Capitolo secondo

Il diario di Zsuzsanna Tsepesh


6 aprile. Sto scrivendo che è passata la mezzanotte… anzi, suppongo che in realtà sia, dopotutto, il 7 aprile… Ho così bisogno di dormire… sono così esausta! Il giorno in cui papà è morto, ho pianto per tutta la notte, né ho potuto riposare bene la notte seguente. Ora che il dolce sonno finalmente arriva, sono tenuta sveglia dall’abbaiare di Bruto. Continua a scagliarsi contro la finestra. Adesso è calmo ma, se lo fa ancora, lo chiuderò in cucina, prima che svegli l’intera casa.

Sulle prime, quando ho aperto gli occhi e ho guardato verso la finestra, ho pensato di vedervi riflesso il viso dello zio, ma era soltanto l’immagine residua di un sogno. Bruto era talmente agitato che, alla fine, mi sono alzata, ho aperto le imposte per indagare, e ho visto qualcosa di furtivo e di grigio che correva attraverso i campi: un lupo.

Avevo pensato che non sarei stata in grado di dormire dopo lo spavento e che avrei continuato a scrivere dell’arrivo di Kasha e di Mary, ma la stanchezza ha la meglio su di me. Ora, a letto. Fai dolci sogni, Bruto!


Il diario di Mary Windham Tsepesh


7 aprile. Questo paese è bello, selvaggio e strano come la sua gente, e i familiari di mio marito sembrano essere i più strani di tutti.

Il senso di colpa non è lieve mentre scrivo queste parole, ma io devo in qualche modo alleggerire il fardello di questa consapevolezza: però non posso dirlo al mio bravo marito e. certamente, non alla sua famiglia. Eppure, mentre comincio a scrivere, sono tentata di attribuire le mie spiacevoli sensazioni a manie dovute alla mia condizione. Forse, tutte le mamme in attesa soffrono di tali preoccupazioni…

Sciocchezze! Non sono mai stata fragile, mai soggetta a malattie che si originassero dai nervi. Arkady è orgoglioso del mio equilibrio, ed è vero. Io provengo da gente con il sangue freddo. Amo mio marito per il suo calore, la sua passione, le sue audaci profferte che a me non salgono facilmente alle labbra. La maggior parte delle volte invidio proprio queste qualità.

Ma il suo prozio le possiede fino al livello della pazzia.

Non posso dire nulla al mio povero, caro Arkady; è già abbastanza depresso per la morte di suo padre. Sono decisa a non aumentare la sua angoscia, poiché la capisco fin troppo bene. Sono rimasta orfana all’età di tredici anni. Ho quattro sorelle e tre fratelli, ma siamo cresciuti divisi nelle case di lontani parenti, quando mia madre e mio padre morirono precocemente in un incendio. Ho desiderato così a lungo di appartenere nuovamente ad una vera famiglia che, quando a Londra lessi le belle lettere del padre, della sorella e del prozio di Arkady che mi accoglievano nella loro, mi vennero le lacrime agli occhi. Mi sentivo onorata di far parte di una tradizione che risaliva di secoli indietro nel tempo; mi sentivo privilegiata. Sapevo che i miei figli ne sarebbero stati fieri.

Quando finalmente sono arrivata in Transilvania, la lussureggiante bellezza del paesaggio mi ha affascinato, e la magnificenza delle proprietà di famiglia mi toglie il fiato, ogni volta che concentro la mia attenzione su ciò che mi circonda. Posso a stento credere che sono una parte di tutto ciò, che ora sono considerata la castellana di questo grande castello costruito quattrocento anni fa.

Mentre scrivo queste parole, posso alzare gli occhi e vedere attraverso le persiane aperte delle eteree nuvole di gemme dove i ciliegi e gli alberi di prugne ricoprono il lato della montagna accanto al grande castello di pietra del Principe, che si erge contro lo sfondo dei Carpazi. Oltre la finestra opposta, dei pastori in costume caratteristico sorvegliano delle greggi al pascolo nei campi aperti che circondano la fitta foresta, una vista che non deve essere affatto diversa da quella che gli abitatori di questa stanza dovettero vedere in secoli precedenti.

Arkady dice che c’è anche un vigneto e, quando siamo arrivati da Bistritz, mi indicò i vasti campi del suo prozio accanto al villaggio nella valle, e disse che in autunno sarebbero diventati dorati per il grano. I possedimenti degli Tsepesh forniscono cibo all’intera comunità: piuttosto generosamente, direi, poiché i contadini locali sembrano molto meglio vestiti e nutriti di qualunque altro che abbia visto in altre zone di questo impero.

Io sono senza parole e ansiosa di dimostrarmi degna di far parte della famiglia. Un’altra fitta di senso di colpa mi trafigge quando scrivo queste parole, poiché loro non hanno voluto nulla da me, e non hanno fatto nulla tranne che accogliermi a braccia aperte.

Quando conobbi Zsuzsanna, lei mi conquistò il cuore. È così gentile, ed è una creatura così fragile, così sola… zoppa, come sembrano essere molti dei contadini. Arkady dice che è a causa dell’isolamento e dei matrimoni tra consanguinei, e che è una delle ragioni per cui la sua orgogliosa famiglia corre il pericolo di estinguersi.

Mi dispiace per Zsuzsanna, oramai sola in questa grande e triste casa. Mi è dispiaciuto per la morte di suo padre, ma sono contenta di essere venuta. Credo che nulla la renderebbe più felice che giocare a fare la zietta di una nidiata di bambini (e niente renderebbe me più felice che fare la madre di uno di essi). Lei stessa è una specie di bambina, essendo stata, come la sua gente, isolata troppo a lungo dai contatti con l’esterno. Sebbene sia straordinariamente intelligente — faceva pratica di inglese con Arkady “per divertimento” prima che lui partisse per l’Inghilterra e le lettere che ci ha scritto provano che, come suo fratello, ha ereditato il talento linguistico della madre poetessa — è anche enormemente ingenua.

Ma il suo prozio, Vlad…

Di lui non so cosa dire, tranne che mi spaventa, mi disgusta, e mi affascina. Non lo voglio vicino ai miei bambini. Forse il mio desiderio sarà esaudito, perché sembra terribilmente debole e pallido e, secondo Arkady, è incredibilmente vecchio.

Quando lasciammo Bistritz, vidi la paura negli occhi del vecchio cocchiere e la vedo quotidianamente negli occhi della mia cameriera, Dunya. Lei e gli altri domestici rabbrividiscono quando io o uno degli altri membri della famiglia ci avviciniamo, e non ci guardano negli occhi. Dopo aver conosciuto il Principe, ne capisco la ragione. C’è qualcosa di terribilmente inquietante in lui, qualcosa di spaventoso. Non riesco a definirlo, poiché ha a che vedere con l’istinto, e non con la ragione. Persino il cane, Bruto, lo percepisce, e fugge la presenza del Principe.

Ma Arkady e Zsuzsanna no. Lo guardano con un tale amore e una tale devozione! Ne parlano con un rispetto che altri riserverebbero a Dio, e minimizzano tutto ciò che essi definiscono piccole eccentricità: Vlad non ha partecipato nemmeno al funerale, ma nessuno si è offeso. È come se li avesse ipnotizzati.

Invece, la sera seguente al nostro arrivo, venne al pomana di Petra, un tradizionale “banchetto per il morto” per il quale furono preparati tutti i piatti preferiti dal defunto: mamaliga, una pappa piccante di farina di grano con sopra uova affogate, cavolo ripieno, e un piatto di pollo con una salsa rossa pepata.

È stata una faccenda breve e dolorosa. Nella sala da pranzo, simile a una caverna, Arkady, Zsuzsanna ed io, siamo rimasti in attesa, malinconici beneficiari di una sovrabbondanza di ricchezza, circondati da candelabri d’argento dai cento bracci, da un servizio da tavola in oro puro, e dal cristallo finemente lavorato, in cui ogni faccia rifletteva un migliaio di scintillanti lingue di fuoco. Eravamo seduti a un lungo, pesante tavolo di legno che avrebbe facilmente potuto ospitare trenta persone, e dall’altra parte del salone c’era un secondo tavolo della stessa lunghezza ma di altezza inferiore, che io suppongo fosse per i bambini.

Non potei fare a meno di pensare quanto fosse triste che la famiglia si fosse ridotta a noi tre più lo zio. Apparentemente, non fui l’unica a cui venne in mente questo pensiero, poiché Zsuzsanna si voltò verso Arkady e, con una debole e forzata allegria, gli disse:

«Ti ricordi, Kasha, quando eravamo bambini e zio Radu veniva a farci visita da Vienna?».

Mio marito annuì mentre diceva, con una voce ancora bassa per il dolore:

«Mi ricordo. Portava con sé le nostre cugine».

«Sei figlie», disse Zsuzsanna, con un sorriso tremante. I suoi grandi occhi neri luccicarono alla luce della candela per le lacrime non versate. Apparentemente, il pomana viene considerato come un lieto evento, il ricordo di ciò che c’era di buono nella vita del defunto, ma lei sembrava oscillare sull’orlo di un precipizio emotivo, incerta se ridere o piangere. «Tutte così allegre, così intelligenti! Sedevamo con loro a quel tavolino», lo indicò, «e loro cominciavano a cantare per gli adulti. Ti ricordi?». Ora cantò una frase di quella che sembrò alle mie orecchie una ninna nanna transilvana; la sua voce era chiara e gradevole. «E papà convinceva gli adulti a cantare il ritornello».

Poi cantò ancora e, così facendo, un’unica lacrima le scivolò lungo la guancia; quando ebbe finito, il suo sorriso incerto si allargò. Con la stessa generosità emotiva che mi faceva amare suo fratello, si voltò verso di me ed esclamò:

«Sono così felice che tu sia venuta! Sono stata così triste per il fatto che la nostra famiglia fosse separata, ma ora avremo di nuovo dei bambini che ridono in queste stanze!».

Toccata, le afferrai la mano magra e la strinsi. Prima che potessi rispondere, Arkady si voltò nella sua sedia e Zsuzsanna lanciò uno sguardo veloce all’entrata. Seppi, immediatamente, che il Principe era arrivato, e seguii il loro sguardo, ansiosa di vedere, finalmente, il benefattore che aveva riversato così tanta gentilezza su di me e sulla sua famiglia.

Al vederlo, riuscii a malapena a trattenere un sussulto di spavento. Il suo aspetto era alquanto diabolico. Rimase sull’entrata, con la sua figura alta, imponente, che sembrava principesca in ogni millimetro. Sembrava, però, emaciato, mezzo denutrito, e così orrendamente pallido da sembrare senza sangue. Per contrasto, la pallida e consunta Zsuzsanna appariva come una rosa in fiore. La mia prima impressione fu che soffrisse di anemia o di qualche terribile forma di tisi. La sua carnagione si addiceva quasi perfettamente ai suoi capelli bianchi argentei e, nella luce tremula della candela, la sua pelle assumeva una strana fosforescenza. Immaginai che, se avessimo spento tutte le candele e fossimo rimasti al buio, lui avrebbe potuto continuare a risplendere come una lucciola. Eppure, nonostante il pallore, le sue labbra erano di un rosso intenso e scuro e quando, al vederci, si aprirono in un sorriso, apparvero per un momento dei denti color avorio, troppo lunghi e aguzzi.

Sorprendentemente, né Arkady né sua sorella sembrarono turbati dallo strano aspetto del loro zio o dai suoi spaventosi occhi magnetici. Quegli occhi mi studiarono con una tale intensità predatrice da farmi rabbrividire, e nella mia mente sorse un pensiero spontaneo: Ha fame, ha terribilmente fame.

Lui non disse nulla, ma rimase fermo come una statua all’entrata finché, finalmente, Zsuzsanna gridò; «Zio! Zio!» con una tale eccitazione e un tale giubilo che uno avrebbe potuto pensare che il padre fosse appena ritornato dal regno dei morti. Faticò per spingere all’indietro la pesante sedia, come se intendesse correre da lui come una bambina. «Per favore, entra!».

All’invito di lei, lui attraversò la soglia per entrare nella stanza. Sia Arkady che Zsuzsanna si alzarono e lo baciarono, un bacio su ogni guancia. Lui si fermò un po’ di più con Zsuzsanna, circondandole la vita con le braccia e…

Possa Dio perdonarmi per i miei pensieri cattivi se lui è innocente, ma non sono una che si lascia andare all’immaginazione o ai pettegolezzi. So quello che ho visto. Quando lei alzò gli occhi su di lui, i suoi occhi brillavano di adorazione, e lui guardò in basso verso di lei con una chiara, inequivocabile fame. Percepii un momento incerto, in cui lui sembrò appena in grado di controllarsi, poi alzò lo sguardo, vide la mia espressione indagatrice, e le sue labbra si curvarono verso l’alto.

Sotto l’osservazione di quegli occhi verde scuro, provai un’improvvisa confusione, come se la capacità della mia mente di vedere la realtà vacillasse per un istante, come le candele. Un nuovo pensiero sostituì quello precedente, ma mi parve quello di un’estranea, non il mio: “Sicuramente stai facendo un grosso errore. Guarda: lui l’ama semplicemente come una figlia…”.

Quegli occhi mi attiravano come un vortice. Mi sentivo stranamente attirata, stranamente respinta. Il battito del mio cuore aumentò — se per l’eccitazione o per il terrore, devo ancora deciderlo — e il bambino, dentro di me, si mosse. Istintivamente, misi una mano sul mio ventre gonfio e lui, allora, si avvicinò a me, mi prese l’altra mano e si chinò per baciarla.

Il suo tocco era talmente simile al ghiaccio che lottai per non rabbrividire — ma senza riuscirci — quando sentii le sue labbra aprirsi e la sua lingua scivolare con leggerezza sul dorso della mia mano, come se stesse assaggiando la mia pelle, nel modo in cui potrebbe fare un animale. Poi si raddrizzò, e di nuovo vidi una scintilla di appetito in quegli occhi degni di un incantatore di serpenti.

“Ma ti stai sbagliando…”, mi dissi ancora.

«Cara Mary», cominciò, in un inglese fortemente accentuato, con una voce così cantilenante, così musicale, così estremamente affascinante, che io mi sciolsi immediatamente, e provai un’ondata di enorme colpa per aver potuto pensare cose terribili di quel vecchio veramente gentile e generoso. Poi mi guardò il ventre, con lo stesso estremo desiderio…

O era amore estatico?

«Cara Mary, che bello conoscerti!». Teneva ancora la mia mano tra le sue due, enormi e fredde. Non volevo niente altro che liberarla e pulirne il dorso sulla mia gonna, ma rimasi educatamente immobile, mentre il suo sguardo mi osservava intensamente. «Arkady aveva ragione a dire che sei molto bella; occhi come zaffiri, capelli come l’oro. Un gioiello di donna!».

Arrossii e balbettai goffamente dei ringraziamenti. Le sue parole mi colpirono come se fossero apertamente inclini a un flirt, ma Zsuzsanna e Arkady ci guardavano con sorrisi di approvazione, come se il comportamento del loro prozio non fosse quello di un libertino, ma del tutto appropriato. Decisi che, forse, i modelli di comportamento della Transilvania e della Gran Bretagna erano completamente diversi.

Avendo raggiunto il massimo della sua capacità di parlare inglese — apparentemente il suo poetico complimento era stato attentamente preparato — Vlad tornò al rumeno e Arkady tradusse:

«Che bello incontrarti, finalmente! Ti ringrazio di cuore per la fresca gioia che hai portato nella nostra famiglia. Come ti senti dopo il lungo viaggio?»

«Piuttosto bene, Signore», risposi, e rimasi in ascolto degli strani suoni sibilanti che Arkady usò per riportare la mia risposta a Vlad. Ho studiato un po’ di francese e un po’ di latino, e riuscivo a indovinare alcune parole. In realtà, non mi sentivo del tutto bene, ma all’improvviso venni presa dalle vertigini, e non desideravo altro che sedermi.

«Benissimo!», rimarcò Vlad con vigore. «Dobbiamo prenderci cura attentamente di te, e far sì che tu stia sempre bene, poiché sei la madre dell’erede dei Tsepesh».

Per il resto della sera, Vlad parlò in rumeno e Arkady tradusse, sebbene, di tanto in tanto, comunicassimo l’un con l’altro direttamente, in un tedesco incerto. Per amore di convenienza, registrerò la nostra conversazione come se si fosse svolta interamente in inglese.

Lo ringraziai per le sue gentili lettere, e ci scambiammo i più cortesi commenti, poi prendemmo posto al tavolo della cena. Il cane, Bruto, che era rimasto accucciato ai piedi di Zsuzsanna, ringhiò molto ingenerosamente verso Vlad, poi sgusciò via dalla stanza e non riapparve per il resto della serata.

Eppure Vlad dimostrò di essere tanto affascinante quanto spaventoso. Tenne un piccolo discorso sul defunto nipote, così toccante e veramente sentito, che tutti noi avemmo le lacrime agli occhi. Poi fu servita la cena, durante la quale ogni persona raccontò delle storie affettuose su Petru, e furono fatti molti brindisi. Finsi di bere soltanto qualche sorso, poiché bere vino, in generale, non mi piace, e ancor meno da quando sono incinta.

Durante i brindisi, la mia attenzione fu catturata dal fatto che Vlad portava il bicchiere alle labbra ma fingeva soltanto di bere, né mangiava, sebbene sollevasse la forchetta in parecchie occasioni. Alla fine della serata, sia il suo vino che il suo cibo non erano stati assolutamente toccati. Ancora più sorprendente fu il fatto che né i domestici né la famiglia sembravano averlo notato.

Mi sentii certa che la famiglia la tollerasse semplicemente come un’altra delle eccentricità del Principe ma quando, più tardi, lo accennai timidamente ad Arkady, lui mi sembrò pensasse che stessi scherzando. Ma era naturale che lo zio avesse mangiato la cena: lui l’aveva visto mangiare e bere con i suoi stessi occhi!

Questo mi sembrò incredibilmente strano, ma non gli dissi null’altro, per non far sì che mi considerasse pazza o in preda all’immaginazione a causa della gravidanza.

È l’inizio della follia se penso di essere l’unica sana di mente?

A un certo punto, durante la cena, Vlad tirò fuori una lettera per Arkady e parve estremamente ansioso che lui gliela traducesse, poiché era scritta in inglese. Sembrava che fosse di un gentiluomo britannico che aveva progettato, prima della morte di Petru, una visita alla proprietà. Pensai che il momento fosse inopportuno, considerando la solenne circostanza, ma Arkady gliela tradusse di buon grado, promettendogli poi di aiutarlo a scrivere la risposta. Vlad si rivolse sorridendo verso di me e disse:

«Tutti e due dovrete aiutarmi ad imparare l’inglese!».

Lusingata, replicai:

«E lei mi dovrà aiutare a imparare il rumeno».

«No», disse Vlad, «questo non sarà necessario».

Infatti era sua intenzione, ora che Petru se n’era andato, di fare un viaggio in Inghilterra. Petru si era sentito legato a quella terra, spiegò, ma, per quanto lo riguardava, lui amava muoversi. La Transilvania era un paese superstizioso, arretrato e piccolo, e il villaggio stava diventando un posto del tutto isolato, ora che molti contadini se ne andavano nelle città. Sentiva di non poter più fare affidamento sull’occasionale svago fornito dai visitatori, i quali raccontavano tutti delle storie di come il mondo oltre la foresta stesse cambiando rapidamente, molto rapidamente.

«Meglio tenersi al passo con quei cambiamenti», disse con allegria, «che languire qui nell’isolamento. Sopravvivono soltanto coloro che si adattano alle necessità dei tempi!».

Il viaggio, si affrettò ad aggiungere, avrebbe avuto luogo entro un anno circa, dopo che il bambino fosse nato e fosse stato abbastanza grande per viaggiare. E per quel momento lui sarebbe stato in grado di parlare piuttosto bene l’inglese.

«Bene», dissi io, pensando che l’inclinazione di Arkady per i viaggi fosse chiaramente ereditaria, «certamente mi sentirei contentissima e privilegiata di servirla come sua maestra e guida turistica ma, quando ritorneremo in Transilvania, mi sarà d’aiuto conoscerne la lingua».

«Ah», rispose, «ma questa non è la mia intenzione. Io intendo trasferirmi, forse permanentemente, in Inghilterra… sebbene, naturalmente, ritornerò di tanto in tanto per delle visite, dettate dalla nostalgia, alla proprietà di famiglia…».

A dire la verità, il mio cuore era già felice al pensiero di ritornare a casa ma, al sentire quelle parole, Zsuzsanna si alzò di scatto dalla sedia, in un impeto di rabbia che ci spaventò tutti.

«Io lo vieto!», gridò, in uno strano miscuglio di inglese e di rumeno, come se non sapesse decidere chi dei due — me o Vlad — potesse capire (scrivo qui quello che ritengo sia il senso dell’avvenimento). «Non potete andarvene! Tu sai che io sono troppo debole per viaggiare con te e, se tu mi lasci, io ne morirò!».

Rapidamente lui voltò la testa verso di lei. La luce della candela si rifletté sui suoi occhi, che luccicarono di una luce rossa, come quelli di un animale, e per un istante la collera contorse i suoi lineamenti aguzzi, tanto che pensai di stare guardando il viso nientemeno che di un mostro. Immediatamente, però, si ricompose, e il suo tono fu calmo, mentre le parlava con dolcezza.

Quando, più tardi, chiesi ad Arkady che cosa aveva detto, lui mi spiegò che Vlad l’aveva rassicurata che non saremmo mai partiti, se Zsuzsa non fosse stata abbastanza forte da venire con noi e che, se avesse continuato a sentirsi debole, avrebbe pagato un dottore per farla stare bene.

Lei scoppiò a piangere, e la sua voce tremò mentre diceva:

«Come potete pensare di partire? Papà è qui. Stefan è qui. Tutti i nostri ricordi sono qui».

Lui continuò a parlare confortandola e, finalmente, lei si calmò e si rimise seduta. La cena si concluse cordialmente e senza ulteriori incidenti, ma io ero estremamente turbata.

Ho visto come lui la guarda e come lei guarda lui. Lei è disperatamente innamorata di lui, ed io temo che Vlad non abbia troppi scrupoli ad approfittare di questo fatto. Il mio innocente marito non ne ha idea, ed io non so come dirglielo.


Il diario di Arkady Tsepesh


7 aprile. Maledetti contadini! Che siano dannati! Che siano maledetti, e che per la loro superstizione e la loro stupidità vadano all’inferno!

A fatica riesco a scrivere ciò che è accaduto: è troppo mostruoso, troppo doloroso, troppo grottesco. Eppure devo… qualcuno deve testimoniare il male causato dall’ignoranza.

Ieri abbiamo sepolto papà, accanto a Stefan e a mamma, nella tomba di famiglia situata sul poggio tra la casa e il grande castello. Non volevo che Mary prendesse parte alla cerimonia, poiché sembrava debole e stanca, ed era un giorno primaverile freddo e ventoso. Ma lei è stata irremovibile, dicendo che era il minimo che potesse fare per il suocero che non aveva mai conosciuto.

La tomba le ha fatto una profonda impressione, e si fermava per leggere sul muro esterno gli elenchi dei nomi di ogni persona lì sepolta. Nonostante la tristezza, ho provato un qualche vago orgoglio per la tomba signorile e per il fatto che tutte le iscrizioni, persino le più antiche — che risalgono all’inizio del Settecento — fossero leggibili, come se fossero state incise con ogni cura nel marmo bianco, insieme alle date, in modo che il nome degli antenati non venisse mai dimenticato e perso nei secoli (presto, un giorno, le mostrerò la cappella e le cripte che risalgono al quindicesimo secolo).

Ci fu una breve cerimonia a mezzogiorno. Mettemmo papà in una piccola nicchia insieme a Stefan e a mia madre che non ho mai conosciuto. Secondo i suoi desideri, non ci fu il prete, né furono lette le scritture o il servizio funebre. La grande porta che conduce alla tomba fu aperta, e i domestici portarono la bara all’interno, sistemandola poi su un catafalco circondato da candele accese e decorato da fragranti fiori bianchi.

Noi la seguimmo e le demmo il nostro addio finale, poi parlai brevemente, percependo ancora una volta l’esame minuzioso e la palpabile presenza dei miei antenati defunti; quasi mi aspettavo di vedere il piccolo Stefan nel piccolo gruppo di persone presenti. Vlad non venne, cosa che non sorprese particolarmente nessuno, anche se aveva fatto fare una placca d’oro squisitamente incisa per la bara che diceva: “PETRU TSEPESH, amato padre, marito e nipote”, un’altra coppia di cantanti di Bocete, e una bella cascata di rose rosse che adornavano il feretro e che lasciammo nella tomba, insieme a papà.

Il giorno passò tranquillamente, e poi passò anche il seguente. Dopo la mia prima registrazione sul diario, Mary ed io abbiamo discusso parecchie volte circa la conversazione con Vlad e il fatto che io resti per prendere il posto di mio padre, e lei è quasi riuscita ad alleviare il mio senso di colpa per aver chiesto a una moglie di città di trascorrere il resto della sua vita nelle selvagge foreste dei Carpazi.

Bistritz è la più vicina città dotata di ufficio postale, e non può certo sostituire Londra; per mandare o ricevere posta o per fare spese in negozi modesti, ci vogliono perlomeno otto ore di viaggio in carrozza (per non parlare del viaggio di ritorno!) lungo strade tortuose. Durante le tempeste invernali, saremo, di fatto, isolati.

Mary dice che non ha importanza, finché mi può restare accanto; per parte mia, non riesco a immaginare quale santa azione io abbia fatto nella mia fanciullezza da portarmi come ricompensa una tale moglie.

Il giorno seguente, Mary sembrava fisicamente provata, ed è rimasta a letto fino a tardi. Io ho riposato e letto un romanzo della ben fornita biblioteca di mio padre, ed ho preso la decisione di andare la sera a parlare con Vlad. La tristezza ha ancora avuto la meglio su di me, di tanto in tanto, ma sapevo che la noia non era il modo giusto per alleviarla. Desideravo tenermi occupato sapendo che avrebbe allietato il mio cuore fare qualcosa che avrebbe fatto piacere a papà.

Così, poco prima del tramonto, mi sono incamminato verso il castello. Sono appena quindici minuti a piedi su per il dolce pendio verdeggiante che guarda a sud: per un uomo di città una semplice passeggiata per sgranchirsi le gambe. La luce del sole filtrava attraverso i rami degli alti pini verso ovest; l’aria era piena di un impalpabile calore primaverile e del dolce e alto canto degli uccelli.

Nonostante l’idilliaco paesaggio, un crescente disagio si impadronì di me, e non fu che quando udii l’abbaiare frenetico di un cane nella casa alle mie spalle che ne determinai la causa: mi ero completamente dimenticato che al cader della notte i lupi se ne vanno in giro.

Non era tanto pericoloso come in inverno, quando si raggruppavano in branchi mortali, ma il pensiero di incontrarne anche uno solo, mi spinse ad affrettare il passo. Nondimeno, mi concessi una deviazione che mi ero ripromesso alla tomba di famiglia, per restare un momento da solo con mio padre.

Ma, mentre mi avvicinavo alla recinzione di ferro nero, potei vedere attraverso le sbarre uno strano spettacolo: i cadaveri di due lupi giacevano appena al di là del cancello spalancato. Capii immediatamente che qualcosa non andava, che terribilmente non andava.

Mi misi a correre e sfrecciai attraverso il cancello aperto. I lupi giacevano su un fianco, uno accanto all’altro, con gli occhi velati dalla morte; il cranio di uno di essi era stato fracassato, e il ventre dell’altro era reso duro dal sangue rappreso. Era evidente che in quel punto avevano attaccato un visitatore che li aveva uccisi ed era scappato, dimenticando, nella fretta, di chiudere il cancello.

C’era qualcos’altro: alzai lo sguardo dai corpi dei lupi, e vidi che la porta che conduceva alla tomba era stata aperta e così era rimasta. Pieno d’orrore, corsi all’interno; l’entrata alla tomba era bloccata da un altro lupo ucciso. Ne oltrepassai rapidamente il corpo e corsi alla nicchia dove giaceva mio padre.

La tomba era stata aperta, qualcuno era entrato, e l’ultimo luogo di riposo di mio padre era stato violato. Le belle rose rosse erano state gettate da una parte ed erano sparse dappertutto sul bianco pavimento di marmo. Per quanto riguardava la bara, le viti erano state levate e lasciate dove erano cadute, e il coperchio di legno tolto e appoggiato contro il muro più vicino. Il rivestimento di piombo era stato segato e tolto.

All’interno della bara, il cadavere di mio padre giaceva straziato. Un grosso palo di legno era conficcato nel suo petto, come se fosse stato messo lì con un martello. Gli era stata aperta la bocca e qualcosa di bianco (dapprima pensai a un fazzoletto) gli era stato ficcato dentro; e il collo…

Oh, Dio! Stefan! Padre!

Chi aveva commesso quella vile azione era riuscito a segare per tre quarti il collo, ma si era fermato prima che si staccasse del tutto. Dato che papà era morto da due giorni, c’era poco sangue, e la sua espressione era rimasta quella di un pacifico riposo, ma il peso del cranio, ora staccato dai muscoli anteriori del collo, faceva sì che la testa si chinasse leggermente all’indietro e il mento fosse rivolto verso l’alto, rivelando un taglio rosso che si apriva come un sogghigno sotto la mascella. Il profanatore aveva tagliato così in profondità che vidi, nascosta dentro la massa rossa e violacea dei muscoli e delle vene, la sua spina dorsale. Per un istante, sembrò come se fossi stato trasportato indietro di due decenni, a guardare ancora una volta la gola squarciata di mio fratello Stefan.

Lo shock mi provocò una visione opprimente che avrei potuto definire come un sogno ad occhi aperti, se non fossi stato convinto dalla sua vividezza che era reale.

Di nuovo avevo cinque anni e guardavo in su verso mio padre. Lo vidi chiaramente come l’uomo che era stato un tempo, più giovane, con la barba scura; vidi, nella luce tremolante della candela, l’amore e la tristezza nei suoi occhi mentre teneva il mio piccolo e magro braccio con la sua grande mano. Mi resi conto che non si trovava più nella foresta illuminata dalla luce del giorno e ingioiellata dalla pioggia, con il cane lupo ringhiante alle sue spalle, ma in un luogo ampio, oscuro, velato da ombre ondeggianti. L’argento gli brillava ai lati del viso. Io lo fissavo, indifeso, come Isacco quando Abramo alzò il coltello.

Un’improvvisa morsa mi chiuse le tempie con una forza talmente implacabile che mi afferrai la testa, poi l’immagine svanì immediatamente, sostituita da un pensiero inarrestabile: “Di sicuro questa è la pazzia”.

Caddi con le mani e le ginocchia sul freddo pavimento di marmo e vuotai lo stomaco. Credo di essere svenuto, poiché per un po’ di tempo rimasi del tutto privo di coscienza. Quando, finalmente, riuscii ad alzarmi sulle gambe tremanti e incerte, notai sul pavimento accanto a me gli strumenti della profanazione: un pesante martello di ferro, una sega di acciaio arrugginito e, sparse qua e là, alcune teste d’aglio. Evidentemente il profanatore li aveva lasciati cadere per la paura, ed era fuggito prima di finire il suo lavoro.

Un nuovo tipo di follia mi afferrò: un’infelice combinazione di furia e isteria. Se avessi affrontato in quel momento chi aveva commesso quell’azione, lo avrei facilmente ucciso con nessun’altra arma se non le mie mani. Sapevo che non potevo ritornare a casa… Dèi, no! Non ho parlato a Mary di questo, né lo devo fare, poiché uno shock tanto spaventoso farebbe del male a lei e al bambino. Invece risalii, correndo come un pazzo, la salita verso sud, e arrivai poco dopo, affannato, alla massiccia porta di legno del castello, sotto un grande arco di pietra. Ero convinto che soltanto Vlad avrebbe potuto aiutarmi; che soltanto lui avrebbe capito.

Mi gettai contro la porta e bussai con forza, ignorando le borchie di metallo che mi tagliavano i pugni. Dato che non ci fu una risposta immediata, cominciai a gridare il nome dello zio.

Dopo un tempo che mi parve un’eternità, la porta si aprì lentamente per lo spazio di un piede, e rimase così. Nelle ombre dell’oscuro androne si presentò una domestica grassoccia, con i capelli bianchi, vestita con il tradizionale abito da contadina: il lungo grembiule bianco doppio, con il davanti e il dietro, copriva un vestito a colori vivaci, e sul davanti del grembiule era poggiato un grosso crocifisso d’oro. Mi guardò con malcelata confusione e sconcerto.

«Vlad!», gridai. «Devo vedere Vlad immediatamente!».

Mise la testa fuori per rispondere, e potei vedere nella luce del sole che calava che i suoi capelli non erano bianchi, ma biondi striati di argento alle tempie, e che non era così anziana come avevo, sulle prime, pensato, ma soffriva dello stesso particolare invecchiamento che affliggeva mio padre e mia sorella. Il suo viso mi sembrava vagamente familiare ma, tra il mio dolore passato e la mia attuale agitazione, mi ero completamente dimenticato finora, mentre scrivo queste parole, che aveva preso parte alla sepoltura di mio padre e che avevo visto la sua faccia in mezzo a quella di altri domestici, di tanto in tanto, durante la mia fanciullezza.

«Il voievod non vede nessuno», mi disse.

«Vedrà me!», risposi in tono indignato. «Mio padre…», proruppi, sul punto di scoppiare a piangere, incapace persino di parlare di ciò che era accaduto.

Lei si chinò in avanti per osservarmi con fare da miope e tirò un breve sospiro quando alzò la mano alle labbra.

«Ma voi siete il figlio di Petru! Buon signore, perdonatemi. La mia vista è cattiva, altrimenti vi avrei riconosciuto immediatamente. Gli somigliate così tanto! Per favore, entrate…».

E mi fece cenno di entrare.

«Devo vedere immediatamente mio zio!», riuscii a dire con voce tremante, e lei rispose:

«Ahimè, caro signore, non è possibile. Non è ancora alzato».

«Allora sveglialo», dissi, e i suoi pallidi occhi grigi si spalancarono.

«Nemmeno questo è possibile, signore», ribatté, in un tono che esprimeva lo stupore per la mia ignoranza. «Nessuno può disturbare il suo sonno in questo momento, e nessuno, tranne Laszlo, ha il permesso di vederlo o di parlargli. Ma tra breve si alzerà, e so che vi riceverà. Permettetemi di condurvi nel suo studio, dove potrete attendere in tutta comodità».

Ero in un tale stato di agitazione, che non protestai, ma lasciai che mi conducesse, con la sua mano gentile che rapidamente sospingeva il mio gomito, attraverso stretti corridoi e su per una scala a chiocciola di pietra. Nonostante tutti gli anni in cui avevo giocato all’ombra del castello, ero stato raramente al suo interno, e la novità aumentò la mia agitazione, lasciandomi completamente sopraffatto.

Quando arrivammo all’interno dello studio che, sebbene privo di finestre, era confortevole e allegramente riscaldato da un fuoco vivace, ero talmente turbato che non udii il suo invito, e la povera donna dovette, letteralmente, mettermi a sedere in una sedia vuota accanto al fuoco.

«Arkady Tsepesh», disse, chinandosi su di me, ed io sobbalzai al suono di una strana voce che ripeteva il mio nome. Al mio sguardo sorpreso, sorrise debolmente e spiegò: «Conoscevo vostro padre, signore. Era molto gentile con me e parlava spesso di voi». La sua espressione si rabbuiò. «Mi addolora vedervi così sconvolto a causa sua. Non posso rimanere qui a lungo — il padrone verrà presto — ma lasciate che vi porti qualcosa che vi calmi. Del thè o, forse, qualcosa di più forte?».

«Del brandy».

«Abbiamo solo slivovitz, signore».

«Allora, portami uno slivovitz», dissi ma, non appena si raddrizzò e si mosse per andarsene, allungai la mano e le toccai la spalla; lei si voltò. «Tu conoscevi bene mio padre?», le chiesi.

Rispose con un unico triste e solenne cenno del capo. La mescolanza di dolore e affetto genuino nei suoi occhi grigi riuscì ad oltrepassare lo strato di shock per toccare il mio cuore, e le chiesi:

«Come ti chiami?»

«Masika, signore».

«Parli con un accento russo, Masika, ma il tuo nome è ungherese».

«Mio padre era russo, signore».

«E il suo nome…?», chiesi ancora, insistendo per sapere il suo patronimico. Per quanto fossi afflitto, desideravo essere educato con lei, poiché era stata così gentile con me.

Le sue gote rotonde si colorirono di un colore rosato.

«Ah, signore, soltanto Masika. Non so darmi delle arie con voi. Sono solo una vecchia serva».

«Tu eri amica di mio padre. Per favore… Lo vorrei sapere».

Le sue gote si scurirono di un rosso più intenso, ma lei rispose obbediente:

«Ivan, signore».

«Ah, Masika Ivanovna, non puoi immaginare l’orrore che ho appena visto!».

Al ricordo, mi portai una mano sul viso e lottai contro le lacrime. Lei si inginocchiò accanto a me e mi prese la mano, come potrebbe fare una madre, mentre io ripetevo con voce soffocata, senza dettagli, il fatto della profanazione della tomba di mio padre.

La sua espressione si indurì e divenne indecifrabile mentre le si inumidivano gli occhi. Per un po’, mi diede dei colpetti affettuosi sulla mano in silenzio; infine, parlò con appassionata convinzione.

«So che un tale spettacolo deve aver lacerato il vostro cuore, così come il mio, ma non dovete mai dimenticare questo, signore: vostro padre dorme, ora, tra i morti benedetti, e nessuno, nulla, può disturbare il suo sonno. Lui è con Dio».

Avrei voluto obiettare all’ultima affermazione, ma la frase precedente mi aveva dato un po’ di conforto, così come la sua sincera e materna preoccupazione. Lei aprì le labbra come per parlare, poi esitò, come se ci fosse qualcos’altro che desiderava dire ma che non riusciva a convincersi a farlo.

«Che cosa c’è?», chiesi, sommessamente.

Lei mi guardò con un sussulto e nei suoi occhi vidi il dispiacere, mescolato a un’indubbia paura.

«Niente», rispose, abbassando le palpebre per nascondere la paura, «niente. Ora signore, lasciatemi andare subito a prendervi lo slivovitz, prima che venga il Principe».

Si alzò quindi faticosamente con un lamento, e poi si precipitò fuori.

Mi asciugai gli occhi con un fazzoletto e lottai per ricomporrai e organizzare i miei pensieri mentre fissavo il fuoco. Non so esattamente perché ero corso dallo zio per chiedere il suo aiuto. Sebbene tecnicamente noi Tsepesh abbiamo ancora dei privilegi reali e possediamo dei diritti legali sui contadini, il confine di questi diritti non è più chiaro nei tempi moderni. Mentre il Domnul Bibescu di Valacchia potrebbe riconoscere l’autorità di Vlad come Principe, la Transilvania è, ora, sotto il governo dell’Austria, e il compito di processare i criminali è lasciato di solito alle autorità di Bistritz. Però, non ci sono mai stati crimini di cui parlare nella nostra proprietà, e noi non siamo mai stati attaccati in modo così personale.

Per amore di mio padre, non potevo lasciare quell’atto impunito, nemmeno se avessi dovuto rintracciare da solo il criminale. Mi sembrava che il cadavere di mio padre fosse divenuto il simbolo di come i contadini avessero ingiuriato il nome della nostra famiglia negli ultimi quattro secoli, e giurai con ardore che avrei messo fine per sempre ai loro insulti, e che li avrei obbligati a rispettare il nome dei Tsepesh.

Masika Ivanovna ritornò presto con lo slivovitz, che aveva versato in una fine coppa di cristallo lavorato. Me la porse con una piccola riverenza e, dopo aver rapidamente mormorato, «Dio vi dia conforto, signore»; si voltò per andarsene.

Le toccai la mano.

«Per favore, resta un momento», la pregai.

La sua sola presenza mi confortava, e volevo porle delle domande sugli ultimi giorni di papà in casa e sulle parole che non aveva detto.

Si irrigidì, presa dal panico, con gli occhi che si dirigevano involontariamente verso la porta opposta e quella da cui eravamo entrati. Gentilmente, ma con fermezza, si liberò dalla mia presa.

«Oh, signore! Non posso. Il sole è quasi tramontato, ed io devo affrettarmi ad andare a casa!», mormorò.

Lasciai cadere la sua mano. Se non avessi visto il suo sguardo ansioso diretto verso la porta, avrei sospettato che dovesse andare a casa attraversando la foresta e che del tutto razionalmente temesse i lupi ma, al rumore di passi che si avvicinavano alla porta, si fece il segno della croce, sollevò la gonna, e corse attraverso la porta aperta che conduceva al corridoio. La chiuse quindi dietro di sé sbattendola con poche cerimonie.

Il forte rumore rinfocolò la mia angoscia e il mio furore. Poiché lo zio era dedito a strane abitudini e, a causa di un equivoco sul nome di famiglia, i contadini lo temevano come un mostro e avevano intessuto molte storie su di lui, materializzando le loro ridicole superstizioni. Quelle stesse superstizioni li avevano spinti a commettere quell’orrendo delitto contro il mio povero padre morto e, per un istante, la mia naturale simpatia per Masika Ivanovna fu sostituita dall’odio. A dispetto della sua gentilezza, temeva lo zio, e probabilmente credeva che ciò che era accaduto nella tomba di famiglia fosse necessario affinché l’anima di Petru riposasse in pace.

La porta si aprì con un cigolio e lo zio avanzò, diritto e alto, con tranquilla grazia, ma con un’aria di debolezza e lo stesso inquietante pallore delle due sere precedenti. Al vedere la mia espressione agitata, le sue sopracciglia cespugliose si sollevarono per lo stupore (oltre quegli occhi che tanto somigliavano a quelli di mio padre, parlò con la voce melodiosa di papà, rendendo il resoconto della notizia che dovevo dargli ancora più difficile).

«Arkady! Caro nipote! Non mi aspettavo di vederti tanto presto. Ma che succede? Sei triste…».

Rapidamente, sollevai la coppa alle labbra e ingoiai un grosso sorso di slivovitz, che mi punse le narici, la lingua e la gola come fosse fuoco, ma che non era del tutto sgradevole. Reprimendo la voglia di tossire, dissi (con una praticità che mi sorprese):

«La tomba di papà è stata violata. Hanno mutilato il cadavere con…».

Alzò una mano, incapace di udire altro e si voltò verso il fuoco, poi si chinò e si premette il petto dov’era il cuore. Io mi raddrizzai nella sedia e mi mossi per posare la coppa e alzarmi, pensando, dapprima, che avesse avuto una sorta di attacco e sentendo una fitta di colpa per aver dato la notizia a quel fragile vecchio in maniera così brusca. Ma era soltanto dolore. Rimase immobile e non emise alcun suono per almeno due interi minuti. Ricaddi indietro sulla sedia e bevvi un altro grosso sorso di slivovitz.

Alla fine parlò, con una voce talmente bassa che era quasi un bisbiglio, una voce che non riconoscevo più tanto era fredda e dura, come il marmo di una tomba.

«Che siano dannati!», disse lentamente, fissando sempre il fuoco. «Che siano dannati…». Poi si voltò verso di me, con tale improvvisa veemenza che mi tirai indietro, versando una piccola quantità di liquore sul mio gilet. I suoi lineamenti da falco erano contorti e i suoi occhi — non più quelli di papà ma quelli di Shepherd, che si chinavano sopra Stefan — bruciavano di una rabbia così maniacale e pericolosa che mi spaventai. «Farò in modo che la paghino! Come osano pensare che io…!». Allora sembrò notare il mio sconforto, poiché la sua espressione si rilassò un po’, trasformandosi in semplice amarezza; si voltò di nuovo verso il fuoco e disse: «Amavo tuo padre. Non sopporto che gli venga fatto del male, nemmeno ora».

«Lo so», risposi. «Mi dispiace di portare tali notizie, poiché so che ti causano dolore, ma pensavo che forse avresti potuto essere in grado di aiutarmi a scoprire chi…».

Ancora una volta, si voltò verso di me e alzò la mano.

«Non dire altro! Farò in modo che chi ha commesso questa orrenda azione sia portato davanti alla giustizia. Non devi preoccupartene un minuto di più».

«Non posso fare a meno di farlo», dissi, «poiché non riesco a capire come qualcuno possa aver commesso un atto tanto orribile. Supera semplicemente la mia capacità di comprensione».

Alzai quindi la coppa di cristallo alle labbra e la vuotai.

Le labbra di Vlad si contrassero, come per disgusto represso o per divertimento. Si mosse verso una sedia dallo schienale alto vecchia di secoli, imbottita di broccato dorato, e sedette con regalità, afferrando i braccioli imbottiti con mani forti, e assumendo veramente l’aria di un principe che sale sul trono.

«Che cosa c’è da capire? L’ignoranza dei contadini li porta alla follia».

«Credo di essere scioccato. Ho sempre creduto nella bontà di fondo delle persone».

Le sue labbra si assottigliarono; il suo tono conteneva una sottile ironia che trovai inquietante.

«Allora devi imparare molto sull’umanità, Arkady… e su te stesso». Ciò mi offese leggermente e l’offesa aumentò quando lui continuò: «Rivolgersi ai domestici con il loro patronimico! Questo non sta bene! Sangue reale scorre nelle tue vene; tu sei uno Tsepesh, il pronipote di un Principe!».

Arrossii, comprendendo che lui era, in qualche modo, riuscito a origliare la mia conversazione con Masika Ivanovna; mi chiesi se avesse anche ascoltato quanto avevamo detto di papà.

Dovette percepire il mio sconforto, poiché il suo tono cambiò improvvisamente e divenne allegro.

«Andiamo, su! È tutto sistemato; lascia a me la soluzione di questa questione, e parliamo di cose più allegre. Non c’è null’altro in cui posso esserti utile? La tua cara moglie si sta riposando bene dopo gli eventi faticosi degli ultimi giorni?».

Lo slivovitz mi salì improvvisamente alla testa. Ebbi una leggera sensazione di vertigine e una vampata di calore mi corse lungo la spina dorsale per rimanere, con un senso di prurito, nei piedi. Mi rilassai un po’ e compresi che Vlad stava semplicemente cambiando argomento con rapidità, per aiutarmi a superare lo shock, per farmi pensare a qualcosa di diverso da mio padre.

«Sì», risposi più calmo, sebbene, in verità, fossi un po’ preoccupato per Mary, dato che il viaggio estenuante e lo shock della morte di papà l’avevano lasciata esausta, e quel mattino avevo avuto l’impressione che fosse turbata per qualcosa, sebbene lei lo negasse. «Ma è ancora un po’ stanca. Tutto è stato piuttosto faticoso per lei».

Vlad ascoltò con gravità.

«Se domani sarà ancora affaticata, allora procurerò che un medico venga a stare in casa», disse. «E dovrà rimanere per controllare che sia ben seguita fin dopo la nascita del bambino». Quando protestai dicendo che non gli permettevo di affrontare una spesa così grande senza il mio contributo, agitò ancora una volta la mano imperiosa e disse: «La questione è risolta. È il minimo che possa fare per il nipote di Petru, e per suo figlio».

I suoi modi erano tornati ad essere gentili e, sentendomi rassicurato, confessai:

«Prima di fare la terribile scoperta di questa sera al cimitero, venivo perché desideravo parlarti circa l’incarico di assumere il lavoro di papà».

A ciò rispose immediatamente.

«Ah, sì. Presto… quando avrai avuto la possibilità di superare questo spaventoso shock. Ma non ora: è troppo presto per parlare di affari, dal momento che hai appena dovuto sopportare un’altra grande prova».

«No», risposi con fermezza, «la distrazione mi aiuterebbe, e mi sarebbe di conforto sapere che sto obbedendo ai desideri di mio padre. Si preoccupava molto affinché tu e i tuoi affari foste oggetto delle mie cure».

Al sentire ciò, gli occhi di Vlad si appannarono.

«Ah, tuo padre aveva un nome appropriato: Petru, la roccia. Per me, fu veramente una roccia, sempre leale e affidabile, e tu, Arkady… devi sapere che io amo i figli di Petru come se fossero i miei».

Lo disse con tale calore e convinzione che sentii sorgere in me un moto di affetto verso di lui. A dire il vero, è eccentrico e vecchio, con delle strane abitudini, ma è sempre stato, verso la nostra famiglia, straordinariamente generoso. In un certo senso, nonostante il suo atteggiamento orgoglioso, ha un che di patetico. Nonostante tutta la sua ricchezza, è così solo, così isolato, così estremamente dipendente prima da mio padre… ed ora da me. Io sono il suo unico legame con il mondo esterno.

Poi ha parlato di affari, cosa che è stata di aiuto per allontanare i nostri pensieri dal recente orrore. Lo zio ha promesso di mostrarmi l’ufficio di mio padre domani sera, dove sono tenuti tutti i libri contabili e bancari, e mi ha chiesto di venire prima, in modo che possa conoscere i domestici (che non ho mai visto, tranne Laszlo, il cocchiere). Sembra essere piuttosto urgente il fatto che io parli con il soprintendente e faccia il giro dei campi, poiché lo zio non sa in alcun modo se si sia provveduto alla semina di primavera. In effetti, è del tutto incompetente.

Era anche piuttosto ansioso di dettare una lettera, che io ho scritto in rumeno e poi ho tradotto in inglese per un certo Mister Jeffries. Vlad sembrava impaziente di avvertire il visitatore di venire al più presto possibile, ora che il funerale aveva avuto luogo; potrà essere un solitario, ma è uno che è avido di compagnia istruita, oltre quella della propria famiglia.

Mi sono offerto di portare la lettera a Laszlo e di dirgli di impostarla a Bistritz, dato che, mentre ritornavo a casa, sarei passato davanti alla zona dei domestici, ma Vlad ha piegato la lettera senza firmarla e ha detto che desiderava dare personalmente le istruzioni a Laszlo.

Perciò ho preso il posto di mio padre. L’incontro con lo zio è stato breve: ho avuto la sensazione che fosse inquieto e desideroso che me ne andassi. Penso che, in qualche modo, fosse la mia presenza a innervosirlo.

Mentre me ne stavo andando, ho parlato della mia preoccupazione per i lupi e ho chiesto se ancora, come ricordavo dalla mia infanzia, costituivano un pericolo. Vlad mi ha risposto che, di fatto, era ancora così e, invece di permettere a Laszlo di riaccompagnarmi a casa, diede disposizioni perché avessi un calesse e due cavalli per mio uso personale, in modo che potessi essere libero di andare e venire senza preoccuparmi dell’ora del giorno.

Così me ne sono andato, sentendomi molto più calmo di quando ero arrivato ma, mentre mi dirigevo verso casa nel calesse, sono passato davanti alla tomba di famiglia. Sebbene l’oscurità celasse quell’indicibile orrore, il dolore, la rabbia, e il senso di violazione, mi colpirono tutti insieme ancora una volta. Come posso sopportare di vivere tra questa gente, conoscendo le atrocità di cui è capace?


Il diario di Mary Windham Tsepesh


7 aprile. (Ultima registrazione). Questo pomeriggio ho tentato ancora una volta di impegnare la mia cameriera, Dunya, in una conversazione. Come la maggior parte delle contadine di qui, è di corporatura piccola ma robusta. Come loro, indossa un grembiule bianco doppio e, sotto di esso, un vestito di lino grezzo alquanto impudico, che non le copre le caviglie e, nello stesso tempo, è trasparente quando la luce lo illumina in un certo modo. I contadini del posto sembrano avere un atteggiamento negativo verso la biancheria intima.

Il colorito di Dunya è chiaro, e i suoi capelli scuri, quasi neri, acquistano al sole un riflesso rossiccio. Questo e il suo nome mi fanno credere che sia, almeno in parte, russa. Non può avere più di sedici anni, ma sembra intelligente e riflessiva, sebbene mostri, come gli altri domestici, la stessa riluttanza a incontrare il mio sguardo.

Nonostante ciò, percepisco in lei una certa innata audacia, così, quando volli capire se l’atteggiamento timoroso dei domestici fosse una caratteristica transilvana o se fosse ispirato da qualcosa di diverso, ho scelto di affrontare Dunya mentre stava riordinando la camera da letto. Quando l’ho chiamata per nome, ha sobbalzato leggermente, e io ho dovuto nascondere il mio divertimento.

Parla un po’ di tedesco, come me, e così le ho detto:

«Dunya, è mia abitudine intrattenere un rapporto amichevole con i miei domestici. Per favore… Non avere tanta paura di me».

La mia incertezza con la lingua tedesca richiedeva che fossi breve e diretta.

Sentito questo, fece un inchino e rispose:

«Grazie, doamna (Ho imparato che questo è il corrispettivo rumeno di “signora”). Ma io non ho paura di lei».

«Bene», risposi. «Ma è chiaro che hai paura di qualcuno. Di chi?».

Al sentire ciò, è sbiancata un po’ e si è guardata alle spalle come se avesse paura che qualcuno ci stesse spiando. Poi si è avvicinata — un po’ troppo vicino per gli usi inglesi, ma ho imparato, guardando mio marito e la sua famiglia, che i Transilvani, quando parlano, preferiscono stare molto più vicini degli Inglesi — e ha bisbigliato:

«Vlad. Il voievod, il Principe».

Sentivo di conoscere la risposta alla mia domanda, ma le chiesi, nondimeno, abbassando la voce allo stesso volume:

«Perché?».

In risposta, si segnò e mi sussurrò nell’orecchio:

«È uno strigoi».

«Uno strigoi?». Era chiaramente una parola rumena, ma non l’avevo mai sentita. «Che cos’è?».

Sembrò sorpresa della mia ignoranza e non volle rispondere: si limitò a premere strettamente le labbra e scosse la testa. Quando ripetei la domanda, scappò via dalla stanza.


Il diario di Zsuzsanna Tsepesh


8 aprile. Sono cattiva, cattiva! Una donna malvagia con pensieri malvagi. Il mio dolce papà non è ancora freddo, ed è stato appena sepolto, che io ho già fatto il sogno più vergognoso che si possa immaginare.

Non so nemmeno come pregare nel modo giusto. Papà disprezzava talmente la Chiesa, che non permise mai ai suoi figli di apprenderne i riti. Forse lui e Kasha hanno ragione sul fatto che non esista alcun Dio. Loro sono tanto intelligenti, ma io non lo sono (a volte penso che il mio povero cervello sia storto come la mia colonna vertebrale) e ho un bisogno disperato del conforto del Divino.

Così, questa mattina mi sono inginocchiata ai piedi del letto, nel modo in cui ho visto fare ai contadini alle edicole ai bordi delle strade e ho cercato di chiedere perdono. Non so se ho avuto successo — il solo fatto di inginocchiarmi mi ha dato le vertigini; gli ultimi giorni mi sono sentita così debole, esaurita, senza dubbio, dal dolore — ma sentivo che non avrei potuto affrontare Kasha e la buona e forte Mary, senza prima alleggerire in qualche modo la mia coscienza.

Quando mi sono alzata (con la testa così leggera che ho dovuto afferrare la colonnina del letto per impedirmi di cadere di nuovo in ginocchio), ho sentito un bisogno irresistibile di mettere tutto per iscritto… per confessarmi, si potrebbe dire. Io non ho un prete, e questo diario farà le veci del confessore, sebbene le mie guance si infiammino al pensiero di registrare una tale malvagità.

La notte precedente quella trascorsa, celebrammo il pomana di papà. Era la prima volta da molte settimane che vedevo lo zio e, senz’altro, è stata l’esperienza della sua gentilezza e della sua affettuosa attenzione che ha provocato il sogno. Sono stata così sola negli anni trascorsi, da quando Kasha è partito! Anche papà è stato tanto triste, e poi tanto malato e sempre troppo preoccupato degli affari al castello, per cui mi sono sentita molto, molto sola. Se non fosse stato per le lettere di Kasha e le occasionali visite dello zio, sento che sarei potuta impazzire.

Forse lo sono diventata, un po’. Per un certo tempo, dopo la partenza di Kasha, ero solita parlargli come se fosse ancora qui (sempre lontano dall’udito dei domestici! Hanno troppa paura di noi perché si possa concedere loro fiducia come confidenti e trovano sempre qualcosa su cui spettegolare). Ultimamente, ho cominciato a parlare al piccolo Stefan. Qualche volta immagino che egli cammini al mio fianco con Bruto, attraverso i corridoi, e si sieda accanto a me mentre ricamo, con Bruto accucciato ai nostri piedi (se qualcuno origlia, posso sempre sostenere che stavo parlando al cane).

Qualche volta fingo che sia il figlio che non avrò mai.

Oh, è già abbastanza difficile avere un corpo deforme e malato! Ma il dolore peggiore che provo è quello di sapere che mi sarà sempre negato l’amore di un marito e dei bambini. Sono costretta a condurre una vita solitaria e a dipendere, per consolarmi, dall’affetto platonico di mio fratello e dello zio. Inoltre, sono rosa dalla gelosia… per la felicità che mio fratello e la sua nuova moglie condividono, e persino per le piccole attenzioni che lo zio ha dedicato a Mary durante il pomana.

Dio mi salvi dal mio cuore malvagio!

Bruto ha ripreso ad abbaiare l’altro ieri notte, e la notte scorsa ha cominciato appena qualche minuto dopo che mi ero addormentata… e così, via in cucina! Ero così stanca che, quando sono ritornata da sola a letto, ho immediatamente cominciato a sognare.

Mi sono svegliata per un tamburellare alla finestra della camera o, piuttosto, è nel sogno che sono stata svegliata da un tale rumore… leggero ma insistente, come se un uccello stesse battendo le sue ali contro il vetro. L’aria notturna era diventata eccezionalmente fredda ed io avevo chiuso la finestra prima di ritirarmi.

Nel sogno, mi sono svegliata e sono andata verso la sorgente del rumore, niente affatto spaventata da esso, e nemmeno curiosa, come se sapessi esattamente che cosa o chi mi attendeva lì, come se ne fossi irresistibilmente attirata.

Tirate indietro le imposte ho aperto la finestra, ma non ho visto nulla tranne un raggio di luce lunare, che è entrato formando una pozza di luce biancodorata sul pavimento. In quel cerchio di luce, fluttuavano dei granelli di polvere luccicante… dapprima pigramente, poi sempre più veloci, finché hanno formato un vortice, si sono fusi e hanno preso forma.

Quel movimento mi ha dato le vertigini e ho chiuso gli occhi.

Quando li ho riaperti, lo zio stava nel cono di luce. Ricordai immediatamente che quello era lo stesso sogno che avevo avuto la notte precedente e la notte prima di quella: vedevo sempre il volto dello zio alla finestra, ma ora, senza Bruto, lui era libero di entrare.

Era come se fosse più giovane, più bello; ancora una volta, tutto ciò non mi provocò alcuna sorpresa. Non ebbi uno shock, né paura, né provai un senso di indecenza nel vederlo lì, nella mia camera, nel mezzo della notte. No, da quella donna depravata che sono, mi feci avanti audacemente, e lo abbracciai bisbigliando:

«Zio! Sono così contenta che tu sia venuto!».

Rimase perfettamente immobile e diritto, come se fosse riluttante a muoversi. Sotto le mie mani, i suoi muscoli — è così forte, più di un uomo di qualsiasi età! — erano tesi, rigidi e fermi come la pietra. Per un attimo, nessuno di noi due parlò: ci guardammo soltanto l’un l’altro negli occhi (i suoi sono tanto belli da suscitare invidia in una donna! Profondi, di un verde intenso, grandi e languidi). Nella luce lunare, la sua pelle riluceva come se fosse impregnata di lucente fuoco bianco.

Poi disse: «Zsuzsa, temo che sia un grave sbaglio. Devo andare…».

«No», lo supplicai, e lo tenni più stretto, temendo che si potesse disintegrare in polvere luccicante tra le mie braccia. «È quello che voglio! Non lo vedi? Io ti ho attirato qui, notte dopo notte. Baciami soltanto…!».

Sotto la fine seta del mantello, i suoi muscoli si tesero, poi si rilassarono e lui alzò un mano fredda a causa del gelo notturno fino alla mia guancia, e l’accarezzò. Mentre lo guardavo negli occhi, ipnotizzata, vidi le sue pupille che divenivano rosse, come se le foreste al loro interno fossero state all’improvviso consumate dalle fiamme.

«Per favore», bisbigliai, e lui si chinò in avanti premendo le sue labbra sulla mia guancia. Oh, quelle labbra erano fredde, ma era un gelo che bruciava, e io caddi all’indietro e mi abbandonai su un braccio forte come l’acciaio.

«Sono così affamato, Zsuzsa», sospirò. «Non riesco a resistere ancora…».

Con le labbra sfiorò la mia pelle, tanto che sentii il suo respiro caldo sopra di me, quindi scese giù, giù, attraverso la linea della mascella, oltre la soffice curva, fino alla tenera carne del collo. Mentre indugiava lì, tremai di pura estasi; poi allungò la mano libera e tirò il nastro che chiudeva, al collo, la mia camicia da notte. Il nastro si slegò e il bianco e leggero tessuto mi cadde intorno alla vita. Io ho la carnagione chiara, la mia pelle non ha mai visto il sole, ma la sua era più bianca e, quando la luna si aprì un varco tra le nuvole, brillò di riflessi dorati, rosa e blu, come un opale.

Sotto il mio bianco seno, la sua mano, più bianca, si piegò a coppa (Dio mi perdoni! Ma, mentre scrivo queste parole, sono senza forze: la vergogna lotta con il rapimento. Se lui fosse qui, ora, guiderei io stessa la sua mano!) e con le sue fredde labbra rosse sfiorò la mia pelle, oltre l’incavo dell’osso della clavicola, giù verso i seni. Per un momento si fermò, e io misi le dita nei suoi folti capelli e lo strinsi forte contro di me. All’improvviso si raddrizzò, tremando come se non potesse sopportare più a lungo di essere rifiutato e serrò le labbra sul mio collo. Sentii la lingua che mi sfiorava con leggerezza, languidamente, contro la pelle e poi la pressione dei denti.

Si fermò, in attesa.

Io sono sempre stata una donna protetta: non so nulla della vita e dell’amore e così, oltre queste cose, i dettagli del mio sogno furono vaghi. So soltanto che provai un dolore acuto e poi un’ondata di estatico calore, quasi mi stessi liquefacendo come cera alla presenza di un calore animale. Ebbi la sensazione che lui e io fossimo un essere solo, che la vera essenza del mio io si gonfiasse come un’onda e fluisse verso di lui, innalzandosi e rompendosi.

Gridai e mi liberai lottando della camicia da notte, poi lo circondai con le braccia e le gambe e lo tenni così stretto che non un millimetro di spazio rimase tra i nostri corpi.

Per quanto tempo quell’estasi continuò, non saprei dirlo, ma so che rimasi priva di volontà nelle sue braccia, cosciente di nulla tranne che di un languido piacere che pulsava al ritmo del battito del mio cuore. Quando, alla fine, smise, capii che lo faceva ancora non sazio, per amor mio, scegliendo di affievolire il suo desiderio piuttosto che soddisfarlo.

Le mie guance ora bruciano, come a una sposa novella che ricordi la sua prima notte di nozze! Il fatto sembrava talmente reale che persino adesso mi confondo, riguardo al fatto se sia avvenuto o meno. Questa mattina mi sono svegliata rabbrividendo, per trovarmi in condizioni completamente indecenti e svestita sopra il letto, con le lenzuola gettate via e la camicia da notte che giaceva in un mucchietto sul pavimento, vicino alla finestra.

Mi sento più che mai vicina allo zio, come se lui ed io dividessimo questo malvagio e meraviglioso segreto.

Scrivendo questo mi sento audace come una prostituta. Ho detto che volevo il perdono? Non più! La mia vita è stata così vuota e triste! Che sia la peggior sorta di male o meno, che sia malattia, follia, delusione, non negherò a me stessa la gioia più alta che abbia mai conosciuto. Una tale felicità vale il rischio dell’inferno. Stanotte Bruto rimarrà in cucina, e io dormirò con le finestre aperte, “nel caso che sogni”.

Se lui andrà in Inghilterra, io morirò!

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