Capitolo tredicesimo

Il diario di Arkady Tsepesh


21 aprile, mezzogiorno. Aggiunta su una pergamena separata. Infine la stanchezza ha avuto la meglio e ho dormito nell’ingresso con il mio diario improvvisato in grembo finché la grigia luce del mattino è filtrata dalla porta aperta. Con il cuore che batteva dalla paura, sono balzato in piedi nel ricordare le circostanze in cui mi trovavo, e sono sfrecciato nella stanza dove mia moglie era confinata.

Il bambino ancora non era nato. Mary era talmente esausta e pallida, con le labbra così grigie, che ne fui spaventato. Dunya, con il volto cupo per la preoccupazione, disse che Mary non doveva muoversi affatto per paura che potesse morire dissanguata. Questo credo che sia vero, e non un suggerimento messo nella sua testa da V; uno sguardo alla mia povera moglie me l’ha confermato.

Anche così, chiesi a Dunya quanto tempo ancora ci volesse per la nascita. Lei scosse la testa e aprì la bocca per parlare ma non potei udire la risposta a causa degli improvvisi gemiti di dolore di mia moglie.

Quel suono mi fece venire le lacrime agli occhi, poiché sembrò che stesse gridando per il dolore che le avevo causato portandola qui.

Dunya ha visto il mio turbamento (povera bambina: l’orrore di tutto ciò è che si tratta sempre di lei, che ha un buon cuore. Io credo che non sia nemmeno consapevole che V. la controlla), e immediatamente mi ha ordinato di andare in cucina a prendere altre erbe medicinali contro il dolore.

Esitai nel lasciare Mary, ma avevo udito i mormorii dei domestici riguardo al fatto che, di giorno, lo strigoi dorme. Certamente questa era un’abitudine di Vlad, e così capii che Mary era al sicuro… almeno per il momento.

Felice di essere d’aiuto, andai al piano inferiore e, nel farlo, scoprii che all’entrata principale era stato tolto il paletto e che era stata spalancata durante la notte. Il cielo mattutino era grigio, pieno di nuvole minacciose; l’aria aveva l’odore della pioggia imminente. Fuori, vicino alle scale principali, cavalli e calesse erano in attesa. Quella vista mi portò felicità e terrore: felicità perché c’era una possibilità di fuggire; terrore, perché ricordai la promessa di andare a prendere il nuovo visitatore a Bistritz.

Uscii nel cortile. I cavalli erano riposati e puliti, nonostante il fatto che i domestici fossero scomparsi dal castello. Mentre li guardavo pieno di meraviglia, mi sentii spingere da vari impulsi in quattro direzioni diverse.

Per prima cosa, ebbi il desiderio di fuggire, di portare la mia sofferente moglie giù per le scale e andarmene al galoppo nel calesse, nonostante ciò fosse rischioso per lei; secondo, desiderai andare a Bistritz per avvertire il visitatore di ritornare da dove era venuto.

Terzo, desiderai andare a Bistritz, prendere il visitatore, e lasciarlo nelle mani di V., sapendo che questo avrebbe comprato la sicurezza di mia moglie e della mia famiglia. Che cos’era un’altra morte quando il sangue dei Mueller era già sulle mie mani inconsapevoli?

Ma se la leggenda che il Vampiro dormiva di giorno era vera, allora non avevo bisogno di fare nulla di ciò che avevo pensato: dovevo solo uccidere V. mentre dormiva. Conoscevo il metodo e ne avevo i mezzi.

Presi la decisione proprio mentre la morbida luce del sole cominciava a bruciare tra la nebbia, sospesa sul terreno. Quando mi parve che i bianchi vortici accanto a me divenissero solidi, li considerai un trompe l’oeil che nasceva dalla stanchezza e non vi prestai attenzione finché udii una voce familiare, agitata, bisbigliare:

«Kasha…!».

I cavalli sbuffarono e batterono le zampe.

Alzai lo sguardo. Vidi Zsuzsa che stringeva le pieghe degli indumenti funebri intorno a sé, come un mantello di nebbia. Sembrava più giovane, una donna di appena vent’anni. Il suo corpo era ancora diritto, ancora perfetto, ancora in possesso di una bellezza ultraterrena ma, nella luce del giorno, la sua soprannaturale radiosità era offuscata. Si avvicinò con movenze graziose ma così del tutto umane che il dolore mi strinse la gola. Fissai i suoi impressionanti occhi pieni di fascino ma non più lontani e predatori; restava un accenno della lucentezza dorata, ma la tinta dominante era marrone chiaro… il colore degli occhi della mia cara, defunta sorella.

Le sue guance erano bagnate di lacrime.

«Oh, Zsuzsa», bisbigliai, e chiusi gli occhi. Quando li riaprii, la visione rimase. Barcollai, improvvisamente preso da vertigini.

«Kasha», disse in fretta, e mi prese per il polso; rabbrividii al suo tocco freddo e vidi che anche lei rabbrividiva… alla vista del crocifisso di Ion, che avevo tirato fuori con la mano libera dalla tasca e che avevo messo sul palmo aperto. Indietreggiò immediatamente, come se la mia pelle l’avesse bruciata come vetriolo. «Ti ho aspettato per andare dove lui non possa udire. Kasha, ti devo parlare subito! Noi ti dobbiamo salvare: tu non sai i suoi progetti! Ma andiamo all’ombra; la luce mi fa male».

Mi raddrizzai, insicuro; fece un gesto come per aiutarmi, ma fu forzata dal crocifisso a mantenere le distanze. Insieme camminammo nell’ombra gettata dal castello e lì lei allungò le braccia per abbracciarmi, poi le abbassò, impotente per la presenza del crocifisso. Ma non avvertii da parte sua alcun tentativo di ipnotizzarmi.

«Kasha», ripeté, con una voce bassa che tremava di disperazione.

«So che eri là la notte scorsa. Hai visto che mi nutrivo…».

«Ti ho visto uccidere una donna», dissi.

Abbassò gli occhi. Non incontrò il mio sguardo, ma non c’era traccia di colpa nella sua voce, nella sua espressione quando disse:

«Sì, ma non avevo scelta. Non puoi immaginare la fame, il dolore; non ero me stessa. Non ero affatto me stessa, ma ora sono ciò che sono e non posso cambiare. Non dico queste parole per ingannarti, ma perché voglio aiutarti: Kasha, devi permettermi di morderti. Devi permettermi di farti diventare ciò che io sono! È l’unico modo; altrimenti, quello che è accaduto al povero papà accadrà anche a te!».

Alzai il crocifisso e lo tenni davanti al suo viso, chiedendomi se fosse efficace — quindi i racconti dei contadini sono veri! — e desiderando di aver pensato ad usarlo la notte precedente, per salvare Frau Mueller dalla creatura che mi stava dinanzi.

Fece una smorfia e si tirò indietro, alzando le braccia come temendo che avrei potuto colpirla, ma non mostrò rabbia.

«Ritorna indietro», ordinai. «Ritorna da lui, mostro. Mia sorella è morta».

Emise un solo singhiozzo ma rimase dov’era, sebbene la vicinanza della croce chiaramente la tormentasse. Quando ebbe ripreso un certo grado di controllo e si fu asciugata gli occhi con il bordo della sua veste funebre disse, con una voce decisa, che non le avevo mai udito usare quando era viva:

«Io sono tua sorella, Kasha. Sì, sono una morta vivente… ma sono sempre Zsuzsa. Devi capirlo; Vlad è sempre stato com’è, un crudele tiranno. La morte e l’immortalità hanno cambiato lui… e anche me, ma poco. Non ti meravigli che io sia venuta ora, di mattina, quando lui non lo hai mai visto?».

Non ebbi risposta a questo, poiché, infatti, ero stupito. Il mio silenzio le procurò una lieve soddisfazione.

«Lui si può muovere di giorno, se l’emergenza lo richiede», continuò, «ma la luce è molto fastidiosa e a lui non piace, poiché i suoi poteri sono grandemente ridotti. Lui deve riposare per una parte delle ventiquattro ore, di più quando si è nutrito, e così, il più delle volte, sceglie di riposare di giorno. Ma io mi sono nutrita e riposata la notte scorsa, e ti appaio adesso nel momento in cui sono più vulnerabile come segno di fiducia. Oh, sono ancora più forte di te e potrei provare a controllarti… ma non lo farò. Arkady, devi ascoltarmi e credermi!».

Il suo tono era di angosciata sincerità e non potevo negare che non stesse cercando di ipnotizzarmi, come aveva fatto la prima notte che si era alzata. Così chiesi:

«Ascoltare e credere cosa?»

«La verità». Il suo viso si contorse dal dolore. «Lui non ci ama. Oh, Kasha, lui non ci ha mai amato! Io pensavo, quando venne da me, che faceva così perché provava dei sentimenti… ma è stata tutta una bugia. Allora mi controllava, mi faceva sentire e credere delle cose e, anche quando bevvi il suo sangue…».

A questo punto, perse la sua compostezza, abbassò il viso nelle mani e pianse; i suoi capelli neri, liberi adesso da ogni traccia d’argento, le caddero in avanti sotto il velo bianco. «Quando bevvi il suo sangue, seppi tutto ciò che lui sapeva. Appresi allora le condizioni del Patto…».

«Il Patto…», dissi.

«Sì. Fu allora che appresi tutto, ma lui ancora mi controllava e mi forzò a dimenticare ciò che non voleva che ricordassi. Pensava — la sua arroganza non conosce limiti! — pensava che io gli sarei stata così grata per la mia immortalità che avrei continuato ad essere la sua piccola Zsuzsa che lo adorava come una schiava, e che una volta che mi fossi rialzata come strigoi e avessi ricordato ogni cosa, lo avrei ancora amato. Forse pensava che sarei diventata senza cuore come lui! Ma tu sei ancora mio fratello, ed io sono ancora Zsuzsa, anche se sono cambiata. Io ti voglio ancora bene, Kasha, e non posso tollerare che lui ti usi in questo modo.

Mi ha reso strigoi perché la mia venerazione verso di lui faceva piacere al suo ego e così, nella sua arroganza, decise che avrebbe calmato la sua fame, fatto cessare la mia opposizione al suo desiderio di andare in Inghilterra, e avuto una compagna immortale che lo avrebbe riverito per sempre come voievod.

Vedi? Lui ha rinunciato a controllarmi: non conosce i miei pensieri, non sa dove sono andata. Fa parte dell’affare che ha fatto, al fine di rompere il Patto e rendere strigoi qualcuno della sua stessa famiglia. Non poteva farlo senza pagare un alto prezzo, poiché rendere Vampiro uno dei suoi significava che l’anima sarebbe stata eternamente intrappolata tra Cielo e Inferno, in modo che il Demonio non potesse averla; così scelse che, una volta che mi fossi rialzata come morta vivente, avrebbe rinunciato alla sua abilità di entrare e controllare la mia mente. Era sicuro a tal punto della mia lealtà».

«Un affare con chi?», la interruppi, ma a ciò i suoi occhi si socchiusero e lei non sembrò propensa a rispondere, quindi continuò rapidamente.

«Fu così che non ricordai niente della verità del suo Patto quando stavo cambiando, prima che morissi, perché allora ancora comandava i miei pensieri e, quando mi alzai dalla bara, non riuscivo a pensare a nulla tranne al fatto che avevo una fame orribile. Solo dopo aver bevuto il sangue della donna ed essermi riposata, la mia mente fu abbastanza chiara da pensare, e poi fui presa dall’orrore per te.

Adesso il nostro povero padre soffre all’Inferno, al posto suo! Vlad avrebbe potuto salvarlo, avrebbe potuto fare per lui ciò che ha fatto per me — intrappolare la mia anima sulla terra — invece si è assicurato che soffrisse il tormento eterno! Non credere che abbia tenuto lontani i suoi denti dal collo di papà per gentilezza! E farà lo stesso con te: ti intrappolerà, ti costringerà a commettere dei crimini al di fuori della tua libera volontà.

Dovresti udire come ride crudelmente quando parla del giorno in cui ti ha mandato a Bistritz a vedere il jandarm. Si bea del tuo tormento; non è che un gioco per lui, guardare il tuo crescente terrore mentre comprendi la verità, portarti sull’orlo della follia sperando di corrompere il tuo spirito…».

Chiusi gli occhi, pensando alla lettera di Radu:

È come un vecchio lupo che ha ucciso così tante volte che si è annoiato, e deve trovare nuovi piaceri; distruggere l’innocenza è uno di essi… Questo divertimento è nuovo per lui, poiché ne può godere soltanto una volta in ogni generazione.

«I Mueller», dissi bruscamente aprendo gli occhi, comprendendo che V. aveva ucciso Laszlo al fine di rendermi complice. Allo sguardo interrogativo di Zsuzsanna, aggiunsi: «I visitatori. Mi ha giocato inducendomi a piantare nei loro cuori dei pali prima che fossero morti; mi ha ingannato per farmi uccidere, quando io pensavo solamente di impedire che si rialzassero come morti viventi».

«Non li hai uccisi», disse, con tale certezza che le credetti. «Ho sentito morire la ragazza».

«Ma ha gridato…».

«Come fanno i morti viventi, quando vengono distrutti». Provai un sollievo così profondo che gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma mia sorella rabbrividì al pensiero mentre aggiungeva: «Hai fatto del male a qualcun altro? Hai portato qualcuno al castello, sapendo chi era Vlad e che cosa avrebbe fatto?»

«No».

Mia sorella batté le mani in un gesto infantile di contentezza.

«Allora forse non è troppo tardi! Forse non c’è ancora la necessità di renderti uno di noi! Ancora non hai commesso un peccato mortale. Ha cercato di ingannarti facendoti pensare che lo avessi già fatto, e che perciò i crimini futuri non avrebbero fatto alcuna differenza».

Scossi la testa e dissi, con un tono pieno di ironia:

«Se sia peccato o meno non farà differenza per le autorità di Vienna. Sapranno solo che ho maneggiato il palo e il coltello…».

«Kasha, io non parlo di qualcosa di così irrilevante come il jandarm a Vienna! Io parlo del Patto, del Contratto! Del tuo destino eterno!».

Per un istante, ci fissammo, ognuno rendendosi conto che l’altro non capiva.

Io parlai per primo, a voce bassa.

«So del Patto. Dunya mi parlò di quello che ha con gli abitanti del villaggio, per la loro protezione, e V. stesso mi ha spiegato l’accordo che ha con la nostra famiglia: il servizio del figlio maggiore in cambio della protezione e della ricchezza della famiglia».

«Oh, no», disse mia sorella, con un bisbiglio così stridulo che tagliò l’aria tra di noi, e penetrò nel mio cuore tanto facilmente come il pugnale di V. nella tenera pelle di un bambino. «Allora non sai niente del vero Patto… quello con il Demonio».

«La tua anima, Kasha. La tua e quella di tuo padre e di suo padre prima di lui. L’anima di ogni figlio maggiore vivente di ogni generazione di Tsepesh: quello è l’oro con cui lui compra la sua immortalità».


Zsuzsa mi parlò ancora, con una voce bassa che tremava per l’orrore mentre eravamo all’ombra del castello. Dopo che V. mi aveva scortato fino al fianco di mia moglie, era ritornato nella camera interna e si era rivolto a Zsuzsa con una furia terribile, urlando che lei lo aveva tradito.

«Mi accusò di averti stregato», disse piangendo, «di averti reso partecipe del mio patto per liberarti dal suo controllo».

«È vero», dissi. «Egli non controlla più la mia mente, dal momento che ti sei rialzata dalla tomba…».

Annuì con tristezza.

«Vlad voleva tenerti ancora prigioniero per legare a sé tuo figlio con il rito del sangue prima di restituirti la volontà. Ecco perché è stato costretto, all’ultimo momento, a sequestrare Mary: per portare te e il bambino al castello, poiché non poteva più richiamarti qui con la mente, ma io sospetto che sia stato giocato da Qualcuno più cattivo e astuto di lui.

Forse il prezzo della mia volontà non era un pagamento sufficiente per rompere il Patto e rendermi strigoi; forse occorreva anche la tua… poiché mi ha fatto uscire dalla camera interna e la sua ira era così spaventosa che non vi sono ancora ritornata, ma sono rimasta nei pressi della porta esterna e l’ho sentito gridare a qualcuno — o a qualcosa — all’interno».

Pensai al nero altare a capo della bara di V. e rabbrividii. La mia mente ancora non ci credeva, non capiva, ma il mio cuore accettò le parole di Zsuzsa, poiché, se esiste qualcosa di tanto nefandamente malvagio come V., ci dev’essere sicuramente il Demonio.

«Zsuzsa», mormorai, mentre la mente mi si schiariva. «Mi ha chiesto di andare a Bistritz a prendere un altro visitatore…».

«Kasha, non devi andarci! Se tu consegni una vittima nelle sue mani, allora ha vinto… e la tua anima è perduta».

«Allora aiutami a ucciderlo! Ora è addormentato ed è vulnerabile».

Di colpo volse la testa verso di me e i suoi occhi lampeggiarono non d’oro ma con il rosso opaco e irato della cenere ardente.

«Non dire mai più una cosa simile! Come puoi chiedermi…».

«Ha ucciso un migliaio, un milione di volte, Zsuzsa! Tu stessa hai detto che non lo ami più».

«No», disse lentamente. «No… io non lo amo. Lo disprezzo per quello che ha fatto a te e a papà, perché mi ha ingannato. Ma sono venuta da te perché non desidero vedere che a qualcuno venga fatto del male, nemmeno a lui».

«Ma potrebbe fare del male a Mary!».

Abbassò il bel viso, dal colorito leggermente rosato, rubato alle guance di Frau Mueller, e sospirò una riluttante ammissione.

«Sì… farebbe qualunque cosa per corrompere la tua anima: ucciderebbe tua moglie, tuo figlio (purché tu viva per generarne un altro). Ma non ti farà del male, non finché tu rimarrai innocente».

Sollevai la testa, e il battito del cuore aumentò mentre una più potente rivelazione si presentava.

«E se io muoio innocente…?»

«Sarebbe distrutto».

«Zsuzsa!». Dimenticando il crocifisso, le presi la mano; lei indietreggiò con un piccolo grido di dolore. «Zsuzsa, devi promettermi, allora, che tu spiegherai ogni cosa a Mary e provvederai a che lei e il bambino stiano bene…».

Presi quindi il revolver di papà, nascosto sotto il panciotto.

Tese le mani per fermarmi, trasalendo quando le nostre carni si toccarono.

«No! Dev’essere una morte innocente, Kasha. Se muori per la tua stessa mano o con la tua complicità, la tua anima è perduta e il Patto confermato».

Mi inginocchiai davanti a lei.

«Allora uccidimi!».

Distolse il viso e fissò un momento la luce del sole che macchiava la foresta prima di bisbigliare:

«Questa vita è grottesca… ma troppo meravigliosamente strana perché io l’abbandoni, fratello. Ho dei poteri, delle capacità, la bellezza che non ho mai sognato nella mia piccola e patetica vita umana. Non chiedermi di rinunciarci così presto…».

«Zsuzsa, non capisco…».

Tirò un respiro e si voltò verso di me, con i lineamenti perfetti deturpati, contorti da un’agitazione interna.

«Se distruggi Vlad, distruggi me».

La guardai negli occhi e seppi allora che amava ancora V. tanto quanto lo odiava; che da lei non avrei avuto alcun aiuto oltre quello che mi aveva già offerto. Infatti, vidi comparire in quegli occhi il dispiacere.

Improvvisamente, aggiunse:

«Fuggi, Kasha, fuggi. Rimani vivo, per amore del bambino, e portalo lontano da qui, perché dal momento in cui sarà nato, Vlad lo legherà a sé con il rito del sangue… a meno che tu non lo impedisca».

E scomparve. Non impercettibilmente, non gradualmente, ritornando nelle ombre, ma improvvisamente come il piccolo spettro di mio fratello era svanito davanti ai miei occhi nella foresta. Un momento prima fissavo l’immagine di mia sorella radiosamente bella, quello dopo, il mattino grigio e le sagome alte e distanti degli alberi.

Non indugiai, ma ritornai all’interno del castello, trovai le erbe medicinali contro il dolore che Dunya aveva richiesto, e le consegnai nelle sue mani.

Adesso il tormento di Mary è costante; sicuramente il bambino nascerà presto. Non sopporto più di aspettare, scrivendo e ascoltando la sua sofferenza.

Devo agire.

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