Lettera a Matthew P. Jeffries
(scritta sotto dettatura e tradotta dal rumeno)
7 aprile
Amico mio,
Benvenuto nei Carpazi. Sono stato estremamente deluso nel ricevere la notizia che il vostro arrivo era stato rinviato, ma tutte le cose vanno per il meglio; siamo stati un po’malati al castello, ed è proprio un bene che la vostra visita sia stata rimandata.
Comunque, adesso, il momento non potrebbe essere migliore! Ho ricevuto la vostra lettera da Vienna che diceva che sareste arrivato a Bistritz nella serata dell’otto. Questa lettera vi attenderà, come faccio anch’io, in modo estremamente ansioso. Dormite bene stanotte, poiché domani mattina, 9 aprile, la diligenza per Bucovina partirà alle otto. Il mio cocchiere vi attenderà al Passo Borgo e vi condurrà da me.
L’articolo del «Times» a cui avete accennato sembra estremamente interessante. Sarei felice di fornirvi qualsiasi informazione utile, e sono impaziente di avere con voi alcune conversazioni al riguardo.
Spero che non abbiate ulteriori difficoltà di viaggio e possiate godere del vostro soggiorno nel mio bel paese.
Il vostro amico,
Il diario di Mary Windham Tsepesh
8 aprile. Dio mio, che cosa dirò a mio marito?
Ho la sensazione che qualcosa di terribile sia accaduto di recente, qualcosa che abbia aumentato il suo dolore per la morte del padre. Credo che lui e Vlad abbiano avuto una discussione o che abbia fatto qualche terrificante scoperta al castello.
Certamente non può essere più scioccante di quella che ho fatto io.
Avevo indovinato immediatamente che Zsuzsanna era infatuata di suo zio e che lui non faceva nulla per scoraggiarla: al contrario, alimentava la fiamma. Ma non avevo idea che…!
Il povero Arkady era talmente sconvolto la notte scorsa che è rimasto in piedi a leggere nello studio e non è venuto a letto se non poche ore prima dell’alba, ed io sono ormai talmente abituata al rumore del suo respiro e alla sensazione del suo corpo caldo vicino a me, nel letto, che sono diventata inquieta.
Ho riflettuto sull’idea di accendere la lampada e scrivere un’altra pagina di diario, ma i miei occhi erano stanchi dopo che ieri avevo passato ore a leggere e a scrivere, e così, nell’oscurità, mi sono avvicinata al bovindo pensando di aprirlo, in modo che l’aria fresca potesse aiutarmi a dormire. Mentre stavo lì, sono stata catturata dalla vista della luna quasi piena che galleggiava tra le nuvole, e mi sono seduta sul cuscino di velluto nel sedile della piccola rientranza. La luna era così lucente che il panorama era quasi illuminato a giorno.
La nostra stanza da letto si trova nell’ala di destra, esattamente di fronte a quella di Zsuzsanna; soltanto una striscia di terreno erboso ci separa, ed io potrei facilmente tirare un sasso dalla nostra camera nella sua. Ogni camera ha un’ampia finestra che permette una bella vista, ma godiamo di una completa riservatezza dietro le pesanti cortine, e Zsuzsanna dietro le sue imposte.
Ma, la notte scorsa, ho scostato il bordo della tenda per veder meglio la luna e, così facendo, i miei occhi hanno visto qualcosa che correva attraverso la striscia di terreno verso la camera di Zsuzsanna. Pensando che fosse uno dei lupi dai quali Arkady mi ha spesso messo in guardia, mi sono avvicinata di più al vetro per vedere meglio. Non avevo paura, poiché la tenda mi nascondeva bene e dubitavo che l’animale fosse in grado di fare un salto di due piani, ma ero molto curiosa dato che, essendo vissuta in città, non avevo mai visto un lupo, tranne che nei libri illustrati.
Però, prima che potessi mettere a fuoco l’oggetto del mio interesse, fui distolta da un movimento alla finestra di Zsuzsanna. La vidi mentre tirava indietro le impose e spalancava la finestra, lasciando entrare l’ondeggiante luce lunare.
Mi spaventai e quasi pensavo di lanciare un grido d’allarme per il lupo, quando notai accanto a lei una figura, nella piccola rientranza accanto al sedile della finestra. Come fosse arrivata lì, non lo so, ma posso dire chi fosse… Vlad.
Mentre guardavo, piena d’orrore, essi si abbracciarono, e poi lui allungò la mano verso il nastro alla gola di lei e, quando questo si slegò e la camicia da notte cadde…
Scrivere altro mi fa star male. Mi voltai, incapace di sostenere quella vista e chiusi le tende.
La notte scorsa ho dormito a malapena. Sono combattuta. Arkady è già turbato abbastanza per qualche segreta pena, e tutto quello che farei sarebbe trasferire il mio problema sulle sue spalle già cariche. Ma non so decidere se sia meglio affrontare Vlad o Zsuzsanna… o rimanere del tutto in silenzio.
Mio povero caro, hai sofferto così tanto di recente! È questo ciò che ti tormenta? Lo sai già?
Il diario di Arkady Tsepesh
9 aprile. Sto cominciando a pensare che tutti al castello siano un po’ pazzi.
Ieri mi sono recato là di buon’ora, per familiarizzarmi con gli affari dello zio. Ovviamente non ho parlato né a Zsuzsanna né a Mary della mostruosità di cui sono stato testimone nella tomba di famiglia: non avrebbero sopportato lo shock. Né mi sentivo io stesso di sopportarlo ancora ma, sulla strada per recarmi dallo zio, mi sono sentito obbligato a passare con il calesse davanti alla tomba di papà e ad entrare.
Quello che ho visto all’interno della tomba mi ha calmato il cuore. La bara era stata richiusa, le rose rimesse amorevolmente al loro posto e il pavimento di marmo era stato pulito; anche l’orribile sega e il martello erano stati portati via, e tutto appariva come era stato prima della profanazione. Ho provato una profonda gratitudine per lo zio, che aveva superato il suo dolore per occuparsi di quella terribile faccenda, alleviando così il mio e proteggendo il resto della famiglia.
Quando sono arrivato al castello, la mia malinconia si è riaccesa alla vista della scrivania di mio padre, che era proprio come lui l’aveva lasciata, in una stanzetta nell’ala est, con una magnifica vista dei Carpazi. Tutto era ordinato e ben organizzato; con facilità, ho trovato tutte le informazioni finanziarie dello zio, e presto ho dimenticato la mia tristezza mentre mi immergevo nel lavoro.
In tutta onestà, sono stato sorpreso dalla quantità delle ricchezze di Vlad. Considerandone il livello, ci sono meno domestici di quanto ci si potrebbe aspettare: soltanto tre cameriere, un cuoco, uno stalliere, un giardiniere, il maggiordomo e… naturalmente, quello sgradevole cocchiere, Laszlo.
Dopo aver parlato con il soprintendente dei campi dello zio, ho fatto la più sconvolgente delle scoperte: la terra della nostra famiglia è lavorata dai rumini, dei veri e propri servi, sui quali lo zio ancora possiede gli antichi droits du Seigneur! Il feudalesimo è, di solito, un sistema ingiusto in favore del Signore che possiede la terra. I servi gli pagano le decime per lavorarlo, poi un altro dieci per cento del ricavato, oltre a pagare il bir, una tassa personale piuttosto ingente per la “protezione”. Nel caso di Vlad, però, il rumini non paga le decime, ma solo il cinque per cento del ricavato dalla vendita del raccolto e un bir annuale di pochi centesimi (come se ancora temessimo i predoni turchi e, per una somma talmente irrisoria, offrissimo a tutti il rifugio delle mura del castello degli Tsepesh durante le guerre).
Un’altra sorpresa: lo zio possiede la maggior parte del villaggio, eppure non riceve affitti. Soltanto un accordo sembra a suo vantaggio: i servi sono tenuti a fare qualunque lavoro Vlad chieda, e in qualunque momento lo chieda. Oggi, uno di loro era al castello, e stava rimettendo la malta a qualche pietra che si era mossa vicino all’entrata. Si è inchinato educatamente mentre mi avvicinavo ma, mentre lo sorpassavo, ho udito un borbottio sommesso sul fatto che doveva trascurare il necessario lavoro nei campi in favore del voievod, del Principe. Lavorava con una lentezza che mi dispiacque, alla luce della generosità di Vlad.
Pensare che il feudalesimo sia ancora vivo, oggigiorno e in questo secolo…! Chiaramente Vlad raccoglie solo una frazione di ciò a cui ha diritto. Non è questo il modo di arricchirsi; sarebbe più remunerativo liberare i servi dai loro obblighi e assumerli nuovamente come lavoranti a un salario più basso e più ragionevole, intascando noi stessi i profitti che si hanno dalla vendita dei raccolti. La sua stravagante bontà, temo, porta i servi a sfruttarlo.
Tuttavia non è questo che mi turba tanto quanto la nozione stessa di feudalesimo, che suggerisce come Vlad “possieda” completamente i contadini e le loro case. Nessun uomo ha il diritto di controllarne un altro in questo modo. Sarebbe molto più giusto per tutti il sistema di un onesto salario per una giusta giornata lavorativa.
Sono rimasto sorpreso anche dalle alte paghe — molto più di quanto un domestico qualificato potrebbe ricevere in Inghilterra — pagate ai servi della casa, il che certamente non spiega la loro fredda, ma educata, condotta verso di me. La sotterranea ostilità è sempre lì, sebbene non riesca ancora a decidere se essi mi disprezzino o mi temano, oppure entrambe le cose.
Solo Masika Ivanovna ha un buon carattere, e questa è una circostanza fortunata, dato che è stata assegnata come cameriera dell’ala est (dove si trova il mio ufficio) e ovest (dove dimora lo zio). Le altre due cameriere, Ana ed Helga, hanno lo stesso freddo e acido comportamento di Laszlo, nonostante la loro giovinezza.
Tuttavia, comincio a interrogarmi sulla sanità mentale di Masika Ivanovna. C’è una strana aria di disagio in questo castello, dovuta, senza dubbio, al risentimento dei servi e alle strane abitudini dello zio, e io sospetto che decine d’anni di servizio in questo luogo abbiano un qualche effetto sulla mentalità superstiziosa di un contadino.
Dopo essermi presentato ai domestici nell’ala principale ed essermi ritirato nell’ufficio di papà per lavorare per un po’, è apparsa Masika Ivanovna… credevo per eseguire i suoi compiti giornalieri. Con ostentazione, ha spolverato tutti i mobili, poi, a disagio, ha indugiato così a lungo che, alla fine, ho interrotto il lavoro per chiedere se avesse qualcosa da dirmi.
Allora si è fermata, e la sua espressione è diventata inquieta, come se stesse lottando per prendere una decisione difficile. Infine, ha abbassato il suo straccio per spolverare, è andata fino alla porta semiaperta, e ha guardato nervosamente lungo il corridoio oscuro, come se si attendesse di vedere qualcuno nascosto nell’ombra. Poi ha ripetuto la sequenza guardando fuori dalla finestra…! Quando si è sentita rassicurata, si è avvicinata talmente che tra i nostri volti non c’era un palmo di distanza e ha bisbigliato:
«Vi devo parlare, signorino! Ma dovete giurare che non rivelerete a nessuno quello che vi dirò, o costerà la vita a me e a mio figlio!».
«Le vostre vite?», ho chiesto, estremamente sorpreso dal suo strano comportamento. «Di cosa stai parlando?».
Parlai con un tono di voce normale: questo l’allarmò e, con un’espressione angosciata, alzò un dito alle labbra per dirmi di fare silenzio.
«Prima, giurate! Giurate davanti a Dio!».
«Io non credo in Dio», risposi, un po’ freddamente. «Ma ti posso dare la mia parola di uomo d’onore che non dirò a nessuno ciò che mi rivelerai».
Studiò intensamente il mio viso, la fronte aggrottata per l’ansia. Qualunque cosa vi trovò sembrò soddisfarla poiché, alla fine, annuì e disse con voce bassa:
«Dovete andarvene immediatamente, signorino!».
«Andarmene?», chiesi con indignazione.
«Sì! Partite e ritornate in Inghilterra! Oggi, prima che il sole tramonti!».
«Perché mai dovrei volerlo fare?».
Lei non rispose immediatamente, ma sembrò incapace di trovare le parole appropriate, e così approfittai del suo silenzio per continuare.
«Ad ogni modo, non posso. Mia moglie è a meno di tre mesi dal parto: temo che il recente viaggio l’abbia già provata».
La decisione che c’era nella mia voce sembrò spaventarla, tanto che i suoi occhi si riempirono di lacrime. Sconvolta, cadde in ginocchio davanti alla mia sedia, le mani serrate in un gesto di supplica, come Cristo che pregava nel Getsemani.
«Per favore… per amore di vostro padre, allora! Andatevene presto!».
«Perché?», domandai, afferrandola per il gomito e cercando di farla rialzare in piedi. «Perché devo partire?»
«Perché, se non lo fate, sarà troppo tardi, e voi, la vostra famiglia e il bambino sarete in un terribile pericolo. A causa del Patto…».
Non aveva senso; nondimeno, alle sue parole qualcosa si mosse nella mia memoria. Il volto di Masika Ivanovna svanì. Di nuovo, vidi attraverso gli occhi di un bambino di cinque anni: guardavo fiducioso mio padre nel momento in cui il coltello scendeva in un luccicante arco d’argento.
Immediatamente, delle invisibili dita d’acciaio mi afferrarono il cranio, offuscando l’immagine. Sollevai una mano alle tempie e pensai: Sto diventando pazzo…
No. No. È semplicemente un attacco di nervi, provocato dalla morte di papà e dalla mia terribile scoperta.
All’entrata vi fu un movimento fulmineo. Alzai lo sguardo rapidamente e vidi Laszlo, il cocchiere, che si toglieva il berretto. Non sono sicuro del tempo che avesse passato lì. Non ha un brutto aspetto: sembra un tipico contadino ungherese di mezza età, dai capelli e dalla carnagione chiara, con dei tratti rotondi, poco marcati, e un naso reso rosso dal bere, ma porta con sé un’aria di spiacevolezza, la quintessenza di ciò che affligge il castello.
Masika Ivanovna seguì il mio sguardo e si voltò per vedere chi fosse il nostro visitatore. Non penso che avrebbe potuto essere più terrorizzata se fosse apparso il Diavolo in persona. Con gli occhi spalancati e tremando, ansimò rumorosamente con fare colpevole e si segnò alla sua vista, poi si alzò e corse fuori dalla stanza, dimenticando completamente di congedarsi da me.
Laszlo la guardò andarsene con un lieve e condiscendente sorrisetto, come se comprendesse benissimo la sua reazione e la trovasse del tutto divertente. Poi si rivolse a me, dicendo che era venuto soltanto per presentarsi formalmente e per offrirmi i suoi servigi ogniqualvolta fossero stati necessari. Provai piacere nel dirgli che non lo sarebbero stati, in conseguenza del dono del calesse da parte dello zio.
L’incontro con Masika Ivanovna mi lasciò vagamente turbato, ma lo bandii dalla mente e continuai a lavorare senza incidenti fino a sera inoltrata, quando mi incontrai con lo zio. Gli portai degli aggiornamenti su questioni d’affari e lo ringraziai caldamente per aver provveduto alla tomba di papà ma, in seguito, siamo quasi arrivati ad avere un litigio sull’argomento dei rumini, i servi.
Ho insistito con forza affinché abolisse del tutto il sistema feudale e pagasse ai servi un giusto salario, cosa che sarebbe tornata a vantaggio suo e loro. Per essere un uomo tanto intelligente, si è dimostrato sorprendentemente di strette vedute: non ne ha voluto sapere. La generosità verso la famiglia e i domestici era un fatto d’orgoglio e di tradizione… e non c’era niente di più importante, ha detto, che la tradizione familiare dei Tsepesh.
«Allora, guardiamola da un altro punto di vista», ho replicato, pensando di fare appello a quella stessa generosità. «Il feudalesimo è semplicemente immorale. Tu possiedi le vite dei servi: loro non possono lasciare il villaggio senza il tuo permesso, e devono venire a lavorare al castello secondo il tuo capriccio. Come esseri umani, hanno il diritto di essere i signori di loro stessi, i loro stessi padroni».
«Qui non si tratta di moralità», ha risposto mio zio fermamente, con una traccia di compiacimento per la mia ignoranza. «Si tratta della nostra tradizione familiare e, come tale, non dev’essere mai cambiata. Un giorno, quando sarai più vecchio e più saggio, Arkady, lo capirai».
Al sentire ciò, temo di aver perduto la calma e di aver assunto un tono piuttosto infervorato.
«La tradizione dei Tsepesh non può essere mai tanto importante quanto i diritti degli esseri umani!».
Fu come se lo avessi colpito in pieno sul viso. Una fredda furia da lupo si risvegliò nei suoi occhi, che per un fuggevole istante mandarono bagliori rossi per la luce riflessa del fuoco che proveniva dal camino dello studio. Fece verso di me un movimento veloce, animalesco, che immediatamente soppresse; nondimeno, io ritornai all’istante il bambino in preda al panico, spaventato, che si faceva piccolo, indifeso, mentre Shepherd saltava.
Poi battei le palpebre e vidi che i suoi occhi erano semplicemente freddi ma del tutto calmi, che sedeva completamente immobile nella sua sedia e non si era mai mosso. La mia mente mi sussurrò: è la tua immaginazione febbrile…
«Non devi parlare così di noi Tsepesh», disse a voce bassa. «Alle volte, assomigli troppo a tua madre; era troppo caparbia, troppo irrispettosa delle nostre abitudini. Temo che tu abbia ereditato qualcosa di più che i suoi occhi».
Forse aveva ragione; non lo so, poiché non ho mai conosciuto mia madre, ma sono sempre stato ostinato e impaziente, al contrario di papà e Zsuzsanna. Quando sono minacciato, lotto, e così, nonostante il dispiacere dello zio e la mia momentanea, sconvolgente visione, non mi arresi.
«Non intendevo essere irrispettoso», dissi. «Io amo la mia famiglia e le sue tradizioni, ma il feudalesimo non è soltanto un costume degli Tsepesh. È, praticamente, schiavitù, ed è immorale».
La sua rabbia diminuì, ma la luce nei suoi occhi rimase, assumendo una strana qualità ferina che mi disturbò ancor più che l’immaginato sfogo di rabbia. Poi sorrise, e le sue rosse labbra carnose si aprirono per mostrare dei denti sorprendentemente forti e intatti.
«Ah, dolce Arkady! Ho camminato così a lungo su questa terra, che me ne sono stancato, ma la tua gioventù e la tua innocenza mi fanno sentire giovane di nuovo. Com’è piacevole vedere qualcuno così idealista, così ingenuo, da essere affascinante. Tuo padre era così quando venne da me: pieno di passione e di princìpi!». La sua espressione divenne improvvisamente severa. «Ma tu arriverai presto a capire l’errore del tuo pensiero, come ha fatto tuo padre e il suo prima di lui».
Cercai di riportare la conversazione sui rumini, ma lui rifiutò di discutere ancora quell’argomento e, invece, cominciò a parlare del progetto di andare in Inghilterra prima della fine del prossimo anno, quando Zsuzsanna fosse stata bene e il bambino abbastanza grande per viaggiare. Promisi di fare quello che potevo per contattare alcuni legali per il possibile acquisto di alcune proprietà.
Posso essere colpito dalla sua generosità ma, dentro di me, sono rimasto piuttosto sconcertato dalla sua condiscendenza verso mia madre e verso la mia “ingenuità”. Suppongo che l’aristocrazia non abbia migliore difesa che insultare quelli che hanno delle opinioni progressiste ed egalitarie. D’ora in avanti, mi terrò le mie opinioni per me — dopotutto, mio zio è più anziano di me ed è, nientemeno, un Principe — ma quando la proprietà sarà nelle mie mani, come dovrà senz’altro accadere entro pochi anni, farò in modo che le cose siano condotte diversamente.
Così tenni la lingua a freno, e lo zio ed io finimmo il lavoro serale. Arrivai a casa alle nove per trovare che Mary si era già ritirata. La raggiunsi e trascorsi una notte agitata piena di brutti sogni.
Il giorno seguente, 9 aprile (oggi), è stato molto più gradevole. Nel pomeriggio, sono ritornato al castello per trovare che Laszlo aveva portato un visitatore: un certo signor Jeffries, il giovanotto inglese che sta facendo il giro delle campagne. Apparentemente, il taverniere di Bistritz è un nostro lontano parente che, d’abitudine, indica ai viaggiatori stranieri il castello come punto di interesse storico, e lo zio fornisce alloggio e ospitalità senza un qualsivoglia compenso. Era compito di papà servire da ambasciatore e guida a questi visitatori, e di intrattenere la corrispondenza con loro.
Non ho potuto fare a meno di pensare come a una stranezza che un uomo, riluttante a mostrarsi ai suoi stessi servitori o a chiunque altro al di fuori della sua famiglia, sia disposto ad aprire la sua casa a dei perfetti sconosciuti. Nello stesso tempo, sono stato contento che il viaggiatore sia arrivato, poiché avevo già il desiderio di avere notizie dell’Inghilterra; il paese che fino a poco tempo prima avevo considerato la mia casa.
Ho incontrato il signor Jeffries nelle camere degli ospiti nell’ala nord. È un uomo alto, magro, con una folta chioma di capelli chiarissimi, una carnagione lattea che arrossisce con facilità, e un contegno allegro, socievole. È stato molto felice e sollevato nel trovare qualcuno al castello che sapesse parlare inglese, poiché era stato costretto a fare affidamento sul suo zoppicante tedesco per comunicare con Helga. Nessuno degli altri domestici parla inglese o tedesco, e lui era caduto in quell’infelice stato di anomia, sperimentata da coloro che sono incapaci di esprimersi in terra straniera (mi ricordava i miei primi giorni a Londra).
Fu deluso di sapere che lo zio non parlava inglese e che io (e papà prima di me) avevamo tradotto tutte le sue lettere, poiché aveva intenzione di fargli un’intervista e sarebbe stato costretto a farla in tedesco. Si rallegrò moltissimo quando gli offrii i miei servigi come traduttore.
Sebbene sia un giornalista di professione, viene da una famiglia di commercianti. In apparenza, sono piuttosto benestanti, poiché sfoggia un bell’orologio da tasca d’oro con un intarsio d’argento o di oro bianco, e, al mignolo, porta un anello d’oro con lo stesso motivo. Non ho potuto fare a meno di divertirmi in segreto per quello sfoggio di tali fronzoli familiari da parte di un borghese: qual è la fonte di quell’orgoglio?
Ma, sentitemi! Solo un giorno è passato dalla discussione con lo zio, e già sembro uno snob aristocratico. Il signor Jeffries potrà essere un uomo qualsiasi, nondimeno è molto istruito e intelligente, e ha degli occhi rapidi, mobili, che afferrano tutto, nonché un’incessante curiosità: tutte buone qualità per un giornalista.
Ho trovato la sua compagnia così gradevole che l’ho accompagnato in un giro per il castello, sebbene, naturalmente, le stanze private dello zio fossero inaccessibili. Mentre salivamo la scala a chiocciola di pietra, dissi:
«Ho tradotto la lettera che mio zio vi ha spedito da Bistritz; quindi, mi pare che stiate scrivendo una sorta di articolo giornalistico,… vediamo… per il «London Times»? E desiderate intervistare lo zio? Di cosa tratta precisamente l’articolo? Storia transilvanica? Viaggi?».
Al sentire ciò, il signor Jeffries si illuminò; il suo viso è elastico, meravigliosamente mobile.
«Non precisamente», rispose. «Riguarda più il folklore del vostro paese. Vostro zio conosce molte cose su delle affascinanti superstizioni…».
«Sì», risposi infastidito. «Tutti abbiamo sentito quello che dicono i contadini».
Suppongo vi fosse un accenno di rabbia nella mia voce, poiché il signor Jeffries lo colse immediatamente e il suo tono si addolcì.
«Naturalmente, le superstizioni sono tutte molto ridicole. Sono certo che la vostra famiglia le trova seccanti e divertenti allo stesso tempo. Io sono, ovviamente, un uomo razionale, ed è mio intento mostrare queste superstizioni per quello che sono, ossia delle sciocchezze, per far vedere che non c’è alcuna verità dietro di esse. Le lettere di vostro zio lo mostrano come un uomo estremamente gentile e buono».
«Lo è», dissi, sollevato. «Lui è estremamente generoso con la sua famiglia… anche se è un po’ solitario».
«Be’, questo è abbastanza normale. Perché dovrebbe voler andare tra gente che lo crede un mostro?».
Nell’istante in cui Jeffries pronunciò queste parole, seppi immediatamente che aveva una grande capacità di intuizione. Naturale che avesse ragione; ciò spiegava perfettamente perché Vlad accettava di vedere la sua famiglia e Laszlo, ma era riluttante a vedere i domestici. L’oscuro senso di incertezza creato dal sinistro avvertimento di Masika Ivanovna e la rigidità di Vlad circa i rumini, svanirono davanti alla luce del solare e logico carattere di Jeffries.
Allora mi confidai con lui circa il desiderio dello zio di andare in Inghilterra e, più ne parlavo con lui e pensavo di liberarmi dall’ambiente tetro e dalle superstizioni dei contadini, più la prospettiva diventava allettante. Discutemmo di quanto la Transilvania fosse arretrata rispetto al resto del mondo che cambiava. Mi chiese bruscamente se la mia famiglia si sentisse sola lì, ed io ammisi che la cittadina stava morendo e che una delle mie più grandi preoccupazioni era il nostro isolamento.
La conversazione volse poi ad un argomento più allegro, e parlammo dell’Inghilterra, mentre lo conducevo nel salotto dell’ala sud, dove una grande finestra si affaccia su una vista che incute timore: per alcune migliaia di piedi al di sotto si apre il grande precipizio sul quale sorge il castello, circondato da una vasta estensione di foresta color verde scuro che si allunga fino all’orizzonte.
«Mio Dio!», sussurrò Jeffries, guardando tutto attentamente. «Dev’essere profondo un miglio!».
Apparentemente, deve avere un certo timore dell’altezza: tolse, infatti, un fazzoletto dalla tasca del suo gilet e si asciugò la fronte sudata (lo confesso: repressi un sorriso di condiscendenza quando vidi il monogramma di una grande “J” sul fazzoletto).
Lo rassicurai che non era proprio un miglio, e gli spiegai come il castello fosse stato costruito circondato da tre lati da un precipizio (ad est, sud e ovest) in modo da poter essere più facilmente difendibile dagli invasori: principalmente i Turchi provenienti dal sud.
Lui ascoltò con estremo interesse e cominciò persino a prendere degli appunti su un piccolo blocco ma, dal momento che quella vista vertiginosa lo metteva a disagio, lo condussi giù nel piano nobile dell’ala centrale, in quel soggiorno cupo dove, nei secoli precedenti, i miei antenati avevano intrattenuto altri nobili.
Lui si stupì molto per le eccellenti condizioni dell’antico mobilio e per lo splendore degli arazzi di broccato, alcuni intessuti con l’oro. Quando ci voltammo verso il ritratto — più grande del naturale — che dominava l’ampia parete sopra il caminetto, trattenne il respiro e si voltò verso di me per la sorpresa…
«Ma… siete voi!», esclamò.
Sorrisi appena quando le sue parole echeggiarono contro il soffitto dall’alta volta.
«È difficile. Questo è stato dipinto nel quindicesimo secolo».
«Ma guardate», insistette Jeffries con entusiasmo. «Ha il vostro naso», e qui indicò il tratto lungo e aquilino del soggetto, «i vostri baffi, le vostre labbra», e indicò i neri baffi spioventi (in tutta onestà, molto più folti dei miei) sopra un generoso e rosso labbro inferiore, «i vostri capelli scuri…».
A questo punto si fece silenzioso, poiché era arrivato agli occhi.
«Come potete vedere», dissi, ancora sorridendo, «i suoi capelli erano ricci e lunghi fino alle spalle, mentre i miei sono tagliati piuttosto corti, secondo lo stile moderno».
Rise.
«Sì, ma con un taglio appropriato…».
«E c’è la questione degli occhi. I suoi sono verde scuro; i miei sono nocciola».
Mi lanciò un’occhiata per verificarlo e concesse:
«Sì, avete ragione. Gli occhi sono del tutto diversi; i suoi sono piuttosto vendicativi e freddi, non trovate? Ma, per quanto riguarda il colore, i vostri hanno un po’ di verde in loro e la rassomiglianza è ancora notevole».
«Non è nulla se paragonata alla rassomiglianza con lo zio. Naturalmente, gli occhi dello zio sono simili a quelli».
«Allora devo memorizzare ogni tratto di questo visto!», esclamò Jeffries. «E, quando incontrerò vostro zio, me lo ricorderò a memoria e li confronterò!». Alzò la penna dal suo block-notes e lesse socchiudendo gli occhi la placca di ottone sotto al ritratto. «Vlad Tepes?».
Lo pronunciò «Te-pes».
«Tsepesh», lo corressi. «Non vedete quella piccola cediglia, lì sotto alla t e alla s? Cambia la pronuncia».
«Tsepesh», ripeté Jeffries, scrivendo sul suo blocco. «Sembra una persona importante».
Mi raddrizzai pieno di orgoglio.
«È il Principe Vlad Tsepesh. Nato nel dicembre del 1431, prese il potere per la prima volta nel 1456, e morì nel 1476. È omonimo di mio zio».
«Omonimo?».
Lo scrivere con foga cessò; la penna si fermò sopra la carta. Jeffries mi guardò battendo le palpebre, confuso.
«Forse… forse c’è qualcosa che non capisco circa i nomi rumeni».
«Che cos’è che costituisce una difficoltà per voi? La scrittura…?»
«No, no, quella la capisco, ma…». Tirò fuori un altro pezzo di carta della tasca, lo spiegò e me lo mostrò. «Come lo dovrò chiamare correttamente?».
Il biglietto che avevo tradotto era stato firmato con l’attenta e delicata mano dello zio; quando vidi la firma, rimasi tanto colpito da rimanere senza parole. Non so se Jeffries notò la mia sorpresa, poiché mi ripresi rapidamente e gli restituii il biglietto con un sorriso forzato.
«Lo zio ha una predisposizione per i tiri mancini», mentii, «e così lui, scherzosamente, ha usato quel soprannome datogli dai contadini».
In verità, era un soprannome, sebbene non inventato dallo zio. Era stato dato da paurosi rumini all’uomo del ritratto.
«Se questo soprannome piace al mio generoso ospite», disse Jeffries, «allora lo chiamerò così ma, per favore, spiegatemi…».
«Dracula», pronunciai l’odiato nome con disgusto, poi indicai qualcosa. «Vedete il drago in basso, sulla destra del ritratto?».
Jeffries osservò più da vicino lo stemma di Vlad, dov’era raffigurato un drago alato con la coda biforcuta, che si attorcigliava intorno alla figura di una doppia croce.
«Il padre di Vlad, Vlad Secondo, fu un governatore indotto dall’imperatore ungherese a far parte di una setta cavalleresca segreta, conosciuta come l’Ordine del Drago», continuai. «Lui usava questo emblema sui suoi scudi e sulle monete. È questa la ragione per cui i boiers — i nobili — cominciarono a chiamarlo dracul, il drago, ma Vlad Secondo non usò mai tale nome per sé, se non per scherzare.
Sfortunatamente, in rumeno, la parola dracul ha anche il significato di “Demonio”; udendo quel nome, i superstiziosi contadini credettero che Vlad, che era conosciuto come un temibile e crudele tiranno, fosse arrivato al potere perché si era alleato con Satana e che l’Ordine del Drago fosse, in realtà, una setta dedita alla conoscenza profonda della Magia Nera. Suo figlio, Vlad Terzo — il cui ritratto vedete adesso davanti a voi — fu ancora più assetato di sangue, ancora più temuto. Il popolo si riferì a lui come a Dracula, il Figlio del Demonio, poiché il suffisso — a significa “figlio di”. Oggigiorno, i contadini temono la nostra famiglia per questa ragione, e continuano a chiamarci Dracul. Lo intendono come un insulto e non come un onore».
«Le mie più profonde scuse se vi ho offeso», disse Jeffries, con un tono malinconicamente sincero, continuando, però, sempre a scrivere. «Capisco che questo atteggiamento abbia causato alla vostra famiglia non poco dolore. Vostro zio però ha mantenuto un ammirevole senso dello humour riguardo alla faccenda, per essere capace di firmarsi per scherzo con questo nome, considerando la natura dell’articolo che sto scrivendo».
Le sue maniere erano così gentili che riuscii a fare un piccolo e mesto sorriso.
«Temo di non condividere il senso dello humour dello zio riguardo a queste questioni».
Non gli dissi l’intera verità: che il cognome usato per l’intera famiglia era Dracul, senza la a. Secondo la logica dei contadini, lo zio avrebbe dovuto firmarsi, per scherzo, come Vlad Dracul, poiché soltanto il Figlio del Demonio — solo l’uomo del ritratto, nato quattro secoli prima — poteva rivendicare il diritto al nome di “Dracula”.
«Potrei chiedervi circa l’altro simbolo… là, a sinistra in basso, quello che si trova all’opposto dello stemma del drago?».
Indicò con un gesto la testa di un lupo sopra al corpo arrotolato di un serpente.
«Quello è lo stemma della nostra famiglia. È molto antico. Il drago era il simbolo del regno di Vlad, ma il lupo rappresenta la nostra discendenza. I Daci, che abitavano questo paese prima che lo conquistassero i Romani, si riferivano a se stessi come a degli “uomini-lupo”».
«Ah, sì…». I suoi occhi chiari si illuminarono di interesse mentre continuava a scribacchiare. «Gli antichi Daci… ma c’erano delle leggende, non è vero, sulla loro abilità di trasformarsi veramente in altre creature, come il lupo…?»
«Tutte ridicole superstizioni, naturalmente».
«Naturalmente». Il sorriso di Jeffries era luminoso. «È tutta superstizione, ma è affascinante, non è vero, vedere come le leggende si sviluppino dalla realtà…?».
Dovetti acconsentire.
«E il serpente…?», insistette. «Pensate forse che i contadini lo abbiano visto e siano portati a credere ancora al Diavolo?»
«Forse, ma solo una persona ignorante farebbe così. Nei tempi pre-cristiani, i serpenti erano riveriti come creature che possedevano il segreto dell’immortalità poiché, quando cambiavano la loro vecchia pelle, “morivano” e “nascevano” di nuovo. L’ho sempre considerato come il simbolo del fervente desiderio che la discendenza familiare continui ininterrotta per sempre».
Il giro continuò, e la nostra conversazione si rivolse ad altri argomenti. Gli raccontai la storia della nostra famiglia, del regno del primo Vlad Tsepesh, delle vittorie sui Turchi e dei molti importanti membri della famiglia Tsepesh sparsi in tutta l’Europa orientale.
Fu piuttosto colpito, e annotò attentamente tutti i dettagli. Sono fiducioso che l’articolo sarà preciso e avvincente, e gli ho chiesto se sarebbe stato così gentile da mandarmi una copia del lavoro finito, così che io potessi tradurlo in rumeno per farlo conoscere ai miei compatrioti transilvani, anche se, sfortunatamente, coloro che hanno bisogno in modo particolare di leggere l’articolo, sono proprio quelli che non sanno leggere. Lui ha acconsentito a farlo.
Cominciammo, allora, a parlare di nuovo dei contadini e delle loro superstizioni. Jeffries mi confessò che, immediatamente dopo il suo arrivo, una delle cameriere — “una donna bionda, tarchiata, di mezz’età”, ed io compresi che intendeva Masika Ivanovna — si era tolta il crocifisso dal collo e glielo aveva dato, supplicandolo perché lo indossasse. Lui l’aveva accontentata e lo aveva messo ma, quando lei aveva lasciato la camera, se l’era tolto.
«Io appartengo alla Chiesa d’Inghilterra e questa non sarebbe una cosa buona», disse, sebbene chiarisse che era praticante solo per tradizione e per rispetto alla famiglia, non per fede. Terminammo la discussione circa la gente del luogo, trovandoci d’accordo che l’istruzione pubblica era l’unica soluzione per la loro condizione.
La sua compagnia era così piacevole che io insistetti perché venisse a casa mia per cenare presto (attirandolo con la promessa di una visita alla cappella e alla tomba di famiglia). In funzione di questo fatto, lasciai un biglietto nello studio dello zio e promisi che avrei rimandato l’ospite per le nove.
Così è venuto con me a casa, e Mary ed io abbiamo passato una gradevole serata in sua compagnia, con il risultato che non l’ho riaccompagnato al castello se non molto tardi.
Ma è quasi l’alba: ho passato delle ore a scrivere, e sono esausto. Ora, a letto. Il resto a dopo.
Il diario di Mary Windham Tsepesh
9 aprile. Scrivo queste righe perché mi sono ritirata presto, mentre Arkady si gode l’affascinante compagnia del nostro ospite, il signor Matthew Jeffries. Li ho lasciati che ridevano nella sala da pranzo mentre gustavano il cordiale e i sigari del dopo cena. Sono contenta che Arkady abbia trovato una piccola gioia nella compagnia di questo signore: ne ha bisogno, povero caro, proprio come io ho bisogno della possibilità di togliermi il peso da cuore in privato con lo scrivere.
Dopo essere stata testimone dell’appuntamento tra Zsuzsanna e Vlad, ieri notte, sono rimasta estremamente turbata ma ancora non ho detto nulla ad Arkady, poiché lui mi è sembrato più turbato di me. Ho deciso di affrontare prima l’argomento con Zsuzsanna, con delicatezza, poiché temo che, essendo innocente, sia stata portata fuori strada dal suo più navigato prozio e, forse, non capisce nemmeno che quello che sta facendo è sbagliato. Vlad è più grande e più saggio, e perciò è lui il colpevole.
Ma Zsuzsanna non si è presentata a colazione né a pranzo. Arkady era così turbato da qualche segreta pena che non l’ha nemmeno notato ma, dopo quello che avevo visto, io mi sono preoccupata, e così ho bussato alla porta della camera di mia cognata nel primo pomeriggio.
Lei ha risposto debolmente, dicendomi di entrare, ed io ho aperto la porta e l’ho trovata ancora in camicia da notte a letto, seduta con i lunghi e neri capelli sparsi sui cuscini. I suoi occhi sono grandi come quelli di Arkady ma, diversamente da quelli di lui, sono molto scuri, e oggi erano sottolineati da un’ombra che enfatizzava il suo pallore. Infatti, sembrava penosamente pallida e tirata; le sue labbra e le guance avevano perduto la loro solita traccia rosea.
«Zsuzsanna, cara», dissi, portandomi al suo fianco. «Oggi mi è mancata la tua compagnia, e sono venuta a vedere come stavi. Non stai bene?»
«Mia dolce Mary! Sono solo stanca. Non ho dormito bene la notte scorsa».
La sua risposta mi ha fatto arrossire, ma non penso che lei l’abbia notato. Ha sorriso al vedermi e mi ha afferrato la mano; la sua era fredda. Ho supposto che il suo pallore fosse causato da qualche disturbo femminile, e così non ho insistito per saperne la causa, ma temo che sia anche — almeno in parte — dovuto al mal d’amore e al senso di colpa. Sembrava così piccola e fragile, lì contro i cuscini, che era impossibile pensare a lei come a un adulto responsabile; persino la sua voce e la sua espressione erano quelle di un bambino.
«Hai mangiato?», le ho chiesto. «Ti posso portare qualcosa?»
«Oh, sì! Sono davvero affamata. Pensa che Dunya mi ha portato due vassoi pieni, e ho mangiato tutto». Diede un colpetto al cane, che giaceva soddisfatto ai piedi del letto e che batté la coda al suono del suo nome. «È tutta colpa di Bruto! Ha abbaiato per tutta la notte, e non mi ha permesso di dormire. Ho dovuto metterlo in cucina, e ci starà anche stanotte!».
«Forse è più saggio permettergli di restare». La guardai intensamente in cerca di una reazione. «Abbaia solo per proteggerti».
Rise. I suoi occhi erano grandi e innocenti.
«Proteggermi? Da cosa? Dai topi di campagna?»
«Dai lupi», dissi, tetramente. «Ho pensato di averne visto uno vicino alla tua finestra la notte scorsa. Devi fare attenzione».
Allora seguì una pausa imbarazzata; socchiuse gli occhi e mi gettò un veloce sguardo espressivo prima di voltarsi e fingere di prestare attenzione al cane ai suoi piedi. Lo accarezzò per parecchi secondi, in silenzio.
All’improvviso scoppiò in lacrime e alzò il viso contorto verso di me mentre mi stringeva il braccio con entrambe le mani.
«Per favore… non dovete tornare in Inghilterra! Diteglielo… per favore! Se mi lasciate tutti, io morirò! Nessuno di voi deve lasciarmi…!».
Piangeva con la disperazione di un bambino.
Io rimasi sorpresa più di quanto possa dire da quell’inattesa reazione emotiva, ma la presi come una chiara ammissione di colpa e una confessione d’amore. Non le sarebbe importato tanto se fossimo stati io e Arkady a partire, ma sarebbe morta se a partire fosse stato il suo prozio.
«Mia cara», la blandii, «noi non ti lasceremmo mai. Non devi nemmeno pensare una tale cosa».
«Diglielo! Diglielo!», ripeteva con voce soffocata, e mi stringeva il braccio così disperatamente che glielo dovetti promettere immediatamente:
«Sì, sì, glielo dirò e molto presto».
So che non si riferiva a suo fratello. So di chi si trattava, anche troppo bene.
Dalla sua reazione, temo che il senso di colpa l’abbia condotta a un esaurimento nervoso. Rimasi seduta un po’ lì con lei e la calmai, non dicendole nient’altro di quello che avevo visto, per timore di provocarle un’altra crisi. Aveva sofferto abbastanza, povera cara, e io non posso fare altro che affrontare l’argomento con mio marito… o con lo stesso Vlad.
Però io sono appena arrivata nella famiglia; non spetta certo a me mettere al suo posto il patriarca. So che devo parlare ad Arkady e presto. Ma, sebbene mio marito non sia andato al castello che a pomeriggio inoltrato, non sono riuscita a parlargli: non ho saputo trovare le parole.
Allo stesso tempo, non riesco a sopportare che qualcuno approfitti ulteriormente della povera e confusa Zsuzsanna. Così decisi che avrei atteso il ritorno di Arkady a casa quella sera per parlargli, e passai il pomeriggio scegliendo con cura le frasi che avrebbero sicuramente fatto breccia nel suo cuore.
Con mio sgomento e sollievo, mio marito è tornato a casa solo dopo alcune ore, con un inglese che era in visita al castello, un certo signor Jeffries. Arkady era così contento di avere un ospite — e devo ammettere, nonostante la tristezza, che anch’io ho goduto della sua compagnia e l’ho trovato una piacevole distrazione dalle mie preoccupazioni — che non me la sono sentita di rovinare il suo buon umore.
Abbiamo cenato presto, con il nostro ospite. Come mi aspettavo, Zsuzsanna non è scesa per la cena, e ha mandato un messaggio tramite Dunya, dicendo che era ancora indisposta.
Il signor Jeffries, a quanto pare, è un giornalista, recentemente ritornato nel continente dopo un viaggio in cerca di notizie in America. Durante tutta la cena ha parlato animatamente della situazione in quel Paese; hanno eletto un nuovo Presidente — James Polk — e potrebbero presto annettersi un nuovo Stato dall’esotico nome di Texas.
Nel Texas è permessa la schiavitù, e ciò ha creato molte controversie nel Paese. Non solo i Nordisti sono abolizionisti e i padroni delle piantagioni del Sud non lo approvano, ma uno Stato vicino rivendica contemporaneamente la proprietà del territorio. Secondo il signor Jeffries, è imminente una guerra tra gli Stati Uniti e il Messico. Gli Americani sono anche coinvolti in un contenzioso con l’Inghilterra riguardo alla posizione del confine nord-occidentale del Canada. Per finire, sembrano litigiosi e prepotenti, e io sono stata contenta di trovarmi nella tranquilla Transilvania. Il signor Jeffries ci ha fatto ridere con la sua imitazione nasale dell’accento americano; dopo tutta la tensione che Arkady ha provato, so che gli ha fatto bene.
Dopo cena, il signor Jeffries ha ricordato ad Arkady la sua promessa di portarlo a visitare la cappella, e allora ho detto che anch’io volevo andare, poiché non l’avevo ancora vista. I due uomini mi hanno guardato preoccupati, e Arkady ha mormorato qualcosa circa il fatto che era tardi (non era molto oltre le otto) e circa il necessario riposo date le mie condizioni.
Con decisione, ho respinto tutte quelle obiezioni come delle sciocchezze e ho chiesto solo un momento per andare a prendere il mio scialle. Allora il signor Jeffries ha sorriso, dicendo con arguzia che non avrei problemi a tener testa agli Americani, e abbiamo riso di nuovo.
In verità, non volevo essere lasciata sola a preoccuparmi di cosa avrei detto ad Arkady quando il nostro ospite fosse partito, né volevo rimanere da sola nella camera da letto a guardare attraverso la finestra, preoccupandomi per Zsuzsanna.
La cappella era diversa da qualunque altra abbia mai visto in Inghilterra, e più di ogni altra cosa che io abbia visto in questo Paese rivelava l’influenza turca. Le pareti interne erano coperte di pitture e mosaici di santi — letteralmente a centinaia — alla maniera bizantina. Vicino all’altare c’era una cupola da cui pendeva un enorme lampadario e, alle spalle del grande santuario, contro il muro, c’erano delle grandi nicchie con dei nomi incisi su targhe d’oro.
Sebbene le belle pareti ricoperte di mosaici mi facessero trattenere il fiato, il signor Jeffries sembrò interessato soprattutto alle nicchie, che erano in realtà dei loculi costruiti nel muro come celle di api, poi chiusi con la malta, sigillati con la pietra, e adornati con le targhe. Mentre leggevamo i nomi degli antenati di Arkady, ammutoliti per la bellezza del santuario e per l’atmosfera sacra, il signor Jeffries prese un piccolo blocco per appunti dal suo gilet e cominciò a scrivere.
Dopo un po’, si voltò verso Arkady e disse, con una voce sommessa che riecheggiava debolmente dall’alto soffitto:
«Ho dimenticato di chiedere… quando eravamo davanti al ritratto di Vlad Dracula».
A questo punto lo guardai aggrottando la fronte, poiché avevo già udito una parola simile — Dracul — sulle labbra dei domestici e su quelle del vecchio cocchiere a Bistritz.
Il signor Jeffries s’interruppe e si corresse subito con uno sguardo di scusa verso mio marito.
«Chiedo scusa, Vlad Tsepesh… Il nome Tsepesh significa qualcosa?», gli chiese.
Arkady rimase a guardare fisso le nicchie volgendoci la schiena, ed io mi resi conto dal suo tono distante che stava rimuginando su ciò che lo aveva turbato durante gli ultimi giorni… qualcosa che sospetto sia legato al castello e alla morte di suo padre.
«Impalatore», disse tranquillamente, ed io mi accorsi immediatamente che aveva del tutto dimenticato la mia presenza.
In molte cose, è come sua sorella, soggetto a improvvisi e intensi sogni ad occhi aperti che lo distolgono completamente dal presente.
«Non è molto più nobile, nel significato, del nome Dracul ma, almeno, i contadini non lo pronunciano con lo stesso odio, e non implica nulla di soprannaturale. A quei tempi, impalare era una comune forma di esecuzione capitale».
Il signor Jeffries inarcò le chiare sopracciglia in maniera incredula mentre si avvicinava ad Arkady, del quale seguì lo sguardo su una lapide d’oro che portava incisa l’iscrizione VLAD TEPES.
«Davvero? La storia indica che era una pratica comune soltanto tra i Turchi. I contadini dicono che Vlad riprese i loro metodi e trasformò tutto questo — e mosse il braccio per indicare l’intero territorio — in una vera foresta di impalati. Dicono che l’odore…».
A quel punto il signor Jeffries si interruppe, conscio dell’orrore delle sue stesse parole e si voltò verso di me.
«Oh, mia cara signora Tsepesh, perdonatemi! Come sono stato insensibile a mettervi in agitazione, menzionando questi fatti terribili…».
Risi con gaiezza, sebbene, di fatto, non avessi mai udito tali cose, e ne fossi rimasta affascinata in modo orrendo. A quel suono, Arkady si riprese dalle sue fantasticherie e ci guardò, anche lui seccato che quelle cose fossero discusse in mia presenza.
«Non sono una delicata fanciulla abituata a svenire, signore», lo rassicurai.
Arkady arrossì, e venne accanto a me, prendendomi la mano.
«È vero», disse, guardandomi con affettuosa preoccupazione ma rivolgendosi a Jeffries. «Mary è la persona più equilibrata che io abbia mai conosciuto». Lanciò uno sguardo a Jeffries con un sorriso imbarazzato. «Le sono sempre grato per questa qualità. Qui, dove uno è circondato da superstizioni e oscure leggende, è veramente una qualità senza prezzo».
«Mio caro», gli dissi calma, «non devi cercare di proteggermi da queste cose. Come potrò essere in grado di confutare le strane credenze dei contadini se non ne so nulla?». Rivolta a Jeffries, gli chiesi poi con voce ferma e allegra: «Di chi stavate parlando?»
«Di Vlad Dracul… Perdonatemi, signora: di Vlad Tsepesh, che i contadini chiamano Dracula».
«Il Principe?», chiesi.
Jeffries mosse la sua lunga faccia in un modo che sembrò sia confermare che negare.
«Il suo omonimo», precisò, poi girò una pagina del blocco e cercò qualcosa, quindi rialzò lo sguardo. «Nato nel 1431, è presumibilmente morto nel 1476, sebbene i contadini non siano d’accordo».
Arkady fece un gesto verso la placca ai piedi di un loculo.
«Ecco la sua lapide, lì davanti a voi».
«Ma lui morì in quella regione del sud chiamata Valacchia, non è vero? Il luogo dove regnò».
«È vero», convenne mio marito. «Ma la famiglia si recò a nord, in Transilvania, subito dopo la sua morte, e portò con sé i suoi resti. Non era una pratica insolita».
Il tono del signor Jeffries divenne scettico.
«Sicuramente voi sapete che non è sepolto qui. È una finzione, cosicché, chi volesse cercare di profanare il suo corpo, non lo troverebbe».
Mio marito si voltò verso il suo ospite con gli occhi socchiusi e un leggero sorriso ironico sulle labbra.
«Signore, è chiaro che voi sapete sull’argomento molto più di quanto avete rivelato». Si fermò e guardò nuovamente la lapide. «È vero. È sepolto nel monastero di Snagov, nella natia Valacchia».
«I contadini, ancora una volta, non sarebbero d’accordo con voi, signore. Essi dicono che nemmeno a Snagov c’è il corpo. Forse è per questa ragione che i contadini affermano che è uno strigoi e accusano il vostro prozio…».
«Strigoi», ripetei, incapace di trattenermi, riconoscendo la parola che un giorno aveva usato Dunya. «Per favore, che significa questa parola?».
Arkady mi guardò bruscamente, chiaramente seccato di sapere che avevo sentito quel termine, ma Jeffries mi guardò negli occhi e disse:
«Un Vampiro, signora. Essi affermano che il vostro gentile e cortese prozio è, di fatto, Vlad l’Impalatore, conosciuto anche come Dracula, nato nel 1431; che ha fatto un patto con il Diavolo per ottenere l’immortalità, e che le anime degli innocenti ne sono il prezzo».
E rise come se l’informazione fosse incredibilmente divertente. Ma io e Arkady non ci unimmo a lui.
Jeffries comprese il disagio che le sue parole avevano provocato, e portò immediatamente la conversazione su un argomento più leggero.
Subito dopo abbandonammo la cappella e, quando lasciai mio marito e il suo ospite nella sala da pranzo, erano impegnati in un’amichevole discussione sull’ultimo evento letterario americano, quello del signor Edgar Allan Poe, e sul fatto se la sua poesia Il Corvo fosse una grande opera di genio come si credeva.
Mi sono quindi ritirata in camera da letto, pensando che, per quando avessi finito queste righe, Arkady sarebbe ritornato e che gli avrei confessato ogni cosa, ma ora sono quasi le undici e lui ancora non è venuto.
Sono stanca e desidero dormire, ma non riesco a evitare di guardare le pesanti tende tirate della finestra; non posso fare a meno di preoccuparmi per ciò che c’è dall’altra parte. I contadini hanno ragione: Vlad è un mostro. Soltanto, non riesco a capire di che tipo.