cede. Non ha mai risposto alle angherie di nostro padre, mai. Non ricordo di averlo sentito replicare con una parola rabbiosa in tutta la vita. E a mia madre… be’, ogni sera lui tornava a casa dalla Stazione Zenador e si sedeva a tavola davanti al piatto, e ogni sera mia madre levava via piatto e posate, e lui restava lì finché papà gli urlava di uscire. Naturalmente, dopo una settimana papà cominciava a gridargli di andarsene appena mia madre gli aveva tolto il piatto. Mio padre ci godeva, quel bastardo, pensava che fosse divertente. Aveva sempre odiato Miro, e finalmente vedeva mamma dalla sua parte, contro di lui.

— Chi fu a cedere?

— Non cedette nessuno. — Ela si volse a guardare il fiume, conscia all’improvviso che con quelle parole stava ricoprendo di vergogna la sua famiglia davanti a uno straniero. Ma lui non si poteva considerare uno straniero, no? Quara aveva ricominciato a parlare, e Olhado provava interesse nelle cose, e Grego, anche se per poco, s’era comportato come un bambino normale. Lui non era uno straniero.

— Com’è finita? — insisté l’Araldo.

— È finita quando i maiali hanno ucciso Libo. E per dirle quanto mia madre lo odiasse, quando lui morì volle celebrare la cosa perdonando suo figlio. Quella sera Miro tornò a casa quando ormai avevamo già cenato, anzi era notte tarda. Una notte terribile, tutti erano preoccupatissimi, e i maiali ci riempivano di paura. La gente soffriva, perché non c’era nessuno che non avesse voluto bene a Libo… eccetto mamma, naturalmente. Lei restò alzata ad aspettare Miro. Lui entrò, andò in cucina e si sedette a tavola, e mamma gli mise il piatto davanti e gli servì la cena. Non disse una parola sull’accaduto. Non un cenno. Come se l’anno appena trascorso non fosse mai esistito. A metà della notte fui svegliata da un rumore, mi alzai e sentii che Miro stava piangendo nel bagno. Penso che nessuno degli altri se ne sia accorto, e io non entrai a consolarlo perché intuivo che voleva tenere per sé il suo dolore. Ma ora credo di non averlo fatto perché avevo paura di parlare. C’erano delle cose troppo angosciose nella mia famiglia.

L’Araldo annuì.

— Avrei dovuto entrare e parlargli — disse Ela.

— Sì — annuì lui. — Avresti dovuto.

In quel momento accadde una cosa sconcertante. L’Araldo s’era detto d’accordo sul fatto che lei quella notte aveva sbagliato, e sentendo le sue parole Ela seppe che erano vere, che il giudizio di lui era esatto. E tuttavia ebbe la strana impressione che questo la sollevasse di un peso, come se nell’attribuirle quell’errore con una mano, la liberasse della sofferenza con l’altra. Fu allora che, per la prima volta, ebbe un indizio di quale fosse il potere risvegliato dalle azioni di un Araldo. Non era un meccanismo confessione-penitenza-assoluzione, come quello che offrivano i preti. Era qualcosa di molto diverso: significava svelargli chi era lei, e poi capire che lei non era più la stessa persona. Significava che lei aveva fatto un errore, e che l’errore l’aveva cambiata, e che nel farglielo capire lui le aveva dato la certezza che non avrebbe rifatto lo stesso sbaglio, perché adesso era già un’altra, una persona meno spaventata, una persona capace di affrontare il dolore in sé e negli altri.

Se non sono più la ragazzina piena di paura che sentiva suo fratello piangere nel bagno e non osava parlargli, allora chi sono? Ma la corrente che frusciava attraverso la griglia sotto il recinto non aveva una risposta. Forse non le era dato di sapere chi era quel giorno. Forse era già abbastanza sapere che lei non era più quella di un tempo.

L’Araldo s’era messo le mani dietro la testa e osservava le nuvole, che ad ovest cominciavano ad arrossarsi. — Ecco, le ho detto ciò che dovevo — mormorò Ela. — Nell’archivio del laboratorio sono nascoste le informazioni riguardanti la Descolada. Questo è tutto ciò che so.

— Non proprio — osservò l’Araldo.

— È così, glielo giuro.

— Vuoi dire che le hai ubbidito? Che quando tua madre ti ha ordinato di non fare nessun lavoro teorico ti sei limitata a pensare ad altro, come voleva lei?

Ela ridacchiò. — Questo è ciò che mia madre crede.

— Dunque non hai smesso.

— Anche se lei non è una scienziata, io lo sono.

— Una volta lo era — disse l’Araldo. — Ha passato l’esame quando aveva appena tredici anni.

— Lo so — annuì Ela.

— E condivideva ogni informazione con Pipo, prima della sua morte.

— So anche questo. Era soltanto Libo che lei odiava.

— Allora dimmi, Ela, cos’hai scoperto con il tuo lavoro teorico?

— Non ho ancora tutte le risposte. Ma almeno so quali sono alcune delle domande. Questo è un inizio, no? Nessun altro sta facendo domande. È quasi comico, non le pare? Miro dice che gli xenologi framling assillano lui e Ouanda per avere più notizie, più dati, ed è solo la legge che gli impedisce di approfondire le ricerche. Eppure non un singolo xenobiologo framling ha mai chiesto informazioni a noi. Pensano soltanto a studiare la biosfera dei loro pianeti, e non fanno nessuna domanda a mia madre. Io sono l’unica che ne fa, e questo non importa a nessuno.

— A me importa — disse l’Araldo. — Bisogna che io sappia quali sono queste domande.

— OK, eccone una. Noi abbiamo un gregge di cabras, qui all’interno del recinto. I cabras non lo saltano, non lo toccano neppure. Ho esaminato e contrassegnato ogni cabras del branco, e vuole sapere una cosa? Non ci sono maschi. Sono tutte femmine.

— Una bella sfortuna — sorrise l’Araldo. — Si staranno chiedendo cosa diavolo aspettate a mettere almeno un maschio nel recinto.

— Non credo che gli importi — disse Ela. — Il fatto è che io non so neppure se i maschi esistono. Negli ultimi cinque anni ogni cabras adulta ha partorito almeno una volta. E nessuna di loro è stata montata.

— Forse si riproducono per clonazione — disse l’Araldo.

— La struttura genetica dei piccoli non è identica a quella delle madri. Questo è quanto ho potuto scoprire usando di nascosto le apparecchiature del laboratorio. Ma c’è un sistema di transfert genetico.

— Ermafroditi?

— No, sono femmine. Neppure un accenno di genitali maschili atrofizzati. Questo basta per farne una domanda importante? In qualche modo i cabras hanno un sistema di scambio genetico, senza il sesso.

— Le sole implicazioni teologiche sono già sorprendenti.

— Non ci scherzi sopra.

— Su cosa? La scienza o la teologia?

— Entrambe. Vuole sentire altre delle mie domande, o no?

— Continua — disse l’Araldo.

— Allora eccole questa. L’erba su cui lei è sdraiato… noi la chiamiamo grama, come quella terrestre. È qui che vengono a riprodursi i serpenti d’acqua. Sono vermi, all’aspetto, così piccoli che lei faticherebbe a vederne uno. Mangiano l’erba fino alla radice e si divorano anche l’un l’altro, cambiando pelle ogni volta che diventano più grossi. Poi, d’un tratto, quando l’erba è completamente fradicia delle loro pelli decomposte, tutti i serpenti entrano nel fiume e non ne ritornano più fuori.

Lui non era uno xenobiologo. Non ne afferrò le implicazioni.

— I serpenti d’acqua si accoppiano qui — spiegò lei. — Ma non tornano fuori dall’acqua per deporre le uova.

— Dunque si accoppiano prima di trasferirsi nell’acqua.

— Sicuro, normale, ovvio. Li ho visti accoppiarsi. Non è questo il problema. La domanda è: perché sono serpenti d’acqua?

Di nuovo lui la fissò senza capire.

— Ascolti, questi animali sono completamente adattati alla vita subacquea. Hanno branchie e polmoni, sono superbi nuotatori, hanno pinne per manovrare, e si sono evoluti per una vita adulta interamente acquatica. Ma perché questa evoluzione, se nascono a terra, si accoppiano a terra e si riproducono a terra? Per quanto riguarda l’evoluzione delle specie, tutto ciò che accade dopo l’atto riproduttivo è quantomai irrilevante, a parte la nutrizione dei piccoli, e i serpenti d’acqua senza alcun dubbio non li nutrono. La vita acquatica non ostacola la loro capacità di sopravvivere fino al periodo della riproduzione. Possono trasferirsi nell’acqua e viverci dentro, e ciò non ha alcun significato perché il loro intero ciclo riproduttivo si è svolto altrove.

— Sì — disse l’Araldo. — Comincio a capire.

— Nell’acqua si nota spesso la presenza di piccole uova chiare. Io non ho mai visto un serpente d’acqua nell’atto di deporle, ma poiché nel fiume e nelle sue vicinanze non vi sono animali abbastanza grossi da poterle deporre, sembra logico supporre che siano quelle dei serpenti d’acqua. Solo che queste uova (biancastre e larghe un centimetro) sono completamente sterili. Contengono le sostanze nutritive e tutto quanto, ma non l’embrione. Niente. Alcune hanno un gamete (metà dei geni di una cellula, pronti a combinarsi) ma neppure una è viva. E non abbiamo mai trovato uova di serpente d’acqua sulle rive. Il giorno prima lì non c’è niente se non la grama, verde e folta, e il giorno dopo gli steli d’erba sono pieni di serpenti d’acqua appena nati. Non le sembra una faccenda su cui vale la pena d’indagare?

— A me sembra che si possa parlare di partenogenesi.

— Be’, a me piacerebbe scoprire abbastanza dati da poter fare ipotesi alternative, ma mia madre non me lo permette. Quando le parlai dei serpenti, gettò sulle mie spalle l’intero procedimento dei test sull’amaranto per non lasciarmi il tempo di «bighellonare» sul fiume. E un’altra domanda: perché qui ci sono così poche specie? Su ogni pianeta, anche semideserto come Trondheim, ci sono migliaia di specie diverse, almeno nelle acque. Qui ne abbiamo sì e no una manciata, da quel che posso saperne. Gli xingadora sono gli unici volatili che abbiamo mai visto. I succiamosche sono le sole mosche. I cabras sono gli unici ruminanti che si nutrono dell’erba capim e, maiali a parte, i soli animali di grossa taglia. Un’unica specie di alberi. Un’unica erba sulla prateria, il capim. E un’unica varietà di piante parassite, il tropeça, una sorta di edera che si allunga anche al suolo per molti metri, e che gli xingadora sfruttanto per la costruzione dei nidi. Questo è tutto. Gli xingadora mangiano i succiamosche e nient’altro. I succiamoche si nutrono delle alghe sulla riva del fiume, e della nostra spazzatura. Niente mangia gli xingadora. Niente mangia i cabras.

— Una catena alimentare piuttosto ristretta — disse l’Araldo.

— Impossibilmente ristretta. Qui esistono diecimila nicchie ecologiche e nulla che le riempia. Non esiste un’ipotesi evolutiva che possa spiegare un ambiente ecologico così limitato.

— A meno che non ci sia stata una catastrofe.

— Proprio così.

— Qualcosa che abbia spazzato via tutto, salvo un manipolo di specie capaci di adattarsi.

— Sì — disse Ela. — E le prove di questo non mancano. I cabras hanno un comportamento molto rivelatore: quando qualcuno si avvicina, quando ne sentono l’odore, gli adulti si raggruppano e formano un circolo, rivolti all’interno, in modo da poter scalciare contro l’intruso e proteggere i piccoli.

— Molti erbivori lo fanno.

— Ma per proteggersi da cosa? I maiali sono completamente silvestri, non hanno mai cacciato nella prateria. Qualunque fosse il predatore che ha costretto i cabras a evolvere questo schema difensivo, è scomparso. E abbastanza di recente: negli ultimi centomila anni, o al massimo un milione.

— Non ci sono crateri prodotti da grossi meteoriti e risalenti a meno di venti milioni di anni fa — osservò l’Araldo.

— No, una catastrofe di quel genere avrebbe ucciso piante e animali di grossa taglia risparmiando miriadi di specie più piccole, o avrebbe spazzato via la vita dai continenti lasciando intatta quella nei mari. Ma qui tutti i diversi ambienti acquatici e terrestri sono stati coinvolti, e le specie superstiti sono fra le più vulnerabili a un disastro cosmico. No, penso che sia stata un’epidemia. Un virus che dilagò in tutti gli ecosistemi e seppe adattarsi a ogni forma vivente. Oggi non ne possiamo notare l’esistenza, ovviamente, poiché questo agente è innocuo con le specie rimaste in vita. Dev’essere diventato parte del loro organismo. E per noi l’unico modo di notarne l’esistenza è stato…

— Esserne infettati — terminò l’Araldo. — La Descolada.

— Vede? Tutti i ragionamenti tornano alla Descolada. I miei nonni trovarono il modo di renderne immuni gli esseri umani, ma grazie a una complessa manipolazione genetica artificiale. Gli animali, i cabras, i serpenti d’acqua, trovarono anch’essi la via d’uscita, ma dubito che ciò sia stato con un supplemento alla loro dieta. Penso che le cose siano collegate. Le strane anomalie della riproduzione, gli ecosistemi così spopolati, tutto risale all’agente infettivo della Descolada, e mia madre mi impedisce di esaminarlo. Non vuole che io studi cos’è, come funziona, come potrebbe essere collegato a…

— Ai maiali.

— Be’, naturalmente, ma non soltanto a loro. A tutti gli animali…

L’Araldo aveva l’aria di trattenere a stento l’eccitazione, come se lei gli avesse spiegato qualcosa su cui s’era interrogato invano. — La notte in cui Pipo morì lei bloccò tutti i dati relativi al lavoro che stava facendo, e fece lo stesso con le registrazioni delle ricerche sulla Descolada. Dunque ciò che lei mostrò a Pipo aveva a che fare sia con l’agente della Descolada che con i maiali…

— Fu allora che nascose quelle informazioni? — domandò Ela.

— Sì, sì.

— Allora io ho ragione, non è vero?

— Sì — disse lui. — Grazie. Mi sei stata d’aiuto più di quel che puoi credere.

— Questo significa che presto lei farà l’elegia per mio padre?

L’Araldo la guardò negli occhi. — Tu non vuoi esattamente che io faccia l’elegia per tuo padre. Vuoi che la faccia per tua madre.

— Lei non è morta.

— Ma tu sai che non posso dire la verità su Marcão senza spiegare perché sposò Novinha, e perché siano rimasti insieme tanti anni.

— Questo è vero. Io voglio che tutti questi misteri siano sciolti. Voglio che tutti i dati siano accessibili. Niente deve restare più nascosto.

— Tu non sai quello che stai chiedendo — disse l’Araldo. — Non sai quanto dolore nascerebbe se tutti i segreti venissero alla luce.

— Dia un’occhiata alla mia famiglia, Araldo — replicò lei. — Come potrebbe la verità portare più dolore di quello che i segreti hanno già causato?

Lui le sorrise, ma non era un sorriso allegro. Era affettuoso, perfino… colmo di pietà. — Hai ragione — le disse. — Hai tutte le ragioni del mondo. Ma potresti capire ciò che detto soltanto se tu conoscessi l’intera storia.

— Io conosco l’intera storia, nei limiti in cui la si può conoscere.

— Questo è ciò che tutti pensano. E tutti si sbagliano.

— Quando farà l’elegia?

— Appena potrò.

— Allora perché non adesso? Oggi? Cos’è che sta aspettando?

— Non potrò far niente finché non avrò parlato con i maiali.

— Lei sta scherzando, vero? Nessuno può parlare ai maiali, salvo gli zenador. È un ordine tassativo del Consiglio. Nessuno può oltrepassare quello.

— Sì — disse l’Araldo. — Ecco perché sarà difficoltoso.

— Non difficoltoso, impossibile!

— Forse — disse lui. Si alzò, e lei fece lo stesso. — Ela, tu mi hai aiutato moltissimo. Mi hai insegnato più di quel che avrei sperato di avere da te. Proprio come ha fatto Olhado. Ma a lui non è piaciuto ciò che ho fatto delle cose che mi ha insegnato, e ora pensa che io l’abbia tradito.

— Lui è un ragazzo. Io ho diciott’anni.

L’Araldo Andrew annuì e le poggiò una mano su una spalla. — Allora tutto va bene. Siamo amici.

Lei fu quasi certa che c’era dell’ironia in quelle parole. Ironia, e forse una supplica. — Sì — rispose. — Saremo sempre amici.

Lui annuì ancora, si volse, spinse la prua della barca giù dalla riva e la seguì, facendo schizzare l’acqua e il fango fra le canne. Quando l’imbarcazione fu nella corrente si sedette e sistemò gli scalmi, poi immerse i remi in acqua e si girò a sorriderle. Ela alzò una mano, ma il sorriso con cui gli rispose non poteva trasmettergli tutta l’euforia e tutto il sollievo che le riempivano l’anima. Lui aveva ascoltato tutto, aveva capito tutto, e avrebbe saputo rimettere ogni cosa al giusto posto. La ragazza ne era convinta, lo credeva così profondamente che non comprese neppure quanto ciò fosse all’origine della sua improvvisa felicità. Sapeva soltanto d’aver trascorso un’ora con l’Araldo dei Defunti, e di sentirsi viva come non le accadeva da anni.

Andò a raccogliere le scarpe, se le rimise e cominciò ad avviarsi verso casa. Sua madre era ancora alla Stazione Biologista, ma quel pomeriggio lei non aveva voglia di lavorare. Desiderava andare a casa e preparare la cena; questo era il suo compito giornaliero e solitario. Sperò che nessuno l’avrebbe distratta con delle chiacchiere. E sperò che non ci sarebbero state necessità seccanti in attesa d’essere risolte da lei. Desidero che questa leggerezza d’animo duri per sempre.

Era arrivata a casa da pochi minuti, tuttavia, quando Miro irruppe in cucina. — Ela — disse. — Hai visto l’Araldo dei Defunti?

— Sì — rispose lei. — In riva al fiume.

— In riva al fiume dove?

Se gli avesse detto dove s’erano fermati, lui avrebbe capito che non era stato un incontro casuale. — Perché? — chiese.

— Ascolta, Ela, per favore, questo non è il momento d’essere sospettosi. Ho bisogno di parlare con lui. Gli abbiamo lasciato una nota, ma il computer non può rintracciarlo e…

— Era su una barca a remi, e stava tornando ai moli. Probabilmente è andato subito a casa sua.

Miro balzò via dalla soglia e corse nell’atrio. Ela lo sentì battere sulla tastiera del terminale. Pochi secondi dopo rimise dentro la testa. — Grazie — disse. — Non aspettatemi per la cena.

— Che c’è di tanto urgente?

— Niente. — Ma quel «niente» esclamato con voce tanto agitata e frettolosa suonò così ridicolo che entrambi scoppiarono a ridere. — OK — disse Miro. — C’è qualcosa, sì, però non posso parlarne. OK?

— OK. — Ma presto tutti i segreti saranno conosciuti, Miro.

— Quello che non capisco è perché il computer non l’abbia rintracciato. Per trasmettergli il nostro messaggio, voglio dire. Non ha quel microimpianto all’orecchio? Il computer dovrebbe raggiungerlo dovunque. Naturalmente potrebbe averlo spento.

— No — disse Ela. — La spia era accesa.

Miro inarcò un sopracciglio, fissandola. — Non puoi aver visto quella minuscola lucina rossa, non se lui stava remando in mezzo al fiume.

— È venuto a riva. Abbiamo fatto due chiacchiere.

— Su quale argomento?

Ela sorrise. — Niente — disse.

Lui le restituì il sorriso, ma parve lo stesso un po’ irritato. Ela poteva capirlo. È naturale per te avere segreti con me, ma non è naturale che io li abbia con te. È vero, Miro?

Lui però non si mise a discutere. Aveva davvero fretta. Doveva andare a cercare l’Araldo, e subito, e non sarebbe tornato a casa per la cena.

Ela ebbe il presentimento che l’Araldo sarebbe riuscito a parlare con i maiali molto prima di quanto lei avrebbe creduto possibile. Per un istante fremette d’eccitazione. L’attesa sarebbe finita.

Poi l’eccitazione svanì, e qualcos’altro ne prese il posto. Una paura arcana. L’immagine da incubo del papai di China, il povero Libo, disteso sul pendio della collina, smembrato dai maiali. Solo che non appartenevano a Libo i resti che lei vedeva in quell’orrida scena. Erano quelli di Miro. No, no, non era Miro. Era l’Araldo. Era l’Araldo che sarebbe stato torturato a morte. — No! — sussurrò Ela.

Poi scosse il capo e l’incubo lasciò la sua mente. Prese le spezie e cominciò a condire la pasta, per dare allo sformato un sapore migliore di quello della colla d’amaranto.

Загрузка...