Capitolo ottavo

Il diario di Mary Windham Tsepesh


17 aprile. Il grande orologio nell’ingresso ha appena battuto le due, ma io ancora non riesco a dormire, nonostante Arkady abbia insistito perché bevessi un sorso di laudano. Lui stesso ne ha preso una grande quantità, essendo agitato quanto me, sebbene cercasse di nasconderlo nel tentativo di confortarmi del mio terrore. Tutto ciò è accaduto poco prima dell’una. Ora russa sonoramente, mentre io combatto contro una spiacevole sonnolenza indotta dalla droga, contro cui sono impotente. Essa raggiunge l’opposto dell’effetto desiderato: lotto per stare sveglia, poiché preferisco essere in possesso delle mie facoltà nei momenti critici.

Sono così spaventata! Scrivere è la sola cosa che mi calma in questi giorni. La mia speranza che avremmo presto lasciato la Transilvania è stata di breve durata. Arkady è ritornato molto tardi dall’aver parlato con Vlad ieri sera, e questa mattina non ha voluto fornire dettagli di quell’incontro ma ha detto soltanto che ci sarebbe voluto «ancora un po’ di tempo» prima che potessimo prendere le nostre vacanze.

So cosa significa. In “ancora un po’ di tempo”, io non sarò definitivamente più in grado di viaggiare. È già abbastanza rischioso com’è adesso. Ho potuto evincere dal comportamento sottomesso di Arkady che Vlad deve aver rifiutato la nostra richiesta e che hanno avuto un litigio, dopodiché il mio buon marito non si è risolto a dirmelo. Ha trascorso la giornata ad andare e tornare da Bistritz, poi si è recato direttamente al castello, ed è ritornato a casa molto tardi, dopo che mi ero ritirata.

Non è venuto a letto, ma è rimasto nel suo studio. Lo so perché non riuscivo a dormire, in parte perché ero amaramente delusa riguardo al posticipo delle nostre vacanze, ma anche perché provavo un crescente disagio nei riguardi di Zsuzsanna.

Sembra molto migliorata, e il suo colorito è migliore di quando sono arrivata la prima volta in questa casa. Oggi era persino alzata e girava per la casa. Quando le ho fatto visita nella sua stanza, era vestita e sedeva nel sedile vicino alla finestra, guardando fuori alla sua sinistra, in direzione della foresta, in lontananza. Quando sono entrata, mi ha lanciato uno sguardo da sopra le spalle, rapidamente, con un sorriso infantile, poi ha indicato con eccitazione i pini lontani.

«Guarda laggiù! Lo vedi?».

Ho attraversato la stanza e sono rimasta dietro di lei per dare un’occhiata, ma non ho visto altro che la foresta, talmente lontana che gli alberi erano veramente del tutto indistinguibili l’uno dall’altro.

«Che cos’è che vedi, Zsuzsanna?», le ho chiesto con gentilezza e, senza pensare, le ho messo una mano sulla spalla.

«Un gufo!», ha esclamato. «Riesci a vederlo? Là, a destra… lassù, tra i rami più alti».

Naturalmente non riuscivo a vedere niente, e ho balbettato una risposta riguardo al fatto che la sua vista era veramente notevole, cosa che sembrò farle piacere, sebbene, in realtà, sapessi che quello doveva essere un prodotto della fantasia. A quella distanza non poteva aver distinto niente.

Non è stato il suo immaginario avvistamento a turbarmi, ma l’improvvisa consapevolezza che la mia mano poggiava su una spalla che era normale, perfetta e in salute come la sua compagna, e il fatto che la sua intera spina dorsale era ora del tutto diritta.

Poi si è voltata e, cercando di non tradirmi con lo sguardo, mi sono seduta accanto a lei sul sedile e abbiamo avuto una breve conversazione relativa al suo miglioramento. La sua unica lamentela era che non aveva molto appetito. Finalmente le ho detto che Arkady era stato malato ma che, adesso, stava del tutto bene, e lei è sembrata, alla notizia, educatamente preoccupata, sebbene non triste. Le ho anche detto che uno dei cani dei domestici aveva di recente avuto dei cuccioli, e ho accennato che il migliore della cucciolata avrebbe potuto essere tenuto per lei se avesse voluto, ma non si è dimostrata affatto interessata. Sembrava preoccupata, e continuava a guardare fuori della finestra come in cerca di qualcosa.

Al termine della nostra chiacchierata, si è alzata e mi ha accompagnato alla porta. Non è stata la mia immaginazione: era più alta, e camminava senza alcuna traccia del suo precedente zoppicare.

Questo mi ha preoccupato. So che ha preoccupato anche Dunya poiché, quando gliel’ho raccontato, ha stretto le labbra e scosso la testa, dicendo:

«Non capisco, doamna. Non è un buon segno».

Poi le ho chiesto di spiegarmi il Patto in modo più completo, lo Schwur di cui aveva parlato. Non lo ha voluto fare finché non l’ho portata nella mia camera da letto, ho chiuso a chiave la porta e, anche allora, continuava a guardare nervosamente la finestra. Il suo racconto è stato così semplice eppure tanto stranamente elegante, che l’ho fermata e l’ho fatta parlare lentamente in modo da poterlo riportare qui, con le sue stesse parole:


Il racconto di Dunya Moroz


Questa è la storia del Patto con lo strigoi, che mia madre mi ha raccontato, proprio come sua madre l’ha raccontato a lei, e la madre di sua madre prima di lei.

Più di trecento anni fa, ora quasi quattrocento, lo strigoi era un uomo vivente, Vlad il Terzo, conosciuto ai più come Vlad Tsepesh, l’Impalatore, voievod della Valacchia del sud. Era molto temuto da tutti per la sua grande ambizione e la sua sete di sangue, e per i suoi crimini divenne conosciuto come Dracula, il Figlio del Diavolo.

Ci sono molte storie della sua terribile crudeltà, specialmente verso coloro che erano colpevoli di tradimento o di inganno. Alle adultere venivano tagliati gli attributi femminili, poi erano scuoiate come conigli e le loro pelli e i loro corpi appesi a pali separati dove tutti nel villaggio potessero vederle. Talvolta si infilava un palo tra le loro gambe fino a farlo emergere dalla bocca. Anche coloro che si opponevano politicamente a Dracula morivano in modo orribile, spellati vivi o impalati. A volte impalava le madri colpevoli attraverso i loro petti e inchiodava a loro con la lancia i loro sfortunati bambini. Non tollerava insulti al suo orgoglio. Si racconta che venne dall’Italia un gruppo di ambasciatori. Si tolsero il cappello ma, sotto, c’erano degli zucchetti che, secondo il loro uso, non toglievano mai, nemmeno davanti all’imperatore.

«Bene», disse Dracula, «permettetemi di rafforzare le vostre usanze», e ordinò che gli zucchetti fossero inchiodati ai crani di quegli uomini.

Nonostante la sua crudeltà, Dracula era rispettato dalla sua gente perché, durante il suo regno, nessuno osava essere disonesto, o rubare, o ingannare un altro, giacché tutti sapevano che la ricompensa sarebbe arrivata presto. Si diceva che si poteva lasciare tutto l’oro che si possedeva nella piazza del villaggio e non temere mai che venisse rubato. Dracula era anche ammirato per il suo comportamento onesto verso i contadini e la sua lotta coraggiosa contro i Turchi. Era un guerriero abile e coraggioso.

Ma venne il giorno che, nel mezzo di una campagna, uno dei suoi stessi servi, in verità una spia turca, lo tradì e lo uccise.

I suoi uomini lo credettero morto, ma la verità fu che Dracula aveva previsto la sua imminente sconfitta, poiché le forze ungheresi e moldave lo avevano da poco abbandonato, lasciandolo vulnerabile ai Turchi. Si dice che a quel tempo fosse così avido di sangue e di potere da stipulare un patto con il Diavolo per diventare immortale bevendo il sangue, in modo che potesse governare per sempre, e che avesse anticipato la sua stessa morte, sapendo che, subito dopo, sarebbe risorto.

Una volta che fu un morto vivente e un immortale, lo strigoi portò la sua famiglia al nord, dalla Valacchia alla salvezza della Transilvania, dove i Turchi non erano una grande minaccia e dove lui aveva minori probabilità di essere riconosciuto. Finse di essere il suo stesso fratello, ma la verità circa la sua identità cominciò a circolare sulla bocca della gente.

Presto si proclamò domnul di un piccolo villaggio. Era terribilmente crudele verso quei rumini che disobbedivano, ma generoso verso coloro che lo servivano con fedeltà. Ben presto vennero tempi difficili per gli abitanti del villaggio. Molti morirono per il morso dello strigoi e anche coloro che vivevano nelle cittadine circostanti erano terrorizzati.

Presto la popolazione diminuì, e i sopravvissuti scoprirono come tenere a bada lo strigoi. Alcune anime coraggiose tentarono persino di distruggerlo, e lo strigoi si spaventò pensando che la sua malvagia esistenza potesse giungere ben presto alla fine. Divenne anche difficile mantenere segreto tutto ciò che accadeva al castello.

Lui può controllare la mente di un uomo o di due, o anche di più allo stesso tempo, ma non può controllare le azioni e i pensieri di un intero villaggio. E così non riuscì più a mantenere il segreto su quello che stava accadendo al castello. Le storie si sparsero per tutta la Transilvania e presto corse il pericolo di morire di fame.

Così andò dagli anziani del villaggio e fece il Patto: lui non si sarebbe più nutrito con nessuno del villaggio e li avrebbe sostenuti più generosamente di qualunque altro domnul di tutto il paese, inoltre si sarebbe assicurato che i lupi non attaccassero le provviste, se, in cambio, essi lo avessero protetto, aiutato a nutrirsi di estranei, stranieri, e avessero mantenuto il silenzio riguardo al Patto.

Gli abitanti del villaggio accettarono, e la città prosperò; nessuno fu ucciso tranne quelle poche anime sciocche che disobbedirono. Una generazione fa, quando il mondo era diviso e moriva di fame a causa delle guerre di Napoleone, noi eravamo al sicuro e ben nutriti. Grazie allo strigoi, non siamo mai stati affamati in un paese che conosce la fame. Il bestiame e i cavalli non morivano più quando i lupi attaccavano in inverno, e i rumini vivevano bene, talmente bene che si stabilì l’usanza di offrire spontaneamente quei bambini nati troppo ammalati o deformi per sopravvivere, che adesso sono molti, poiché pochi forestieri si stabiliscono nel villaggio, essendosi sparsa per le campagne la notizia del Patto.

Accettò anche questo: nessun altro strigoi oltre lui, per il bene di tutti. Egli trapassa i loro corpi con dei pali, poi li decapita in modo che essi non risorgano come morti viventi.

Nonostante tutto il bene che ci ha portato, noi abitanti del villaggio lo temiamo; poiché ci sono molte storie sulle terribili punizioni che infligge a coloro che infrangono il Patto, che cercano di fargli del male, o che avvertono coloro che sono scelti come vittime. Nessuno che abbia cercato di distruggere lo strigoi è sopravvissuto. Molti al villaggio borbottano e gli augurano del male; borbottano e si ingrassano dei frutti dei campi dello strigoi.

Dicono anche che egli abbia stipulato un Patto simile con la sua stessa famiglia, un accordo secondo il quale lui non farà del male a nessuno dei suoi, mentre gli altri membri della famiglia potranno vivere nella beata ignoranza della verità.


A questo punto fummo disturbate dal bussare di Ilona, venuta a cambiare la biancheria. Dunya ha sussultato colpevolmente e se ne è andata subito; avrei voluto chiederle altro circa il Patto di Famiglia, ma lei è chiaramente riluttante a discuterne in presenza di altri domestici — e non fa meraviglia, poiché parlandomene rischia una terribile punizione — così dovrò aspettare.

Pensavo allo strano racconto di Dunya questa notte, mentre giacevo insonne preoccupandomi di Zsuzsanna, di mio marito, e di mio figlio, che presto nascerà in questa strana e spaventosa casa.

Nel mezzo della mia agitata veglia sono caduta in un improvviso stato di sogno, simile, ma più profondo e più difficile da scuotere via, a quello provocato dal laudano. Dapprima ho pensato che finalmente fosse arrivato il sonno, e l’ho accolto con gratitudine, poiché era assai gradevole.

Ho fluttuato in quello stato beato per un periodo imprecisato di tempo finché sono diventata gradualmente consapevole di una solitaria immagine ipnotica che dominava la mia coscienza: i profondi occhi verdi di Vlad.

Immediatamente mi sono forzata a svegliarmi e mi sono seduta intontita sul letto, con il cuore che batteva forte per l’ansia.

Sapevo — sapevo, sebbene non potessi spiegare come ero arrivata a una tale rivelazione — che egli era di nuovo con Zsuzsanna. Mi sono alzata, e a piedi nudi mi sono avvicinata furtivamente alle tende di velluto. La luce brillava sotto la porta, segnalando che Arkady era ancora dall’altra parte del corridoio, nello studio.

Ho alzato una mano per spostare di lato una tenda… Poi ho esitato dicendomi che ero ridicola dato che Dunya in quello stesso momento si trovava con Zsuzsanna nella sua stanza, e che la sua robusta e forte presenza nonché l’aglio assicuravano che non sarebbe accaduto loro alcun male.

Eppure non riuscivo a liberarmi dal presentimento di un pericolo. Timidamente, ho tirato indietro la tenda di un pezzetto e ho guardato attraverso la fessura.

La luna stava calando e la notte non era più così luminosa, ma i miei occhi erano abituati all’oscurità. Non ho visto niente sul terreno tra le nostre due camere e stavo proprio per lasciar andare la tenda e rimproverarmi di essere in ansia senza motivo, quando ho visto che le imposte di Zsuzsanna erano state aperte.

Mi sono sforzata molto per vedere ma, nell’oscurità, ho potuto essere sicura solo del fatto che le imposte erano aperte. Era impossibile giudicare se il vetro era stato aperto. Mi sono sporta ancora, con il naso che quasi toccava la finestra.

Una scura forma ringhiarne è comparsa all’improvviso dall’ombra e ha colpito il vetro con una tale forza che l’ha incrinato ad appena pochi centimetri di distanza dal mio viso.

Ho gridato per la sorpresa. L’aggressore è ricaduto all’indietro, ma si è ripreso e ha caricato nuovamente, premendo contro il vetro il muso e una lunga bocca piena di gialli denti aguzzi, scoperti in una ringhio terrificante.

Ho lasciato cadere la tenda e sono corsa verso la porta, ma nel frattempo Arkady l’aveva già spalancata. Con mia sorpresa brandiva una pistola, come se fosse stato pronto e armato per una simile emergenza. Ha allungato il braccio per allontanarmi dal pericolo e, seguendo il mio sguardo terrorizzato, ha tirato indietro la tenda e ha mirato con l’arma proprio mentre il lupo saltava per la terza volta, rompendo la finestra e facendola muovere nel telaio.

Ha fatto fuoco nell’oscurità, barcollando leggermente mentre l’arma rinculava nella sua mano; il vetro è andato in frantumi con un forte rumore cristallino. Mi attendevo di sentire un guaito, un lamento acuto, ma tutto fuori era silenzio. Ero troppo spaventata per avvicinarmi a sufficienza da sbirciare fuori, ma l’espressione interrogativa e incerta di Arkady disse che l’animale era semplicemente svanito. Egli si sporse e guardò attentamente fuori della finestra, e io mi avvicinai dietro di lui quanto più potei, facendo attenzione ai vetri con i miei piedi nudi, poi allungai il collo per vedere sopra la sua spalla.

Non c’era nemmeno una traccia dell’aggressore, tranne che per il vetro in frantumi, sporco di saliva.

Poi lui si voltò verso di me ed io confesso che, in quel momento, i miei nervi cedettero e feci qualcosa che non avevo mai fatto davanti a mio marito: piansi come un bambino isterico, terrorizzato. So che era terribilmente preoccupato nel vedermi così e volevo smettere immediatamente poiché lui ne aveva passate così tante di recente, ma trascorsero alcuni minuti prima che fossi in grado di controllarmi. Singhiozzando, lo supplicai di portarci via, a Vienna. Promise che lo avrebbe fatto, ma io so che lo disse semplicemente per tranquillizzarmi. Non riuscì, in quel momento, a sostenere del tutto il mio sguardo.

Ion e Ilona vennero a bussare alla porta avendo udito il colpo di pistola; Arkady li mandò via bruscamente, poi tirò fuori il laudano in uno sforzo disperato di calmarmi, ma ne bevve più di me.

Come posso permettermi di dormire? Nessuna creatura normale potrebbe aver saltato due piani per colpire il vetro. Sono così spaventata! Spaventata al pensiero di quello che sarà di Zsuzsanna; spaventata al pensiero di quello che sarà di mio figlio.

Sono stata avvertita.

No, peggio… sono stata apertamente minacciata. Lo so, poiché in quel terribile istante in cui il mio viso era separato da quel lupo ringhiante da meno di tre centimetri di vetro, ho guardato nel profondo dei suoi selvaggi occhi intelligenti.

Occhi affamati, irresistibili; occhi del verde più scuro della foresta.

Lui sa che l’ho visto là fuori; che ho capito di Zsuzsanna; che sto cercando di persuadere Arkady a portarci via. Dio mio, in qualche modo lo sa e, con l’istinto di una madre, so che non permetterà mai che io, mio marito o il bambino, lasciamo questo posto.


Il diario di Zsuzsanna Tsepesh


17 aprile. Le imposte sono tutte aperte.

Ero troppo debole per chiuderle, troppo debole per rimettere a posto l’aglio, troppo debole per continuare la farsa. Meglio così: ora, dal mio letto, guardo i primi raggi del sole che filtrano attraverso la foresta come burro fuso, attraversando la stanza grigia e silenziosa per cadere su Dunya che dorme sul monticello delle mie gambe sotto la coperta.

Le mie gambe forti, perfette!

La luce è così radiosa, così dorata, così amaramente bella, che la gola mi duole per lacrime che non verso. Questa è l’ultima alba che vedrò.

Con un particolare sforzo di volontà, ho trovato la forza di scrivere. Sono decisa a lasciare la testimonianza del mio passaggio.

Ma per chi?

Sto morendo. So che i miei polmoni cesseranno di respirare, e il mio cuore di battere; eppure sono certa che la fine a cui vado incontro non è veramente morte, né l’esistenza verso la quale mi avvio è veramente vita. Poiché io so tutto quello che lui sa, e la mia malinconia al pensiero di abbandonare questa breve, infelice e menomata esistenza, è moderata da un crescente timore, una crescente gioia: il mio sudario sarà una crisalide, da cui emergerò bella, perfetta, immortale.

La nostra comunione è completa. La notte scorsa sapevo quando Dunya sarebbe caduta sotto il suo incantesimo, sapevo il momento preciso in cui sarebbe arrivato. Mi ero liberata dalla costrizione della mia camicia da notte e lo attendevo presso la finestra, dentro il raggio del chiarore lunare, sollevando le braccia davanti ai miei occhi meravigliati, spalancati, ingannati dalla radiosità di quella luce argentea sulla pelle nuda: già vedevo delle scintille rosate e d’oro, l’inizio di quel glorioso fuoco opalescente nella mia propria carne.

Uscendo da quella magnifica lucentezza, lui mi apparve accanto. Non dissi nulla, ma sollevai i miei lunghi e pesanti capelli dal collo e glielo offrii, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta che vi si sarebbe nutrito. Si avvolse strettamente i miei capelli intorno alla mano e tirò la mia testa all’indietro, stringendo con l’altra mano la mia vita alla sua.

Di nuovo i suoi denti trovarono le minuscole e tenere ferite; io rabbrividii mentre affondavano rapidamente, abilmente, nella mia carne, quindi rabbrividii nuovamente quando la sua lingua cominciò a muoversi, dapprima con rapidità, per incoraggiare il flusso, poi più lentamente, con voluttà, ma suggendo forte, con una tale pressione che gemetti per il dolore.

Nonostante il disagio, non lottai, ma mi lasciai cadere immediatamente in quella profonda, deliziosa condizione di incoscienza, con il cuore che batteva di eccitazione al sapere (suo ed ora mio) che si sarebbe nutrito spietatamente, oltre la sazietà, che mi avrebbe nuovamente portato sull’orlo di quel precipizio puramente sensuale al confine con la morte… e poi oltre, attraverso il grande abisso.

Sentii anche il suo piacere, il piacere che avevo conosciuto io stessa due notti prima, l’estasi dell’estremo potere sulla vita e sulla morte di un altro, dell’estrema seduzione, del saziarsi della pura fame animale: della selvaggia e sanguinaria gioia della caccia e dell’uccisione.

E lui conobbe il mio rapimento e anche, nascosto, il mio lieve e amaro rimpianto nel lasciare questa vita senza averne assaporato pienamente i piaceri.

Fu allora che si fermò, avendo bevuto solo per poco tempo (ed ora, lo so, a sufficienza). Mi lagnai quando si ritrasse, ma ritornai silenziosa quando sollevò le labbra rosse e gocciolanti alle mie orecchie e bisbigliò:

«Zsuzsa…».

Udii i mondi contenuti in quell’unica parola. Udii la domanda che vi si celava e, nel mio sospiro, lui udì il mio consenso.

Mi lasciò andare i capelli; oscillarono, morbidi e liberi contro la mia schiena nuda. La mano alla vita allentò la presa ed io barcollai all’indietro, lottando per restare in equilibrio, ma non ancora debole, non ancora prosciugata della forza.

Eppure aveva bevuto abbastanza per essere fantasticamente potente.

Con la mano che aveva tenuto i miei capelli, si aprì i vestiti che lo separavano da me, non liberandosi completamente, ma mostrando di nuovo l’ampio petto, senza cicatrici, senza alcun segno della ferita che ci univa.

Mostrando molto, molto di più.

Oh, io ho vissuto una vita protetta, ma ho letto della petit mort, la piccola morte, e mi sono meravigliata del termine. Ho riso quando ho toccato lo strumento della mia esecuzione, diafano, freddo, liscio e duro come il marmo sotto le mie dita.

Rabbrividendo al mio tocco, leggero come quello di un ragno, si è unito a me ridendo piano, poiché vedevamo con la nostra mente la stessa visione, che io evocavo con i miei pensieri dai suoi antichi ricordi.

La foresta dei morti impalati, quattro secoli prima. Le mogli adultere e non pentite che aveva condannato a morte col suo potere come voievod. Come avevano gridato! Come avevano lottato quando erano state costrette a stare giù sulla schiena, contro il terreno primaverile coperto di fango fuori del castello mentre il sorridente e approvante Principe guardava. Per ogni donna c’erano cinque rumini grandi e grossi che la tenevano giù come una stella: due per inchiodare il busto e le braccia che si contorcevano, e altri due per afferrare ognuno un polpaccio scalciante onde tenere aperte le gambe.

E soltanto uno per conficcare il palo di pino (lungo dieci piedi, più largo del braccio di un uomo forte, e generosamente oliato, appuntito, per permettere una rapida entrata ma con la punta arrotondata abbastanza da far sì che la morte non fosse felicemente rapida) tra quelle cosce di puttana.

Non c’è nessuno che egli odi più dei traditori; nessuno che ami più di chi gli è leale.

Oh, che grida, mentre la giustizia penetrava le traditrici! Oh, le grida soffocate mentre i pali venivano issati in alto, fissati al terreno, e al peso del corpo era lasciato il compito di punire ancora più profondamente! Gli uomini che osavano tradire il voievod andavano incontro allo stesso destino in modo similmente metaforico, penetrati attraverso l’ano. A volte i condannati erano sospesi per giorni, durante i quali i pali fuoriuscivano dagli stomachi, o dalle gole, o, talvolta, più elegantemente, dalle bocche aperte, rese immobili dalla morte.

L’immagine lo riempì di un fuoco improvviso, che poi mi inghiottì e mi consumò. In quel momento, non volevo altro che essere penetrata in modo così totale; aprirmi e sentirlo emergere come un calice in fiore tra i petali delle mie labbra aperte.

La sua mano era immobile sulla mia schiena nuda all’altezza delle reni, ma lieve; io mi strinsi contro di lui, ansiosa, impaziente, misi le braccia intorno a lui, lo supplicai, lo pregai di prendermi: ora, ora, ora!

Lui non si mosse. Le sue labbra, scure del mio sangue, erano incurvate con aria astuta all’insù, e le palpebre pesanti abbassate su quegli occhi brillanti e seducenti. Sembrava giovane e bello come Kasha…; no, anche più giovane, e più innocentemente bello: era l’Arcangelo, il Portatore di Luce prima della Caduta. Scosse la testa, ed io compresi.

Non mi avrebbe preso. Io ero stata fino ad allora la seduttrice; io lo avevo chiamato a me. Lui aveva rotto il Patto solo per la mia insistenza, a causa del mio bisogno, e se doveva rompere dei tabù mortali, familiari, per consumare il nostro matrimonio nella carne, anche questo avrebbe dovuto essere compito mio. Io avrei dovuto prendere lui.

Rimase immobile, una statua di marmo mentre io chiudevo le dita dietro al suo collo muscoloso e mi issavo come una delle adultere condannate, alzando il mio busto dapprima troppo in alto, poi scendendo lentamente finché scoprii la posizione migliore.

Lo circondai con le gambe e, con un rapido e violento movimento, mi impalai. Impalai me stessa. Ancora e ancora…

Lui mi afferrò per i fianchi: le sue unghie, come coltelli, mi tagliarono la carne, e me lo spinse dentro finché non mi poté riempire oltre. Con una crudeltà che mi terrorizzò, tormentò e deliziò, mi lacerò il collo con i denti, trasformando le punture di spillo in ferite zampillanti. Il fiume caldo del sangue traboccava dalla sua bocca affamata e cadeva sul mio seno, sul mio stomaco, scendendo giù fin dove noi due eravamo uniti.

Mi dibattei contro di lui mentre beveva finché la mia pelle fu resa appiccicosa dal sangue; finché fui esausta e fremente di piacere; finché fui stordita, debole, e ancora una volta sopraffatta da quel senso stranamente languido ed estatico dell’approssimarsi della morte. Le braccia mi caddero all’indietro, troppo deboli per afferrarsi al suo collo. Lui mi sosteneva da solo, con una mano aperta sui fianchi, l’altra tra le scapole.

Infine si allontanò dal mio collo e di tra le mie gambe, e mi depose a terra accanto alla finestra aperta. Io fissavo in cielo la luna calante, e la sua lucentezza accecante mi faceva male agli occhi, ma non riuscivo a staccare lo sguardo dalla sua brillante bellezza dal colore sfavillante. Vedevo dei colori dappertutto: nella luna luccicante e madreperlacea, nelle stelle, nel gruppo di sempreverdi molto più lontano, che non erano mai stati visibili al mio sguardo da quella distanza. Vedevo i blu e i rossi vivaci della mia coperta, vedevo il verde degli occhi di Vlad mentre si chinava per ripulire, con la sua rosea lingua, il mio corpo dal sangue che si rapprendeva. La mia vista nell’oscurità era più acuta, più eccezionale di quella di un rapace.

E udivo tutto: ogni agitarsi nella foresta lì fuori, persino il russare di Arkady nella camera di fronte alla mia. Udivo il movimento lieve delle lenzuola mentre Mary si agitava nel letto e, seppi che era sveglia. Udii il battere del mio stesso cuore, tanto assordante quanto dolorosamente piacevole e, lì vicino, il battito regolare del cuore di Dunya e il suo respiro stertoroso. Potevo sentire il calore della sua carne, l’odore del sangue vivente mischiato con il mio… il sangue che si raffreddava del moribondo, il sangue di chi stava cambiando.

E poi lo zio…

No, non mio zio. Mio marito si scostò dal mio corpo ormai senza macchia e fece scorrere la sua lingua sulle sue labbra insanguinate. Guardando nel profondo dei miei occhi, disse:

«Non è ancora finito».

Capii e, con uno sforzo tormentoso, sollevai un braccio verso la sua testa e la guidai al mio collo.

Sorprendentemente, i profondi squarci si erano completamente richiusi. Non sentivo dolore, né tenerezza, solo la sensazione della sua lingua contro la carne liscia, intatta; e poi, sentii le sue labbra muoversi contro la mia pelle mentre sorrideva. Anch’io sorrisi, debolmente, poiché sapevo che voleva dire che il Cambiamento era quasi completo.

Eppure esitò. Poi mi sfiorò con le labbra mentre scendeva con la testa oltre il bordo della clavicola, giù fino al mio seno.

Circondò il capezzolo con la lingua, poi si fermò, per posarvi con delicatezza i denti, finché sentii che il più acuminato di essi incideva il centro di quella carne roseo-bruna.

Nonostante la mia debolezza, provai un’improvvisa eccitazione nel capire quello che stava per fare. Intrecciai strettamente le dita tra i suoi capelli sulla nuca e lo strinsi contro di me.

Mi incise ancora. Per l’ultima volta mi mancò il respiro quando sentii i denti affondare, aguzzi, in quella tenera pelle scura così vicino al mio cuore. Succhiò dal mio seno come un bambino causando, con ogni tirata della bocca e della lingua, un nuovo palpito di piacere tra le mie gambe. Cullai la sua testa tra le braccia, simile a un’amorevole madonna che offriva la sua linfa vitale a quell’infinitamente vecchio e saggio sapiente-bambino, mio progenitore. Bevve finché le mie braccia caddero e io non potei più cullarlo, finché discesi in un rapimento indistinto, irreale, in un’estasi oscura, indifferente.

Per ore, non riconobbi nulla. Ricordo il suono distante di un’esplosione, ma era soltanto una debole onda d’argento contro il profondo sfondo vellutato dell’oscurità.

Poi, proprio prima dell’alba, emersi dalla mia trance e scoprii che se n’era andato e mi aveva lasciato, vestita con la mia camicia da notte, nel letto. Ero consumata da un bisogno insistente di scrivere questo, la mia ultima registrazione, e così ho preso il diario nascosto sotto il cuscino, e la penna e l’inchiostro dal mio tavolino da notte.

Talvolta provo un moto di paura nel comprendere che la morte è così vicina da essere a portata di mano; ma poi chiudo gli occhi e permetto a me stessa di bere della sua costante presenza, della sua intelligenza senza fondo, e so che non sono sola. Sapere ciò che presto diventerò mi conforta. Vado alla tomba vittoriosa, certa della mia resurrezione.

A chiunque legga queste parole: non piangete per me e non giudicate. La vita verso la quale vado è molto più dolce di quella che ho conosciuto.


Il diario di Arkady Tsepesh


17 aprile. È mattino inoltrato, quasi le dieci. Mary si è alzata ed è scesa al piano di sotto. Scrivo queste parole a letto, fissando fuori la brillante luce del sole che entra attraverso la finestra aperta.

Sperando di dissipare la tristezza, ho tirato le tende, ma dal mio comodo punto di vista contro i cuscini, posso vedere la luce che si riflette sul vetro rotto e segnato. Gli orrori della notte scorsa — di fatto, tutta la disordinata confusione delle sconcertanti rivelazioni di ieri — sembrano lontani, velati dalla persistente nebbia mentale causata dal laudano.

Pensare che questo pezzetto di vetro rotto era tutto quello che c’era tra mia moglie, mio figlio e la morte!

Mary era completamente fuori di sé dal terrore ieri notte, e anch’io lo ero ma, per confortarla, l’ho tenuto nascosto. Mentre leggevo nello studio, un lupo ha fatto un salto in direzione della finestra quando lei stava guardando dal vetro. Se avesse oltrepassato il vetro…

Non riesco nemmeno a scrivere quelle parole, non riesco nemmeno a pensare al danno più lieve a lei o al bambino. La notte scorsa ha pianto mentre mi pregava ancora di portarla via da qui, e la vista di lei in quello stato mi ha straziato il cuore. Ho promesso che l’avrei fatto.

Ma non riesco a vedere un modo per poterlo fare. Anche così, devo tentare. Non ho mai visto Mary isterica… ma mai nella mia vita ho udito di un lupo solitario che attacca un uomo in modo così audace. In quei preziosi momenti quando la razionalità ritorna, riesco a considerarlo un evento strano, casuale, tanto insignificante quanto causa di turbamento.

Ma Mary continuava a ripetere, in preda al parossismo, che era un avvertimento, dicendo che quella creatura avrebbe facilmente potuto ucciderla se lo avesse voluto, che l’ha risparmiata per dare forza alla sua minaccia. Non mi ha voluto dire chi, o che cosa, lei crede l’abbia avvertita, tranne che il Male stesso.

Le sue parole mi hanno fatto pensare alle zampe del lupo contro le mie spalle, al suo respiro caldo sulla mia gola. I lupi non sembrano che un simbolo, un avvertimento della follia che è in attesa, ansiosa di divorarmi.

Se credessi in Dio, Gli chiederei di prendere me e di risparmiare la mia famiglia. Posso capire perché i contadini sentano il bisogno di un genitore onnipotente, un divino cane da guardia — che inferno sapere che non c’è un potere più grande di me per proteggere mia moglie e mio figlio — io, che sono debole e estremamente inaffidabile, sull’orlo di un collasso mentale!

Questa mattina presto, nella grigia luce dell’alba, ho aperto brevemente i miei occhi assonnati, e ho visto, impalata sulla colonna del letto ai miei piedi, la testa di Jeffries. Guardava in giù, ridendo con lo stesso sorriso maligno, ironico, di Stefan, quando era apparso nella sedia dello zio.

Credo che io, lo zio, Zsuzsanna e tutti gli Tsepesh, portiamo la pazzia nel nostro sangue. Dopo gli eventi di ieri, ne sono convinto.

La notte precedente all’ultima mi sono finalmente deciso a gettare la lettera di V. nel fuoco. Ieri, all’alba, ho lasciato la casa in calesse e mi sono diretto a Bistritz pieno di agitazione e fiducia. Quando ho raggiunto la città, poco prima delle due, la mia agitazione è diminuita con il crescere della fiducia, ed ho provato un eccezionale sollievo quando ho porto all’albergatore la lettera sigillata che avevo scritto, per informare i visitatori di non venire.

L’albergatore è un uomo piacevole, con il viso rotondo, pesante, ma dai lineamenti da falco che indicano i nostri lontani legami di sangue; mi ha riconosciuto immediatamente, poiché io e Mary avevamo trascorso una notte gratis nel suo albergo, e mi ha accolto caldamente, sebbene fosse curioso riguardo al motivo per cui fossi venuto io e non Laszlo.

Mentre gli davo la lettera, ho mormorato una vaga risposta sul fatto che avevo altri affari in città. Lui mi ha ringraziato quando l’ha ricevuta, dicendo che il momento non poteva essere migliore, poiché gli ospiti dovevano arrivare un po’ più tardi quel pomeriggio. Sorrisi appena sapendo che pensava contenesse le istruzioni per incontrare la carrozza di Laszlo.

L’albergatore insistette nel servirmi il pranzo “della casa” e, dopo, portai la lettera per l’avvocato all’ufficio postale. Tutto era andato senza intoppi, ed io trassi un enorme conforto nel sapere che gli sposini sarebbero stati protetti dal male. Restava soltanto una cosa.

Eppure, quando entrai al posto di polizia e mi avvicinai al ragazzo alto in uniforme dietro la prima lunga scrivania di legno, cominciai a provare una certa trepidazione, poiché non c’era alcuna prova concreta che legasse Laszlo ai delitti, tranne il fatto che aveva sgraffignato alcune delle cose di Jeffries e aveva mentito circa una gallina. Era la mia parola contro la sua. E come potevo provare la non colpevolezza dello zio in tutto ciò? Come potevo provare che io non ero pazzo e non ero l’assassino? Dopotutto, sapevo dove si trovavano i teschi…

Improvvisamente perduto, fissai i manifesti sul muro accanto a lui: delle riproduzioni artistiche di fuggiaschi, criminali, pazzi.

Osservai quei visi duri, torvi, in cerca di somiglianze, di qualche particolarità nella bocca o nel luccichio degli occhi che indicassero un assassino, un uomo impazzito: qualche chiaro segno che avevo visto in precedenza sul volto di Laszlo.

«Signore?», chiese il giovane jandarm.

Aveva i capelli chiari e mi scrutava attraverso gli occhiali rotondi con degli occhi di un blu stupefacente. Il suo tono era glaciale, apertamente condiscendente, a dispetto del fatto che il mio vestito e il mio atteggiamento mi indicassero come nobile, istruito e ricco. Poteva appartenere a una classe inferiore, essere trasandato e povero, con un’istruzione inferiore e un innato risentimento verso la mia influenza e ricchezza, ma era un sassone: questo era ciò che lo rendeva il conquistatore di un tempo e che rendeva me il conquistato. Era il suo unico vantaggio, e non voleva che sfuggisse alla mia attenzione. C’era anche della noia nel suo tono; l’ennui di uno che ne ha viste così tante che non esistono più sorprese per lui.

Quando distolsi lo sguardo dai manifesti, vidi passare due ufficiali in uniforme, entrambi a fianco di una donna tzigana molto ubriaca e scalza, che sarebbe caduta se non l’avessero tenuta saldamente per le braccia.

Arrossii e distolsi gli occhi mentre passavano, poiché la camicia della donna si era lacerata al colletto e si apriva fino alla vita, rivelando al di sotto parecchi fili di perle a poco prezzo ma nessun altro indumento. I capelli neri erano sfuggiti dal fazzoletto, che era scivolato giù e pendeva, in procinto di cadere. Sul suo viso c’erano sangue e sporcizia, come se avesse combattuto nel fango e, sebbene riuscisse a malapena a camminare, continuava a mugugnare e a scagliarsi con violenza contro gli uomini che la sostenevano, come se volesse morderli.

Gli ufficiali tiravano indietro i loro volti abbastanza rapidamente, ma ridevano con disprezzo per mostrare che non avevano paura. Mentre oltrepassavano me e il loro collega seduto, uno disse, sorridendo:

«Dice che è posseduta dallo spirito di un lupo. È spirito, certo: vino a buon mercato».

I tre uomini risero, ma la donna faceva resistenza, riluttante a procedere, e sollevò un braccio che, oscillando, puntò direttamente verso di me.

«Lui non ride; lui capisce» sibilò. «Lui è uno di noi!».

Mi gelai: ero stato scoperto.

Ridendo, i due ufficiali la trascinarono via; il giovane sassone dietro alla scrivania mi guardò con un sorrisetto condiscendente ma usò il tono e l’appellativo più educati possibile mentre faceva un gesto per indicare la sporca sedia di legno dall’altra parte della scrivania.

«Prego, sedete Dumneavoastra….

«Tsepesh», risposi rigidamente, e lanciai alla sedia sudicia uno sguardo incerto. Sembrava che qualcuno vi avesse di recente sputato sopra, e quando, infine, mi ci sedetti, provai una sensazione di leggera umidità.

«Che cosa desiderate denunciare, Domnule Tsepesh?», pronunciò il nome «Tzepezh».

Omicidi, volevo dirgli. Quanti? Non lo so. Troppi perché li possa contare… Invece, gli dissi:

«Vorrei parlare con il Conestabile, per favore».

Il suo sorriso teso si allargò un po’ ma una leggera durezza comparve nel suo sguardo.

«Ah! Sono certo che il Conestabile vorrebbe parlare con voi, mio buon signore, ma in questo momento è occupato in un affare molto urgente. Vi assicuro che vi posso assistere in qualsiasi cosa voi…».

«Lo devo vedere, se è possibile…».

«Vi assicuro che non lo è».

«Capisco».

Mi alzai, mi aggiustai i vestiti, poi tesi la mano.

«Bene. Allora, buongiorno».

All’apparenza leggermente sorpreso dalla mia precipitazione, si alzò e mi strinse la mano, poi prese di nascosto la corona d’oro che vi si trovava e, con il più abile e ben esercitato dei movimenti che io abbia mai visto, la fece scivolare nella tasca.

Mi voltai e finsi di muovermi verso la porta.

«Un momento, signore», disse, ancora in piedi dietro la scrivania. «C’è una piccola possibilità che il Conestabile abbia finito con i suoi affari e sia libero. Vado a controllare, se permettete».

Lo guardai.

«Prego», gli dissi.

Entro un minuto, ritornò e disse, con un atteggiamento considerevolmente più cordiale:

«Il Conestabile vi vedrà adesso».

Lo seguii lungo uno stretto corridoio di porte chiuse fino a una stanza all’estremità, ed entrai quando tenne la porta aperta per me, con quella rigida formalità teutonica di cui a noi Transilvani piace così tanto fare la parodia nelle nostre barzellette. Quando ebbi varcato la soglia, la porta si chiuse silenziosamente dietro di me.

L’uomo dietro la scrivania era un compatriota, più basso e pesante del suo collega più giovane.

«Domnule Tsepesh», disse a voce bassa. La sua voce e il suo atteggiamento erano meno formali, molto più calorosi di quelli del giovane sassone. Di fatto, c’era una strana familiarità nel suo tono, e pensai di distinguere nei suoi occhi un lampo che indicasse che mi riconosceva; annuì debolmente tra sé, mentre mi esaminava con lo sguardo. Eppure, ero certo di non averlo mai visto prima. Doveva essere della stessa età di papà: aveva una testa di ondulati capelli d’argento, ma le sopracciglia e i baffi arricciati erano quasi interamente neri, cosa che conferiva al suo viso un’apparenza severa e drammatica. «Io sono il Conestabile Florescu. Entrate. Vi stavo aspettando».

Quella frase assurda mi imbarazzò per un momento — la sua attesa non poteva essere durata più di qualche secondo — ma avanzai e gli strinsi la mano. La sua stretta era calda e ferma, e mi studiò con una certa emozione negli occhi scuri che notai, di tanto in tanto, durante la nostra conversazione, nella sua espressione, nella sua voce, e nel suo atteggiarsi. Mentre ero con lui, cercai di darle un nome e non ci riuscii: la sua identità mi è sfuggita finora, mentre scrivo queste parole.

Pietà. Mi guardava con pietà.

Florescu mi fece cenno di sedere (questa volta su una sedia imbottita e molto più pulita di quella dell’ufficio esterno), cosa che io feci. Anche lui si sedette, incrociò le mani sulla scrivania, poi si chinò in avanti, fissandomi con uno sguardo che era, del tutto stranamente, non professionale: gentile, quasi paterno, ma anche preoccupato, pensieroso, prudente.

«Allora», disse con un’inconfondibile riluttanza, temperata dalla rassegnazione. «Forse dovrei lasciarvi dire perché siete venuto».

Sebbene avessi ripetuto il mio piccolo discorso parecchie volte durante il percorso, le parole che avevo scelto mi abbandonarono in quell’istante. Balbettai:

«È… è una faccenda molto delicata. Dovrei presentarmi. Il mio prozio è Vlad Tsepesh…».

Florescu fece un solo, solenne cenno.

«Il Principe. Sì, ne ho sentito parlare».

«Sono venuto qui, non tanto per fare delle accuse quanto per… dare con discrezione un aiuto a un’indagine. Il Principe si arrabbierebbe se sapesse che sono venuto qui; non voglio che ciò si rifletta su di lui, in alcun modo. Credo, però, che uno dei suoi servi sia colpevole di un crimine. Di fatto, di parecchi…».

«Che crimine sarebbe?», mi interruppe, ma il suo tono era calmo.

«Assassinio», risposi, ed emisi un lungo sospiro.

La sua risposta fu misurata, controllata, nient’affatto affrettata: la risposta decisi, di un uomo che ha udito tante orribili confessioni che nessuna lo può più scioccare. Non si ritrasse, non si tirò indietro, ma restò perfettamente immobile, con le mani intrecciate, facendo domande e osservandomi con la compostezza di un professore che fa un esame orale.

«E chi credete che abbia commesso questi omicidi?».

Ebbi la sensazione che fosse un attore, che recitasse un ruolo già provato e, al di sotto delle sue parole, percepii una sconcertante corrente nascosta di vere emozioni: pietà, dispiacere. Il desiderio di essere d’aiuto.

«Il cocchiere di mio zio», risposi. «Laszlo Szegely. Anche se, probabilmente, ha avuto qualcuno che lo ha aiutato».

«Perché fate una tale accusa?». Era di nuovo calmo, misurato. «Lo avete visto mentre commetteva quei delitti? Avete prove?»

«L’ho visto con alcuni oggetti che appartenevano al defunto, e con del sangue fresco su una manica che non era il suo, alcune ore dopo la scomparsa dell’uomo. Questa mattina presto, l’ho visto che lasciava il castello con un fagotto abbastanza grande da poter contenere un corpo». Mi fermai, rabbrividendo nel pensare alla forma quadrata del fagotto; se era il povero Jeffries, era stato già fatto a pezzi. «Forse, non è abbastanza per impiccarlo, ma la mia speranza era che se voi poteste svolgere delle indagini discrete, trovereste abbastanza prove per imprigionare l’assassino. Io non ho nient’altro, tranne il mio stesso istinto riguardo al carattere di quell’uomo. C’è qualcosa di… criminale in lui. Almeno, se poteste investigare su di lui…».

«Non c’è bisogno di farlo», disse bruscamente il Conestabile. Si curvò in avanti, il tono e lo sguardo estremamente seri. «Io vi posso raccontare di Laszlo Szegely. Se siete certo di voler sapere la verità sulla faccenda».

La sorpresa mi fece calare la voce fino a un bisbiglio.

«È naturale…».

Mi chinai in avanti, gli occhi spalancati, pronto a sentire.

«Szegely», disse Florescu e fece un debole sorrisetto che svanì con la rapidità con cui era apparso. «Di mestiere è un macellaio. Mai sposato, niente figli. Venne da noi da Budapest, perché sperava di sfuggire alle autorità di quel posto».

«Per un omicidio?», chiesi subito.

Scosse la testa d’argento.

«Furti nelle tombe».

«Lo ha fatto anche a Bistritz? L’avete preso?».

Il Conestabile annuì.

«Avreste dovuto metterlo dietro le sbarre e tenerlo lì», dissi, con una voce bassa, cattiva, che tremava. «Forse nei villaggi di montagna non ci sono abbastanza cadaveri per lui, perché ha cominciato a creare dei morti. Li ho trovati io stesso. La foresta è piena di teste sepolte».

Incapace di continuare, fissai, inorridito, le mie mani, pensando a Jeffries, e a tutti quei minuscoli, piccoli teschi.

Florescu ed io rimanemmo seduti in silenzio per un buon minuto; riuscivo a sentire su di me il suo sguardo, che mi compativa, che mi squadrava. Stava pensando. Lo udii che rovistava nella sua scrivania, che tirava fuori qualcosa. Udii un fiammifero che si accendeva, parecchie forti tirate, poi sentii l’odore del fumo e del fragrante tabacco da pipa.

Infine il Conestabile disse, molto debolmente, molto gentilmente:

«Domnule Tsepesh, voi assomigliate molto a vostro padre».

Alzai la testa, sorpreso.

Gli occhi di Florescu si addolcirono, ma non riuscì a sorridere.

«Lui venne qui, proprio come avete fatto voi, più di venticinque anni fa; oserei dire che non eravate ancora nato. Naturalmente, a quei tempi, non ero capo jandarm, ma lo ricordo perché era molto turbato e, naturalmente, perché io fui uno dei due scelti per ritornare con lui a cercare i corpi nella foresta».

Lo fissavo, ammutolito, incapace di comprendere. Laszlo aveva lavorato al castello solo due anni. Come era possibile…?

Il Conestabile rimase in silenzio affinché le sue parole facessero breccia, e poi aggiunse:

«Ma io fui l’unico uomo a ritornare a Bistritz. Sarebbe meglio per voi, domnule, se dimenticaste di aver mai visto quelle cose. Sarebbe meglio per entrambi».

Mi alzai offeso.

«Come potete dire una cosa simile, quando mia moglie, la mia famiglia, vivono vicino a un assassino?».

Florescu si limitò a guardarmi e tirò dalla sua pipa: la sua faccia divenne una maschera dagli occhi stretti, illeggibile.

«Che volete?», domandai infuriato. «Del denaro? Io sono ricco! Posso pagare più di chiunque altro vi abbia comprato!».

«Nessuno mi ha pagato», replicò con tranquillità, senza un’ombra di offesa. «Almeno, non con qualcosa di poco valore come il denaro. Però è vero; ho fatto in modo che Szegely riavesse la libertà soltanto due anni fa, dietro richiesta di qualcun altro».

«Chi?»

«Vostro padre».

Sospirai e mi lasciai cadere sulla sedia, troppo sbalordito e offeso per parlare, per protestare. Florescu continuò calmo da dietro un velo di fumo di pipa.

«Proprio come un giorno verrete voi, domnule Tsepesh, molto probabilmente dal mio successore, quando Laszlo morirà e voi dovrete fare i vostri accordi». Il suo tono divenne familiare, confidenziale. «Ora siete giovane e ci sono cose che ancora non capite. Ma le capirete. Ci sono delle volte che non è bene lottare contro l’inevitabile. Più lottate, più sarà difficile per voi. Per la vostra famiglia.

Forse un giorno vostro figlio verrà a far visita al mio successore, che andrà in quella stessa foresta. E porterà degli uomini, dei fucili, ma il risultato sarà lo stesso: soltanto un uomo ne emergerà, e quell’uomo vedrà che la sua promozione a questo ufficio si verificherà molto facilmente.

Io ho passato la mia vita a dispensare la giustizia, ma ci sono delle situazioni che vanno oltre il limite della legge… dell’uomo o di Dio. Io non tornerò in quella foresta. Non sono un uomo intelligente, ma imparo rapidamente quando è in gioco la mia vita».

Si fermò e, in quell’istante, cercai di parlare, ma lui ricominciò a parlare rapidamente.

«Non c’è niente che possiate fare, capite? Niente che noi possiamo fare». Si alzò e attraversò la stanza dalla scrivania alla porta; il suo tono divenne falso e forte, come se parlasse a beneficio di coloro che potevano essere in ascolto. «Adesso vi chiedo di andarvene. Sono solo sciocche dicerie questa faccenda di un assassino nella foresta. I contadini hanno raccontato queste stupide leggende per centinaia di anni. Tutti, alla polizia, lo sanno e, se voi ne parlate a chicchessia, rideranno se direte perché siete venuto.

Capite, domnule Tsepesh? È stato tutto sistemato, molto tempo prima che voi nasceste. Andate a casa e prendetevi cura della vostra famiglia».

Girò la maniglia e spalancò la porta.

Mi alzai, con il viso paonazzo, soffocando, non permettendomi, in quel momento, di capire.

«No. No, io non capisco. E andrò fino a Vienna, se devo…!».

La sua voce si abbassò, tranquilla, piena di dispiacere e senza traccia di rabbia. Piena di quella odiosa pietà.

«Ed io informerei i miei superiori che siete un pazzo. Vi assicuro, domnule, che nulla verrebbe fatto. Proprio come vi assicuro che non sono io che vi minaccio quando dico: «Per amore della vostra famiglia, non fate così».

Me ne andai tremando dalla furia, e mi diressi verso i Carpazi.

Dapprima, per lo shock e la rabbia, mi dissi che Laszlo doveva avere degli amici sinistri alla gendarmeria: un gruppo di criminali con un’influenza così grande che lo stesso Conestabile li temeva e faceva delle velate insinuazioni riguardo ad essi. Florescu era un bugiardo, un dannato bugiardo che era complice di ognuno dei delitti per il suo rifiuto di indagare. Non riuscivo a credere a niente di quello che aveva detto, e certamente non alla sua vile insinuazione che papà sapesse qualcosa dei trascorsi di Laszlo!

Decisi che l’unico logico modo di agire era di informare V. circa il passato di Laszlo, e della strana reazione del Conestabile alla notizia dei corpi nella foresta; così, sentivo, lo avrei convinto della necessità, per noi tutti, di trovare rifugio dal pericolo a Vienna, mentre informavo le autorità di quel luogo.

Non riuscivo a credere che l’influenza di Florescu arrivasse tanto lontano.

E poi, mentre le ore passavano sulla lunga strada verso casa, mi calmai e cominciai a pensare.

C’erano stati troppi teschi nella foresta per essere stata l’opera di un uomo nel corso di due anni. Io ne avevo portati alla luce almeno cinquanta, la maggior parte di bambini, e mi ero fermato soltanto perché non avevo la forza, fisica o mentale, di continuare. Quanti non ne avevo trovati, sparsi nell’infinita foresta?

Scoppiai in singhiozzi di rabbia, grato per la riservatezza fornita da quella solitaria strada di montagna, mentre ricordavo l’affermazione di Florescu che mio padre si fosse accordato per il rilascio di Laszlo. Per un momento osai permettermi di pensare che il capo dei jandarm avesse detto la verità, ma perché papà si sarebbe consapevolmente accordato per il rilascio di un tale uomo? Un uomo capace di occuparsi dell’eliminazione di cadaveri? Perché, se non era anche lui complice dei delitti?

Guidai i cavalli oltre il passo di montagna con difficoltà, incapace di pensare a causa di un terrore freddo e senza nome. Il pomeriggio lasciava il posto al crepuscolo. Il tramonto doveva essere tanto bello da mozzare il fiato, con il chiarore rosato che si rifletteva sui picchi coperti di neve, dipingendo l’intero paesaggio in fiore di una radiosità soprannaturale, ma io non vidi nulla di tutto ciò. Udii nella testa la voce di Masika:

«Vieni da me, Arkady Petrovich, durante il giorno, quando lui dorme. Non è sicuro per noi parlare qui, all’aperto. Vieni presto…».

Non era più giorno, ma mi sentii spinto a parlarle immediatamente, per sapere quella verità che in quel momento non riuscivo nemmeno a pensare, ma che il mio cuore tormentato sapeva essere vera.

Prima che raggiungessi il villaggio, tutto era coperto dalla notte; le strade erano vuote, e le file di piccole casupole erano scure. Non avevo idea di dove potessi trovare Masika Ivanovna, ma il mio disperato desiderio di parlarle era troppo forte per arrendermi e tornare a casa. Accesi la lanterna nel calesse e, avvantaggiandomi senza vergogna della mia condizione di nipote del Principe, bussai alla prima porta che trovai con l’intenzione di chiedere dove si trovasse Masika.

Non ci fu risposta; la presi come un’indicazione che gli abitanti della casupola fossero addormentati, e così chiamai a voce alta. Continuando a non avere risposta, aprii la porta con una spinta tenendo alta la lanterna, ed entrai, solo per vedere che quel tugurio era stato completamente abbandonato e il suo contenuto portato via.

Passai alla casa accanto, soltanto per trovare la stessa strana circostanza… e alla casa dopo, e a quell’altra ancora. Al quarto tentativo, però, ebbi successo. Il contadino addormentato che vi si trovava non mi fece entrare ma, invece, mi gridò le indicazioni dall’altra parte della porta di legno chiusa con il chiavistello.

Mi affrettai verso la casa di Masika: una casetta con un tetto di paglia pieno di topi, i cui occhietti luccicavano alla luce della mia lanterna. All’unica finestra, brillava una debole luce ma, quando bussai forte alla porta, non ci fu risposta, nessun rumore dall’interno. Mi feci più deciso e chiamai il nome di Masika mentre battevo forte ma, in risposta, ebbi solo silenzio.

Infine, spinsi la porta. Essendo aperta, si spalancò; entrai e vidi Masika Ivanovna ancora vestita con gli abiti del lutto, seduta al suo tavolo da pranzo rozzamente squadrato. Era caduta in avanti nella sedia e la fronte e il braccio erano poggiati sul tavolo; a pochi centimetri dalla testa avvolta in uno scialle c’era una candela, consumata fino alla base della bugia tanto che la cera era colata sul legno e il pezzetto che restava dello stoppino scoppiettava con un’ultima fiamma blu. Sotto la mano aveva un pezzo di carta piegato; accanto una piccola icona di San Giorgio, e sul pavimento sporco e ricoperto di paglia intorno a lei, c’era un cerchio quasi perfetto fatto di sale. Chiaramente, si era addormentata in attesa di qualcuno che non era ancora venuto.

Rabbrividendo leggermente allo scricchiolio del sale sotto gli stivali, mi portai accanto a lei, le toccai la spalla e dissi piano:

«Masika Ivanovna. È Arkady Tsepesh; non aver paura».

Lei non si mosse. Le scossi la spalla, dapprima con dolcezza, poi con più insistenza, alzando la voce finché divenne un urlo; finché realizzai che non si sarebbe svegliata mai più.

Allora la sollevai afferrandola per entrambe le spalle e con delicatezza la rimisi a sedere per bene sulla sedia. Il crocifisso che le avevo restituito al funerale di Radu ora era appeso al suo collo e oscillò per un attimo nell’aria.

Le parole non possono descrivere l’orrore che vidi congelato su quel dolce volto sciupato, in quegli occhi grandi, sporgenti; era lo stesso terrore angoscioso che avevo visto nella testa tagliata di Jeffries. Eppure Masika non portava alcun segno visibile sulla sua persona.

Toccai la mano ormai fredda sul tavolo, l’afferrai, poi caddi in ginocchio accanto a lei e piansi, sentendo come se avessi di nuovo perduto una madre la cui tenera compagnia non avevo mai conosciuto.

Quando mi alzai, asciugandomi gli occhi, vidi sul tavolo il foglio piegato che era stato nella mano di Masika e vi lessi il mio nome, scritto in una calligrafia che non riconobbi. Incuriosito, presi la lettera e la spiegai per leggere:


Al fratello che non conoscerò mai,

Scrivo questo per conto di nostro padre, Petru, che fu incapace di dirti la verità prima della sua morte. Egli diceva che la tua innocenza ha protetto la tua vita e quelle di tua sorella e di tua moglie; temeva di raccontarti tutto perché, diceva, Vlad ti era troppo vicino, e avrebbe compreso immediatamente che tu eri stato avvertito e si sarebbe vendicato. Io, però, rischio, raccontandoti tutto in segreto, perché spero che la conoscenza ti risparmi la vita all’inferno dove si trova nostro padre.

Mia madre dice che Vlad ancora non ti ha parlato del Patto di Famiglia, ma il momento verrà presto. Quando lo farà, ricorda: non credere a nulla di ciò che dice, poiché lui mentirà se gli sarà di vantaggio. Ti dirà che rispetta il Patto per un senso di onore, o di amore per la Famiglia, ma ciò è falso. Quello che i contadini dicono è vero. Lui è uno strigoi, un mostro senz’anima, un assassino, e il Patto, per lui, non è altro che un gioco; lo rispetterà finché per lui vi sarà un vantaggio.

Tuo padre, per lungo tempo, ha creduto che Vlad possedesse del buono nel suo cuore ma, in verità, il Principe non conosce che il male. È come un vecchio lupo che ha commesso così tanti assassini da averne a noia, e deve trovare nuovi piaceri.

Distruggere l’innocenza è uno di essi. Ora gioca con te, come giocò con tuo padre quando era giovane, e con suo padre prima di lui. Questo svago è per lui sempre nuovo, poiché ne può godere soltanto una volta in una generazione. Ti dirà che ti ama, ma in realtà desidera soltanto corromperti, piegarti come fece con papà.

Con tutto il mio cuore, ti prego: fuggi da lui. Scappa prima che distrugga la tua anima.

Ma fai attenzione e sii saggio, e sappi che il fallimento ti può costare i tuoi cari. Papà cercò di fuggire e, come vendetta, gli furono presi tua madre e tuo fratello, Stefan. Ma io credo che ci sia ancora tempo per te, se sei astuto e cauto, e se capisci che Vlad non è degno di fiducia. Io crederò, fino al giorno della mia morte e oltre, che l’amore può vincere ogni sorta di male.

Ora devo finire in fretta, sebbene ci sia molto altro da dire, ma non posso restare nella casa di mia madre, per la sua sicurezza, quando il sole è tramontato. Devo andare.

Ti prego, fratello. Non essere tanto astuto da non poter pregare per te stesso.

Radu


Caddi nuovamente sul pavimento, sedendomi sulla fredda terra dura, lasciando che la lettera mi cadesse in grembo. Lo shock di entrambe le cose, la morte di Masika e il contenuto della lettera, mi diede la chiarezza di un pazzo; per la prima volta vidi come i pezzi si incastravano strettamente. Tutti quei teschi, l’insolenza di Laszlo, le storie dei contadini che V. era un mostro assetato di sangue (naturalmente, non esistevano cose come i Vampiri, ma non presi l’uso da parte di Radu della parola strigoi, in senso letterale, dato che ciò avrebbe spiegato l’origine della leggenda), la furia di V. per il fatto che potessi interferire con i suoi ospiti, la sua insistenza nel non raccontare alle autorità…

Non poteva che esserci una sola conclusione. V. era un assassino, e mio padre suo complice, entrambi sofferenti di quella follia familiare che aveva cominciato a infettare anche me. Gridai al pensiero che anch’io ero destinato a sprofondare in quella pazzia, che le mie mani sarebbero state un giorno macchiate di sangue.

Siete un Impalatore? Uno degli uomini-lupo?

«No», bisbigliai. «No…».

Mi rimisi in piedi a fatica, ficcando la lettera nel mio panciotto, e mi arrampicai di nuovo sul calesse, ansioso di allontanarmi da quel villaggio misteriosamente deserto. Arrivai al castello dopo poco, sebbene fosse, in quel momento, passata la mezzanotte.

Nervoso, sudando nonostante il freddo della notte, mi diressi senza indugio alla porta dello studio di V., con la pistola nascosta sotto il panciotto. Bussai: V. chiese chi fosse come sua abitudine, e io risposi secondo il solito.

«Arkady!», esclamò giovialmente, dall’altra parte del pesante legno. «Nipote, vieni!».

Misi la mano sull’ottone lucidato della maniglia e girai.

Un lampo d’argento. Mio padre che abbassa il coltello, tagliando la mia tenera carne. E dietro di me, un trono…

Il dolore cancellò l’immagine. Strinsi gli occhi finché se ne andò…

Li riaprii per vedere la familiare figura di V. nel suo studio: una vista che non sarebbe mai stata, che non avrebbe potuto mai sembrare esattamente la stessa. Come sempre, c’era un fuoco acceso nel camino, e la stanza sapeva di rinchiuso ed era spiacevolmente calda. Mi passai una mano sulla fronte e la tolsi che era bagnata, poi chiusi la porta dietro di me.

V. sedeva sulla sua sedia, con le mani sui braccioli, ma questa volta non mi salutò; di fatto, non sembrò nemmeno alzare lo sguardo, ma tenne la sua attenzione fissa sul fuoco scoppiettante. Accanto al suo gomito, sul tavolino, c’era ancora la caraffa scintillante di slivovitz. Con riluttanza spostai lo sguardo da essa a V., che fissava dritto davanti a sé nelle fiamme scoppiettanti, con espressione immobile e illeggibile come pietra.

Era ancora giovane come l’ultima volta che l’avevo visto: un uomo di cinquant’anni, invece che ottanta. Eppure non potevo permettermi di reagire, di essere turbato o spaventato da questo chiaro segno della mia stessa incipiente pazzia; il problema in questione era molto più urgente.

«Zio», dissi tranquillamente. La questione richiedeva un tono stridulo, agitato ma il silenzio imperante nella stanza mi riempì di una improvvisa riluttanza a romperlo. «Mi dispiace di disturbarti ma c’è una questione della massima urgenza che devo discutere».

V. non diede segno di aver udito; i suoi occhi non si mossero mai dall’oggetto della sua attenzione. Questo comportamento era talmente strano da parte sua da essere snervante, ma io mi costrinsi a continuare:

«Ha a che fare con la terribile scoperta che ho fatto nella foresta».

Parlò, fissando ancora nelle fiamme. La sua voce era bassa e mite ma aveva un’affabilità sinistra, di quel tipo che si sente nel profondo e mortale ringhio di un cane proprio prima che attacchi.

«Tu mi tradiresti».

«Cosa?», bisbigliai.

Il mio battito aumentò a ciò che presi per un’ammissione di colpa.

Si girò bruscamente nella sedia, come un serpente, per fronteggiarmi con gli occhi infiammati dai riflessi della luce del fuoco; l’espressione pietrificata si era ora trasformata in rabbia assassina.

«Tu mi tradiresti! Dove sono le lettere?».

Rimasi a bocca aperta, sbalordito fino ad ammutolire per la sua furia esplosiva, sbalordito che lui sapesse.

«Bugiardo!», gridò, con tale forza che sapevo che il grido si sarebbe udito per tutto il castello. Le parole sembravano sgorgare da lui, da una fonte di odio che correva così profonda da farlo rabbrividire mentre gridava. «Ingannatore! So che non hai dato le lettere a Laszlo, come ti avevo chiesto!».

La luce del fuoco scintillò, riflettendo gli spruzzi di saliva che accompagnavano le sue parole come veleno.

La sua rabbia era una cosa terribile, ma per il suo bene, per il bene di Mary, per il bene di noi tutti, non potevo più permettermi in sua presenza, di tremare come un bambino. I morti nella foresta non potevano più essere ignorati. Se lui li aveva uccisi, caro zio o meno, pazzo o no, doveva essere fermato.

Mi raddrizzai, sollevai il mento, e non permisi alla mia voce di tremare quando dissi:

«Io stesso ho portato le lettere a Bistritz».

«E le hai impostate entrambe? Non mentirmi, Arkady! Ti avverto: io non tratto teneramente i bugiardi!».

Per un momento considerai se sarebbe stato più semplice mentire, e persuaderlo con l’inganno, ma avrebbe ben presto saputo la verità, quando i suoi ospiti non sarebbero arrivati.

«Ho impostato la lettera per l’avvocato», ammisi. «Ma la lettera per gli ospiti…».

«L’hai distrutta!».

Senza vacillare, lo guardai negli occhi.

«Sì».

Si voltò con un lungo sibilo, con la furia che gli ribolliva negli occhi mentre fissava nuovamente il fuoco.

«Zio», dissi, con gentile fermezza, «ho fatto così perché sono enormemente preoccupato per il tuo bene, per quello di Mary e di Zsuzsa. Per quello del bambino. Non permetterò che la mia famiglia viva con… con tali orrori che la circondano».

Di nuovo si voltò verso di me, mezzo alzandosi dalla sedia mentre tuonava:

«Ma io non ti ho giurato che non ti sarebbe venuto alcun danno? Non l’ho giurato, sul nome della nostra Famiglia?».

Dracula, pensai, o Tsepesh? Ma non lo dissi, perché avrebbe soltanto protratto la discussione e compresi, in quel momento, perché poteva, con tale certezza, garantire la nostra sicurezza.

Vidi la follia nei suoi occhi e mi lacerò il cuore; seppi, allora, che egli era, almeno, consapevole degli omicidi, se non ne era l’autore stesso.

«Non l’ho giurato?», domandò V. «Rispondi!».

«L’hai fatto, ma, zio…».

«Come hai potuto non credermi? Come hai potuto credere che ti avrei mentito o che sarei stato sleale? Ti ho detto di non andare a Bistritz, ma tu insisti nel disobbedire! Ti ho detto di non interferire mai con i miei ospiti! Quest’unica legge… e tu l’hai infranta ancora!».

Si alzò e, presa la caraffa sul tavolino, mentre guardavo con orrore, si mosse come per gettarla nelle fiamme, poi si voltò e la scagliò, così che volò sulla mia testa e colpì la porta chiusa dietro di me, frantumandosi con uno spruzzo luccicante di cristallo e slivovitz alla prugna.

Indietreggiai e mi feci schermo con un braccio, a malapena riuscendo a non farmi male; se avesse mirato un po’ più in basso, mi avrebbe colpito. E poi, con molta lentezza, alzai la testa e mi ripulii le spalle dalle schegge di cristallo e dal liquore, e lo guardai con occhi brucianti.

Con il cuore che mi batteva forte dall’orrore di dover porre a lui, che amavo, una tale domanda, gli chiesi lentamente:

«I morti nella foresta, zio. Com’è che sono lì? Come sono morti?».

La sua rabbia si era in parte placata, ma il petto gli si sollevava ancora leggermente e il suo volto era arrossato. Gli occhi si socchiusero mentre mi osservava intensamente, dicendo, con terrificante calma:

«Qualche volta tu assomigli troppo a tua madre, Arkady. Devi imparare a non essere così ostinato. Devi imparare a non occuparti degli affari degli altri».

Le ginocchia mi si piegarono, come se il terreno stesso su cui stavo mi cedesse sotto i piedi; in qualche modo riuscii a rimanere in piedi, ma non riuscii a emettere altro che un bisbiglio soffocato.

«Che cosa stai dicendo?».

«Che non ha senso occuparsi di ciò che giace nella foresta. Sarebbe più saggio che dirigessi la tua attenzione verso i tuoi affari. Ora vai! Vai e considera attentamente il tuo errore, in modo che tu possa evitare tali idiozie in futuro».

Me ne andai, sbalordito e pieno d’orrore sentendo come se il mondo stesso si fosse rovesciato all’improvviso, come se fossi circondato da un oscuro male che girava turbinosamente, da un vortice di follia che presto mi avrebbe tirato giù per farmi affogare…

Ma questa non è la fine del mio attuale orrore e disperazione. Mi sono appena alzato, spinto da un inspiegabile impulso, e ho scoperto nella tasca del mio panciotto la lettera di Radu, e la lettera che io avevo scritto per dare istruzioni ai visitatori di non venire al castello. Mio Dio, la mia memoria non mi appartiene più? Ho soltanto sognato che ero riuscito a bruciare la lettera di V. nel fuoco? E se è così, quale lettera ho dato all’albergatore a Bistritz? Se i visitatori vengono…

Sto impazzendo. Pazzo quanto deve essere stato il mio caro padre nello scoprire una tale malvagità, pazzo come mio zio, il mio gentile, generoso, affettuoso zio. Vorrei cancellare la ragione, forzare la mente a fermare il suo incessante lavorio, la sua inevitabile conclusione che gli omicidi sono stati l’opera di, almeno, decenni, e quindi Laszlo non può esserne il solo responsabile. Né lo può essere stato mio padre, poiché morì prima che Jeffries apparisse.

Oh, dèi! V è un assassino, non il mostro immortale della leggenda come pretendono i contadini ma, nondimeno, è un mostro, e io sono stato suo inconsapevole complice nel far venire qui Jeffries.

Cosa posso fare? Nonostante le pretese di Radu (inclusa quella assurda riguardo a Stefan; mio fratello è stato ucciso non da V. ma da un cane, una tragedia di cui sono stato testimone con i miei stessi occhi) è difficile credere che V. farebbe del male a qualcuno della sua famiglia; l’oggetto della sua follia sembrano essere gli estranei…

… e i poveri bambini storpi e rifiutati sacrificati a lui dai contadini (in cambio della loro sicurezza?). Sono combattuto tra il proteggerlo e il consegnarlo alle autorità di Vienna; come posso tradire il mio caro benefattore? Almeno, devo tentare di procurargli un dottore, uno specialista che lo possa aiutare. Ma non posso permettere…

Non ho tempo di finire! Ho appena alzato lo sguardo e ho visto, attraverso la finestra aperta, Laszlo che guida la carrozza verso il castello. E all’interno, due visitatori! Per la loro sicurezza, andrò da loro immediatamente…

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