Capitolo dodicesimo

Il diario di Arkady Tsepesh


21 aprile, aggiunta su una pergamena separata. 1 a.m. Siedo in ascolto delle grida di mia moglie mentre scrivo un avvertimento per il figlio che sta nascendo. Sono passati dei giorni da quando scrissi per l’ultima volta in questo diario e, nel periodo intercorso, ho sperimentato più dolore e orrore di quanto le parole possano esprimere. Zsuzsanna è morta ed è stata deposta nella tomba di famiglia. Di quel periodo ricordo soltanto il momento in cui è morta tra le mie braccia, e i suoi begli occhi neri fissi in quelli di suo zio.

L’intero evento è confuso; la mia volontà è stata lentamente spezzata, inesorabilmente, prima dalle morti di mio padre e di Jeffries, poi da quella di mia sorella. Gli artigli del controllo hanno frantumato la mia mente mentre mi trovavo tre giorni fa in questa stessa stanza, ma questa volta essi non abbandoneranno la presa.

Oh, ma quello che ho visto questa notte supera ogni precedente orrore. Ciò che ho visto mi ha talmente scioccato fin nel profondo della mia stessa anima che sono emerso all’altro capo della follia e sono guarito.

Guarito… e, per la prima volta nella mia vita, non sono più una marionetta.

Voglio registrare, quindi, ciò che riesco a ricordare con chiarezza. Ho espresso qui tutto quello che ricordo della morte di mia sorella; apparentemente, sono stato sveglio per tre giorni senza mangiare, e sono rimasto nella tomba con Zsuzsa, ma di ciò ho soltanto dei fuggevoli ricordi.

Mia moglie è venuta da me meno di un’ora prima del tramonto, il giorno che Zsuzsanna è stata sepolta. Questo lo ricordo bene per le emozioni che mi ha provocato e per quello che seguì.

Mi ricordo che sedevo nella tomba sul freddo pavimento di marmo accanto alla bara chiusa di mia sorella, con la schiena appoggiata contro il muro freddo, i gomiti sulle ginocchia ed entrambe le mani che tenevano il revolver. Ero in un bizzarro stato di coscienza, né di veglia né di sonno ma, in un certo senso, stavo tra i due, dove i sogni sembrano liberi di entrare e di mescolarsi alla realtà.

Mi trovavo all’interno della costruzione senza finestre dal mezzogiorno, e avevo lasciato aperta la grande porta di pietra in modo che potessi vedere meglio l’avvicinarsi di un intruso. La porta si apriva su un’anticamera che conteneva dozzine di vecchie bare, e uno stretto corridoio conduceva a una seconda stanza più grande, piena di un numero ancora maggiore di defunti, alla quale era stata aggiunta la nicchia dove i miei parenti più prossimi erano stati seppelliti. Soltanto una piccola lama di luce penetrava dalla stanza più esterna nella nicchia, lasciandola scura e in ombra, ma i miei occhi si erano abituati alla mancanza di luce chiara, e io potevo rendermi conto dall’oscurità crescente che il giorno stava morendo.

Caddi in uno strano sogno ad occhi aperti in cui immaginai che mio padre, mia madre e Stefan giacessero perfettamente conservati sopra alle loro bare. Mentre guardavo, essi si alzarono a sedere con la lenta e silenziosa dignità dei morti, aprirono gli occhi, e mi guardarono con un’espressione di benevola preoccupazione.

Ero estremamente sorpreso di vedere mia madre — e molto chiaramente — poiché non avevo alcun ricordo di lei, solo una vaga immagine mentale basata su un piccolo ritratto a olio che aveva mio padre, dipinto alcuni anni prima che si sposassero. Sapevo dal ritratto che i suoi capelli erano stati chiari ma, quando la vidi seduta sopra la bara, fui molto meravigliato di vedere quanto rassomigliasse a mia moglie.

Oh, aveva l’ossatura più grossa, e così la struttura e il seno, con la mascella quadrata e il viso più largo, ma la rassomiglianza era innegabile, specialmente negli occhi. Portava un vestito di seta bianca scollato con le maniche corte a sbuffo e un largo nastro blu sotto al seno, nell’impudico stile impero che metteva in risalto le forme, che era stato in voga più di venti anni prima, quando le donne inumidivano i vestiti per farli aderire meglio. I suoi lunghi capelli biondi a riccioli erano legati dietro con altro nastro blu, ma lasciati cadere liberamente come quelli di una ragazza.

Sembrava così giovane, anche più giovane di Mary e, guardandomi con degli occhi castani fiduciosi e teneri, mi sorrise in un modo che fece scomparire tutto il mio dolore, la follia e l’angoscia.

Accanto a lei sedeva mio padre, e la mia gola si strinse nel vederlo giovane, forte, e non piegato dal dolore.

E poi, tra loro, si alzò Stefan, un bambino sottile, con le ginocchia ossute e gli occhi ridenti, e in quelle orbite luccicanti io vidi un amore, una tenerezza che era stata assente dagli occhi del moroi che mi aveva condotto nella foresta, il moroi che, senza dubbio, era stato un malevolo impostore.

Alla loro vista mi riprese il familiare dolore che mi stringeva il cranio. Gridai e mi tenni la testa tra le mani, premendo forte come per cancellare la coscienza.

Eppure, sorprendentemente, il dolore non fece sì che quelle immagini scomparissero. La mia famiglia rimase, e mi indirizzò degli affezionati sorrisi. Ansimai, a disagio per il dolore, ma la paura cominciò a dissiparsi alla loro presenza e, mentre la paura scompariva, così faceva il dolore, solo un po’, ma abbastanza per permettermi di aprire gli occhi e di guardarli.

La loro apparizione non provocò in me trepidazione, come aveva fatto un tempo quella di Stefan, poiché essi emanavano una sollecitudine e un amore così intensi — tutti per me — che cominciai a singhiozzare per pura meraviglia e gratitudine.

Nelle settimane passate, ho visto poco bene e fin troppo male, ma quando la mia famiglia mi apparve intorno, sentii che era un segno che il bene avrebbe, dopotutto, trionfato, e che il male che aveva insozzato la foresta con i teschi sarebbe stato sconfitto, e giustizia sarebbe stata fatta. Sentii… sentii (anche ora è difficile parlarne senza uno sgorgare di emozioni, tanto la sensazione era forte) che, sebbene fossero morti, i membri della mia famiglia mi circondavano con le braccia cercando di darmi forza. Più di ogni altra cosa, mia madre desiderava sapessi che l’amore avrebbe vinto ogni disperazione, e che tutto il dolore e la confusione sarebbero svanite se avessi ascoltato soltanto il mio cuore.

Io lo credo anche ora, con tutto il mio essere. Se nel mondo esiste il Male assoluto, allora, certamente, ci deve essere il Bene assoluto, che si è rivelato a me attraverso l’amore della mia cara, defunta famiglia; un Bene abbastanza potente da irrompere attraverso i lacci mentali che mi tenevano schiavo.

Lacrime di gioia mi scendevano lungo il viso e, nel mezzo di questa stupefacente rivelazione, udii dei passi all’entrata della tomba. Ma ero troppo sopraffatto dall’emozione — dall’amore — per essere spaventato e per alzare il revolver.

E quando udii la voce di mia moglie, allo stesso tempo spaventata e decisa, che mi chiamava piano per nome, seppi che era un segno. Allora compresi il messaggio della mia famiglia: che ero perduto, reso schiavo dal dolore e dalla confusione, ma che l’amore di Mary per me — e il mio per lei — potevano dissolvere il potere che il Vampiro aveva sulla nostra famiglia e salvare nostro figlio.

Pieno di speranza, posai la pistola sul pavimento accanto alla bara di Zsuzsanna e, con fatica, mi rialzai in piedi per dirigermi verso la fonte di quel suono delizioso.

Ma avevo le vertigini, ed ero troppo debole per rimanere in piedi. Ricaddi sul pavimento proprio mentre la sagoma della mia bella moglie entrava nella nicchia. Un solitario raggio di sole le brillava sul viso, rivelando gli occhi che luccicavano di lacrime.

«Arkady?», disse, con voce alta e incerta; con gli occhi disabituati all’oscurità, esitò, senza vedere, a pochi piedi da me, e poi avanzò con passo esitante. Una seconda striscia di sole, che si affievoliva, cadde più in basso, sul suo seno, e brillò tanto da accecarmi, sulla piccola croce d’oro e sulla caraffa di cristallo sfaccettato che aveva tra le mani.

«Qui», risposi, e la guardai mentre scrutava nelle ombre e mi vedeva.

Suppongo che la mia voce suonasse debole e penosa, poiché lei disse: «Oh, Arkady», con tanta pena e angoscia che mi sentii pieno d’amore per lei. Con grande difficoltà a causa del suo ventre ingrossato, posò la caraffa sul pavimento accanto a noi, poi si sedette con fatica. Io cercai nuovamente di alzarmi, e riuscii a andarle incontro e ad aiutarla goffamente a sedersi.

Nel frattempo, la mia defunta famiglia era svanita (sebbene il terribile dolore alla testa fosse rimasto) cosicché noi rimanemmo circondati soltanto da bare silenziose, ma io sentii il loro amore ancora intorno a me. E così circondai mia moglie con le braccia e mi strinsi a lei e al bambino.

Lei pianse silenziosamente per un po’, senza fare rumore, ma io sentii le sue lacrime calde sul collo. Dopo un po’ sollevò il viso e disse con una voce calma ma stanca come la mia:

«Sono stata così in pensiero per te. Se continui in questo modo, ti ammalerai. Per favore… vieni a casa con me».

Il dolore mi afferrò ancora così fortemente che gemetti, con suo sgomento e preoccupazione. Ma, per quanto la amassi in quel momento, per quanto fossi disposto a dare la mia vita per renderla felice… non potei aderire alla sua richiesta. Perché? In quel momento mi dissi che era per il dolore; pensai che non avevo fiducia in V. né in nessun altro per proteggere il corpo di Zsuzsa. Pensai che, se le fosse accaduto qualcosa, non avrei potuto perdonarmelo. Eppure… la verità era che rimasi perché qualche forza esterna lo pretendeva, mi obbligava a restare; perché gli artigli invisibili ancora stringevano il mio povero cervello confuso.

Ora capisco.

Ma, in quel momento, non stetti ad esaminare le mie ragioni. Accarezzai soltanto i capelli d’oro di Mary e mormorai:

«Mia cara, non me ne posso andare, ma se tu vuoi, puoi restare qui con me. Io penserò alla sicurezza di entrambi».

Lei si irrigidì nelle mie braccia.

«Ma non hai mangiato o bevuto per due giorni».

«Ilona mi ha portato del thè nello studio», dissi, ma quello era stato… un giorno prima? Due? Non riuscivo più a giudicare il tempo. Non sentivo la fame, ma la mia sete era grande, e io guardavo con desiderio la caraffa sul pavimento.

Mary sembrò leggere nei miei pensieri. Prese la caraffa, tolse il bicchiere che era poggiato capovolto sul tappo e vi versò un po’ del contenuto.

«Sapevo che saresti stato terribilmente assetato», disse, con un tono carezzevole, persuasivo. «Ti ho portato del thè con un po’ di brandy alla prugna dentro; è ancora caldo, per mandare via il freddo della sera».

La fragranza floreale, forte, del thè e dello slivovitz era celestiale, tentatrice, come gli alti toni della melodia del liquido che riempiva il bicchiere. Mi resi conto, allora, di quanto la mia gola arsa mi dolesse, di come la lingua secca aderisse con dolore all’interno rasposo delle mie guance. Presi il bicchiere dalla mano di mia moglie e bevvi con avidità, scolandolo in tre sorsi, senza curarmi del thè che mi colava per il mento.

«Ancora?», chiese, e riempì di nuovo il bicchiere prima che potessi rispondere. Cominciai a bere di nuovo, avidamente… poi, esitai dopo il secondo sorso, messo in allerta dall’istinto. Allontanai il bicchiere, lo fissai, poi fissai Mary.

La mia moglie connivente. Il mio amoroso Giuda.

Inghiottii e feci aderire la lingua contro il palato della mia bocca chiusa, assaporando criticamente: sì, c’era il gusto di fiori e terra del thè e il pizzico del brandy… ma c’era anche un altro componente, debole ma, nello stesso tempo, familiare.

Il gusto amaro dell’oppio.

Avrei dovuto arrabbiarmi, gridare contro di lei, e rimproverarla; scagliare il bicchiere contro il muro di marmo e vederlo frantumarsi in mille pezzi, ma il ricordo dell’amore per la mia antica famiglia e per la mia famiglia che ancora doveva nascere, fermò la mia mano. Posai il bicchiere e dissi, con tristezza:

«Tu mi hai tradito».

Una lama di sole rosso, morente, brillava alle sue spalle, lasciando in ombra i suoi lineamenti ma, anche nell’oscurità, vidi la determinazione nella fermezza delle spalle, nel mento alzato.

«Per amore», disse. «Per salvare te e il bambino. Arkady, vieni con me».

«Non posso», risposi, e lo dissi con un singhiozzo. «Non capisci?».

Mentre parlavo, si alzò in piedi, poi guardò in basso verso di me. La sua voce era estremamente stanca, estremamente decisa.

«Sì. Sì, capisco. Lui ti controlla… ma non lo farà ancora a lungo».

E se ne andò senza un’altra parola, uscendo nella debole luce del sole con l’espressione ferma di qualcuno che è risoluto a vincere. Sapevo che avrebbe soltanto atteso quel poco tempo necessario al laudano per fare il suo effetto, e poi sarebbe ritornata.

Ma l’istante era passato, e allora diedi sfogo a una furia irragionevole.

Come osava essere tanto impudente circa il suo piano? Poiché sapevo che lei intendeva farmi cadere preda del laudano nel mio stato di debolezza, e poi con l’aiuto di complici mi avrebbe portato via. E cosa avrebbero fatto alla povera Zsuzsa, una volta che fossi stato opportunamente tolto di mezzo?

Mi alzai in piedi, afferrai la caraffa e il bicchiere, e lo scagliai alla cieca, poi mi voltai, dando le spalle alla tintinnante pioggia di schegge per cadere in ginocchio, chinandomi in avanti finché la mia fronte non si fermò contro il freddo marmo. Rimasi così, in uno stato di estrema disperazione e confusione, allo stesso tempo innamorato di mia moglie e pieno di irragionevole rabbia verso di lei.

Mentre stavo lì, rannicchiato, il sole tramontò, e le ombre si allungarono, poi si scolorirono completamente nel buio. Ben presto l’oppio cominciò ad abbassare il suo grigio velo sulle mie facoltà e il sonno a minacciarmi. Lottai contro di esso, cercai di concentrare la mia attenzione vagante sui rumori all’esterno della tomba, in ascolto degli intrusi che, presto, sarebbero certamente venuti. Ma caddi in un altro stato a metà tra la veglia e il sonno, con il viso ancora premuto contro il pavimento, le mani sugli occhi chiusi. Sentii ancora gli artigli penetrare nel mio cervello ma, questa volta, mi arresi serenamente e non lottai.

L’oscurità intorno a me riempiva tutto di una brillantezza soprannaturale e allora abbassai le mani per vedere gli occhi verdi dello zio, accesi di un’interna incandescenza. Ma il bordo scuro della sua forma restava invisibile: soltanto gli occhi apparivano, sebbene lo udissi parlare con chiarezza.

«Sii forte, Arkady. Stai sveglio soltanto un altro po’, e tutto andrà bene».

La sua voce era musicale, rasserenante, piacevole a sentirsi, e presto mi calmai. Ma, nonostante la sua insistenza, caddi dopo qualche minuto in un profondo sonno. Per quanto tempo abbia dormito non lo so, ma fui svegliato un po’ di tempo dopo, quando il corridoio si accese con il lontano e giallo chiarore di una lanterna e dei passi riecheggiarono all’entrata della tomba, seguiti dal ringhiare di un lupo e dalle grida d’orrore di un uomo.

Vacillando mi rimisi in piedi e annaspai nell’ombra in cerca del revolver: lo trovai sul pavimento freddo, poi corsi in direzione del trambusto.

Appena dentro l’entrata aperta dell’anticamera, c’era, da un lato, la lanterna, il cui olio si era versato in una pozza sul marmo e aveva preso fuoco. Guardai alla luce di quella piccola fiamma mentre un grosso lupo grigio spingeva il muso tra braccia che si muovevano convulse, poi affondava i denti nella gola di un uomo, e lo scuoteva come un terrier potrebbe fare con un topo.

Sollevai la pistola, pronto a fare fuoco, ma il movimento rapido, insieme alla mia estrema stanchezza e agli effetti del laudano, mi impediva di distinguere tra la vittima e l’aggressore. Gridai per la frustrazione, incapace di mirare, timoroso di fare fuoco, per paura di uccidere, per sbaglio, l’uomo.

La vittima emise un suono gutturale, soffocato; le braccia gli caddero all’indietro senza vita contro il marmo mentre il lupo si chinava ancora, affondando più in profondità i denti nella carne, nel muscolo e nelle ossa prima di dare un’altra e più poderosa scossa, alzando poi la sua vittima a più di trenta centimetri da terra.

Il lupo lasciò la presa, soddisfatto di aver fatto il suo lavoro, e osservò il suo operato. L’uomo cadde all’indietro, il cranio colpì il marmo con un brutto rumore, e per l’impatto delle grosse gocce di sangue si sparsero sulle mura bianche e sul pavimento.

Mi mancò il respiro quando riconobbi il vecchio giardiniere, Ion. I suoi baffi bianchi erano bagnati di sangue, gli occhi scuri spalancati dal terrore, la bocca aperta lasciava uscire delle bolle della stessa schiuma rossa che fuoriusciva dalla trachea aperta.

Con occhi dorati, chiari e mortali, l’animale mi guardava emettendo un basso ringhio.

Alzai il revolver per sparare. Con mia sorpresa, l’animale si voltò e, invece di attaccare, saltò fuori dalla tomba in direzione del buio della notte. Non lo seguii ma, al contrario, mi inginocchiai accanto al povero Ion, che era già morto. Soltanto allora notai sul pavimento accanto a lui una sacca di stoffa, macchiata di sangue.

L’aprii e all’interno vi trovai il martello, la sega, il palo e l’aglio. La vista mi riempì di un odio selvaggio e cieco; non riuscivo a perdonare Ion per quell’azione. Spinto da un irrefrenabile impulso, portai la sacca e il suo contenuto nel luogo sul pavimento dove l’olio si era versato e lo diedi alle fiamme, lentamente, avendo cura che tutto si consumasse il più possibile. La sega di metallo rimase intatta e il manico del martello si annerì solo leggermente ma l’aglio salì al cielo come l’incenso più pungente, con un fumo copioso, che irritava gli occhi. Provai piacere nel vedere il palo carbonizzato e rotto in piccoli pezzi.

Intanto, tutto l’olio si era consumato e il fuoco si era spento, lasciandomi in una nebbiosa oscurità. Feci scivolare il revolver nella cintura e mi alzai, stordito dal fumo e dall’oppio e ritornai, inciampando, verso la camera interna.

Mentre entravo nello stretto corridoio, intravidi all’estremità opposta un momentaneo bagliore bianco ed esitai, dapprima timoroso, ma, prima di scomparire, il lampo era stato gentilmente radioso, come il debole chiarore di una candela. Non era un lupo, ma una persona che portava una lampada che si spegneva… Mary, decisi, che era ritornata, e in qualche modo era scivolata nella camera interna senza che me ne accorgessi.

La chiamai per nome.

E udii riecheggiare all’interno della seconda camera, un debole sospiro, quasi un lamento, un suono che era, nello stesso tempo, umano, femminile, eppure stranamente funereo. E con quel suono… non capisco come o perché, ma con quel suono…

Tutta la confusione, tutti i dubbi scomparvero. C’era ancora la paura, sì, più profonda e forte quanto mai prima, e il dolore. Posso soltanto paragonare la mia esperienza mentale a quella di un uomo che, ignorante del fatto che è stato cieco per decenni, all’improvviso ritrova la vista. I freni del controllo caddero, gli artigli invisibili che mi stringevano il cranio scomparvero. Per la prima volta dalla mia infanzia, la mia mente fu veramente mia.

La luce aumentò mentre Zsuzsa entrava nella camera esterna…

Oh dèi! Era bella, radiosa come un angelo. Era la sua pelle chiara, lucente che aveva luccicato nel corridoio, ed io la vidi nell’oscurità tanto chiaramente come se fosse stata circondata da un migliaio di candele accese: no, sembrava che bruciassero chiare all’interno di lei!

Era impossibile per qualsiasi uomo non essere attirato come una falena verso quella fiamma interna, verso quelle labbra piene, di satin rosso, verso quei denti scintillanti. Verso quegli occhi, il cui delicato colore castano scuro non era cambiato, ma che ora sembrava brunito con l’oro; occhi vuoti, selvaggi che mi guardarono e non mi riconobbero. I suoi capelli erano diventati lucidi e neri, sfavillanti di scintille blu elettrico. I capelli cadevano liberi e soffici fino alla vita, su un corpo le cui forme si mostravano chiaramente sotto il diafano sudario: un corpo nuovamente perfetto, pieno e femminile.

Percepii tutto questo nello spazio di un secondo, non di più. Per quel breve momento, sentii il bisogno di avvicinarmi, di abbracciarla, di baciare quelle labbra cremisi, di piangere di gioia per la sua resurrezione; ma la mia mente era libera e i miei pensieri chiari. La mia esultanza si trasformò rapidamente in orrore quando compresi con abbagliante convinzione la verità riguardo a V., e riguardo alla mia povera, defunta sorella.

Mio Dio, io pensavo di conoscere la paura, ma ciò di cui ho fatto esperienza nel mio passato è come un piccolo stagno cristallino a paragone con l’oceano scuro per la tempesta, turbolento, che ora mi circonda.

Mi voltai e mi misi a correre; corsi come se il Demonio in persona mi inseguisse, attraverso il pendio irregolare in direzione della casa, con la mente che turbinava per le rivelazioni.

Mio zio era veramente lo strigoi della leggenda. Io ero stato controllato, condotto, passo per passo, da V, sotto le spoglie del fantasma di mio fratello; era lui che aveva controllato il comportamento dei lupi, che dovevano uccidere altre anime curiose che si introducevano nelle aree proibite della foresta, ma che non dovevano farmi del male. Era lui che aveva fermato in tempo i lupi… per portarmi alla conclusione che ero pazzo.

Lui si prende gioco di te… È tutto un gioco.

Tutto un gioco sadico per condurmi alla foresta, poi a Bistritz, poi sull’orlo della follia… ma a quale scopo? Per questa notte, per essere solo una pedina che proteggesse Zsuzsa? Per corrompere la mia volontà, in modo che poteggesse cooperare nei delitti? Nel procurare delle vittime?

Ma V. non ha bisogno dell’aiuto di nessuno; è possibile che mi tormenti per il puro e semplice piacere di farlo? No. Dev’esserci dell’altro; è troppo scaltro, troppo calcolatore ma, se fossi così, perché ora sono tornato in possesso del controllo della mia mente, dei miei pensieri, delle emozioni, e della volontà?

Sono corso direttamente alle stalle e lì ho attaccato il cavallo al calesse, con l’intenzione di andare a prendere Mary immediatamente e fuggire con lei nella notte. Ma, prima che potessi salire nella carrozza e portarla di fronte alla casa, udii un grido improvviso:

«Domnule! Domnule!».

La piccola cameriera, Dunya, è uscita come un lampo dall’oscurità, gesticolando animatamente; il suo fazzoletto si era allentato e le era scivolato dai capelli, e il suo viso era rosso e luccicava di lacrime.

«Domnule, presto!», gridava, singhiozzando e ansimando in modo tale che poteva a malapena parlare. «Il bambino sta per nascere e lui l’ha presa! Lui l’ha presa!».

Il cuore mi si gelò; seppi immediatamente di chi parlava, ma l’afferrai per le spalle e la scossi.

«Chi? Mary? Qualcuno ha preso Mary?»

«Vlad!», rispose.

«Dove?»

«Il castello…».

Salii con un balzo sul calesse e impugnai le redini; accanto a me Dunya si torceva le mani, piangendo in modo penoso:

«Non mi lasciate! Per favore, fatemi venire!».

«È più sicuro per te restare qui», dissi, e incitai i cavalli, ma lei riuscì ad afferrarsi alla carrozza in movimento e salì, dicendo, con una determinazione che mi commosse:

«È la mia padrona; non posso lasciarla sola! Il bambino sta arrivando e lei ha bisogno di me».

Così mi diressi al castello equipaggiato con null’altro che una lanterna, il revolver di papà, e la cameriera.

Mentre ci avvicinavamo a quelle grigie mura di pietra, esse apparivano più che mai ostili e abbandonate; dapprima supposi che fosse il mio stato mentale a farle apparire così, poi mi accorsi, mentre fissavo i grandi e antichi bastioni scuri che si innalzavano contro il cielo ancora più scuro, che non c’era una sola finestra alla quale brillasse della luce.

Fermai il calesse nel cortile e porsi le redini a Dunya.

«Rimani qui. Se non ritorno con Mary entro un quarto d’ora, mettiti in salvo», le dissi.

Il terrore dilatò a dismisura i suoi occhi, ma rispose risolutamente:

«Resterò qui finché ritornerete con la doamna».

Cercai anche di lasciarle la lanterna, ma lei insistette che la portassi e così, con la lampada in mano, cercai di aprire il grande portone, che era stato sprangato. Per questo feci il giro verso la piccola entrata nella parte est del castello, che conoscevo soltanto perché avevo visto dei domestici che la usavano. Con la mano libera tirai fuori il revolver e mi feci strada attraverso i corridoi stretti, poi salii la tortuosa scala centrale diretto verso l’ala degli ospiti.

Mi sforzai di udire i lamenti di una donna che partorisce, ma il castello era privo di luce e di rumori, come una tomba, tranne che per l’oscillante chiarore giallo gettato dalla lampada e il risuonare dei miei passi frettolosi. Eppure non riuscii a liberarmi della sensazione che nell’ombra si celasse una malvagia e vigile intelligenza, consapevole di ogni mia mossa. Sfrecciai di stanza in stanza, di piano in piano, sempre più veloce, chiamando, dapprima piano e poi, preso dalla disperazione, gridando, il nome di Mary.

Silenzio! Solo silenzio e oscure camere da letto non utilizzate da secoli e ricoperte di polvere.

Il mio passo e la mia agitazione crebbero finché, alla fine, rimasero da controllare solo due stanze: le stanze per gli ospiti e le camere private di V. La direzione delle mie ricerche mi fece arrivare prima nelle stanze degli ospiti, la mia migliore speranza. La porta dove, in precedenza, un arruffato e bagnato Herr Mueller ed io avevamo parlato era spalancata, e le stanze erano buie come il resto dell’edificio.

La morte di mia sorella e il mio terrore per Mary mi avevano fatto dimenticare totalmente i poveri visitatori per tre giorni; me ne ricordai in quel momento, con un brivido di terrore. Tenendo alta la lanterna, attraversai il salone esterno, quindi entrai nella camera da letto, questa volta chiamando sia il nome di Mary che quello dei Mueller.

Con mia amara delusione, anche quella camera era deserta, sebbene i segni dei suoi ultimi abitanti fossero fin troppo evidenti; una camicia da notte da donna bianca in merletto e seta, di quel tipo elaborato indossato dalle spose nella loro prima notte di nozze, pendeva dal bordo di una sedia vicina, dove era stato gettato con gioioso abbandono, e sul grande letto con baldacchino, nel centro del quale notai un piccolo fiore di sangue rappreso, le lenzuola, i cuscini e il copriletto erano stati gettati via e attorcigliati in mucchi disordinati e sgualciti.

Soltanto uno della mezza dozzina di cuscini era rimasto al suo posto, all’estrema sinistra, contro la testata del letto. Appoggiata contro il cuscino solitario, come se fosse stata messa lì con estrema cura per guardare ciò che avveniva, sedeva una bambola con un vestito da battesimo di pizzo, le mani e la faccia di porcellana e il corpo di stracci. Era caduta in avanti: la testa premeva sulle lenzuola, e le braccia senza vita, ricoperte di merletto increspato, erano tese in avanti così che le sue manine erano appoggiate accanto ai ricci bruni ricoperti di lacca.

Nell’angolo più lontano della stanza c’era una vasca da bagno piena di acqua grigia. Vicino al letto un baule era aperto e in disordine, come se i proprietari vi avessero preso dei capi di vestiario, ma c’erano tanti di quegli oggetti sparsi per la stanza che davano un’idea precisa della quantità di bagaglio che poteva essere stata stipata nel baule. Sembrava che, per una volta almeno, i domestici non se la fossero data a gambe con qualunque bottino fossero riusciti a rimediare.

La lampada non rivelava indizi riguardo a cosa ne fosse stato della giovane coppia, e così lasciai le stanze degli ospiti con un senso di cattivo presentimento e fatalismo. Riuscivo a pensare solo alle stanze segrete di V.; sapevo che la risposta al destino di mia moglie e a quello degli ospiti mi attendeva là.

Mi feci strada attraverso corridoi immersi nella notte verso le stanze dello zio e, più mi avvicinavo, più il mio terrore cresceva.

Arrivai a scoprire che la porta che conduceva al salotto di V. era aperta e il focolare e le candele spenti. Entrai, distolsi lo sguardo dal camino, e vidi una striscia di luce che indorava la porta leggermente socchiusa che conduceva alle camere privato dello zio.

Quella striscia di luce mi attirava come un magnete. Poggiai la lampada sul tavolino e attraversai il salotto fermandomi davanti a quella porta.

La realtà vacillò. Sapevo che io, un adulto, sposato e presto padre, stavo allungando la mano per afferrare la maniglia. Nello stesso tempo ero Arkady, il bambino di vent’anni prima che si stringeva pieno di paura a suo padre, mentre Petru afferrava la maniglia.

La mano dell’Arkady adulto girò la maniglia e spinse; la mano fantasma di mio padre fece lo stesso.

E, al rumore dei cardini che cigolavano, la porta della memoria si aprì per introdurmi nel mio passato. L’Arkady cresciuto svanì, lasciando solo me bambino e mio padre nella realtà, a lungo cancellata di venti anni prima, nei cupi giorni successivi alla morte di Stefan.

Nel secondo che ci volle perché la porta si aprisse, cigolando, ricordai:

Varcavo la soglia con mio padre, la sua mano stretta nella mia, e la sua voce era bassa e calma mentre diceva: «Non ti verrà fatto alcun male, Kasha. Soltanto abbi fiducia in me e nello zio…».

La luce di cento candele luccicò nei suoi occhi pieni di lacrime.

Passammo attraverso la stretta entrata, poi uscimmo in una grande sala. Il lato dove mi trovavo, a sinistra, era nascosto alla vista da una tenda di velluto nero che scendeva dal soffitto al pavimento, abbastanza grande per nascondere un piccolo palco.

Di fronte a noi, sul muro in fondo, c’era ancora un’altra porta chiusa che conduceva a un’altra camera segreta.

Alla nostra destra, dall’altra parte di quel misterioso teatro, c’era una piattaforma di legno scuro, lucido, con tre gradini che conducevano a un trono. La base della piattaforma aveva un intarsio d’oro, che recitava la frase JUSTUS ET PIUS.

Giusto e fedele.

Oltre il trono c’erano degli alti candelabri, carichi di candele accese, e sul trono era seduto lo zio, che stringeva i braccioli nella sua usuale posizione regale.

Emanava una tale fiduciosa potenza, una tale forza virile, che io lo guardai con la stessa paura e ammirazione che avrei avuto per un bel leone: terrorizzato per la sua collera, senza fiato per la sua magnificenza. I suoi abiti erano scarlatti, e sulla sua testa era posato un antico diadema d’oro tempestato di rubini. Dietro di lui, era appeso sul muro un fatiscente scudo di guerriero di età incalcolabile; riuscii appena a distinguere su di esso il drago alato che stava scomparendo, e capii che era lo scudo rappresentato nel ritratto dell’Impalatore.

Alla destra di V. c’era un calice d’oro, con un grande e unico rubino, che era posato in uno speciale incavo nel bracciolo del trono in modo tale che il contenuto non si versasse.

Ma i gioielli che brillavano più degli altri erano i suoi occhi che, risaltando contro il biancore della sua pelle e l’argento dei capelli che cadevano sulle sue spalle, mi trapassavano con la loro spietata lucentezza smeraldina, con la loro spaventosa intelligenza. La sua bellezza era simile a quella di Zsuzsanna quando si era alzata dalla tomba: come il sole, troppo radiosa da sopportare.

Tanto stupefatti da restare in reverente silenzio, ci avvicinammo al Principe sul trono. Infine mio padre si genuflesse, poi si inginocchiò per mettermi le braccia intorno alle spalle e disse, con un tono indicibile di dolorosa rassegnazione:

«Ecco il ragazzo».

«Tu sei triste, Petru», disse il Principe meditabondo, con una voce profonda e bella; io rimasi senza fiato per la sorpresa, poiché era sembrato troppo irreale, troppo bello, troppo un’opera d’arte per parlare. «Ma non ce n’è motivo. Io amo il ragazzo e lo tratterò bene».

«Come hai trattato me?».

Era un rimprovero, ma il Principe rimase distante, impassibile.

«Nessun male accadrà a coloro che amerà, a meno che non mi tradisca. Tutto ciò gli sarebbe stato risparmiato; suo fratello Stefan sarebbe stato scelto poiché era il maggiore, e Arkady avrebbe vissuto una vita libera da questo incarico, ma sono state le tue azioni che lo hanno condotto qui. Tu solo sei il responsabile per il dolore che ha visitato la tua famiglia, Petru. Io sono severo, ma giusto. Rimani fedele a me, ed io rimarrò fedele a te. È tutto ciò che chiedo».

Sollevò un oggetto. T’argento lampeggiò mentre faceva scorrere il coltello sul suo stesso polso e lo teneva sopra il calice d’oro sul bracciolo del trono. Sanguinò poco, solo alcune gocce che uscirono soltanto perché incoraggiate, e poi tese il pugnale verso mio padre.

«È ora», disse.

Mio padre esitò, poi camminò fino al trono e con riluttanza prese il coltello dal Principe. Lo tenne in alto per un momento ed io vidi ancora il luccichio della luce delle candele riflettersi sul metallo affilato.

«Non posso», gridò mio padre, angosciato; la voce gli tremò.

«Devi», rispose il Principe, con una voce severa e inflessibile ma io udii la strana corrente di tenerezza nascosta. «Devi. Io non oso farlo da solo. È tuo figlio; sarai gentile».

Le dita di mio padre si strinsero sul pugnale. Lo abbassò lentamente, poi con l’altra mano prese il calice offerto dal Principe.

Lo guardai che ritornava al mio fianco, provando nient’altro che una curiosità infantile. Avevo fiducia in mio padre, anche quando sollevò il calice alle mie labbra e mi costrinse a berne un piccolo sorso. Soffocando, sentii il sapore del sale, del metallo e della putrefazione, ma l’effetto di quel piccolo assaggio fu oltremodo inebriante. Divenni instabile sulle gambe, poiché riscaldava come il vino ed era anche piacevole. Provai un’improvvisa esplosione d’amore e gratitudine, forte e inesplicabile, per lo zio, mentre mi mettevo seduto; mio padre si inginocchiò accanto a me. Quando posò il calice per prendermi il braccio e voltarne l’interno verso di lui mentre sollevava il pugnale, non sentii alcun timore, soltanto una lieve apprensione per il fatto che il taglio potesse, per un po’, farmi male.

Certamente non temetti per la mia vita quando portò il bordo tagliente della lama del pugnale contro la tenera parte interna del polso e intaccò una vena, mormorando:

«Mi dispiace. Un giorno capirai… è per il bene di tutti… Per il bene della famiglia, del villaggio, del paese…».

Il dolore mi risvegliò dal mio piacevole torpore. Gridai per l’indignazione e continuai così mentre lui teneva la mia piccola ferita che sanguinava copiosamente sopra il calice, e la spremeva.

Lottai debolmente, ma papà mi tenne fermo il braccio finché il fondo della coppa d’oro fu ricoperto con il mio giovane sangue scuro. Poi tirò fuori dalla tasca un fazzoletto pulito e lo avvolse stretto sul taglio, stringendolo per un po’ per arrestare il flusso.

Infine si alzò, diede la coppa allo zio e ritornò da me. Io rimasi, leggermente stordito, con la testa sulle sue gambe, mentre lui mi accarezzava i capelli, sussurrandomi piano delle scuse e delle parole di conforto, mentre lo zio teneva il calice nelle mani a coppa e abbassava il viso sopra di esso, con gli occhi chiusi per pura beatitudine, annusando il suo odore come un esperto che inala la fragranza del migliore cognac vecchio di secoli.

Poi aprì gli occhi, lucenti per il desiderio, e disse:

«Arkady. Così io ti lego a me. Puoi lasciare la tua casa… per un po’, ma questo assicurerà il tuo ritorno a me, al momento giusto, e, al momento giusto, tu sarai restituito a te stesso e tutto ti sarà svelato. Questo io giuro: a te e ai tuoi non sarà mai fatto del male e saranno sostenuti con generosità, purché tu mi sostenga e mi obbedisca. Il tuo sangue per il mio. Questi sono i termini del Patto».

Affascinato, guardai con la testa sulle gambe di papà la luce delle candele che si rifletteva sull’oro mentre V. capovolgeva la coppa e beveva.

Gridai e mi afferrai la testa mentre artigli di ferro affondavano nel mio cervello.

All’improvviso ritornai in me, all’Arkady adulto del presente. L’intera memoria mi era ritornata, in pieno e completa, nella frazione di secondo necessaria ad aprire la porta e spalancarla.

Adesso attraversai da solo la soglia.

Passai attraverso la piccola entrata nella grande stanza.

Lì, alla destra, c’era il trono del Principe, ora vuoto, sebbene uno dei candelabri a fianco, alto come me, fosse stato acceso.

Lì, c’era anche l’antico scudo, sebbene mancasse il calice che, un tempo, aveva contenuto il mio sangue. Al centro del muro più lontano c’era la porta che conduceva a misteri ancora più profondi e, alla sinistra…

A sinistra, il velo di nero velluto era stato tirato da una parte per rivelare ciò che un tempo era stato nascosto.

Inchiodata al muro, c’era una serie di nere manette di ferro; appoggiati, nei pressi, c’erano quattro pali oliati e luccicanti, due volte l’altezza di un uomo e consumati da un lato per avere delle punte arrotondate; una ruota di tortura e, dondolanti dal soffitto, le grosse catene di metallo di una “strappata”, usate per sollevare le vittime in aria per mezzo delle braccia. Sotto le manette e la “strappata” erano strategicamente poste delle vasche di legno, con gli interni puliti ma macchiati di un indelebile colore rossiccio, a causa di innumerevoli anni di uso.

Da un lato di questa camera degli orrori si trovava una cassa intagliata che conteneva un assortimento di mannaie e coltelli e, accanto ad essa, stava un robusto tavolo, alto fino alla vita, della lunghezza e della forma di una bara.

Su questo tavolo era steso Herr Mueller, nudo e bocconi, la carne nuda della schiena del bianco scioccante di una statua d’alabastro. Solo la parte superiore del corpo era appoggiata sul tavolo; le gambe penzolavano verso il pavimento, piegate leggermente alle ginocchia a causa della loro lunghezza, in modo che il suo corpo formasse una “L” con le due parti della stessa lunghezza, anche se non del tutto diritte. Sopra la sua intricata criniera di capelli ricci, del colore della sabbia, le braccia erano tese come quelle di un tuffatore e, dapprima, pensai che afferrasse il bordo del tavolo.

Ma no, le mani erano estremamente rilassate. Pensai immediatamente alla piccola bambola di pezza e porcellana, scivolata in avanti sul suo letto nuziale.

Era senza energia e senza vita come lei; morto. Completamente morto.

Ma si muoveva.

Si muoveva, il tronco senza vita scosso avanti e indietro, i ricci castano dorati, qua e là che sobbalzavano, la testa che pendeva leggermente, le braccia senza vita che scivolavano su e giù contro il tavolo, le dita prive della capacità di sentire, che lucidavano il legno opaco, senza vigore, orribilmente, allo sbattere ritmico della carne di un altro contro la sua.

Alzai lo sguardo e vidi Laszlo, con gli occhi chiusi, le labbra aperte in un’estasi di sogno, che afferrava il cadavere alle anche mentre stava dietro al bordo del tavolo. I suoi pantaloni erano aperti, tirati giù fino alle cosce e l’orlo della lunga camicia da contadino strusciava sopra il dorso del morto mentre lui spingeva.

Guardai nuovamente il corpo e seppi che il viso nascosto a me era gelato nello stesso ghigno di orrenda angoscia di Jeffries.

Non pensai, non riflettei, non indietreggiai. Alzai la pistola di mio padre, mirai precisamente al centro del cranio dell’uomo e aprii la bocca per gridare:

«Fermo! In nome di Dio, fermo, o farò fuoco».

Rapidamente, così rapidamente che non ebbi il tempo di pronunciare parola, Laszlo si liberò dal cadavere, tirò fuori una mannaia dalla cassa e me la scagliò contro.

Il manico della mannaia mi fece cadere di mano il revolver che scivolò nell’ombra mentre Laszlo si gettava in avanti sopra il tavolo.

Anche alla luce tremolante delle candele, potei vedere che il suo volto si era trasformato. Non era più l’ottuso e avido cocchiere ma una furia dagli occhi feroci. Si scagliò come il lupo che mi aveva attaccato nella foresta il giorno che avevo scoperto le tombe nascoste. Alzai le braccia per difendermi, quasi credendo che non mi avrebbe fatto del male che, come il lupo, fosse lì semplicemente per minacciare, per scoraggiare, per mettere alla prova.

Barcollammo all’indietro come ballerini ostinati, con la sua mano destra che stringeva il mio polso sinistro e la mia mano sinistra che afferrava il polso della mano che voleva afferrarmi la gola. Eravamo vicini come due amanti, tanto che potevo sentire il suo odore: un sudore acido, mescolato al lieve odore di feci e decomposizione.

In questo modo procedemmo, con le braccia che tremavano forte nella stretta mortale, con la sua forza da pazzo che mi obbligava a indietreggiare, ad allontanarmi dal luogo macabro dove Mueller e Jeffries avevano incontrato la morte, finché le pietre sotto i miei piedi divennero ineguali, persi l’equilibrio e caddi.

Caddi con la schiena sul freddo pavimento di marmo, espirando dai polmoni. Lottai per rialzarmi subito, cercando la gola del mio aggressore e tentando invano di afferrarla, ma la mia spalla destra era bloccata saldamente, evocando l’immagine del lupo nella foresta, con le zampe sulle spalle, che mi teneva giù ma che resisteva alla tentazione di uccidere.

Ma quel lupo umano non aveva una tale ritrosia. Il mio tentativo di alzarmi non distolse la mia forza che per un secondo, ma fu sufficiente. Con il volto contorto nel dolore dello sforzo e i denti scoperti, ruppe la mia presa e mi afferrò alla gola.

Gridai — un grido breve, indignato — e gli afferrai i polsi, lottando per l’aria che non arrivava. Temevo che la mia battaglia fosse finita, che anch’io avrei dovuto sottostare all’offesa dopo la morte che Jeffries e Herr Mueller avevano conosciuto.

Ma il mio grido fu seguito dopo due secondi — non di più — da un’improvvisa, riecheggiante esplosione alla mia destra. Nella mia confusione, pensai che il revolver avesse sparato da solo ma, quando il mio sguardo rapidamente si mosse nella direzione del rumore, vidi che la porta della camera interna, da cui distavamo ora alcuni metri, era stata spalancata con forza.

V. era sulla soglia, avvampando, non di gloria ma per l’ira. Le sue scure sopracciglia erano aggrottate e i lineamenti contorti per una rabbia terribile a vedersi. Nello stesso tempo era anche bello, nella maniera implacabile, accecante, del sole, di un angolo vendicatore. I suoi capelli erano completamente neri, tranne che per alcune strisce rossicce, e la sua pelle irraggiava il colorito dell’eterna giovinezza virile. Pensai che stavo guardando un me stesso perfezionato, redento. I nostri sguardi si intrecciarono, e la furia nei suoi occhi si mescolò con un indicibile stupore.

«Che impudente magia è questa?», bisbigliò con passione. «Troppo presto… ti sei liberato troppo presto! Pensi di rovinare i miei piani?».

Lo fissai con vuota incomprensione. Socchiuse gli occhi e sembrò giudicare sincera la mia reazione. Mentre guardavo, si avvicinò con impossibile rapidità o, piuttosto, si mostrò semplicemente più grande nel mio campo visivo. Senza che sembrasse muoversi affatto, fu improvvisamente accanto a noi.

Alla sua vista, il mio aggressore indietreggiò e si inginocchiò come un penitente mentre io cadevo all’indietro, ansimando, sul pavimento. Tastai il collo che pulsava e, infine, riuscii a sedermi mentre Laszlo piangeva:

«Non ti arrabbiare, domnia ta! Ha cercato di uccidermi…».

V. parlò ancora e la sua voce, sebbene bassa, risuonò nella stanza silenziosa come un tuono, come il vento e dei cembali che suonassero, come la voce di Dio.

«Allora avresti dovuto permetterglielo».

Il Principe aprì il pollice e l’indice formando una v e afferrò con forza la parte molle del collo di Laszlo. Con un braccio muscoloso sollevò il cocchiere che tremava… in alto, ancora più in alto, finché i piedi di Laszlo penzolarono ad alcuni centimetri da terra e la sua faccia viola e senza fiato si trovò a circa trenta centimetri da quella di Vlad.

«La morte è tutto ciò che meriti!», sibilò V., con gli occhi che gli scintillavano come lucenti stelle verdi. «Quando sei venuto da me, la prima volta, non ti ho fatto giurare sopra ogni altra cosa che non gli avresti mai fatto del male? Che non avresti mai gettato nemmeno uno sguardo sconveniente alla mia famiglia e, meno che mai, a lui? Non l’ho fatto? Non l’ho fatto?

Ti ho lasciato fare tutto ciò che desideravi e tu mi hai disobbedito! Questo non te lo perdonerò mai!».

Scosse l’uomo che stava soffocando come una marionetta; Laszlo scalciava nell’aria, lottando invano per respirare, per protestare, quando V. chiuse la mano intorno alla sua gola.

«No!», gridai con voce rauca. «Fermo!».

Mi gettai in avanti. Lui mi guardò e alzò la mano libera — l’alzò soltanto e l’agitò come se stesse scacciando una mosca — mandandomi all’indietro attraverso la stanza.

Con le spalle e la schiena battei contro il tavolo dove giaceva il cadavere di Herr Mueller, e l’aria mi uscì dai polmoni. Per alcuni secondi rimasi stordito, incapace di respirare; nel silenzio, udii la vittima che ansimava, poi cominciò a gorgogliare, affogando, dato che la pressione gli stava frantumando le vene nella gola.

Mi ripresi e tastai il pavimento, cercando inutilmente nell’oscurità la pistola perduta, sapendo che l’arma sarebbe stata vana contro V., ma non potevo restare fermo a guardare un uomo che veniva ucciso, per quanto fosse perverso e malvagio.

Infine ci fu un suono improvviso, soffocato, che sembrò più felino che umano. Alzai lo sguardo per vedere Laszlo oscillare, mentre pendeva dalla mano di V. con lo stesso movimento paurosamente privo di vita che avevo visto in Herr Mueller; i suoi occhi chiari sporgevano dalla faccia rossa apoplettica e la lingua gli fuoriusciva dalla bocca aperta. Le dita di V. erano così profondamente conficcate nella carne del collo che mi sorpresi che questa non si fosse lacerata.

Strisciai via sulle mani e sui piedi da quella vista e non mi voltai a guardarmi indietro al rumore del corpo lasciato cadere sulla pietra. Volevo solo fuggire me stesso, per trovare riparo dalla coscienza; raggiungere Laszlo nell’oscurità della morte. Continuai finché caddi sull’entrata aperta della camera interna, e poggiai la guancia contro la fredda pietra, esausto per la lotta, attirato verso il buio. Ma, mentre voltavo la testa per posarla a terra, vidi all’interno un bianco più radioso, parzialmente nascosto da un ingresso. La curiosità mi fece raddrizzare e allungare in avanti, cercando di vedere oltre l’angolo dell’entrata.

Un altro lampo bianco, accompagnato da fievoli gemiti di donna. Pensai subito alla mia povera Mary e il mio cuore cominciò a battere rapidamente. Afferrai lo stipite, mi rimisi in piedi sulle gambe malferme ed entrai con il cuore pieno di terrore. La stanza si apriva alla mia sinistra, dove il muro aggettava di circa un metro per impedire, quando era aperta, di vedere dentro, a chi si trovava all’esterno. Mi feci avanti quanto bastava per vedere l’intera stanza e lì rimasi.

Era, forse, grande un terzo della camera esterna, senza finestre e senz’aria, con lo stesso vago odore di pietra, terra e decomposizione della tomba di famiglia. Era più buia della camera esterna, tanto che potei appena distinguere, di fronte a me, le forme di due bare una accanto all’altra. Entrambe erano nere e la più grande era adorna di un simbolo raffigurante lo stesso emblema del drago dello scudo dell’Impalatore. Accanto, verso la parte superiore della bara più piccola, c’era un altro groviglio carnale spaventoso per i miei occhi da decifrare. Davanti, c’era una creatura con un viso da ragazzina e un corpo fiorente di donna che riconobbi come la sposa bambina di Herr Mueller. Era mezza nuda, con il vestito sbottonato e arrotolato fino alla vita, e la testa inclinata da un lato in modo che i lunghi ricci bruni — molto simili ai ricci della bambola di porcellana — cadessero giù sopra una spalla e un seno rosato come una conchiglia. Ma anche la sua perfetta pelle di porcellana sembrava opaca in confronto alla radiosa carne bianca della donna che era dietro di lei.

Era mia sorella, bellissima nei suoi vestiti da defunta, proprio come mi era apparsa in precedenza nella tomba di famiglia. Zsuzsanna serrava le labbra su quel collo roseo per succhiare con delicatezza, reggendosi con una mano alla vita della sposa mentre con l’altra ne sosteneva il seno rigoglioso. Una ciocca dei capelli di Zsuzsa, neri con una sfumatura leggermente blu, erano scivolati in avanti e cadevano dal punto in cui beveva, giù per il busto fino alla vita della donna, come un filo di sangue scuro.

Dietro mia sorella, contro il muro, c’era un altare, la cui altezza amvava alla vita, coperto di nero, su cui era accesa una sola candela nera che illuminava gli oggetti che vi si trovavano: il calice d’oro, il pugnale d’argento con l’elsa nera con iscrizioni e un pentacolo di pietra, che esaltava il male.

L’espressione di Frau Mueller era rilassata, e le sue labbra color delle primule si aprivano in una sognante sensualità; inarcava la schiena contro Zsuzsa ed emetteva dei piccoli sospiri che sembravano ispirati tanto dall’estasi quanto dal dolore.

Anch’io emisi un suono; un forte sussulto, udendo il quale gli occhi di mia sorella si aprirono all’istante. La ragazza gridò e lottò, questa volta per inequivocabile paura e dolore, ma debolmente, ancora in trance, con gli occhi ancora chiusi. Zsuzsanna distese la mano sul seno della ragazza e la premette forte a sé, come se prevedesse una lotta e alzò lo sguardo nella mia direzione.

Del rosso colava dalle labbra di mia sorella, macchiandole i denti e la lingua. Il sangue sgorgava da due piccole ferite sul collo della ragazza. Un piccolo fiume rosso le scendeva sul seno, sulla mano della sua seduttrice; l’altra era intrecciata alla ciocca ribelle dei capelli di Zsuzsanna.

Mia sorella mi guardò con i suoi occhi di colore castano brunito, occhi che erano vuoti e animaleschi, gli occhi di una leonessa disturbata mentre si nutre con la preda. Non mi riconobbe, dato che non vi fu in essi alcun segno di emozione o di riconoscimento; ma mi dovette giudicare innocuo, poiché ritornò alla sua preda quasi immediatamente. La guardai mentre scopriva dei denti aguzzi non umani; la guardai mentre li conficcava nella carne tenera e allargava le ferite. La ragazza gridò stridula e si dimenò, per cui Zsuzsanna serrò rapidamente le labbra sulle ferite e cominciò a succhiare.

Immediatamente la ragazza si immobilizzò.

Mi sarei gettato su di loro cercando di liberare la ragazza, ma avevo già provato la forza del Vampiro. Mi voltai, pensando di andare a prendere un’arma dalla stanza esterna, ma una mano sulla spalla mi fermò.

«Arkady».

Guardai V. che mi stava davanti, non più radioso angelo vendicatore, ma una creatura completamente umana che mi parlava con la voce di mio padre, che mi guardava con gli occhi di mio padre, che teneva la Colt di mio padre nella mano destra.

Senza pensare, gliela strappai di mano e corsi verso mia sorella, le cui labbra erano ancora premute sul collo della ragazza nelle sue mani. Mi avvicinai a loro, quindi premetti la canna metallica del revolver contro il collo di mia sorella, facendo attenzione a porla in una direzione tale da non minacciare la ragazza e supplicai:

«Zsuzsa… fermati!».

Mentre beveva, gli occhi di Zsuzsa erano stati chiusi in un’estasi assorta; ora non smise di bere, ma gorgogliò profondamente nella gola e alzò appena le palpebre per guardarmi con la coda dell’occhio. E nel suo sguardo sazio, leggermente ebbro, non vidi paura.

«Ferma! Per l’amore di Dio, ferma!», gridai, ma sapevo che non l’avrebbe fatto, proprio come sospettavo che quello che stavo per fare fosse inutile. Nondimeno lo feci.

Premetti il grilletto. L’arma sparò. Barcollai all’indietro al rinculo e tossii mentre una nuvola di fumo sulfureo mi pizzicava la gola, il naso, gli occhi.

Zsuzsa barcollò, alzò la faccia sporca di sangue, con i bei lineamenti contorti, gli aguzzi denti perlacei che si stringevano di rabbia. Ancora si teneva stretta alla vittima. Quando il fumo si dissipò, vidi sul suo collo una ferita nera, aperta, che cominciò a buttar fuori del sangue fresco, di un colore vivo, che io sapevo non essere il suo.

Poi si raddrizzò e, mentre la guardavo sbalordito, la ferita cessò di sanguinare e cominciò a chiudersi. Entro pochi secondi guarì completamente e, come prova dell’offesa, rimase solo l’ombra della polvere da sparo. Zsuzsa chinò ancora la testa, completamente priva di paura, e premette le labbra nuovamente sulla gola della ragazza.

Mi gettai su di lei e cercai di strapparle la ragazza, sapendo che era inutile. È mia sorella — la mia piccola, fragile sorella, un tempo storpia e così debole da poter appena scendere le scale di casa per venirmi a salutare — resse la vittima con un braccio e con l’altro mi colpì.

La forza di quel colpo mi spinse attraverso la stanza e contro il muro; la pistola cadde rumorosamente sul pavimento. In qualche modo riuscii a restare in piedi e mi appoggiai, con un basso grido di sconfitta, contro la fredda pietra.

Non c’era niente che potessi fare per salvare la vita di quella povera ragazza; nulla che potessi fare tranne guardare, singhiozzando in silenzio, mentre Zsuzsa beveva. L’imminente morte di Frau Mueller sembrava riempire mia sorella di crescente eccitazione e abbandono, e cominciò a bere con maggiore avidità, con sorsi rumorosi, frenetici, finché, alla fine, la ragazza emise un lungo, fievole lamento, e cadde. Zsuzsa l’afferrò, avvolgendo le braccia intorno alla vita della ragazza e sollevandola come una madre farebbe con un neonato. La tenne nelle braccia e continuò a bere finché Frau Mueller emise un lungo e sonoro sospiro.

V., che era stato a guardare con solenne approvazione, si fece avanti e, togliendo la ragazza dalla stretta di Zsuzsa, disse:

«Basta! È finita. Insistere non fa bene, non quando è morta».

L’ansimante Zsuzsa, con le labbra che colavano sangue, sembrò accettarlo. Pigramente, come un animale che si è ben nutrito e va a riposarsi al sole, chiuse gli occhi soddisfatta e si lasciò andare sul pavimento di pietra davanti all’altare per riposare.

Con il corpo della ragazza bianco come latte sulle braccia, V. si voltò verso di me e disse:

«Vieni».

«Mia moglie!», domandai, con il cuore infranto al pensiero che potesse aver subito un destino simile a quello di Frau Mueller. «Che cosa hai fatto a mia moglie?»

«Vieni», ordinò V, in un tono che diceva che se desideravo rivedere ancora Mary, dovevo obbedire immediatamente.

Passò attraverso l’entrata. Io ripresi il revolver di papà e lo seguii, oltrepassando i resti immobili di Laszlo, fino al teatro di morte e al tavolo da macellaio, dove V. depose il cadavere di Frau Mueller accanto a quello di suo marito.

Alzò lo sguardo su di me e si fermò.

Immediatamente, ripetei:

«Mia moglie! Dov’è Mary? Dimmelo subito!».

Inutilmente brandii il revolver.

Un sorrisetto gli apparve sulle labbra; con una forza che annientava la mia, allungò una mano e facilmente mi tolse la pistola di mano, ma non la puntò contro di me.

«Quindi», disse, «hai riacquistato la coscienza».

«Mia moglie…!».

«Mi sembrava soltanto opportuno che il bambino dovesse nascere qui. Ha le doglie, ma sta benissimo. Dunya la sta aiutando».

«Dunya…».

Mi interruppi, intendendo dire, Dunya mi aspetta fuori, nella carrozza; è impossibile! Poi vidi il divertimento nel suo sguardo e chiusi la bocca aperta dall’orrore nel comprendere che sia io che la piccola cameriera eravamo state sue pedine.

Il divertimento nei suoi occhi scomparve bruscamente; il suo tono si abbassò, come quello di chi spiega il più sacro dei misteri.

«Presto discuteremo di tua moglie, ma prima… Stanotte hai saputo la verità, Arkady. Questo è ciò che sono; accettalo e non ci temere».

«Non potrò mai accettare una tale brutalità», mormorai, voltando la testa verso le vittime sul tavolo, ma chiudendo gli occhi, incapace di vedere.

«È la brutalità della stessa Natura», disse. «Noi siamo dei predatori; chi ci può incolpare perché lottiamo per sopravvivere? Chi può dire al falco che non deve cacciare, al leone che non deve uccidere? Chi osa chiamarlo peccato?»

«I falchi non pianificano freddamente di tormentare e uccidere altri falchi», replicai, con la voce tremante, i lineamenti contorti dal disgusto. «Né i leoni altri leoni, ma è omicidio quando gli uomini cominciano a farlo».

«Arkady», rispose sommessamente, «noi non siamo umani».

A questo non potei rispondere, ma distolsi il viso, con l’intenzione di evitare la macabra scena sul tavolo.

V. parlò ancora, con lo stesso tono cupo pieno di rispetto.

«Ti ricordi la cerimonia e ciò che si disse del Patto?»

«Mi ricordo».

Con amarezza fissai il pavimento, ricordando il dolore paralizzante, senza speranza, negli occhi di mio padre.

«Il rituale è completo. Allora ti presi la volontà, per assicurarmi che, ora, saresti ritornato da me. Questi sono i termini del Patto: che tu ci assisterai nel procurarci il nutrimento, e che, per il bene della cittadina, impedirai la creazione di nuovi strigoi. In cambio, io non farò mai del male a te o ai tuoi, ma provvederò ai vostri bisogni…».

«Ma tu hai rotto il Patto! Hai fatto del male a Zsuzsa!».

V. alzò il mento con regalità.

«Io le ho dato la vita; prima non aveva nulla. Per amore, l’ho resa uno strigoi, in modo che potesse conoscere la felicità insieme a me. Io accetto la responsabilità di curarla per sempre. Ci aiuterai?».

Alzò la pistola che teneva in mano. In un istante di confusione, pensai che potesse puntarmela contro, invece voltò la canna verso di sé e premette il calcio nel mio palmo. Chiusi le dita intorno all’arma e lo fissai.

«Io ti restituisco la volontà, Arkady. Devi liberamente decidere se ricambiare il mio amore o se rifiutarmi, sapendo chi sono e ciò di cui ho bisogno». V. si fermò poi guardò i cadaveri e chiese: «Tu hai sentito, ne sono certo, della superstizione contadina riguardo alla prevenzione di nuovi strigoi.

Guardai i due innocenti morti che giacevano davanti a me e mormorai:

«So che è quello che hanno fatto al corpo di papà».

«Sì», disse V., poi si voltò a guardare gli strumenti preparati accanto al tavolo e io seguii lo sguardo e vidi il martello, i pali corti, i coltelli.

Compresi immediatamente ciò che desiderava e gridai:

«No, non posso!».

Se avessi creduto di avere una qualche possibilità di sopraffarlo, lo avrei distrutto in quell’istante con gli strumenti che ci circondavano: ma non c’era niente che potessi fare.

L’espressione di V. era perfettamente dura, perfettamente fredda, perfettamente realistica, come se stessimo discutendo di qualche questione d’affari riguardo alla proprietà, su cui fossimo in leggero disaccordo.

«Anche tuo padre disprezzava questo compito e così si procurò Laszlo. Se lo desideri, anche tu puoi ricorrere ad un simile accomodamento. Non mi importa di come sia fatto, ma questa volta, dev’essere fatto adesso… e con rapidità! Devi, Arkady. Io non posso. Tu devi».

«No!».

Mi voltai e feci per andarmene. Immediatamente, una folata di vento passò per la stanza. La porta della camera esterna si chiuse con forza davanti a me e il chiavistello scivolò nella serratura.

Dietro di me, la voce di V. disse:

«Se non lo fai, si rialzeranno come strigoi… ed essi non sono legati al Patto, come tua sorella e me. Saranno liberi di fare del male a chiunque: a tua moglie, al tuo futuro figlio…».

Lo fronteggiai.

«Ma se rifiuto di adempiere al mio ruolo nel Patto? Dici che sono libero, che posso decidere, ma non agisco affatto di mia volontà se tu mi ricatti…».

Il volto di V. era una maschera impassibile.

«Tu sei libero ed io, come ogni predatore, sono libero di agire in un modo che assicuri la mia sopravvivenza. Io sono il voievod. Non mi comporto teneramente con coloro che mi tradiscono».

«Tu hai ucciso Stefan», dissi piano, con l’odio che prendeva all’improvviso il posto della paura. «Tu hai ucciso mia madre…».

Pensai al cane lupo che aveva ucciso entrambi i miei cari, al lupo alla finestra che era arrivato quasi a uccidere mia moglie, e le mie ginocchia cominciarono a piegarsi. Afferrai il bordo del tavolo per tenermi in piedi.

La sua espressione, la sua voce, erano completamente senza emozione.

«Mi ha spezzato il cuore, naturalmente, ma tuo padre sapeva essere, talvolta, estremamente ostinato. Era una sua scelta disobbedire e causare tali tragedie». Prese un palo e il martello dagli strumenti accanto al tavolo e me li offrì. «Proprio come adesso è tua la scelta. Sai essere forte, Arkady? Puoi mettere da parte ciò che è il tuo interesse per fare ciò che è meglio per la tua famiglia? Per il villaggio?»

«Stai minacciando mia moglie e mio figlio?», bisbigliai.

LTmpalatore sorrise in modo estremamente lieve e disse:

«Non servirebbe a nulla minacciare te, Arkady. Sei troppo pieno di romantiche idee di eroismo e sacrificio di se stessi».

Guardai quegli occhi di giada, sapendo che ero veramente libero dal loro potere ipnotico, e che l’Impalatore diceva la verità sul fatto che la mia mente mi apparteneva. Non sapevo spiegarmi la restituzione della mia volontà, tranne che lo avesse permesso per una sua contorta nozione di onore.

«Se io accetto… mi porterai da Mary? Giurerai di non fare del male a lei o al bambino?», gli chiesi.

V. annuì con solennità.

«Finché tu terrai fede al Patto… anch’io lo farò».

Benissimo, allora; per amore di Mary, decisi che potevo giocare quel gioco ancora quanto bastava per liberare i Mueller dalla maledizione dello strigoi. In effetti, se V. non li avesse liberati, io ero obbligato a provvedere che essi non si rialzassero.

Presi da lui il palo e il martello. V. voltò il corpo di Herr Mueller in modo che il viso guardasse ciecamente il soffitto scuro, e poi il mostro fissò il suo sguardo penetrante su di me, con gli occhi ardenti di un’empia luce.

Con le mani tremanti, misi il palo in modo che intaccasse la grigiastra carne bianca del petto dell’uomo, proprio sopra il cuore e poi sollevai il martello sopra la testa e, con un colpo forte e sonoro, lo conficcai.

Il corpo di Mueller sobbalzò privo di energia, senza vita, poi si dimenò, riportato improvvisamente in vita da uno scatto di spaventosa energia. Nello stesso istante, le sue labbra grigie si aprirono per emettere un urlo così acuto che io indietreggiai e feci cadere il martello, completamente privo di forze.

«È vivo!», gridai con orrore.

«Non lo sarà ancora per molto!».

V. riprese il martello e con esso indicò la miserevole creatura sul tavolo. Il mio primo colpo aveva conficcato per pochi centimetri il palo nel cuore; era impossibile, quindi, per chiunque, sopravvivere a una ferita così mortale per più di qualche secondo.

«Guarda come soffre! Sbrigati… liberalo da questo dolore!».

Singhiozzai e rimasi paralizzato, incapace di tollerare la vista di tale agonia, incapace di uccidere.

Poi Mueller emise un lamento troppo pietoso per essere sopportato da cuore umano.

«Ancora!», insistette V., gettandomi il martello. «Più forte! Presto!».

Afferrai il martello e colpii ancora. Mueller si dimenò come un grosso pesce morente e urlò.

Battei ancora e ancora, contorcendo il viso, con le lacrime che mi scendevano lungo le guance. Ancora, finché il pover’uomo rimase immobile e il palo fu ben conficcato nel petto… eppure, non aveva versato una goccia di sangue. Fissando i suoi lineamenti contorti, non riuscii a pensare a nient’altro che a Jeffries mentre sceglievo la lama più grossa, più spessa, tra gli arnesi e mi accingevo al macabro incarico di separare la testa dal tronco.

Fu un lavoro orribile, rivoltante, e non riesco a descriverlo qui nei dettagli. Ma fu anche rivoltante la luce anormalmente vivida negli occhi di V. mentre mi osservava eseguire il compito.

Poi arrivò il momento di fare lo stesso con Frau Mueller. Per pudore, abbassai gli occhi e li volsi il più possibile mentre mettevo il palo tra i suoi seni. Pregai che lei fosse, a differenza del suo sfortunato marito, veramente morta; dopotutto, V. non aveva impedito a Zsuzsanna di continuare a bere perché la ragazza era morta?

Rassicurandomi in questo modo, battei ancora, e piansi forte quando anche lei ritornò in vita e gridò in maniera straziante come suo marito. Seppi allora che V. mi aveva intenzionalmente ingannato per quel terribile fine.

«Che sfortunati», mormorò, quando tutto fu finito e entrambi i corpi furono decapitati. «Sembra che fossero tutti e due vivi. Ma come può essere accaduto?».

Potei soltanto guardarlo con odio. Si aspettava che, avendo versato sangue una volta, fossi corrotto e facessi qualunque cosa chiedesse?

«Ho fatto quello che mi hai chiesto», dissi gravemente. «Ora portami da mia moglie».

«Benissimo», rispose, e mi condusse verso un’entrata nascosta dietro il trono.

Questa si apriva su uno stretto passaggio scuro, che conduceva a una pesante porta di legno, da cui provenivano, molto debolmente, le grida di dolore di mia moglie. V. mise la mano sulla porta, poi esitò e si voltò a guardarmi con un mezzo sorriso.

«Ti sei comportato ammirevolmente, Arkady. Ma c’è ancora una piccola cosa. Ho un visitatore inaspettato che, secondo la sua lettera, sta aspettando a Bistritz dall’alba che arrivi il mio calesse, ma Laszlo questa mattina era indisposto», e qui sorrise apertamente, «ed ora lo è ancora di più. Potresti…?»

«Non posso lasciare Mary! E non dormo da giorni…».

V. annuì con grazia.

«Allora domattina? Dopo che avrai avuto tempo di dormire? Solo questa cosetta e poi potrai restare con tua moglie quanto desideri…».

Percepii l’allusione minacciosa nel suo tono. In quel momento, riuscivo a malapena a tollerare di udire i gemiti di mia moglie: non riuscivo a pensare a qualcosa che mi trattenesse dall’essere al suo fianco sapendo che era così vicina, e così acconsentii stancamente.

«Sì, sì, naturalmente… andrò domattina».

«Eccellente».

Il sorriso di V. si allargò rivelando i denti; poi si voltò e aprì la porta.

La camera era senza finestre, piccola e, come il suo padrone, piena di uno scintillio che sapeva di decomposizione, adorna di ragnatele, ricoperta di polvere, ma munita con magnificenza di candelabri d’oro, di cristalli lavorati, e con un grande letto a baldacchino dalle tende di luccicante broccato dorato. Dunya sedeva accanto al letto su uno sgabello di velluto e, quando la piccola cameriera alzò gli occhi per guardarci, il suo sguardo divenne inespressivo, vuoto, nell’incontrare quello di Vlad.

Rabbrividii, incapace di nascondere il disgusto e lo sgomento alla rivelazione che V. l’aveva usata per tradirci. Egli vide la mia espressione, e il sorriso ironico ritornò sulle sue labbra.

«Ora ti lascerò alla tua intimità in questa importante occasione», disse, e se ne andò, chiudendosi dietro la porta.

Sul letto giaceva mia moglie, in preda alle doglie, con i capelli dorati bagnati e resi scuri dal sudore, il viso arrossato dallo sforzo. Andai subito da lei, le presi le mani, e insieme piangemmo.

«Non possiamo fidarci di lei», disse Mary tra le lacrime, in inglese. «Il collo… ho visto il collo».

Non guardò nemmeno Dunya, che sedeva accanto a lei con la più innocente delle espressioni, incapace di seguire la nostra conversazione.

«Lui l’ha morsa?», chiesi sommessamente.

Mary annuì e chinò la testa, sopraffatta dal dolore.

Presto i dolori cominciarono veramente. Desideravo fare qualcosa per aiutarla ma, apparentemente, il mio sgomento al vederla preda di quel dolore non faceva che turbarla ulteriormente. Così mi sedetti appena fuori della porta, dove poteva vedermi ed essere rassicurata dalla mia presenza ma non poteva notare la mia espressione tormentata.

Per alcuni istanti, quando le doglie divennero più frequenti e Dunya era indaffarata, scivolai al piano inferiore per accorgermi che le porte che conducevano fuori del castello erano state sprangate dall’esterno.

Così, sedetti fuori dall’elegante prigione di mia moglie, scrivendo tutto questo sulla carta profumata che ho scoperto nella stanza.

Dio mi aiuti, sono due volte un assassino e siamo prigionieri, senza speranza di fuga.

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