Capitolo quattordicesimo

Il diario di Arkady Dracul


Data sconosciuta. Notte. È passata l’eternità da quando ho scritto per l’ultima volta in questo diario, ma voglio cominciare dal momento in cui ho smesso.

Le grida di Mary divennero così disperate che corsi nella stanza per darle conforto, abbandonando il diario sul tavolino accanto al letto. Quando si calmarono, non rimasi lì, ma ripresi il mio posto nel corridoio, aspettando finché fui certo che entrambe le donne fossero troppo distratte per notare che me ne ero andato, e poi scivolai silenziosamente nell’oscuro, claustrofobico corridoio, oltre l’entrata di pietra, ritornando nella camera esterna di V., dove si trovava il trono e il teatro di morte.

Quel mattino ero già passato attraverso quella stanza per due volte, ogni volta in fretta, senza guardare. Questa volta entrai, e osservai con attenzione ciò che mi attorniava.

L’aria sembrava soffocante, senza vita, pesante per la morte e i dolori che vi si consumavano. Alla mia sinistra, c’era il grande trono vuoto; davanti a me, la tenda di velluto era ancora aperta rivelando la “strappata” e altri strumenti di tortura. La mannaia che Laszlo mi aveva scagliato era stata rimessa con cura al suo posto con gli altri strumenti del macellaio.

Camminai dietro il tavolo su cui era stato Herr Mueller, e presi il coltello con la lama più grande e più spessa, poi scelsi un paletto corto e appuntito e il pesante martello. Così armato, mi avviai verso il rifugio più interno. Anche quella porta era leggermente accostata. La spinsi con la punta del mio stivale e la udii aprirsi con un lamento simile a quello di un moribondo.

Ero sorpreso che V. avesse così tanta fiducia in me da non sprangare la porta; pensai a Zsuzsa che parlava indignata della sua arroganza. Lui le aveva mostrato la sua durezza di cuore, ma il suo egotismo non gli permetteva di credere che lei non lo adorasse più. Era anche così scioccamente sicuro del mio amore, tanto da non temere il tradimento?

Entrai. Di nuovo, un odore di polvere e di lieve putrefazione. Mi diressi subito alla più grande delle due bare, poggiai silenziosamente il coltello di Laszlo sul pavimento, e con il paletto e il martello in una mano, aprii il coperchio della bara con l’altra.

Si alzò con facilità, senza resistenza e, nell’istante in cui si sollevò, il mio cuore cessò momentaneamente di battere in seguito alla più pura e fredda ondata di paura che abbia mai conosciuto. Eppure mi dava una strana euforia, come essere tra i frangenti di un mare artico, e seppi in quell’istante che non mi sarei sottratto al mio compito.

Sollevai del tutto il coperchio e guardai nell’oscurità il rivestimento scarlatto, consumato, che indicava i chiari segni del peso della testa e del tronco sulla stoffa in seguito agli innumerevoli anni.

Vuota!

Una voce lontana, straniera e con uno strano accento, ruppe la quiete.

«C’è qualcuno?».

Il suono mi spaventò talmente che il martello e il palo mi sfuggirono di mano e caddero rumorosamente contro la pietra. Il cuore mi batteva furiosamente. Zsuzsanna si era, forse, pentita della sua confessione e, capendo che lei e V. avrebbero potuto presto essere distrutti, era andata subito ad avvertirlo?

Corsi nella camera esterna, notando a malapena il teatro di morte scoperto.

«C’è qualcuno?».

Il grido divenne più forte, più insistente; con un sussulto, compresi che riecheggiava sulle mura interne del piano sottostante. Un estraneo era entrato nel castello.

Rivolsi uno sguardo angosciato all’entrata che conduceva alla signorile prigione di mia moglie, da cui le sue grida uscivano senza sosta. Non desideravo lasciarla nella poco sicura compagnia di Dunya, specialmente adesso che non ero certo di dove V. si trovasse, ma non potevo ignorare le grida del forestiero… poiché sapevo, con infelice certezza, chi era che chiamava.

Uscii correndo dalla camera e scesi in un lampo la scala a chiocciola. Vicino all’entrata principale, mi imbattei in uno straniero che aveva appena cominciato a salire le scale. Ci fermammo a parecchi metri di distanza, io sopra e lui sotto, per studiarci vicendevolmente.

Era un uomo alto, di costituzione robusta e con gli occhiali, con capelli chiari e radi, una carnagione florida che si mostrava sotto la barbetta a punta e i baffi, e occhi chiari. Dal suo vestito lo giudicai un uomo istruito e di classe superiore e, dal suo comportamento, lo ritenni riflessivo e equilibrato.

Al vedermi indietreggiò, perdendo quasi l’equilibrio sulla scala, poi si riprese con un sorriso nervoso e disse, in un tedesco con uno strano accento:

«Perdonatemi per essere arrivato senza essere annunciato, ma ho la mia carrozza e desideravo arrivare prima possibile».

Per un momento, la mia prontezza di spirito mi abbandonò; non parlai. La mia espressione dovette allarmarlo poiché chiese, esitando:

«Questo è il castello del Principe Vlad Dracula, vero?»

«Sì», risposi, quando, infine, le facoltà mentali mi ritornarono. «Sì, lo è, ma voi dovete andar via al più presto, signore… immediatamente!».

Le sue pallide sopracciglia si incontrarono aggrottandosi sopra gli occhiali mentre mi guardava; con mite indignazione, si raddrizzò.

«Ma io sono Erwin Kohl, sono un ospite invitato! Di sicuro deve aver parlato a qualcuno del mio arrivo…».

«Infatti, signore», risposi più cordialmente, dato che avevo ripreso la mia padronanza. «E siamo spiacenti che nessuno vi abbia potuto incontrare a Bistritz, per la stessa ragione per cui dovete partire adesso: c’è una malattia nel castello. Una terribile malattia».

Sempre con le sopracciglia aggrottate, Kohl socchiuse gli occhi e piegò la testa da un lato mentre osservava attentamente il mio viso; seppi subito dalla gentile intelligenza dei suoi occhi e della sua espressione che era un uomo di acuta percezione.

Seppi anche che aveva la sensazione che stessi mentendo.

Sollevò un sopracciglio e, oltre l’incredulità, vidi un barlume di preoccupazione.

«Chi è malato? Forse posso aiutare…».

«Tutti», dissi, scendendo di uno scalino verso di lui, «tranne me».

«Potrebbe spiegare l’assenza di domestici», mormorò tra sé, poi mi disse a voce alta: «E il Principe… anche lui è malato?»

«Il Principe è il più malato di tutti». Avanzai di un altro passo, e il mio tono divenne stridulo. «Signore, sono morti in molti! Per la vostra stessa salvezza, vi devo chiedere di partire immediatamente!».

Pronunciai quelle parole con autentico panico e frustrazione, nonché con profonda convinzione, e credo che lui se ne fosse accorto. Avrebbe dovuto reagire con la paura e partire con urgenza ma, con mio sgomento, si raddrizzò e rimase dov’era, poi serrò la mascella, alzò leggermente il mento verso l’alto e in quei piccoli e ostinati gesti, vidi la mia sconfitta.

Era deciso a restare… per una ragione che non riuscii a comprendere.

«Non fa nulla. Permettetemi di vedere il Principe».

La sua voce era velluto sopra la pietra: morbida in superficie, dura come la silice al di sotto.

«No. Dovete partire ora».

Con rapidità scesi i gradini che ci separavano e lo presi per le spalle, pensando di farlo girare e di condurlo giù lungo le scale e fuori del castello. Ma era un uomo più grosso di me e fece resistenza. Ci azzuffammo goffamente, senza convinzione — nessuno dei due era, chiaramente, un uomo violento — con il risultato che si trovò due gradini sopra di me, con una pistola brandita con mano ferma.

«Portatemi dal Principe», disse ancora, e mirò con attenzione l’arma alla mia fronte.

Lo guardai negli occhi. Erano di un blu chiaro, razionali, gli occhi di un uomo comprensivo. Non lo giudicai capace di crudeltà, ma sembrava aver raggiunto un livello di disperazione che eguagliava il mio.

Mi sedetti sul gradino, misi i gomiti sulle ginocchia e le mani sugli occhi e risi finché non sgorgarono le lacrime, pensando: Ora mi sparerà, il Patto sarà rotto, e la mia famiglia sarà salva.

Il presunto signor Kohl non fece fuoco, ma rimase tranquillo di fronte al mio riso isterico, forse sorpreso dalla mia reazione come io lo ero stato dalla sua.

Lo guardai e chiesi con lieve irritazione:

«Bene, uccidetemi allora e facciamola finita».

Poi feci silenzio, pensando che affrettare la mia morte avrebbe potuto essere considerato un suicidio e soddisfare in tal modo il Patto di Vlad.

Con un’espressione interrogativa, lo straniero chiese:

«Chi siete voi?»

«Arkady Tsepesh, il suo pronipote».

Risi ancora, in tono stridulo, senza divertimento.

«O piuttosto il suo pro-pro-pronipote, con ancora molti gradi».

«Dovete portarmi da lui».

Ancora una volta, cercai di ridere; ne emerse un singhiozzo.

«Lo farei se potessi: si è nascosto».

Abbassai la voce fino a un insistente bisbiglio.

«È un assassino… è peggio di un assassino. Ecco perché ve ne dovete andare subito! Per favore… Vi supplico! Andate! Non siete al sicuro!».

Dietro gli occhiali gli occhi di Kohl si ingrandirono per la meraviglia; quell’emozione lasciò subito il posto alla fiducia. Eppure rimase ostinato e immobile sulle scale, con il revolver ancora puntato alla mia testa.

«Vi credo», disse calmo. «E non ho alcun desiderio di farvi del male, ma devo insistere…».

«Domnule! Domnule!».

Dunya scese gridando per le scale, con i capelli scuri che le sfuggivano dal fazzoletto e del sangue vivido che le sporcava il grembiule di lino. Era così agitata che non reagì allo strano quadro di Kohl che mi puntava contro una pistola, mentre io ero rannicchiato due gradini più in basso. In tedesco, la lingua che condivideva con la sua padrona e che, senza dubbio, aveva parlato durante la notte trascorsa e il mattino, gridò:

«Venite ad aiutare! Il bambino è capovolto e io non so muoverlo! Lei ha un’emorragia…! Ho paura che muoiano tutti e due!».

Le lacrime e il panico nei suoi occhi erano autentici. Senza pensare alla canna della pistola puntata alla mia testa, mi alzai e mi feci strada scansando Kohl: V e tutti i Demoni dell’Inferno non mi avrebbero trattenuto. Dunya ed io salimmo correndo le scale, passando attraverso la camera interna, fino all’elegante prigione, al fianco di Mary.

Le lenzuola del letto erano macchiate di rosso: mia moglie era caduta in deliquio, ed era così spaventosamente pallida, che pensai fosse morta finché non si mosse e gemette. Caddi in ginocchio accanto a lei e le presi la mano fredda. Era in uno stato di tale sofferenza che non mi riconobbe, ed io stesso ero così disperato — impotente mentre guardavo mia moglie dalle labbra grigie — che non degnai di un pensiero lo straniero, e non mi resi conto che ci aveva seguito, finché non udii la sua voce dietro di me che diceva a Dunya:

«Tienila calda e premi qui. Io ritornerò immediatamente».

In quel momento, ascoltai le sue parole ma non le udii veramente. Senza fare domande, Dunya obbedì agli ordini del forestiero, singhiozzando piano quando io, per la prima volta nella mia vita, pregai. Non sono sicuro se pregai Mary, mio padre, Dio o un astratto Bene, ma so che la disperazione estrema del mio cuore lacerò il velo tra questo mondo e il mondo invisibile e mi permise di passarvi attraverso e di toccare il limite di Qualcosa — una forza — molto reale, molto viva.

Offrii in cambio la mia vita, la mia anima, se mia moglie fosse riuscita a sopravvivere a quel momento, se solo a mio figlio fosse stato risparmiato il destino di mio padre. Pregai che potesse esservi nel mondo un Bene abbastanza forte per vincere il Male che aveva soggiogato la mia famiglia; pregai che il retaggio di sangue potesse finire con me.

La mia anima era così assorta nella supplica, che non notai affatto che il forestiero se n’era andato ed era ritornato. So soltanto che, alla fine, una grande ombra incombente cadde sul viso pallido di Mary; guardai in su, temendo di vedere V… e, invece, vidi lo straniero, come un grande orso biondo ai piedi del letto, senza giacca, con le maniche della camicia arrotolate sopra i gomiti.

Dunya aveva mantenuto le candele accese nella camera senza finestre e delle minuscole fiammelle danzavano, riflesse negli occhiali.

«Non ho menzionato nella lettera che ero un medico», disse, poggiando una grossa borsa da medico nera sul letto. «Forse, posso essere d’aiuto». Si chinò e, muovendo discretamente le lenzuola, esaminò mia moglie tastandola. «Bene. È vero, il bambino è capovolto, ma noi lo raddrizzeremo…».

Si mise al lavoro. Accadde subito dopo: l’urlo lacerante di Mary, seguito rapidamente da quello del bambino, e poi lo straniero tenne nelle sue mani enormi il mio bambino, viscido e coperto di sangue.

«Un maschio», annunciò, e ci sorridemmo l’un l’altro, senza frenare la contentezza, come se non fossimo degli sconosciuti ma dei vecchi e cari amici che condividevano quella gioia; come se lui non avesse, qualche minuto prima, tenuto una pistola puntata al mio cranio.

Mio figlio. Il mio piccolo, arrabbiato e piangente figlio.

Mia moglie cadde ben presto addormentata mentre l’inatteso medico si prendeva cura di lei. Io mi lasciai andare su una sedia vicina e piansi per la bellezza e l’orrore dell’evento.

Quando il forestiero ebbe finito e si fu lavate le mani in un catino, si voltò verso di me, asciugandosi le mani in un asciugamano, e disse a voce bassa:

«Il bambino è piccolo ma sano. È prematuro, vero?».

Annuii, e con una mano tremante mi coprii gli occhi.

«Senza dubbio la madre ha sofferto per qualche recente spavento».

Gettai una cupa occhiata a Dunya, che aveva finito di lavare il bambino ed ora lo stava avvolgendo strettamente nelle coperte, poiché desideravo parlare liberamente allo straniero ma non osavo con lei presente. Il dottore vide e sembrò intuire la mia riluttanza, sebbene sorridesse a Dunya mentre lei gli porgeva il bambino pulito.

Rapidamente, assentii con la testa in modo che Dunya non lo notasse.

Lui sistemò il bambino nelle braccia di mia moglie che sonnecchiava e disse piano:

«È giovane e forte, ma ha perso una pericolosa quantità di sangue. Avrà bisogno di molte cure».

Allora Mary si mosse e si trovò il bambino nelle braccia, e il sorriso con cui ci onorò in quel momento rimarrà per sempre il mio ricordo più dolce.

«Il nome», bisbigliò. «Quale sarà il suo nome?»

«Stefan», risposi. «Per mio fratello».

«Stefan George».

Lo disse lentamente, assaporandone il suono.

«Un bel nome», aggiunse il dottore, illuminandosi.

Mary sussultò leggermente alla vista dell’estraneo, ma io sussultai per le sue parole poiché tutti e tre avevamo appena parlato nella lingua madre di mia moglie.

«Parlate inglese», dissi.

«Sì. C’è qualcosa che volete dire e che non volete che la ragazza oda?».

Ancora sorridendo, indicò il bambino con la testa come se avesse appena fatto un complimento a dei genitori orgogliosi.

Guardai mio figlio, rosso, rugoso e bello.

«È un’alleata del Principe; adesso saprà che siete qui. La vostra vita è in grande pericolo. Dovete partire immediatamente…».

«E che cosa ne sarà di voi e della vostra famiglia?». Il forestiero si chinò sul bambino e gli offrì un grande e grosso dito, che il piccolo Stefan afferrò con forza. «Non sarebbe consigliabile che vostra moglie viaggiasse, ma questo luogo… Ho visto quali orrori vi sono nella stanza che conduce a questa. Voi mi sembrate delle persone buone. Vi devo abbandonare qui?».

Seppi in quel momento che la mia preghiera era stata esaudita nella forma di quell’uomo, che aveva salvato mia moglie e poteva, adesso, salvare mio figlio.

Lo guardai con speranza.

«Forse mi potete aiutare».

Mi alzai e camminai verso l’entrata, lasciando Mary con il bambino. Non desideravo offuscare la sua felicità in quel momento.

Kohl sembrò capire; sorrise a mia moglie e disse in tedesco:

«Il bambino ha senza dubbio fame, signora. Permettetemi di lasciarvi sola per alcuni minuti per nutrirlo».

Mi seguì nel corridoio e si chiuse la porta alle spalle.

Dissi a voce bassa in inglese:

«Perché siete qui?».

Il forestiero esitò; la sua espressione indicava che la fiducia lottava con il sospetto.

«Primo: devo sapere perché voi siete qui. Che cosa conduce un uomo nella casa di un assassino, anche se è un suo parente?»

«Siamo suoi prigionieri», dissi, senza cercare di nascondere il mio tormento. «Come lo sarete voi, se non partite. Lui ha minacciato mia moglie e il bambino, sperando di corrompermi per assisterlo nel compiere il male».

Mi portai una mano tremante agli occhi per nascondere la vista del forestiero, sperando di poter cancellare il ricordo di ciò che avevo appena rivelato.

Il forestiero sospirò profondamente e disse:

«Mio padre visitò questo stesso castello venticinque anni fa».

Abbassai le mani e incontrai il suo sguardo.

«E scomparve», mormorai.

Il dolore guizzò nei suoi occhi prima che guardasse altrove.

«Senza una traccia», disse cupamente. «Io, naturalmente, non ero che un ragazzo a quel tempo. L’ultima lettera che ricevemmo da lui era stata impostata a Bistritz, il giorno prima che andasse in visita dal vostro prozio. Per anni, la mia famiglia ha tentato di ricostruire ciò che gli accadde… ma fummo sempre ostacolati. Nessuno ci volle aiutare, né la polizia di Bistritz, né il governo locale. Spendemmo un enorme somma di denaro per avvocati, persino per un investigatore privato, cercando di rintracciarlo. Gli avvocati fallirono e l’investigatore stesso sparì e non se ne seppe più nulla.

Infine, mia madre si arrese e abbandonò la speranza, poiché era del tutto chiaro che era stato vittima di un delitto e che una sorta di cospirazione circondava la sua scomparsa. Anch’io abbandonai le ricerche, finché dei sogni in cui mio padre supplicava aiuto mi hanno talmente disturbato che non potei ignorarli più a lungo. Ho promesso di vendicarlo e così, preso dalla disperazione, ho viaggiato fin qui e ho saputo molto da brava gente del luogo. Ho sentito molte, molte storie, alcune completamente fantastiche, ma tutte indicano che vostro zio è un assassino recidivo. Non ho dubbi che il mio povero padre sia stato una delle sue vittime».

«Tutte le storie sono vere», dissi tetramente. «Anche le più fantastiche…».

Kohl si lasciò andare a una risata di spavento.

«Certamente no! Dicono…». Abbassò la voce. «Dicono che sia un Vampiro, un bevitore di sangue umano. Voi sembrate un uomo istruito, intelligente. Di sicuro non…».

«Il collo», gli dissi. «Esaminate il collo della ragazza».

«State scherzando», disse, con meno convinzione e fece un sorriso che svanì lentamente mentre mi osservava in volto. «È impossibile».

«Sì, impossibile… e vero».

Non dissi nient’altro; rimasi in silenzio finché, finalmente, Kohl si voltò e bussò alla porta, attendendo finché Dunya disse che poteva entrare.

Lo guardai dalla porta aperta mentre visitava ancora mia moglie e mio figlio, parlando allegramente a entrambi in tedesco; il suo sguardo cadde sui fogli scritti con la mia calligrafia, che si trovavano sul tavolino accanto a mia moglie distesa. Forse vi vide qualcosa che lo disturbò, poiché la sua espressione si oscurò momentaneamente. Poi sorrise di nuovo e si voltò verso Dunya, dicendo:

«Signorina, sembrate molto provata! Siete sicura di non essere malata?».

Lei arrossì e balbettò:

«No, sono semplicemente stanca».

Ma lui con un gesto ignorò la sua risposta e insistette affinché aprisse la bocca, in modo che potesse osservarle la gola.

«Poiché c’è stata un’epidemia di difterite nella regione», spiegò.

Con destrezza, le toccò le ghiandole nel collo, riuscendo ad abbassare sufficientemente il colletto per vedere i segni incriminati.

«Bene, bene», mormorò, con un’espressione composta, ma la schiena gli si irrigidì leggermente per la reazione.

Io entrai e dissi, a beneficio di Dunya:

«Herr Kohl, permettetemi di mostrarvi le stanze degli ospiti e aiutarvi con il bagaglio. Senza dubbio, desiderate riposarvi».

«Ah!». Si voltò, gli occhi chiari che luccicavano ancora per lo stupore e mi seguì nel corridoio. Quando fummo a sufficiente distanza per non essere uditi, disse: «Non è una prova. Quei segni potrebbero essere stati fatti da un animale…».

Trattenni la lingua e lo condussi nella grande camera esterna, oltre il trono. Osservò tutto con occhi spalancati, scuotendo la testa per l’incredulità.

«L’ho visto prima, quando vi ho seguito da vostra moglie, sebbene non riesca a credere ai miei occhi», mormorò. «Che sorta di mostro…?». Indicò il teatro di morte scoperto. «E senza dubbio lì dove…».

Si interruppe, incapace di continuare. Gli misi la mano sulle spalle, comprendendo fin troppo bene il suo senso di orrore e di sgomento.

Dopo un momento di silenzio, dissi:

«Venite».

Lo condussi nel rifugio più interno dove si trovavano le bare, con i coperchi ancora aperti che mostravano le impronte dei loro corpi sulla seta rossa. Accanto ad essi sul pavimento giacevano il palo, il martello e il coltello che io avevo lasciato cadere.

Kohl guardò la scena e l’altare nero con un’espressione di terrorizzato stupore, ma non parlò.

«Dorme di giorno, proprio come dice la leggenda», gli dissi. «Normalmente è qui, ma si è nascosto… da qualche parte nei possedimenti del castello, ne sono sicuro. Io intendo distruggerlo. La vostra chiamata ha interrotto la mia ricerca. Mi aiuterete?».

Lo sguardo di Kohl, di insolita intensità, incontrò il mio.

«Sì».

Gli indirizzai un sorriso senza gioia.

«Non m’importa che crediate che il mio prozio sia un Vampiro o un mostro interamente umano, ma devo insistere per la vostra stessa salvezza che prendiate questo e lo indossiate. La vostra pistola non vi darà protezione in questa casa».

Gli porsi il crocifisso di Ion, che lui si mise intorno al collo senza esitazione.

«E voi?», chiese.

«Io valgo oro per lui», dissi. «Non mi farà del male».

Al sentire ciò, Kohl mi guardò con sospetto, ma io non spiegai. Ci armammo di palo, martello, coltello, e di una lampada, poi cominciammo la caccia.

Per le ore successive, attraversammo quaranta o cinquanta stanze, guardando accuratamente, lentamente, sotto i letti, nelle credenze, nelle dispense, nei ripostigli, nelle stalle, nella cantina, in ogni luogo che potesse offrire a V. e Zsuzsa un posto per riposare.

Fuori, le nuvole erano nere e tuonava; infine, arrivò il temporale, con un forte vento che spingeva furiosamente l’acqua contro le finestre, uno sfondo appropriato per la nostra caccia. Dopo una ricerca completa dei piani superiori, ci dirigemmo alla cantina e scoprimmo, sotto uno strato di polvere così spesso che quasi non la trovammo, una porta che conduceva ad una scala. Queste scale, a loro volta, portavano ad un’intera serie di catacombe sotterranee, scavate nella terra umida e coperte di ragnatele.

Quasi mi aspettavo di trovare le ossa di martiri cristiani, ma le prime poche camere erano vuote, tranne che per i topi che correvano via al nostro avvicinarsi e per una fiorente popolazione di scarafaggi: i margini del raggio di luce della mia lampada sembravano vivi per le piccole e scure creature striscianti.

Sentivo, però, che gli oggetti della nostra ricerca erano vicini, e lo stesso, penso, sentì Kohl, perché la sua espressione divenne sempre più tesa. Tenendo alta la lampada, passai di camera in camera. Il terreno inclinava leggermente verso il basso, ed ebbi la sensazione di scendere sempre più in profondità nella terra, con l’aria che diveniva più umida ad ogni passo.

Poi entrammo in un lungo e stretto corridoio che si estendeva in un’oscurità senza fine. All’improvviso, Kohl mi toccò la spalla e disse:

«Guardate!».

Seguii la direzione del suo sguardo e vidi, alla sinistra del raggio tremolante della lampada, delle celle, ognuna della grandezza di un grande ripostiglio, scavate nella terra. All’interno vi si trovavano coperte di lana putride, tazze di stagno, scodelle, catene e qualche sgabello di legno…

Ognuna era chiusa con sbarre di ferro e dei lucchetti arrugginiti.

Cella dopo cella… forse, in tutto, una dozzina. Una prigione.

«Gott im Himmel», mormorò Kohl.

«È naturale», mormorai. «Quando la neve chiude Borgo Pass, i visitatori non possono venire, ma lui deve comunque nutrirsi…»

Anche questo doveva essere il mio compito: riempire la sua prigione in autunno, in modo che potesse mangiare durante l’inverno?

Distogliemmo i nostri volti da quell’orrore, e in qualche modo riuscimmo ad andare avanti. Infine le celle finirono e lo stesso tunnel terminò in un improvviso muro di terra pieno di radici morenti di alberi e nidi di piccoli animali. Ai piedi di quel muro c’era una grande botola di legno bordata di spesse strisce di metallo arrugginito e ricoperta di chiodi di ferro.

Corsi verso di essa, posai la lampada a terra e afferrai con entrambe le mani il grosso anello di metallo. Kohl lasciò cadere le nostre armi, mi raggiunse, e tirammo insieme.

Ma la botola era bloccata con sicurezza dall’interno e l’esterno era tenuto chiuso con una grossa catena attaccata ad un lungo chiodo conficcato nel terreno duro. Nessuna creatura poteva passare attraverso quella porta con dei mezzi che non fossero soprannaturali.

Presi il martello e colpii forte il legno, ma era pietrificato, come roccia dura. Non riuscii a far altro che intaccarlo. Cercai di rompere la catena, con lo stesso risultato, e poi cercai di infilare il palo tra la terra e il legno come una leva; anche questo tentativo fallì. Quando fui esausto, Kohl fece del suo meglio per rompere e poi sollevare la botola ma, dopo una frustrante mezz’ora, ci arrendemmo e ritornammo indietro per la lunga e tortuosa strada da cui eravamo venuti.

«Si alzerà al tramonto», dissi al mio compagno. «Dovete partire molto prima, o la vostra vita è perduta».

«Allora voi e la vostra famiglia dovete accompagnarmi», insistette Kohl. «Per vostra moglie è pericoloso viaggiare, ma sembra che lasciarla qui sia un pericolo molto più grande».

Acconsentii, semplicemente per evitare l’argomento, sebbene intendessi restare e impedire a V. il più a lungo possibile di seguirli. Era già pomeriggio inoltrato; spiegai che V. si sarebbe alzato al calar del sole, tanto che avremmo potuto solo avere un vantaggio di un paio di ore. Si imponeva la rapidità.

«Poi c’è la questione della cameriera, Dunya», dissi. «Vlad sa tutto ciò che lei sa, e se lei è sveglia e libera quando partiremo, lui saprà attraverso lei quando e in che direzione saremo diretti. Se c’è qualche modo per impedirle di farlo…».

«Lasciate fare a me», rispose Kohl con fermezza.

Ritornammo alla prigione di mia moglie per trovarla con il bambino ancora in braccio e dei fogli in grembo. Dunya le era vicino per assisterla. Mia moglie sollevò gli occhi e i nostri sguardi si incrociarono: vidi che tratteneva le lacrime. Mentre mi avvicinavo e mi fermavo a fianco del letto, al lato opposto a quello di Dunya, vidi che i fogli erano coperti della mia calligrafia: Mary aveva letto ciò che avevo scritto nel diario riguardo alle rivelazioni di Zsuzsanna.

Abbassai gli occhi di fronte a quello sguardo ferito e consapevole, disperato al pensare che avevo ancora causato a mia moglie un tale dolore. Nessuno di noi disse una parola a causa di Dunya; non dovevamo. Tutto fu raccontato dagli occhi innamorati e pieni d’orrore di Mary.

Kohl mi si avvicinò e disse gaiamente a Dunya:

«Signorina, sembrate molto stanca e pallida. Andate a dormire. Sorveglierò io la vostra padrona».

La ragazza abbassò gli occhi con timidezza, imbarazzata per essere stata notata, ma la sua voce era risoluta quando rispose:

«No, signore. Voi siete un ospite in questa casa. È mio dovere restare sveglia ed aiutare la mia padrona e il bambino».

Kohl ascoltò attentamente, poi annuì con indulgenza.

«Bene, allora, permettetemi di darvi un tonico che vi sostenga». Per un momento lei si illuminò e sembrò sull’orlo di accettare contenta, ma poi i suoi occhi divennero vuoti nello stesso orribile modo di quando aveva visto V. e la sua espressione si mutò in una di sospetto.

«Grazie, signore, ma sono abbastanza forte».

Lui alzò le spalle e disse con simpatia:

«Come desiderate, ma preparerò un tonico per la vostra padrona», e appoggiò la sua borsa sulla credenza vicina al muro ai piedi del letto.

Ci volgeva la schiena, e né io né gli altri potevamo vedere cosa stesse facendo.

Poi si voltò verso di noi, sorridendo, e si avvicinò rapidamente al lato del letto dove sedeva Dunya.

Lei non sospettò nulla, ma studiava con preoccupazione e perplessità la sua padrona in lacrime. Kohl si chinò sul letto come per somministrare qualche farmaco a Mary ma, all’ultimo istante, si voltò e applicò un fazzoletto sul naso e sulla bocca di Dunya.

Immediatamente lei si alzò in piedi ed emise un grido soffocato; sopra il fazzoletto, i suoi occhi si spalancarono per l’indignata sorpresa ma, nel giro di pochi secondi, si chiusero, e allora si abbandonò, incosciente, nelle braccia forti e solide di Kohl.

«Non fatele del male!», gridò Mary. «Lei non ha colpa di ciò che è successo».

Turbata, mi afferrò le mani e, finalmente, diede sfogo alle lacrime. Anch’io mi misi a piangere e piangemmo per un po’, mentre Kohl adagiava delicatamente la ragazza sul pavimento.

Ritornò rapidamente al fianco di Mary e la consolò:

«Non le è successo niente; dormirà soltanto qualche ora».

«Mary», dissi, «tu e il bambino dovete andare via immediatamente con il dottore. È l’unica speranza che ho di salvarvi».

«Tu non puoi rimanere!».

Atterrita, si sforzò di mettersi seduta; il bambino che dormiva nelle sue braccia si mosse. Kohl la rimise con gentilezza ma con fermezza contro i cuscini.

«Se tu hai letto», indicai con il capo i fogli raccolti sul suo grembo, «sai che lui non farà niente per farmi del male. Io posso distrarlo finché voi non sarete in salvo. Nel momento giusto, vi raggiungerò».

Nonostante la sua debolezza, parlò con ardore.

«Sapere che la tua vita non è più in pericolo mi è di poco conforto; lui non si fermerà davanti a niente per corromperti, e molto più che la tua vita sarà perduto».

Feci scorrere una mano sulla sua fronte calda e le accarezzai i capelli bagnati.

«Mary… tu non sei più al sicuro con me».

«Forse no», disse. «Forse mi ucciderà. Non mi importa più quello che sarà di me, purché rimanga con te, ma non perderò mio marito e mio figlio.

Vlad sa di non avere potere su di te se non attraverso me e il bambino. Tu non sarai in grado di trattenerlo qui: ci seguirà immediatamente, poiché è soltanto finché saremo vivi e sotto il suo controllo che lui potrà ricattarti.

Non posso permettergli di distruggerti a causa nostra. Devi accettare questo; devi essere coraggioso. Tu sei mio marito e io non ti abbandonerò. Rimarrò con te finché non sarai libero dalla maledizione».

Voltai il viso, riluttante a lasciarle vedere il dolore che vi si leggeva, sapendo che quello che diceva era vero. Se avessi mandato via lei e il bambino insieme, V. li avrebbe seguiti… con, temevo, terribili conseguenze. Non era importante che io li accompagnassi.

Ma gli stessi orrori sarebbero accaduti se fossero rimasti.

Non sembrava esserci soluzione per la salvezza della nostra famiglia. Anche così, in quel momento, arrivò la rivelazione: vidi con magica chiarezza quello che doveva essere fatto, sebbene non riuscissi ad esprimerlo, sapendo il dolore indicibile che avrebbe inflitto alla persona più vicina al mio cuore.

Ma lei era forte; mi voltai verso di lei mentre diceva con amara dolcezza:

«Ma noi vogliamo entrambi che nostro figlio sia vivo. Credo che Dio abbia mandato quest’uomo per liberare nostro figlio dal male. Io ho fiducia in lui».

Mentre parlava indicò lo straniero con il viso che irraggiava una tale serenità e grazia che lui ne fu chiaramente commosso e si chinò al suo fianco guardandola con manifesta ammirazione.

«Signora», disse, e posò la sua grande e larga mano su quella piccola e fragile che sorreggeva il bambino. «Che io possa mostrarmi degno di questa fiducia. Il vostro coraggio è straordinario; dite soltanto ciò di cui avete bisogno e sarà vostro».

«Ci aiuterete?», chiese lei, ripetendo la domanda che io gli avevo posto nel rifugio segreto dello strigoi.

Di nuovo Kohl rispose subito, con la sua ferma voce di basso:

«Sì».

Così i nostri destini furono decisi. Io non potei fare altro che baciare il palmo della mano di mia moglie e tenerla stretta mentre preparavamo i piani che ci laceravano il cuore.


Entro un’ora avevamo abbandonato il castello, portando con noi soltanto le cose più necessarie nel caso che fossimo sopravvissuti. Indirizzai il forestiero verso nord, mentre noi prendevamo la strada di fuga più ovvia verso sud-ovest, verso Bistritz.

Era già tardo pomeriggio; la pioggia era cessata, ma l’aria era umida e fredda. Nuvole scure riempivano ancora il cielo, trasformando il giorno nell’oscurità di un prematuro crepuscolo. …alti alberi stillavano gocce di pioggia ricordando un altro momento, un altro Stefan. Avevo sognato mio fratello nel rientrare in quella scura foresta: pensai di nuovo a lui in quel momento mentre fuggivamo, e pensai anche a Shepherd, di cui ci fidavamo, ma che aveva dimostrato di avere il cuore di un lupo.

Guidavo il calesse, con la Colt di papà infilata nella cintura come protezione contro i lupi. Mary giaceva dietro di me sul sedile dei passeggeri, adagiata su dei cuscini e riparata da coperte di lana, con un piccolo fagotto stretto teneramente al seno.

Non avevamo che un’ora prima del tramonto. Per quel momento lo straniero avrebbe attraversato un corso d’acqua, che Mary mi disse rendeva il Vampiro incapace di seguirlo, tranne che nella bara o nel periodo di secca.

Ma per la strada che avevamo scelto, mia moglie ed io non avremmo raggiunto il fiume più vicino che dopo circa due ore. Era un pericolo che avevamo volontariamente accettato, in modo che l’altra carrozza potesse essere in salvo.

Di nuovo, fui preso dallo stesso panico che avevo sentito vent’anni prima, quando, a cinque anni, correvo attraverso la foresta bagnata, in cerca di mio fratello. Mi calmai chiamando Mary. Temevo che potesse avere un’emorragia, un’eventualità di cui lo straniero ci aveva avvertito, ma per la quale ci aveva dato anche istruzioni.

Lei rispose debolmente, ma incoraggiandomi che tutto andava bene. Così guidai, forzando i cavalli il più possibile, facendo delle smorfie a ogni scossone nella strada non livellata e gettando delle occhiate dietro le spalle a Mary, che sopportava tutto in silenzio ma che era pallida e con le labbra tirate dal dolore mentre stringeva più forte al suo seno il fagotto.

Dopo un po’, la foresta lasciò il posto al villaggio — dove diedi uno sguardo d’addio alla piccola casa di Masika Ivanovna e al cimitero della chiesa — e poi di nuovo la foresta mentre ci dirigevamo a Borgo Pass. Presto il sole calò, e la tortuosa strada sabbiosa si restrinse finché fummo circondati dall’oscurità, dalle sagome nere degli alberi e da lontane montagne. La luna sorse, dipingendo di luce argentea i rami baciati dalla pioggia.

La notte portò con sé ulteriore paura; io caddi nello stesso soffocante panico che avevo provato quando ero rimasto intrappolato con i cavalli e i lupi che attaccavano, nella foresta immersa nella notte.

Silenzio. Tutto era silenzio, tranne che per il respiro affaticato dei cavalli e il rumore del terreno sotto le ruote. Camminammo in questo modo per lo spazio di un’ora, finché osai sperare che avremmo potuto portare a termine la nostra fuga.

Ma poi udii un ululato. Dapprima lontano, poi più vicino e seguito da un altro. E poi un altro e un altro.

Feci schioccare le redini e gridai ai cavalli spaventati di andare più veloci, più veloci, sapendo che non sarebbe servito a nulla: il fiume che ci avrebbe fornito la salvezza era a un’altra mezz’ora di distanza verso ovest.

Continuai a guidare, pregando che l’altra carrozza avesse già trovato la salvezza data dall’acqua, pregando che il nostro sacrificio non fosse vano.

Gli ululati si avvicinarono. Estrassi il revolver di papà. Come se fossero stati evocati da quell’azione, i lupi emersero dall’oscurità in tutte le direzioni. Un branco di sei lupi superarono il calesse, attaccando i cavalli che nitrivano con un’incalzante ferocia che fece gridare me e Mary all’unisono.

Nello stesso tempo, provai pietà per loro, sapendo che non erano altro che delle pedine di V. come ero stato io, ma la pietà non poté sopprimere l’istinto alla sopravvivenza. Feci fuoco, costringendo la mia mano a non tremare, poiché ci sarebbero stati più lupi che pallottole. Infatti, ne uccisi uno con facilità, mentre stringeva la zampa di un cavallo, solo per vedere che altre due creature ringhianti balzavano fuori dall’oscurità per prendere il posto del loro compagno caduto.

Poi l’obiettivo dell’attacco dei lupi si spostò dai tremanti cavalli a noi. Mentre un’altra pallottola ne colpiva un secondo, un altro emerse dall’oscurità e saltò sul posto del passeggero dove si trovava mia moglie.

La paura e l’istinto mi resero come pazzo. Mi voltai con rapidità soprannaturale e spinsi il grilletto un millesimo di secondo prima che l’animale affondasse i denti nel collo di Mary. Morì con un rantolo, con le mascelle piene di saliva spalancate, e cadde ai piedi di lei che si alzò ammutolita dallo spavento, con il fagotto premuto strettamente contro di sé. Con ripugnanza spingemmo via la creatura morta dalla carrozza.

Improvvisamente i lupi cessarono il loro attacco. Per alcuni minuti si placarono, gemendo piano, poi si accucciarono intorno a noi nella luce lunare come delle silenziose sfingi grigie, le orecchie tese in un’attesa strana, inquieta. I cavalli — tremanti e insanguinati ma non seriamente feriti — battevano gli zoccoli e nitrivano con irritazione. Posai la pistola sul sedile del guidatore, accanto a me, sapendo che la pallottola che restava nel caricatore, si sarebbe dimostrata inutile contro il male che stava per arrivare.

Dall’oscurità che ci sovrastava, una sottile colonna di nebbia si alzò nel cielo ad oriente, aleggiando sulle nostre teste e posandosi davanti al nostro calesse, proprio all’interno del cerchio di lupi. Mentre guardavamo, la nebbia, cosparsa dai bagliori di una luce ultraterrena blu e rosa, cominciò lentamente a solidificarsi e a prendere la forma di un uomo, finché, alla fine, lo stesso V. fu davanti a noi.

Era giovane, con i capelli corvini, in possesso della stessa abbagliante bellezza leonina che avevo visto nell’Impalatore quando mio padre mi aveva condotto al suo trono, e in quei penetranti occhi sempreverdi brillava un disprezzo pieno di scherno. Alla vista del loro padrone, gli animali guairono e abbassarono i loro musi tra le zampe in segno di infelice obbedienza.

«Arkady», disse piano, ma la sua voce riempì l’intera foresta. «Non ti avevo considerato tanto pazzo. Credevi veramente di potermi sfuggire?».

Si mosse verso la carrozza — non camminando ma, semplicemente, ingrandendosi nel mio campo visivo — e tese la mano verso Mary, che sedeva, premendo il bianco fagotto di lana al suo cuore.

«Dammelo. Svelta! La mia pazienza si è esaurita da molto tempo».

Subito i miei occhi cercarono quelli di Mary, e ci guardammo l’uno negli occhi dell’altra con segreto trionfo pur in preda alla paura. Lei si alzò e con un’espressione di un odio talmente intenso che non avevo mai visto prima, gettò il fagotto dalla carrozza verso i lupi, gridando:

«Non avrai mai mio figlio, mostro! Mai!».

V. trattenne il fiato. Prima che si potesse riprendere, il lupo più vicino, sobbalzando e cedendo all’istinto, aveva affondato i denti nella morbida coperta da bambino e la scuoteva come se torcesse il collo di un coniglio. L’azione rivelò che la coperta era vuota e la creatura, annusando perplessa, si sedette sulle zampe posteriori con la coperta tra quelle anteriori.

V. tornò a fissarci, con il viso che riluceva nella luce lunare come brace incandescente, gli occhi fiammanti di una furia che non poteva essere mitigata.

«Puttana! Ingannatrice!», gridò, con le labbra che si torcevano rivelando dei denti aguzzi. «Pensi di essere indispensabile? Se non sarà tuo figlio, allora sarà quello di un’altra donna… per opera di tuo marito!».

Poi la sua rabbia si spense e un crudele sorriso sensuale apparve sulle sue labbra rosse.

«Mary, graziosa Mary», l’adulò, come recitando una filastrocca, e all’improvviso salì sul predellino. «Capelli d’oro, occhi di zaffiro. Pensi di potermi ingannare, di nascondermi il tuo bambino, ma la verità è nel tuo sangue. Devo solo assaggiarlo…».

E allungò un dito verso di lei, come per accarezzare la pelle sotto il mento. Lei si ritrasse, ricadendo all’indietro sul sedile.

«No!», supplicai. «Farò qualunque cosa… qualunque cosa tu chieda. Andrò a Bistritz immediatamente, ti porterò una vittima, ti aiuterò a disfartene, avrò altri figli da altre donne: qualunque cosa tu chieda. Solo, lasciala vivere!».

Mormorai quelle parole in tutta sincerità, perché non m’importava più di quello che accadeva alla mia anima eterna, purché mio figlio e mia moglie fossero salvi. Ora che sapevo che la fuga del piccolo Stefan era riuscita, ero disposto a fare qualunque cosa V. chiedesse per salvare la vita di Mary. A questo ero già preparato da quando eravamo fuggiti dal castello, ma non avevo potuto confidarlo a Mary, poiché lei non lo avrebbe mai accettato.

V. si allontanò e sorrise con piacere, ma la bocca di Mary si aprì e lei gridò:

«Arkady, non devi: la tua anima sarà perduta e non avrà mai fine! Darà la caccia a Stefan!».

E, con rapida e improvvisa sicurezza, allungò il braccio e prese la pistola di mio padre.

V. gettò indietro la testa e rise con arrogante piacere mentre allargava le braccia, offrendosi come bersaglio.

«Vai avanti, mia cara: Spara! Spara! E vediamo quanto sarà efficace».

E la mia coraggiosa moglie fece fuoco. Mary, la mia anima, la mia saggia, amata assassina.

Meno di un secondo passò prima che la pallottola rimasta mi colpisse il petto ma, in quel fuggevole istante, vidi mia moglie prendere la mira e guardarmi negli occhi. Quegli occhi contenevano un tale amore che il male intorno a noi sembrò svanire, ormai poco importante, ed io le sorrisi con adorazione e gioia estrema, poiché sapevo che la mia vita non era maledetta ma benedetta, benedetta per aver amato una persona che aveva macchiato la sua stessa anima per salvare la mia.

Non avevo potuto parlarle di porre fine al Patto al prezzo della mia vita, poiché farlo avrebbe significato commettere un suicidio e la vittoria per lo strigoi. Non avevo potuto fare altro che lasciare il diario dove lei potesse trovarlo e leggerlo e poi pregare che avesse la forza di fare quello che era necessario.

Non mi deluse.

L’impatto mi gettò all’indietro fuori della carrozza, contro i cavalli, tra i lupi. Il dolore aumentò, consumando il cuore e i polmoni come fuoco che avvampa, ma non aveva importanza, perché la mia beatitudine, il mio trionfo, erano più grandi.

Fissai il cielo di velluto grigio e vidi che le stelle erano scomparse… e seppi che non era la notte ma la dolce oscurità della morte imminente.

Il silenzio mi circondò. Il mondo si allontanava mentre, grato, ebbro, affondavo ancora nella beatitudine. Un’eternità — o forse solo un istante — passò.

La piacevole quiete fu squarciata dai nitriti dei cavalli, dal fragore degli zoccoli, dal rumore delle ruote e, tra questi, da un grido di dolore — soffocato, apparentemente distante ma, quando aprii gli occhi, vidi V. che si inginocchiava sopra di me, gemendo di terrore.

Si chinò per abbracciarmi, per raccogliermi nelle sue braccia… e premette le labbra contro il mio collo, delicatamente, teneramente come potrebbe fare un amante.

Io gemetti: cercai di lottare, ma la mia ferita mortale mi rendeva incapace anche soltanto di voltare la testa. Pregai (non con le parole, dato che ero troppo debole per supplicare con nient’altro che il cuore) che la morte mi prendesse per prima, poiché anche quando Vlad indugiava sul mio collo, la vista mi mancò e tutto divenne un nero divorante. Sentii la gioia, la vittoria nella morte, sapendo che i cavalli erano fuggiti, portando Mary con loro. Dio aveva udito la mia supplica; mio figlio e mia moglie erano salvi.

Nel mezzo dell’oscurità ci fu un dolore lieve, un pizzico, meno intenso del dolore dal fuoco che mi aveva riempito ma vivo, acuto e definito, come la luce della luna sull’acqua. Provai un impeto di angoscia, ma quell’ondata di emozione, prima di passare, divenne dolcemente sensuale. Il mio gemito di sgomento divenne di piacere, il dolore nel petto si attenuò, dimenticato, e io cedetti all’inebriante sensazione del mio sangue vitale che fluiva per incontrare il suo.

Sentii la sua profonda gratificazione e sentii i miei pensieri che veleggiavano verso di lui su quel flusso cremisi.

Il ricordo di Kohl, ogni dettaglio del suo ampio e florido viso, il suo naso rotondo, la scarsezza dei capelli biondo chiaro, lo scintillare degli occhi celesti dietro gli occhiali.

Le lacrime di Mary e le mie, mentre Kohl giurava con solennità che, se non fossimo sopravvissuti, avrebbe allevato nostro figlio come fosse il suo.

Questi ricordi svanirono, ed io non conobbi altro che il mio stesso piacere. Con un ultimo guizzo di forza, sollevai il braccio e afferrai la nuca di V., premendolo più forte contro la mia carne.

E poi il mio braccio cadde e l’oscurità scese completamente. Fu l’istante di estasi più profonda che io abbia mai conosciuto. Anche ora non posso scrivere della mia morte, non posso ricordarla, senza un brivido di piacere, senza il desiderio di ritornare ancora una volta in quel momento infinito.


Quando mi svegliai era buio, sebbene potessi vedere come fosse giorno. Ero solo, nella tomba di famiglia, nella bara aperta da cui si era alzata mia sorella.

Andai al castello, scoprendo che non avevo bisogno di viaggiare a piedi ma che potevo gettare la mia essenza nell’aria e muovermi come il vento.

V. e Zsuzsa erano partiti. Senza dubbio quel vigliacco sapeva che ora sono forte come lui e che lo distruggerò con gioia. Della mia cara Mary, non riesco a trovare alcuna traccia.

Ora vado in cerca di un mortale che mi libererà con il palo e con il coltello e metterà fine al Patto. Se solo potessi morire innocente, senza assaggiare il sangue umano, senza prendere una vita…

Ma la fame! La fame…! Non appena mi sono rialzato, ho pensato che sarei impazzito. Sono andato nella foresta e ho cercato un lupo, poi ho succhiato al suo collo come un neonato.

Non aveva un buon sapore, ma mi ha calmato un po’, permettendomi di scrivere la fine — e lo strano nuovo inizio — della mia vita. Ma non è sufficiente! Non è sufficiente…


Dio, nel Quale non avevo fede, aiutami! Non credo in Te… non ci credevo, ma se devo accettare il Male infinito che sono diventato, allora prego che esista anche l’infinito Bene e che abbia misericordia di ciò che rimane della mia anima.

Io sono il lupo. Io sono Dracul. Il sangue degli innocenti macchia le mie mani ed ora io attendo di ucciderlo…


Ho ucciso un uomo. Sono andato in cerca della mia distruzione ma la fame ha avuto il sopravvento ed ho bevuto… bevuto e l’ho trovato il nettare più divino.

Sono corrotto. Ho assaggiato il sangue e lo farò ancora, con gusto. Ora non oso più cercare la mia fine, poiché la mia anima macchiata renderebbe valido il Patto e comprerebbe a V. una continua immortalità.

V. saprà di questo e cercherà di distruggermi.

E mio figlio! Perseguiterà mio figlio…

Io posso essere uno strigoi, uno che appartiene al Demonio, ma giuro che il crimine d’amore di Mary non sarà vano. Farò anche in modo che questo grande Male si trasformi in Bene, per amore. Io posseggo i poteri del Vampiro e li userò tutti per distruggere V. Ha creato un nemico potente quanto lui.

E non avrò pace finché non troverò la mia cara Mary e mio figlio e li proteggerò dagli inganni di V. Mio figlio, che io prego non sappia mai cosa ne fu di suo padre.

Vai veloce, piccolo Stefan. Possa il tuo cuore restare puro e possa tu trovare conforto nell’amore di estranei e in un nome che non ti appartiene…

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