Capitolo quinto

Il diario di Mary Windham Tsepesh


11 aprile. Mattina. L’altra notte ho dormito appena, sebbene abbia fatto finta di essere addormentata quando Arkady è ritornato. Ero troppo sconvolta per dare un senso a quello che avevo visto, così ho trascorso delle lunghe ore accanto a lui nel letto, in ascolto del suo respiro e pregando Dio che, quando mi fossi alzata al mattino, avrei aperto gli occhi per scoprire che ero stata la vittima di nient’altro che un incubo.

Questi giorni prego molto in segreto. Arkady conosce la mia fede in Dio (come ci sorridiamo l’un l’altro con tolleranza, ognuno compiaciuto del suo proprio credo, quando uno di noi dice qualcosa a proposito della religione). Non il Dio arcigno, adirato, della Chiesa d’Inghilterra, che condannerebbe mio marito all’inferno per la mancanza di fede. Il Dio che io prego è saggio, pieno d’amore, troppo divinamente intelligente per occuparsi delle sciocche regole, gelosie, e guerre degli esseri umani, o per essere tanto infastidito dal rifiuto di mio marito da volerlo dannare al tormento eterno.

Ma quel Dio sembra molto lontano da questo luogo. Sebbene non abbia mai creduto nel Demonio, nessun estraneo mancherebbe di sentire che qualche potere maligno impera qui. Di fatto, Dio sembra non udire più le mie preghiere. Mi sono svegliata con la dolorosa consapevolezza che quello che avevo visto non era un sogno.

Non lo era affatto: le prove di ciò di cui sono stata testimone aumentano. Prego che quello che ho saputo oggi sia falso, ma il mio cuore e la mia mente sono divisi. La mia mente sa che è follia, e che è completamente falso; il mio cuore che è vero, ma io non posso turbare Arkady nel suo periodo di lutto con delle cose tanto terribili e fantastiche finché io stessa non ne sono certa.

Ieri, quando Zsuzsanna di nuovo non è scesa a colazione, le ho fatto un’altra visita in camera. Prima che potessi bussare, Dunya ha aperto la porta ed è uscita fuori in tutta fretta con un vassoio pieno di piatti, e questa volta non ha chinato la testa come è sua abitudine. Questa volta ha incontrato il mio sguardo, e il suo era così chiaramente terrorizzato e disperato che le ho chiesto in tedesco:

«Dunya! C’è qualcosa che non va?».

Al di sotto delle sue sopracciglia rossicce corrugate, gli occhi tradivano una tale angoscia che, quando mi ha fatto segno di stare zitta e con la testa di allontanarmi nel corridoio, ho obbedito senza fare domande. Con una mano ha tenuto il vassoio in equilibrio, e con l’altra ha chiuso piano la porta dietro di sé, poi si è avviata lungo il corridoio per parecchi passi prima di fermarsi e di voltarsi per essere certa che la seguissi.

Finalmente, si è fermata e mi ha fronteggiato poi, chinandosi in avanti sul vassoio, ha bisbigliato con voce rauca:

«L’ha fatto! Ha rotto lo Schwur.

«Non capisco», ho detto; non riconoscevo la parola. «Chi ha fatto questo?»

«Vlad», ha risposto, guardandosi intorno con timore. Se non avesse tenuto in mano il vassoio, senza dubbio si sarebbe segnata con la croce. «La domnisoara, la signorina, sta molto male. Malissimo!».

«Zsuzsanna?». Mi voltai a gettare un’occhiata verso la porta della camera. «È malata?».

Dunya assentì con vigore.

«Sta malissimo», ribadì.

In quel momento ero ancora indecisa riguardo alla spiegazione di ciò che avevo visto la notte precedente; mi trastullavo con l’idea che la mia mente avesse creato una metafora visiva. Dopotutto, la seduzione da parte di Vlad della sua stessa nipote e i modi inclini al flirt nei miei confronti, lo indicavano con chiarezza come un predatore. Così arrossii nel pensare che Dunya sapeva delle visite notturne di Vlad, e mi allarmai per le conseguenti condizioni nervose di Zsuzsanna che, quella mattina, erano apparentemente peggiori. Presto la notizia si sarebbe sparsa per la casa e poi per il villaggio.

«Le devo parlare immediatamente», dissi e mi diressi verso la porta.

Mentre così tacevo, Dunya mi sibilò dietro:

«Signora Tsepesh! Doamna! Dovete crederlo! Lui l’ha morsa. Vostro marito so che non lo farà, ma qualcuno qui deve crederci e aiutarla!».

Mi gelai all’istante, poi mi voltai con lentezza per guardarla; lei poggiò il vassoio con un rumore di piatti, si fece la croce, e poi venne rapidamente verso di me, con dei modi così supplichevoli che sulle prime pensai che si sarebbe gettata ai miei piedi.

«Che cosa vuoi dire?», domandai piano affinché Zsuzsanna non sentisse. «Che cosa vuoi dire col fatto che lui l’ha morsa?».

Lei indicò subito il suo collo, proprio sopra la clavicola.

«Qui», disse. «Lui l’ha morsa qui».

Fu come se avessi trascorso tutta la mia vita in una stanza scura e, per la prima volta, qualcuno fosse entrato e avesse acceso una lampada. Mi irrigidii mentre pensavo alle parole scherzose del signor Jeffries:

«Un Vampiro, signora… e le anime degli innocenti sono il prezzo…».

«Strigoi», bisbigliai senza rendermene conto, finché la parola non mi uscì dalle labbra. Dunya annuì, disperatamente grata di essere stata finalmente capita.

«Strigoi, sì. Sì! Noi dobbiamo aiutarla!».

Non sono sicura di quello che credetti in quel momento. So soltanto che, mentre giravo la maniglia della porta, il cuore mi batteva forte per il terrore di quello che avrei trovato.

Un’atmosfera talmente sinistra aleggiava nella stanza che un presentimento negativo mi catturò mentre varcavo la soglia. L’aria sembrava pesante, gelida, soffocante come l’aria all’interno della tomba di famiglia durante il funerale di Petra. Mi immaginai di sentire un lieve odore di decomposizione. Forse l’atmosfera triste era creata dall’immaginazione e da un senso di repulsione per il fatto che sapevo che Vlad era stato lì soltanto qualche ora prima.

Zsuzsanna giaceva con i suoi capelli scuri sparsi sul cuscino. Brutus sedeva sul pavimento con la grande testa quadrata che riposava sul bordo del letto, accanto al cuscino, fissando il viso della sua padrona con un’espressione preoccupata e attenta. Quando entrai, voltò il muso corrucciato e dolente verso di me e piagnucolò piano, come per supplicare aiuto.

Alla vista di Zsuzsanna, alzai le mani alle labbra per reprimere un’espressione di orrore.

Assomigliava a un cadavere vivente: era pallida come i cuscini o la camicia da notte. Gli occhi avevano delle ombre di un viola scuro sopra e sotto; la pelle, non più morbida ma di un grigiastro privo di vita, era tirata, accentuando gli zigomi prominenti, il naso aguzzo e stretto, e gli occhi neri, enormi sotto i segni delle sopracciglia nerissime. Gli alti zigomi scolpiti e il taglio leggermente all’insù dei suoi occhi le davano un’apparenza stranamente felina e il pallore estremo di una strana e deperita bellezza.

Il suo volto aveva l’espressione tirata e cerea dei morti. Soltanto gli occhi sembravano vivi, lucenti, liquidi, pieni di una particolare eccitazione. Non sedeva propriamente quanto piuttosto era adagiata contro tre cuscini, respirando rapidamente e brevemente mentre lottava per scrivere su un diario appoggiato su un piccolo vassoio. Lo sforzo sembrava quasi troppo grande per lei.

Il mio apparire la spaventò. Con una rapidità che chiaramente la stancò, voltò il piccolo quaderno (sebbene non prima che vedessi che era stato scritto in inglese, presumibilmente per renderlo inintellegibile a domestici curiosi). Mi sorrise mostrando per un attimo i denti; le sue gengive grige si erano ritirate, facendo apparire i denti lunghi in modo anormale.

Ricambiai il sorriso, cercando di nascondere l’orrore poiché, guardandola, non riuscivo a pensare a nient’altro che a un cranio sogghignante. Ero sgomenta dal vedere che si era ammalata tanto rapidamente; il giorno prima mi era sembrata leggermente indebolita e stanca, ma nulla di tutto ciò… così vicino alla morte.

«Zsuzsanna!», esclamai. «Mia povera cara, che cosa è accaduto?».

Lei non si sollevò; non poteva, ma lottò per inalare abbastanza fiato da bisbigliare:

«Non lo so. Mi sento così debole… e la schiena mi duole terribilmente». La indicò debolmente con una mano e mi sembrò — è impossibile, naturalmente — che le sue spalle fossero quasi alla stessa altezza, mentre prima una era stata alcuni pollici più alta dell’altra. «Ma va tutto bene, Mary. Non è niente…».

Sorrise ancora, e gli occhi le brillavano di una beata follia.

«Non parlare», ordinai. «Sei troppo debole».

Mi voltai quindi verso Dunya che mi aveva seguito entrando e stava a guardare con un’aria di convinzione piena d’orrore, le mani sottili strette insieme all’altezza della vita, come se stesse pregando in segreto.

«Dunya», dissi, «manda uno dei domestici a prendere un dottore».

«Non ho bisogno di un dottore», bisbigliò Zsuzsanna, ma noi non prestammo alcuna attenzione a una dichiarazione tanto ridicola.

«Il dottore più vicino si trova a Bistritsa», rispose Dunya. «Se verrà immediatamente, arriverà qui stanotte, ma non è molto bravo. Il migliore si trova a Cluj, ma è troppo lontano per essere d’aiuto». Si fermò, abbassò la voce, e disse con grande convinzione: «Io so che cosa fare per aiutarla».

Aggrottai la fronte, preoccupata che dicesse qualcosa che potesse dispiacere a Zsuzsanna. Non volevo parlare di Vlad, della superstizione, o della cosa impossibile che avevo visto, di fronte a Zsuzsanna, che era già predisposta alle fantasie.

«Allora, dì a uno degli uomini di andare a prendere il dottore a Bistritz», le ordinai.

Lei annuì, fermandosi per lanciare un ultimo sguardo muto a Zsuzsanna, e nei suoi giovani occhi intelligenti vidi la rabbia, la paura e l’odio, lo sguardo di una donna che era stata violata e che non avrebbe mai perdonato.

Se ne andò e io sedetti sul bordo del letto, facendo attenzione a non urtare il vassoio per scrivere con sopra la penna e la bottiglia d’inchiostro. Il povero Bruto mi si avvicinò, ed io accarezzai la sua grande, calda e fidata testa, ma la pelle aggrottata sulla sua fronte turbata non si rilassò mai. Zsuzsanna non si sollevò a sedere ma mosse con rapidità la mano per far scivolare più lontano il diario voltato, oltre le coperte, come se temesse che potessi prenderlo e leggerlo.

Mi sarebbe piaciuto. Ero disperatamente curiosa di sapere cosa dicesse.

Con delicatezza le poggiai una mano su un braccio e l’altra sulla fronte. Non era affatto calda, cosa che mi sorprese, dato che mi aspettavo che i suoi occhi luccicanti fossero dovuti alla febbre. Invece era piuttosto fresca, e pensai, senza volere, alla stretta gelida di Vlad al pomana. Lei si ritrasse leggermente al mio tocco, sorridendo ancora debolmente, ma chiaramente ansiosa di disfarsi di me.

«Non ho bisogno di un dottore», sussurrò ancora. «Ho soltanto bisogno di riposare e stare sola».

«Sciocchezze!», dissi con fermezza. «Zsuzsanna, tu sei malata. Hai bisogno di cure». Pensai al vassoio che Dunya stava trasportando e mi accorsi, ripensandoci, che il cibo non era stato toccato. «Hai mangiato qualcosa?».

Scosse la testa, lasciandola ciondolare debolmente da un lato.

«Non ci riesco. Mi sembra un tale sforzo…».

In risposta, lanciai uno sguardo all’occorrente per scrivere.

«Ti porterò io stessa qualcosa dalla cucina. Un po’ di brodo forse, qualcosa che vada giù facilmente».

Cominciai ad alzarmi.

Mentre così facevo, Zsuzsanna portò distrattamente una mano al colletto della camicia da notte e tirò il nastro, allentandolo un po’ e toccando la pelle con la punta delle dita. La sottile stoffa di cotone bianco si aprì, permettendomi di vedere per un attimo un piccolo segno rosso sul collo, proprio sopra la clavicola.

«Mia cara, ti sei graffiata», dissi e, senza pensare, tirai via con delicatezza la stoffa per esaminare la ferita. La mia seconda impressione, nell’esaminare la ferita più chiaramente, fu che si fosse punta per caso la pelle con una spilla.

C’erano due segni, non uno, ambedue piccoli, di un rosso scuro e perfettamente rotondi, con dei minuscoli centri bianchi nei punti esatti in cui la pelle era stata pizzicata. Proprio sotto una delle ferite, una goccia di sangue nero essiccato aveva formato la crosta.

La mia terza impressione consistette di un ricordo visivo e uditivo: Vlad, alla finestra della camera da letto di Zsuzsanna, che si chinava per abbracciarla e Dunya che diceva: «Lui l’ha morsa…».

Naturalmente, era ridicolo e impossibile. La mia mente se la rideva di tali ragionamenti e scartava subito la possibilità, ma ritirai la mano più rapidamente che potei come se avessi scoperto un serpente arrotolato. Mentre sedevo a fissare la ferita, il mio cuore cominciò a battere forte, e un senso di indicibile terrore mi sopraffece. Il bambino nel mio grembo fece un rapido e violento movimento.

Un animale, mi dissi. I segni dovevano essere stati fatti da un animale. Forse Bruto l’aveva graffiata… ma no, quelli erano morsi, e non potevo credere che la sua gentile e devota creatura l’avesse morsa. Inoltre, i buchi non corrispondevano alla dimensione e alla forma della bocca di un cane, né corrispondevano a quelle di qualsiasi animale che mi fosse familiare.

Ma erano delle dimensioni e alla distanza esatta per provenire da una bocca umana… o inumana…

Il mio sgomento dovette essere evidente. Zsuzsanna abbassò le sue pesanti palpebre con le ciglia nere come il carbone, e mi lanciò uno sguardo di traverso. Le dita ritornarono alla ferita, lo sguardo si fissò davanti a sé, e la sua espressione…

La sua espressione, mentre palpava i segni, era la vista che turbava più profondamente di qualsiasi altra cosa. Le sue labbra senza colore si aprirono, e il petto cominciò a sollevarsi mentre il respiro diveniva più rapido; gli occhi si spalancarono con uno sguardo di pura meraviglia, seguita dalla gioia, poi si strinsero ancora con velata sensualità. Abbassò la mano, languidamente, con voluttà, lasciando che le dita seguissero la curva di un seno e rimase assorta, a quella rivelazione, in una sorta di privato rapimento, come se io non fossi presente.

Pensai: È pazza, ma sicuramente non è la sola. Vlad è forse più sano? Lo sono io, a pensare che le vecchie leggende e superstizioni siano vere?

Mi gettò un altro sguardo di traverso da sotto le lunghe e folte ciglia, e le labbra le si curvarono in una timida smorfia che mi fece pensare al suo prozio al pomana, e al lupo alla mia finestra.

«È soltanto una piccola puntura di spillo, Mary. Non devi preoccuparti così».

«Naturalmente», balbettai, e mi raddrizzai mormorando: «Permetti, allora, che vada a prendere qualcosa dalla cucina. Hai bisogno di mangiare».

E me ne andai, desiderosa di liberarmi dall’atmosfera soffocante, velenosa, della stanza. Varcai la soglia, chiusi la porta dietro di me, e respirai profondamente l’aria più pura del corridoio.

Mentre stavo lì, tremante e confusa, con la testa china e la mano contro il muro per sostenermi, sentii un movimento alla fine del corridoio. Guardai, e vidi Dunya.

«Ho mandato Bogdan a prendere il dottore», disse.

I suoi occhi avevano un accenno di paura, ma quell’emozione era eclissata da un’altra più intensa: la determinazione, che era tradita dalla fermezza della sua mascella quadrata e dalla sua posizione eretta. Era una ragazza minuscola, più bassa di me di tutta la testa, che nondimeno riusciva a sembrare alta. Le sue mani erano serrate a pugno. In quel momento, la sua inferiorità culturale era superata dalla sua naturale testardaggine, e io fui confortata dalla forza che vidi nella sua espressione.

Mi raddrizzai e mi forzai di far cessare il mio sciocco tremore. Non c’è niente che odio più della debolezza; se fossi stata debole quando mia madre e mio padre morirono, non sarei sopravvissuta. Dunya ed io ci scambiammo uno sguardo triste.

«Le ho visto il collo», dissi.

Lei annuì, comprendendo perfettamente.

«Stamattina ho trovato Bruto di nuovo in cucina. L’ho liberato in modo che potesse fare il suo dovere». Tirò un respiro, poi disse in fretta: «Ha rotto lo Schwur».

Sembrava considerare quelle parole come una spiegazione. Dapprima rimasi confusa, pensando che si riferisse al cane, poi una misteriosa certezza mi invase e seppi, dal modo furtivo in cui abbassava le palpebre e la voce, e dal modo in cui lanciava occhiate alle spalle con la stessa timorosa espressione, che si riferiva a Vlad.

«Non conosco questa parola», dissi, riconoscendola come una che aveva usato in precedenza.

«Schwur, Bund», Dunya sostenne il mio sguardo con il suo, cupo, fermo. Era chiaro che considerava la questione così importante da trascendere ogni maniera servile. «Lo ha rotto e, se non lo fermiamo, Zsuzsanna morirà».

«Allora dobbiamo fermarlo», dissi, non più sicura di cosa credere ma sapendo solo una cosa: che Vlad aveva fatto del male a Zsuzsanna e che non gli doveva essere permesso di farlo di nuovo. «Ma che cosa è lo Schwur

«È che lui non ci farà del male, purché noi gli obbediamo». Emise un rapido e turbato sospiro, mentre il suo sguardo vagava su un punto lontano, come se stesse osservando un oggetto che non riusciva a identificare. «Non capisco il motivo per cui ciò è accaduto. Lui è uno strigoi, ma si è sempre comportato con onore. Non ha mai fatto del male ai suoi, ma se l’ha morsa…». Guardò in su rapidamente, verso di me, e io vidi nuovamente la scintilla della paura nei suoi occhi.

«Nessuno di noi è al sicuro, doamna. Nemmeno voi e vostro marito».

Logicamente, non riuscivo a dare molto senso alle sue parole, e un centinaio di domande razionali affollavano la mia mente tutte insieme, ma furono annientate da una sola, irresistibile, divorante frase che mi invase la mente, l’anima e il cuore, e non li voleva lasciare: Mio figlio… Mio figlio… Mio figlio!

Il pensiero di quel mostro che poneva la sua mano sul mio bambino mi fece accapponare la pelle sulla nuca, sulle braccia, e fece sì che un brivido freddo e caldo percorresse, in profondità, tutta la lunghezza del mio corpo. Pensai che mi sarei accasciata a terra; non so come, riuscii a restare in piedi. In quel momento, mi permisi di entrare nel mondo magico e superstizioso di Dunya e vidi tutto molto chiaramente, fin troppo bene.

Seppi, allora, perché aveva morso sua nipote: perché voleva andarsene. L’avevo capito al pomana, nella momentanea furia rossa dei suoi occhi, quando Zsuzsanna aveva gridato che non doveva andare in Inghilterra. Vlad non avrebbe permesso a nessuno, nemmeno a un parente amato, di interferire con la sua volontà.

Purché noi obbediamo…

Cominciai a esprimere i miei pensieri ad alta voce.

«Stai dicendo che Zsuzsanna morirà se non lo fermiamo».

«Morirà», ripeté Dunya, «e lei stessa diventerà uno strigoi. Avete visto, Doamna? Sta già cominciando a cambiare, e la sua schiena sta già cominciando a raddrizzarsi, ma ciò non è mai stato permesso: non ci sono altri strigoi oltre lui, per il bene della gente».

Mi portai una mano alla fronte, ricordando le spalle ormai alla stessa altezza di Zsuzsanna, cercando di calmare i miei pensieri febbrili.

«Che possiamo fare?»

«Permettetemi di aiutarvi, doamna. La sua stanza dev’essere resa sicura in modo che lui non entri. La notte scorsa ha messo il cane in cucina; dice che la disturba con il suo abbaiare».

«Allora, dobbiamo fare in modo che stanotte dorma con lei».

«Sì», disse Dunya. «E ci sono altre cose per impedire che lo strigoi entri nella sua stanza».

«Che cosa?».

Ripresi un po’ del mio antico senso pratico; qualunque cosa Dunya facesse, avrebbe dovuto essere talmente scaltra che mio marito non avrebbe potuto scoprirla e irritarsi. Sapevo di essere terribilmente spaventata, ma sapevo anche che non ero ancora certa in che cosa credere, e non volevo fare nulla che potesse accrescere l’infelicità di Arkady.

«Il Knablauch», disse. «Lo metterò vicino alla finestra, poi il crocifisso intorno al collo, e bisognerà fare in modo che il cane dorma con lei. È tutto… tutto quello che possiamo fare ora. Sarà abbastanza per ora, purché viva. Ma dovete sapere, doamna che, se mai in questi anni a venire si ammalerà e morirà…».

S’interruppe, incerta se dirmi quello che sentiva come ovvio, ma io non continuai e la guardai, aggrottando la fronte, perplessa. Infine, dopo un lungo silenzio, domandai:

«Che succede, se si ammala e muore?»

«Diventerà uno strigoi, come lui. Ma c’è qualcosa che lo può evitare e risparmiarle la vita».

Di nuovo fece silenzio e io la incitai:

«E che cos’è?»

«Ucciderla, doamna, con il palo e il coltello. È l’unico modo».

Non so cosa dire, cosa pensare, cosa sentire. Alle volte, rido di me stessa per aver ceduto alle ridicole richieste di Dunya e penso: ho avuto un brutto incubo riguardo a Vlad perché sono turbata per aver scoperto la sua relazione con Zsuzsanna. È solo questo, la sensibilità della mia mente alle tetre superstizioni dei contadini, la fatica del viaggio, e la morte del padre di Arkady. Gli uomini non si trasformano in lupi, e Zsuzsanna si è solo punta accidentalmente con uno spillo, proprio come ha detto.

Altre volte penso: so cosa ho visto fuori dalla finestra di Zsuzsanna; ero sveglia come lo sono ora. Ricordo il richiamo ipnotico degli occhi di Vlad e la repulsione che ho provato. Ricordo il tocco gelido della sua lingua sulla mia pelle.

Nessuno spillo, nessuna spilla, nessun cane fa dei segni come quelli.

Quando è venuto il dottore, ho pensato: “Ecco un uomo istruito. Lui spiegherà i segni, spiegherà l’improvvisa debolezza di Zsuzsanna, e smaschererà le mie preoccupazioni per quelle assurdità che sono”.

L’ho accompagnato fino alla camera da letto e sono rimasta per la visita. Era di mezz’età, borghese, apparentemente intelligente e razionale. Ma, nel momento in cui lo ricevetti in casa, lo vidi a disagio e, quando lo condussi nella camera di Zsuzsanna e gli posi delle domande sui segni alla gola, quel disagio si trasformò in paura. Lasciò delle prescrizioni per la sua dieta e per darle da bere una medicina che la facesse dormire ma, quando gli posi direttamente delle domande nel corridoio, fu evasivo riguardo alla causa della malattia e non volle incontrare il mio sguardo.

Almeno non si è fatto il segno della croce come i domestici.

Non mi sembra di far male lasciando che Dunya faccia a modo suo, purché Arkady non lo sappia.

Dopo che uscì per andare al castello e che il dottore ebbe fatto la sua visita, Dunya ed io ci siamo messe al lavoro. Il povero Bruto guardava, con le robuste mascelle poggiate sulle zampe, mentre circondavamo la finestra di Zsuzsanna con corone di aglio — il Knoblauch — e intanto lei giaceva, grigia e immobile come un cadavere grazie al sedativo del dottore. Adesso l’abbaiare non la disturberà.

Quando finimmo il nostro strano lavoro e ci muovemmo verso il letto dove giaceva la sua padrona per legarle il crocifisso attorno alla gola ferita, Bruto non ci minacciò, ma batté la coda in segno di approvazione.

Ho chiesto a Dunya se desiderava restare nella casa, dal momento che era già tardi. Lei ha detto che non poteva, che l’anziano padre si sarebbe terribilmente preoccupato, così l’ho fatta accompagnare a casa da uno degli uomini. Ha promesso di restare qui domani notte per fare, con Bruto, la guardia a Zsuzsanna. Per qualche ragione, la sua presenza è per me di enorme conforto. Dopo che se ne è andata, mi sono di nuovo spaventata.

Ma, quando Arkady è tornato a casa, ho dimenticato tutto quello che mi riguardava, poiché lui stava chiaramente cercando di nascondere il suo terribile stato nervoso. Infine gli ho chiesto direttamente che cosa lo preoccupasse. Ha detto che non era nulla, che, nel ritornare a casa, un lupo si era avvicinato molto ai cavalli, spaventando lui e loro, ma rassicurandomi che i lupi solitari erano paurosi e non avrebbero attaccato senza la protezione del branco.

Non gli ho creduto del tutto. Penso che sia qualcosa che abbia a che vedere con Vlad.

Altre volte, penso: “È solo il dolore. Ha perso suo padre soltanto di recente; dagli il tempo di riprendersi, non gli fare pressioni’’. Non gli posso dire: “Le leggende sono tutte vere; tuo zio è un Vampiro, e presto lo sarà anche tua sorella se non lo ammazziamo…”.

Ieri sera, ho trovato un grosso dizionario tedesco-inglese nella biblioteca al piano di sopra e, seduta in una poltrona di due secoli più vecchia di me, con il grande libro aperto in grembo, ho trovato le parole: Schwur, Bund.

Patto.

Di quale empia alleanza si tratta?


Il diario di Arkady Tsepesh


11 aprile. È passato un giorno e ancora non vi è alcun segno di Jeffries.

Non dormo molto. Quando lo faccio, ritorno nei miei sogni a quel momento di vivo panico nella foresta e mi trovo intrappolato in un’oscurità divorante, condannato a provare per sempre la puntura dei rami di pino che mi battono contro il viso, il calore del respiro dei lupi, il rumore secco di mascelle affamate in mezzo ai nitriti dei cavalli. Tiro le redini con tutta la mia forza, ma inutilmente. Le ruote del calesse girano in un cerchio senza fine, e i rami continuano a colpirmi sul viso; i cavalli non cessano di nitrire, né i lupi di attaccare ringhiando. So che non troverò mai l’uscita da quella foresta senza fine.

Mai.

Nei miei sogni, vedo anche Jeffries, colto nel momento in cui guarda, fuori della finestra del castello che dà a sud da un’altezza vertiginosa, verso la grande estensione della foresta sottostante. Vedo l’avvampare della paura sul suo viso, sul roseo cuoio capelluto dove i capelli di un biondo latteo si dividono, sulla sua fronte mentre si asciuga con delicatezza le perle di sudore con il fazzoletto con il monogramma. Vedo il terrore nei suoi occhi… e poi lo vedo cadere.

Cadere attraverso la finestra aperta, come fosse in attesa. Lo seguo attraverso quella finestra, osservando al sicuro come un uccello che si libra in volo mentre lui precipita verso il basso, con le braccia e le gambe che si agitano convulsamente, fendendo la fredda aria montana con lo stesso acuto sibilo dei denti dei lupi.

Lotta così freneticamente che, mentre cade, si volta verso l’alto, e riesco a vedere il terrore nei suoi grandi occhi chiari, nei suoi lineamenti contorti, nella sua bocca, aperta e congelata in un muto grido.

Giù giù, giù… Sempre in silenzio, tranne che per il suono sibilante delle sue membra che si contorcono, e un debole e lontano ringhiare che viene da qualche parte al di fuori del sogno.

Una discesa così lunga…

Finalmente raggiunge gli alberi e qui c’è la beffa. La sua caduta non è interrotta da essi, né è interrotta con violenza dall’impatto di rami e cespugli, fino a cadere sul terreno ricoperto di aghi. No: quando raggiunge le cime degli alberi più alti, i loro rami dalle punte sottili lo trapassano come dei pali appuntiti attraversandogli il torace, il collo e le braccia, i polpacci e le cosce.

Rimane impalato, lacerato, oscillando al vento che spira tra le cime degli alberi, con dei rami insanguinati di pino che fuoriescono dal suo corpo come punte di frecce primitive, un moderno San Sebastiano.

E poi sorride, i muscoli del collo che si tirano intorno al ramo che li buca, muovendosi sotto il sangue, e mi guarda con l’identica espressione deliziosamente curiosa che aveva mentre guardava il ritratto del mio antenato, e dice:

«Vlad l’Impalatore. Vlad lo Tsepesh. Nato nel dicembre del 1431. Voi siete un Impalatore, non è così? Uno degli uomini-lupo? Siete ben sicuro di preferirlo a Dracul…?».

Mi sveglio con il cuore che batte forte fino a farmi venire la nausea, ricordando la chiara paura nei suoi occhi mentre guardava fuori della finestra nell’ala sud, e penso: Lui non aveva paura dell’altezza, ma del suo destino. Lo vide che lo attendeva lì.

Più ci rifletto, più comprendo che non posso andare dalle autorità di Bistritz senza altre prove. Non habemus corpus; non abbiamo un corpo, quindi il delitto non c’è. Vlad rifiuterà di sospettare Laszlo per cieca lealtà, e continuerà a insistere che Jeffries ha semplicemente scelto di scomparire, a meno che non ci sia una prova.

Così, questa mattina ho pulito la pistola di papà — un lucente revolver Colt d’acciaio, la più recente novità nelle armi da fuoco e mio ultimo dono a lui, spedito dall’Inghilterra — e l’ho messo nel calesse insieme a una lanterna.

Poi sono partito per il villaggio. Ho guidato lentamente i cavalli lungo il bosco, facendo di proposito una piccola deviazione indietro verso il castello, e ritornando nel luogo dove Stefan era apparso l’ultima volta, ma il suo fantasma non è riapparso.

Era mezzogiorno quando mi sono diretto verso il cimitero del villaggio, dove il figlio di Masika veniva seppellito. Ho legato i cavalli a un palo fuori alla chiesa e ho guardato da lontano la semplice cerimonia dei contadini.

C’era una triste bellezza nella sua semplicità. Sei rumini muscolosi portarono la bara di pino sulle spalle e la deposero accanto a una tomba scavata da poco, mentre tutte le donne cantavano i Bocete con alte voci tremanti. Non c’erano delle donne pagate per lamentarsi, né un’elegante tomba di marmo affollata di ombre ancestrali, né targhe d’oro; soltanto gente del paese, la famiglia, un profondo buco nella nera terra, e una lapide fatta di pietra che gli elementi avrebbero reso illeggibile nel corso di una generazione. Non c’era nemmeno un qualche senso di storia familiare; Masika Ivanovna, vestita di nero dalla testa ai piedi, era l’unica parente del giovane che partecipasse, l’unica a gettarsi sulla bara chiusa e a gemere.

Nello spazio di alcuni minuti, il piccolo gruppo di donne che le stavano attorno la tirarono via. in modo che il servizio funebre potesse cominciare. Il prete stava dietro la piccola lapide di pietra e recitò il Quinto Salmo, poi la liturgia, con un tono calmo, musicale; di tanto in tanto, i partecipanti rispondevano cantando.

Ben presto la bara fu calata nella buca in attesa e coperta con manciate di terra e singole rose selvatiche. Pensai al bel ramo di rose scarlatte, che emanavano un dolce profumo dalle loro ferite, mentre giacevano calpestate sul pavimento di marmo della tomba di papà.

Quando tutto fu finito, i presenti mi evitarono, segnandosi con la croce e facendo dei gesti particolari per scacciare il malocchio: una V formata dal primo dito e dal medio che mi puntavano contro. Una delle donne che aveva aiutato Masika Ivanovna, mi sibilò qualcosa mentre passava.

Io ero sgomento e confuso da quella reazione, ma fui sollevato quando Masika Ivanovna, con le guance rotonde arrossate e luccicanti di lacrime, si avvicinò e con calore mi afferrò le mani.

Ci abbracciammo come parenti da lungo tempo lontani. Ripensandoci, mi sembra strano e inappropriato ma, in quel momento, provai verso di lei un legame molto forte e teneramente sentito, forte come quello che avrei potuto sentire verso lo zio o Zsuzsanna.

Mentre teneva ancora la mia mano nelle sue, fece un passo indietro e osservò il mio viso con affettuosa malinconia, come potrebbe fare una madre.

«Arkady Petrovich! Che bello da parte tua venire! Come sono grata di poterti vedere un’altra volta!».

Pronunciò l’ultima frase con tale convinzione che io risposi:

«Avrai molte opportunità di vedermi ancora, al castello».

Le sue labbra si strinsero forte; scosse la testa e nei suoi occhi brillò lo stesso cupo dispiacere e timore che avevo visto proprio prima che la presenza di Laszlo la interrompesse nello studio di papà.

«No», disse a voce bassa. «Non ci ritornerò più».

«Sei sconvolta dal dolore, Masika Ivanovna. Tra una settimana, forse due, ti sentirai abbastanza forte da lavorare di nuovo. Inoltre, là, tu sei la mia unica vera amica».

Le lasciai le mani e tirai fuori dalla tasca il grosso crocifisso d’oro con la catena che avevo preso la notte precedente dalle camere degli ospiti. Lo premetti nel suo palmo; lei guardò in basso con sgomento.

«Jeffries non lo porterà più», spiegai e, dopo un attimo, aggiunsi a voce bassa: «È scomparso».

«Oh, Arkady!», gridò, così presa dall’angoscia che mi si rivolse come a un familiare. «Tu non capisci ancora, vero?». Immediatamente si guardò furtivamente alle spalle, verso le donne che l’attendevano a breve distanza. Sporgendosi verso di me, come se temesse che qualcun altro potesse sentire, bisbigliò: «Il mio destino non mi importa più. Ho perduto i due uomini che maggiormente amavo al mondo, e non mi importa se vivrò o morirò. Eppure, temo moltissimo per te, per tua moglie e per il bambino…».

Il mio cuore cominciò a battere più rapidamente al pensiero che qualcuno potesse credere che Mary fosse in pericolo.

«Che cos’è che temi, Masika? Che qualcuno ci faccia del male?».

Laszlo, mi dissi; lei sa che è un assassino. Ma le parole che seguirono servirono soltanto a rendermi perplesso.

«Non fisicamente, ma ci sono ferite peggiori… quelle inflitte all’anima». Si portò le mani al viso ed emise un debole, amaro singhiozzo. «La mia ha sopportato abbastanza. Voglio soltanto morire».

«Masika, non devi dire queste cose…».

Continuò come se non avessi mai parlato, allungando il braccio per toccarmi la guancia e mi guardò con gentile affetto materno.

«Tu sei come tuo padre quando era giovane, pieno di bontà e gentilezza. Ma può essere già troppo tardi per te… troppo tardi».

«Non capisco», risposi, ma lei m’interruppe con un bisbiglio rauco e veloce, come se temesse che potessi cercare di fermarla.

«Il Patto, Arkady Petrovich, il Patto! Vieni da me di giorno, quando lui dorme. Non è sicuro per noi parlare così all’aperto: ci sono troppe orecchie, troppe spie. Oggi non possiamo parlare; la mia casa sarà piena, ma vieni da me presto… tra un giorno o due. Dobbiamo parlare, e…», qui la sua voce si abbassò talmente che potevo a malapena sentire, «… c’è una lettera da parte di mio figlio che devi leggere. Lui sapeva che il suo momento era vicino, e così ti ha scritto. Ma per amor suo e mio, non parlarne a nessuno. Devi giurare di tenerlo segreto. Soltanto, vieni…!».

La sua fretta era impellente, ma io non riuscivo a dare un senso alle sue parole.

«Ma perché, Masika?»

«Perché…», cominciò, poi esitò per alcuni secondi, guardando intensamente il mio viso con occhi ansiosi, pieni di dolore, come se temesse di essere condannata. «Perché amavo tuo padre. Perché è tuo fratello che seppelliamo oggi».

Mi ritrassi, sopraffatto dalla sorpresa, incapace di rispondere mentre lei se ne andava rapidamente per unirsi al gruppo delle donne in attesa, le cui forme scure scomparivano veloci come merli che volavano bassi sull’erba che si risvegliava per la primavera.

Attesi finché l’ultimo dei partecipanti fu sparito, poi mi avvicinai alla tomba, dove i becchini stavano cominciando a coprire la bara calata nella fossa con palate di terra. La semplice lapide recitava:


RADU PETROVICH BULGAKOV
1823–1845

Bulgakov era il cognome di Masika, ma il vedere sulla lapide il patronimico russo non consolò il mio cuore: Petrovich, figlio di Petru.

Non so descrivere come mi sento ora, o come mi sentii in quel momento. Colpito. Ferito. Tradito. Amaramente arrabbiato… con Masika, con papà. Con quel giovane, perché era morto prima che lo potessi incontrare.

Quando mi ripresi, chiesi al becchino più anziano:

«Di che cosa è morto?».

L’uomo smise di spalare per guardarmi con educata ostilità mentre sollevava il cappello spiegazzato e si puliva la fronte sporca con un avambraccio persino più sporco.

«Voi siete Dracula, signore. Di sicuro lo sapete».

Il suo tono era perfettamente civile, ma trasmetteva la profondità del suo odio verso di me… e la sua paura.

«Tsepesh», lo corressi, ma non c’era rimprovero, non c’era rabbia nella mia voce, soltanto un sincero desiderio di sapere. Quel nome evocò nella mia mente un’immagine improvvisa di Jeffries, che giaceva impalato su degli alti e oscillanti rami di pino; lottai per reprimerla.

«Onestamente no. Per favore…». Mi fermai e aggiunsi, pensando a Laszlo: «È stato un assassinio?».

Mi fissò con gli occhi socchiusi, scettici, cercando di giudicare la mia sincerità. Alla fine, qualcosa che vide lo dovette convincere, perché rispose, mentre cessava la sua osservazione e ritornava a scavare:

«Ahimè, si potrebbe dire così, signore. La sua gola è stata squarciata dai lupi».

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