CAPITOLO SETTIMO SALAMANDRA

Non è simpatico sapere che Ender riesce a fare l’impossibile?

La morte di un giocatore ha deleteri effetti cumulativi sulla sua mente. Ho sempre pensato che il Drink del Gigante fosse il gioco più pericoloso da questo punto di vista. Ma accanirsi sul suo occhio a quel modo… è questo il nostro miglior candidato al comando della Flotta?

Non vedo cosa ci sia di male nell’aver vinto a un gioco truccato.

Suppongo che adesso lei lo trasferirà.

Stavamo aspettando di vedere cos’avrebbe fatto con Bernard. Se l’è cavata perfettamente.

Così, appena riesce a risolvere una situazione lei lo mette di fronte a un’altra che non sa come affrontare. Non gli lascerà un po’ di riposo?

Avrà un mese o due, forse tre, di tranquillità col suo gruppo. È un periodo abbastanza lungo, nella vita di un bambino.

Non hai mai l’impressione che questi non siano bambini? Io osservo quel che fanno, ascolto ciò che dicono, e non mi sembra che abbiano molto di infantile.

Sono i più brillanti bambini del pianeta, ciascuno a suo modo.

Ma non dovrebbero comportarsi come bambini? Non sono normali. Agiscono come… personaggi storici. Napoleone e Wellington. Cesare e Bruto.

Noi dobbiamo occuparci del destino del mondo, non di curare i cuori infranti. Lei è troppo compassionevole.

Il generale Levy non aveva compassione per nessuno. Tutti i filmati ce lo confermano. Ma non faccia del male a questo ragazzino.

Sta scherzando?

Voglio dire, non gli faccia più male di quanto è necessario.


A cena, Alai andò a sedersi di fronte a Ender. — Finalmente ho capito come hai mandato quel messaggio. Quello firmato Bernard.

— Io? — si schermì Ender.

— Avanti, e chi altro? Bernard non è stato di certo. E Shen non è un genio col computer. E io non l’ho fatto. Chi resta? Non importa. Ho capito che hai iscritto uno studente nuovo. Non hai fatto che aggiungere all’elenco un ragazzo di nome Bernard Zero-Zero, BERNARD-spento, in modo che il computer non possa né tenerlo presente nei programmi, né eliminarlo come un errore.

— Sembra un’ipotesi che può funzionare — disse Ender.

— Sicuro che funziona. Ma tu l’hai fatto praticamente il giorno del nostro arrivo.

— Io o qualcun altro. Forse è stato Dap, per impedire a Bernard di diventare capogruppo.

— Ho scoperto anche un’altra cosa. Non posso fare lo stesso con il tuo nome.

— Ah, sì?

— Qualsiasi messaggio con la parola Ender viene cancellato appena scritto. E non sono neanche riuscito a farmi mandare sullo schermo il tuo fascicolo personale. Tu hai inserito un sistema di sicurezza.

— Forse.

Alai sogghignò. — Mettere le mani sui dati e sulle registrazioni altrui è fin troppo facile. E conosco altri che ci riescono. Io ho bisogno di proteggermi, Ender. Ho bisogno del tuo sistema.

— Se ti do il mio sistema saprai come metterlo in atto, e saprai come ottenere e manipolare tutti i dati che riguardano me.

— Vuoi dire io? — finse di scandalizzarsi Alai. — Il migliore amico che tu abbia qui dentro?

Ender rise. — Studierò un altro sistema per te.

— Adesso?

— Se mi lasci finire di mangiare.

— Tu non lo finisci mai quel vassoio.

Era vero. Dopo ogni pasto, sul vassoio di Ender avanzava sempre un po’ di cibo. Lui guardò il piatto e decise d’essere già sazio. — Va bene, andiamo.

Quando furono in camerata, Ender si gettò a sedere sulla sua cuccetta e disse: — Stacca il tuo banco e portalo qui. Ti farò vedere cosa devi fare. — Ma quando Alai fece ritorno con la sua scrivania elettronica Ender era sempre seduto nello stesso posto, e il suo armadietto era ancora chiuso.

— Che c’è? — domandò Alai.

Come tutta risposta Ender poggiò una mano sullo scanner dell’armadietto. Comparve una scritta: «Tentativo d’accesso non autorizzato». E lo sportello non si aprì.

— Qualcuno ha imparato a ciurlarti nel manico, piccolo — disse Alai. — Qualcuno ti ha dato una fregatura.

— Sei sicuro di volere ancora il mio sistema di sicurezza? — brontolò lui. Si alzò dal letto e uscì in corridoio.

— Ender — lo chiamò l’altro.

Lui si volse. Alai gli stava mostrando un cartoncino rettangolare.

— Che cos’è?

Alai si strinse nelle spalle. — Non lo sai? Era sul tuo letto. Forse ci stavi seduto sopra.

Ender prese il cartoncino e lo lesse.

ENDER WIGGIN
ASSEGNATO ALL’ORDA DELLE SALAMANDRE
COMANDANTE BONZO MADRID
DECORRENZA IMMEDIATA
CODICE VERDE VERDE MARRONE
Gli oggetti personali
non saranno trasferiti

— Tu sei in gamba, Ender, ma in sala di battaglia non sei affatto migliore di me.

Lui scosse il capo. Vedersi dare una promozione era la cosa più assurda che mai avrebbe potuto pensare. Nessuno veniva promosso prima di aver compiuto otto anni. Ender non ne aveva ancora sette. E di solito i novellini erano trasferiti in gruppi alle orde, molte delle quali aumentavano così gli effettivi contemporaneamente. Ma non c’erano ordini di trasferimento su nessuno degli altri letti.

Proprio quando le cose si stavano mettendo bene. Proprio quando Bernard cominciava a diventare sopportabile per tutti, perfino per lui. Proprio quando Alai si stava rivelando un vero amico. Proprio quando la sua vita diventava finalmente facile da vivere.

Ender fece scostare Alai dalla cuccetta, ma non si mise a sedere al suo posto.

— L’orda delle Salamandre è in sala di battaglia, comunque — disse Alai.

Ender era così infuriato per quel trasferimento così inopportuno che gli stavano salendo le lacrime agli occhi. Non devi piangere, si disse.

Alai notò le sue palpebre inumidite, ma ebbe il tatto di ignorarle. — Sono delle teste di cavolo, Ender. Arrivano perfino al punto di non lasciarti portare via le tue cose.

Lui riuscì a trovare un sorriso che scacciò le lacrime. — Dici che devo lasciare qui la tuta e andarmene nudo come un verme?

Anche Alai rise.

D’impulso Ender lo abbracciò strettamente, quasi come se fosse Valentine. E l’improvviso desiderio di rivederla gli fece desiderare d’essere a casa. — Non voglio andarmene — disse.

Alai gli restituì l’abbraccio. — Io li capisco, Ender. Tu sei il migliore di noi. Forse hanno fretta d’insegnarti tutto il possibile.

— Non so cosa vogliano insegnarmi — mormorò Ender. — So soltanto che volevo sapere cosa significa avere un amico.

Alai annuì gravemente. — Amici una volta, amici per sempre — dichiarò. Poi sorrise. — Vai a fare a fettine gli Scorpioni, d’accordo?

— Sicuro. — Ender gli restituì il sorriso.

Ad un tratto Alai lo baciò su una guancia, e mormorò: — Salaam! — Poi, rosso in volto, si volse e tornò alla sua cuccetta in fondo al locale. Ender si disse che quel bacio e quella parola dovevano essere qualcosa di proibito. Una delle religioni soppresse, forse. Oppure la parola doveva contenere qualche segreto e potente significato per Alai. Ma qualunque cosa avesse inteso, Ender sapeva che l’amico la riteneva sacra e che gli aveva rivelato il suo animo, così come gli era accaduto una sera con sua madre, prima che gli mettessero il monitor nella nuca, quando credendolo addormentato s’era seduta sul bordo del suo letto e gli aveva poggiato le mani sulla testa, pregando sottovoce per lui. Ender non ne aveva mai fatto parola con nessuno, neppure con lei, ma ne aveva conservato un ricordo profumato di mistero sacro, la consapevolezza che sua madre lo amava così profondamente da non osare dirlo se non ai suoi occhi addormentati. Questo era ciò che Alai gli aveva dato; un dono così sacro che neppure a lui era concesso comprenderne il significato.

Dopo una cosa simile null’altro poteva essere detto. Alai si gettò sulla cuccetta e volse su di lui uno sguardo pacato. I loro occhi s’incontrarono come quelli di due fratelli. Poi Ender uscì.

Nessun sentiero verde verde marrone lo attendeva in quella zona della Scuola; avrebbe dovuto cercare i colori in uno dei locali più frequentati. Ma gli altri sarebbero usciti di mensa da lì a pochi minuti, e lui non se la sentiva d’incontrarli. La sala dei giochi invece doveva essere praticamente deserta.

Nell’umore in cui era, nessun gioco gli parve più molto attraente; così andò allo schermo di una delle scrivanie pubbliche in fondo al locale e lo accese, chiedendo la sua partita personale. Subito fece correre la sua figura fino alla Terra delle Meraviglie. Adesso, ogni volta che giungeva lì, il Gigante era un cadavere. Per scendere dal tavolo dovette saltare dapprima su una gamba dell’enorme sedia rovesciata, quindi si calò cautamente al suolo. Per un po’ c’erano stati dei topi, occupati a rosicchiare il corpo del Gigante, ma Ender ne aveva ucciso uno con uno spillo tolto dall’abito sgualcito del colosso, e da allora lo avevano lasciato in pace.

Il corpo del Gigante era pressoché ai limiti della decomposizione. Ciò che poteva esser mangiato via dagli animali necrofori era consumato; i vermi avevano compiuto il loro lavoro negli organi interni; adesso non restava che una mummia disseccata dalle orbite vuote, coi denti scoperti in un sogghigno scheletrico e le dita come artigli ricurvi. Ender ripensò alla ferocia con cui gli aveva aggredito l’occhio quando era vivo, malizioso e intelligente. Irritato e frustrato come si sentiva, desiderò poterlo di nuovo attaccare e uccidere. Ma ormai il Gigante era divenuto parte di quel panorama, e odiarlo non aveva più alcun senso.

Ender era già stato oltre il ponte al castello della Regina di Cuori, dove c’erano da giocare partite abbastanza divertenti, ma in quel momento nessuna di esse lo attirava. Aggirò il cadavere del Gigante e seguì il ruscello controcorrente, fino al punto in cui emergeva dalla foresta. Là c’era un tipico parco giochi, con i toboga e le altalene, la pista di pattinaggio e alcune giostre, e dozzine di bambini stavano cicalando e ridendo. Ender si avvicinò e s’accorse che la sua figura aveva perso certe caratteristiche adulte trasformandosi in quella di un bambino. Anzi era ancor più piccola e giovane degli altri ragazzetti.

Si mise in fila per il toboga. Gli altri bambini lo ignorarono. Salì la scaletta fino in cima e attese che quello davanti a lui si fosse gettato giù lungo la liscia spirale che terminava al suolo. Poi sedette e si spinse in avanti.

Non stava scivolando neppure da un istante quando si trovò ad atterrare nella sabbia sotto l’incastellatura. Il toboga non lo voleva su di sé.

Anche le altalene rifiutavano la sua presenza. Poteva sedersi e cominciare a muoversi, ma appena l’oscillazione aumentava il sedile diventava incorporeo e lui cadeva. Il ponticello sullo stagno lo lasciò precipitare in acqua mentre attraversava. Provò una delle giostre, che partì normalmente; quando però essa cominciò a girare forte e Ender cercò di aggrapparsi le maniglie si smaterializzarono e la forza centrifuga lo scaraventò al suolo.

E gli altri bambini: le loro risate erano rauche, offensive. Fecero circolo intorno a lui, gli rivolsero gesti derisori e prima di tornare ai loro giochi lo insultarono beffardamente.

Ender provò l’impulso di colpirli, di afferrarli e gettarli nel ruscello. Invece si inoltrò nella foresta. Trovò un sentiero, che poco dopo si allargò in un’antica strada lastricata in pietra, aggredita dalle erbacce ma ancora praticabile. Su ambo i lati c’erano possibili buone partite da giocare, ma Ender non s’impegnò in alcuna di esse. Voleva vedere dove portava la strada.

Ciò che si trovò davanti fu una radura con un vecchio pozzo al centro, e su di esso un cartello che diceva: «Dissetati, viandante». Ender andò a guardare nel pozzo. In quell’istante udì un ringhio. Dalla foresta erano sbucati una dozzina di lupi avidi di sangue, ed avevano volti umani. Ender li riconobbe: erano i bambini che l’avevano deriso. Ma adesso avevano zanne fatte per sbranare, e senza un’arma con cui opporsi Ender fu subito sopraffatto e divorato.

La sua figura successiva apparve, come di regola, nello stesso luogo, e fu di nuovo fatta a pezzi dai lupi, benché Ender avesse tentato di gettarsi nel pozzo.

Nella partita che seguì venne riportato indietro nel parco giochi. I bambini stavano ridendo intorno a lui. Ridete pure finché volete, pensò Ender. Ora so chi siete. Agguantò una di loro. Lei lo seguì, irosamente, fino al toboga e si lasciò spingere in cima alla scaletta. Poi Ender si gettò giù con lei. Come in precedenza si ritrovò di colpo al suolo, ma anche la bambina era precipitata insieme a lui e al momento dell’impatto s’era trasformata in un lupo, che adesso giaceva stordito o morto sulla sabbia.

Uno dopo l’altro Ender trascinò i piccoli licantropi in quella trappola. Ma prima che avesse finito di eliminare l’ultimo i lupi ripresero vita, e non si mutarono in bambini. Ender fu sbranato nuovamente.

Questa volta, scosso e sudato, ritrovò la sua figura in piedi sul tavolo del Gigante. Potrei anche averne abbastanza, si disse. E dovrei presentarmi al comandante dell’orda.

Ma invece fece scendere la figura sulla sedia e al suolo, aggirò il corpo del Gigante e si diresse al parco giochi.

Stavolta, non appena i bambini si mutarono in lupi sotto il toboga, Ender li trascinò via e li gettò nel ruscello. A ogni tuffo i corpi sfrigolavano come se l’acqua fosse acido. I lupi furono distrutti, e una grossa nuvola di fumo scuro fluttuò via dalla zona. Nello stesso modo dovette disfarsi di altri bambini, che avevano preso a inseguirlo verso l’antica strada. Nella radura non trovò lupi in agguato, cosicché entrò nel secchio del pozzo e usando la carrucola si calò fino in fondo.

Nella caverna aleggiava una penombra rosata nella quale sfavillavano mucchi di gioielli. Passò oltre, e notò che alle sue spalle degli occhi balenavano fra le gemme. Una tavola coperta di cibarie non destò il suo interesse. S’inoltrò fra numerose gabbie, appese al soffitto della grotta, ognuna contenente creature strane dall’aria abbastanza amichevole. Giocherò con voi più tardi, pensò Ender. Sul fondo si trovò davanti a una porta che recava inciso, in lettere verdi e scintillanti:

LA FINE DEL MONDO

Senza pensarci sopra spinse il battente e passò oltre.

Dovette fermarsi subito. Si trovava su uno stretto cornicione roccioso, alto sulla parete di un burrone, di fronte a un immenso panorama di boschi su cui stagnavano i colori dell’autunno, qua e là chiazzato dall’ocra scuro dei campi ormai mietuti. C’erano stradicciole, carri trainati da buoi, piccoli villaggi sonnolenti, e un castello che in distanza si stagliava contro il cielo, così alto che le nuvole s’infrangevano nei picchi rocciosi alla base delle sue mura. Alzò gli occhi e vide che il cielo era il soffitto di un’immensa caverna, dove nidi di cristalli luccicavano fra le stalattiti.

Dietro di lui la porta si chiuse. Ender studiò quello scenario con meraviglia. Era così bello che la sua perenne attenzione contro il pericolo si rilassò. Al momento gli importava poco di quali partite si potessero giocare in quel posto. L’aveva scoperto lui, e contemplarlo era il suo premio. Così, senza nessun timore per le conseguenze, saltò giù dal cornicione.

La mossa lo mandò a precipitare in picchiata verso le rapide spumeggianti di un torrente, fra cui si levavano rocce acuminate, ma una nuvola avanzò a interporsi fra lui e il disastro, lo raccolse e lo portò via. Quel singolare tappeto volante lo condusse fino alla terre del castello, e quindi direttamente dentro una delle finestre che vi si aprivano. Fu deposto al suolo in una stanza di pietra, priva di porte e senza botole sul soffitto o sul pavimento. L’unica uscita era la finestra, che offriva soltanto una mortale caduta da grande altezza.

Pochi momenti prima s’era tuffato in un burrone con cieca incoscienza, ma stavolta esitò.

Quello che era parso un pezzo di legno davanti al caminetto si svolse dalle spire, rivelandosi per un lungo serpente i cui denti scintillavano di veleno.

— L’unica uscita dalla stanza sono io — disse. — La morte è la tua sola via di fuga.

Ender si stava guardando attorno in cerca di un’arma, quando all’improvviso lo schermo diventò nero. Su di esso lampeggiò una scritta:

SUBITO A RAPPORTO DAL COMANDANTE
SEI IN RITARDO
VERDE VERDE MARRONE

Seccato, Ender spense la scrivania, andò agli indicatori colorati accanto alla porta e premette la striscia verde verde marrone, poi seguì il sentiero che s’era acceso davanti a lui. Il verde chiaro, il verde smeraldo e il marrone terroso del nastro gli ricordarono l’autunno del regno che aveva appena scoperto. Devo ritornarci, disse a se stesso. Quel lungo serpente è come una corda, posso usarlo per calarmi dalla torre e trovare la soluzione di quel posto. Forse si chiama la fine del mondo perché è la fine della partita, perché io potrei entrare in uno di quei villaggi e diventare uno dei ragazzini che lavorano e giocano laggiù, senza nulla che mi possa uccidere e senza nulla da uccidere, soltanto per vivere là.

Ma a quel pensiero non fu capace di immaginare cosa poteva significare per lui «soltanto vivere». Era un’esperienza che non gli sembrava di aver mai fatto prima. Comunque fosse, desiderava farla.


Le orde erano più numerose dei gruppi dei nuovi arrivati, e le camerate in cui risiedevano erano molto più grandi. Quella era di larghezza normale, ma così lunga che si poteva vedere la lieve curvatura verso l’alto del pavimento, il quale seguiva la circonferenza esterna della Scuola di Guerra.

Ender si fermò all’ingresso. Alcuni ragazzi al di là della porta gli gettarono un’occhiata, ma erano alquanto più grandi di lui e parve che i loro sguardi lo trapassassero senza vederlo. Proseguirono nella conversazione, in piedi o seduti sulle loro cuccette. Stavano discutendo di qualche battaglia, ovviamente. I ragazzi più anziani non parlavano di sciocchezze. Ed erano molto più alti di lui: quelli di dieci o undici anni lo sovrastavano, e lo stesso si poteva dire per i più giovani, quelli di otto anni. Ender non era certo alto per la sua età.

Cercò di capire chi di loro fosse il comandante, ma quasi tutti erano seminascosti oltre i letti a castello, alle prese con le loro tute da battaglia e con quelle che i soldati chiamavano «uniformi da notte», calzamaglie che coprivano dalla testa ai piedi. Molti di essi avevano tirato fuori il loro banco, ma pochi erano occupati a studiare.

Ender fece un passo avanti. E nell’istante in cui oltrepassò la porta una mano si alzò a dargli l’alt.

— Cosa cerchi? — chiese il ragazzo che aveva la cuccetta superiore accanto all’ingresso. Era il più alto di tutti. Ender lo aveva già notato alla mensa: un giovane gigante con già qualche rado peluzzo sul mento. — Tu non sei una salamandra, pivello.

— Dovrei esserlo, invece, credo — disse Ender. — Verde verde marrone, giusto? Sono stato trasferito. — Intuendo che il ragazzo aveva mansioni di guardia alla porta, gli mostrò il cartoncino.

La guardia allungò una mano. Ender lo ritrasse, appena fuori portata. — Credo di doverlo consegnare a Bonzo Madrid.

Alla conversazione si unì un altro ragazzino, di statura inferiore agli altri ma sempre più alto di Ender. — Non bahn-zoe, testa di rapa: Bon-zo. È un nome spagnolo. Bonzo Madrid. Aqui nosotros hablamos español, Señor Gran Fedor.

— Bonzo sei tu, allora? — chiese Ender, pronunciando correttamente il nome.

— No. Io sono una poliglotta di luminoso talento. Petra Arkanian. L’unica femmina dell’orda delle Salamandre. Ma con più palle che chiunque altro in questa stanza.

— Ha parlato Petra, la bocca di pietra — esclamò un ragazzo. — Udite, udite, tutti voi!

Un altro ridacchiò. — Petra, bocca di pietra, bocca di merda, parla di merda!

Soltanto pochi risero.

— Resti fra me e te, ragazzo — disse Petra, — ma se dovessero fare un clistere alla Scuola di Guerra ficcherebbero la cannuccia nel verde verde marrone.

L’umore di Ender peggiorò. Aveva già parecchi svantaggi a suo carico: un addestramento scarsissimo, la giovane età, l’inesperienza, il rancore che altri avrebbero provato per la sua precoce promozione. E adesso, per soprammercato, si stava facendo la più sbagliata delle amicizie, una sorta di paria fra le Salamandre, la quale aveva visto in lui un altro possibile disadattato con cui fare coppia contro il resto dell’orda. Davvero una bella giornata di lavoro, pensò. Per un attimo, mentre girava lo sguardo su quei volti ironici e sogghignanti, gli parve di vederli coprirsi di peli fra cui biancheggiavano zanne pronte a mordere. Sono io l’unico essere umano qui dentro? Questi sembrano animali capaci soltanto di azzannare il prossimo.

Poi ripensò ad Alai. In ogni orda, sicuramente, c’era almeno qualcuno che valeva la pena di conoscere.

In quel momento, benché nessuno l’avesse ordinato, le risate tacquero e nella camerata cadde il silenzio. Ender si volse alla porta. Sulla soglia c’era un ragazzo alto e snello, di pelle olivastra, con due splendidi occhi neri e labbra su cui aleggiava un sorrisetto sofisticato. Questo ragazzo ha del fascino, disse qualcosa in fondo alla mente di Ender. Vorrei vedere nel modo in cui i suoi occhi vedono.

— Chi sei? — domandò il ragazzo a bassa voce.

— Ender Wiggin, signore — disse lui. — Trasferito dal mio gruppo all’orda delle Salamandre. — Gli porse il cartoncino.

Il ragazzo lo prese con un movimento fluido e sicuro, senza sfiorargli le dita. — Quanti anni hai, Wiggin? — chiese.

— Quasi sette.

Sempre a bassa voce l’altro osservò: — Ti ho chiesto quanti anni hai, non quanti non ne hai ancora.

— Ho sei anni, nove mesi e dodici giorni.

— Quanto hai lavorato in sala di battaglia?

— Pochi mesi soltanto. Aspiro a migliorare.

— Addestramento in manovre belliche? Hai mai fatto parte di un branco? Sei mai stato inserito in azioni di gruppo?

Ender non aveva neppure sentito parlare di cose simili. Scosse il capo.

Madrid lo guardò negli occhi. — Capisco. Come avrai modo d’imparare presto, gli ufficiali in comando alla Scuola, e particolarmente il maggiore Anderson che sovrintende alle gare, appezzano l’arte di dare colpi bassi all’avversario. L’orda delle Salamandre si appresta ad emergere da un’indecorosa oscurità. Abbiamo vinto dodici delle nostre ultime venti gare. Abbiamo sorpreso i Topi, le Api e i Levrieri, e siamo pronti a batterci per ottenere la posizione di prestigio. Di conseguenza, ovviamente, mi è stato assegnato un peso morto, un elemento inutilizzabile e senza alcun addestramento, dal fisico sottosviluppato. Tu.

— Neppure lui è entusiasta di conoscerti — disse Petra con calma.

— Taci, Arkanian — dise Madrid. — Alle nostre difficoltà ora se ne aggiunge un’altra. Ma qualunque ostacolo gli ufficiali vogliano sbattere sul nostro cammino, noi siamo ora e sempre…

— Le Salamandre! — gridarono i soldati come un sol uomo.

D’istinto, la percezione che Ender aveva della camerata cambiò. Quello era uno schema di comportamento, un rituale. Madrid non stava cercando di ferire lui, bensì di prendere sotto controllo un avvenimento imprevisto e usarlo per rafforzare la sua autorità sull’orda.

— Noi siamo il fuoco che li brucierà dalla testa ai piedi. Noi siamo cervello e cuore, molte fiamme, un solo fuoco.

— Le Salamandre! — urlarono gli altri.

— Neppure questo pivello ci indebolirà.

Per un momento Ender si concesse un palpito speranzoso. — Lavorerò sodo e imparerò in fretta — disse.

— Non ti ho dato il permesso di parlare — disse Madrid. — Ho intenzione di venderti al più presto possibile. Probabilmente sarò costretto a dar via insieme a te un elemento valido, ma piccolo come sei risultati peggio che inutile per me. Un congelato in più da sobbarcarsi durante ogni battaglia, ecco quello che sei inevitabilmente. E al punto in cui siamo ora, ogni soldato congelato può costituire la differenza decisiva per la sopravvivenza di una postazione. Niente di personale, Wiggin, ma sono certo che potrai fare il tuo addestramento a spese di qualcun altro.

— Abbiamo un comandante tutto cuore, come vedi — disse Petra.

Madrid fece un passo verso di lei e le sferrò un rapido manrovescio. Il rumore fu appena udibile, perché la colpì soltanto con le unghie. Ma lasciò sulla guancia di lei quattro striscie rosse, e quattro piccole ferite sanguinanti dove le unghie avevano colpito.

— Queste sono le tue istruzioni, Wiggin. Voglio sperare che questa sia l’ultima volta che dovrò perder tempo a parlare con te. Quando ci alleneremo in sala di battaglia tu starai fuori dai piedi. Dovrai far atto di presenza, naturalmente, ma non apparterrai a nessun branco e non prenderai parte a nessuna manovra. Quando saremo chiamati a combattere, ti vestirai in fretta e ti presentarai alla porta come ogni altro. Ma non oltrepasserai la porta finché la battaglia non sarà cominciata da quattro minuti esatti, quindi resterai accanto all’uscita senza mai estrarre la pistola, in attesa che il tempo di gara sia scaduto.

Ender annuì. Dunque stava per diventare un niente. Sperò che lo vendessero a qualcun altro il più presto possibile.

Intanto aveva notato che Petra non aveva aperto bocca né battuto ciglio a quel ceffone, e neppure aveva alzato una mano a tastarsi la guancia, benché una striscia di sangue le scivolasse verso il mento. Bonzo Madrid s’era rivelato definitivamente ostile, ma in quanto alla ragazzina, paria o non paria che fosse in quell’orda, Ender sentì che avrebbe potuto diventarle amico.

Gli fu assegnata una cuccetta nell’angolo più lontano della camerata. Quella superiore, cosicché quando vi si distese scoprì di non riuscire neppure a vedere la porta: la curvatura del soffitto gli bloccava la visuale. Nelle sue vicinanze c’erano altri ragazzini, silenziosi e dall’aria triste e stanca, evidentemente gli ultimi nella valutazione del comandante. Nessuno di loro ebbe una parola di benvenuto da regalargli.

Ender poggiò una mano sullo scanner di un armadietto per aprirlo, ma non accadde niente. Soltanto allora si accorse che non c’erano serrature. I quattro stipi avevano una maniglia a forma di anello e basta. Nulla sarebbe dunque stato privato e personale, adesso che faceva parte di un’orda.

Nell’armadietto alto c’era una tuta. Non quella azzurro pallido dei nuovi arrivati, bensì l’uniforme verde scuro bordata di arancione dell’orda delle Salamandre. Notò che gli sarebbe andata larga. Probabilmente il magazzino non aveva mai dovuto fornire un’uniforme del genere a un ragazzo così giovane.

La stava tirando fuori quando si accorse che Petra veniva verso di lui, lungo il passaggio centrale. Scivolò giù dal letto e la attese in piedi accanto al montante metallico.

— Riposo — disse lei. — Io non sono un ufficiale.

— Sei un capobranco, non è così?

Qualcuno nelle vicinanze fece udire una risatina.

— Cosa ti ha fatto venire quest’idea, Wiggin?

— La tua cuccetta è vicino alla porta.

— Mi è stata assegnata perché sono la miglior tiratrice dell’orda delle Salamandre, e perché Bonzo teme che se i capibranco non mi tengono sott’occhio io possa mettere in piedi una rivolta. Come se potessi combinare qualcosa di buono con elementi come questi. - Indicò i ragazzi dall’aria depressa sulle cuccette vicine.

Cosa stava cercando? Forse di rendergli le cose peggiori di quel che già erano? — Sono tutti migliori di me — disse Ender, per chiarire che si dissociava dal disprezzo di lei verso quei ragazzi, i quali dopotutto erano i suoi vicini di letto.

— Io sono una femmina — disse lei, — e tu sei un piscione di sei anni. Dunque abbiamo qualcosa in comune. Perché non essere amici?

— Guarda che non farò i tuoi compiti di scuola — disse lui.

Lei capì all’istante che stava scherzando. — Hu-hu — annuì. — Ma quando sei nelle gare, tutto è molto militaresco. La Scuola non è così per i nuovi arrivati. Storia e strategia e tattica e Scorpioni e compagni e stelle, queste sono le cose di cui hai bisogno per diventare un pilota o un comandante. Vedrai.

— Così sei mia amica. Che ci guadagno? — chiese Ender. Stava imitando l’eloquio di lei, fra sfrontato e indifferente.

— Bonzo non ha intenzione di addestrarti. Ciò che farà è di ordinarti di portare il tuo banco anche in sala di battaglia, perché tu studi anche là. In un certo senso ha ragione… non vuole che un marmocchio ignorante rovini la precisa meccanica delle sue manovre. — La sua voce si deformò nell’imitazione della parlata di chi non conosceva né l’inglese né l’interlingua: — Bonzo, lui così pre-cizo. Lui così curato. Lui piscia dentro piatto senza che una goccia va fuori!

Ender sogghignò.

— La sala di battaglia è aperta a orario continuato. Se ti va, potremmo andarci nelle ore in cui non c’è nessuno e ti insegnerò quello che so. Io non sono un gran soldato, però sono in gamba, e conosco un bel po’ di cose che tu non sai.

— Se hai tempo — annuì Ender.

— Domattina dopo colazione, allora.

— E se qualcun altro sta usando la sala? Il mio gruppo ci andava sempre, dopo colazione.

— Nessun problema. Le sale di battaglia sono sette.

— Non mi avevano detto dell’esistenza delle altre.

— Il locale d’ingresso è unico per tutte. Le sale di battaglia si trovano nel centro esatto della Scuola, al mozzo della ruota. E non ruotano con il resto della stazione. Ecco perché l’assenza di peso, lo zero-G, è totale. Niente impulso centrifugo, niente alto e basso. Le sette sale sono piazzate intorno al mozzo, che è il corridoio d’ingresso comune. Una volta lì dentro lo fanno girare, così alla porta ti si presenta la sala che desideri.

— Ah!

— Domani al termine della colazione, come ho detto.

— D’accordo — rispose Ender.

Lei cominciò ad allontanarsi.

— Petra — la fermò.

La ragazzina si volse a guardarlo.

— Grazie.

Lei non disse nulla. Ebbe appena un cenno del capo e poi se ne andò a passi svelti.

Ender risalì sulla cuccetta e si tolse la tuta, poi giacque nudo sul materasso con il banco elettronico girato davanti a sé, riflettendo sulla possibilità che avessero messo le mani sui suoi codici d’accesso. Era quasi certo che il suo sistema di sicurezza fosse stato tolto di mezzo. Non poteva possedere niente lì, neppure il suo banco.

Le luci si abbassarono leggermente. Era quasi l’ora di dormire. Ender domandò dove fossero i gabinetti.

— Esci e vai a sinistra — disse il ragazzo della cuccetta accanto. — Li abbiamo in comuni coi Topi, i Condor e gli Scoiattoli.

Ender lo ringraziò e fece per avviarsi.

— Ehi — lo richiamò l’altro. — Non puoi uscire a quel modo. Fuori dalla camerata l’uniforme è obbligatoria.

— Anche per andare ai gabinetti?

— Soprattutto questo. E non puoi neppure rivolgere la parola ai membri di un’altra orda. Né a mensa né ai gabinetti. A volte si può farlo in sala giochi, e naturalmente quando un insegnante te lo chiede. Ma se ti pesca Bonzo sei morto, capito?

— Grazie.

— E un’altra cosa: Bonzo ti mangia vivo se ti scopre a… fare giochetti con Petra.

— Eppure era nuda quando sono entrato, no?

— Lei fa quel che vuole, ma tu devi vestirti. Ordini di Bonzo.

Era una stupidaggine. Petra aveva ancora l’aspetto di un ragazzino, perciò l’ordine era assurdo. Questo la isola, la rende diversa, divide l’orda. Stupido, stupido. Come aveva fatto Bonzo a diventare comandante se non riusciva a pensarne una migliore? Alai sarebbe un comandante più capace di Bonzo. Lui sa come tenere unito un gruppo.

E anch’io so come unire la gente in un gruppo, continuò a pensare Ender. Forse sarò comandante, un giorno o l’altro.

Era nelle docce che si lavava le mani quando qualcuno gli rivolse la parola. — Ehi, tu, non mi dire che adesso le Salamandre allevano poppanti!

Ender non rispose e andò ad asciugarsi le mani.

— Ehi, guardate un po’! Le Salamandre arruolano anatroccoli. Quello potrebbe passarmi fra le gambe senza toccarmi le palle!

— Questo è perché non le hai, Dink, ecco perché — ridacchiò un altro.

Mentre Ender usciva dal locale sentì una terza voce dire: — Lui è Wiggin. Quello che ha stracciato Waldrop in sala giochi, ricordi?

Allontanandosi lungo il corridoio s’accorse di sorridere. Lui è piccolo, certo, ma loro ricordano il suo nome. In sala giochi, naturalmente, perciò non significa nulla. Ma lo vedranno. Diventerà un buon soldato, anche. Presto tutti conosceranno il suo nome. Non nell’orda delle Salamandre, forse, ma abbastanza presto.


Petra era già in attesa nel corridoio che portava alla sala di battaglia. — Aspettiamo qui — disse a Ender. — L’orda delle Lepri sta arrivando proprio ora, e occorre qualche minuto per girare la porta sulla sala di battaglia successiva.

Ender sedette accanto a lei, per terra. — C’è dell’altro circa le sale di battaglia, oltre a questo fatto di passare da una a quella che segue — disse. — Ad esempio, perché qui nel corridoio c’è la gravità, mentre appena oltre quella porta si va subito a zero-G?

Petra chiuse gli occhi. — E se le sale di battaglia sono davvero isolate dal resto della stazione, cosa succede quando una viene collegata alla porta? Perché non comincia a muoversi secondo la rotazione della Scuola?

Ender annuì gravemente.

— Questi sono i grandi misteri — disse Petra in un drammatico sussurro. — Non cercare di svelarli. Cose terribili accaddero all’ultimo soldato che osò ficcarci il naso. Fu ritrovato appeso per i piedi al soffitto del gabinetto, con la testa infilata nella tazza.

— Allora non sono il primo che fa queste domande.

— Una cosa devi tenere a mente, pivello. — Detto da lei l’appellativo suonò amichevole, non più sprezzante. — Loro non ti diranno mai più verità di quanto non siano costretti a fare. Ma perfino i bambini dell’asilo sanno che la scienza ha fatto grandi passi dai giorni del vecchio Mazer Rackham e della Flotta Vittoriosa. È ovvio che adesso possiamo controllare la gravità. Accenderla e spegnerla, cambiarne la direzione, forse rifletterla. … ho pensato a un sacco di cose veramente forti che potresti fare, con armi antigravità e con motori gravitazionali sulle astronavi. E pensa a come potrebbero manovrare in vicinanza dei pianeti. Magari usando la gravità planetaria stessa per accelerare, oppure come energia per le apparecchiature. Ma loro non dicono niente.

Le riflessioni di Ender andavano più in là. Manipolare la gravità era una cosa basilare, ufficiali che tenevano segreti dei dati scientifici era una cosa grave, ma il messaggio che Petra gli stava inviando era questo: i nostri nemici sono gli adulti, non le altre orde. Loro non ci dicono la verità.

— Avanti, pivello, la sala di battaglia è calda. La mano di Petra è salda. Davanti a noi il nemico si sfalda. — Ridacchiò. — Petra la poetessa, ecco come mi chiamano.

— Dicono anche che sei matta come un cavallo.

— E tu galoppa dietro di me, puledro — esclamò lei, entrando nel vastissimo locale.

Ender la seguì. La ragazzina aveva un contenitore con dieci palle-bersaglio. Quando le tirò, ciascuna in una diversa direzione, lui si aggrappò alla ringhiera con una mano e la tenne ferma con l’altra, per impedirle di fluttuare via. In assenza di gravità le palle cominciarono a rimbalzare velocemente da tutte le parti.

— Lasciami — disse lei. Si diede una spinta, deliberatamente casuale; agitando un braccio si mise in assetto stabile, poi estrasse la pistola e la puntò su un bersaglio dopo l’altro. Quando colpiva una palla il suo colore da bianco diventava rosso. Ender sapeva che entro due minuti esatti i bersagli centrati sarebbero tornati al colore originale. Soltanto una delle palle era ridiventata bianca allorché Petra riuscì a colpire l’ultima.

La ragazzina eseguì un rimbalzo calcolato contro una parete e si spinse velocissima verso Ender. Lui ammortizzò il suo impatto e le impedì di rimbalzare ancora, una delle prime tecniche che aveva imparato col suo gruppo.

— Sei brava — le disse.

— Nessuno è migliore di me. E tu stai per apprendere alcuni piccoli segreti del mestiere.

Come inizio Petra gli insegnò che il braccio armato andava tenuto dritto, per mirare con tutta la sua lunghezza. — Una cosa che molti soldati non capiscono mai è che più il bersaglio è lontano, più a lungo devono tenervi puntato contro il raggio, perché pur ristretto esso si allarga a cono. La differenza in più è di pochi decimi di secondo, ma in una battaglia questo è un tempo lungo. Molti soldati credono di aver sbagliato mira dopo aver colpito il bersaglio, invece hanno solo distolto il raggio troppo presto. Così non puoi usare la tua pistola come una spada swish-swish-spaccali-in-due. Devi mirare colpo per colpo.

Premendo un pulsante richiamò le palle presso la porta, poi le rilanciò lentamente, una alla volta. Ender puntò e sparò. Le sbagliò tutte.

— Benone — disse lei. — Vedo che non hai automatismi sbagliati.

— Non ho neppure quelli buoni — borbottò lui.

— Quelli te li darò io.

Quella prima mattina non realizzarono molto. Per lo più parlarono: come puoi continuare a pensare mentre prendi la mira. La necessità di visualizzare il movimento dell’avversario e il tuo raffrontandoli incessantemente. Devi sempre tenere il braccio teso in avanti, imparando a mirare girando tutto il corpo, così se ti congelano riuscirai ancora a sparare. Calcola dove il grilletto scatta e tienilo sul filo di quel punto, così non sarai costretto a tirarlo del tutto se ti trovi davanti un nemico all’improvviso. Rilassati, impara a respirare, la tensione fisica causa errori di mira.

Fu il solo addestramento che Ender ebbe per quel giorno. Nel pomeriggio, durante le esercitazioni dell’orda, gli fu ordinato di portarsi dietro il banco e di fare i compiti di scuola seduto in un angolo della sala. Bonzo voleva l’orda al completo in sala di battaglia, ma non era tenuto a usare tutti i soldati.

Ender tuttavia lasciò perdere i compiti. Se non gli veniva dato l’addestramento militare, poteva approfittarne per studiare almeno le tattiche di Bonzo. L’orda delle Salamandre era divisa, come di regola, in quattro branchi di dieci soldati ciascuno. Alcuni comandanti li organizzavano in modo che il branco A fosse quello coi migliori combattenti, mentre nel branco D c’erano i peggiori. Bonzo li aveva mescolati, cosicché ognuno era composto di soldati abili e soldati scadenti.

Con la sola differenza che adesso il branco B aveva soltanto nove ragazzi. Ender si chiese chi mai fosse stato trasferito per lasciare il posto a lui. Presto gli fu chiaro che il capo del branco B era nuovo a quel compito. Nessuna meraviglia che Bonzo fosse così seccato: aveva perso un capobranco per vedersi arrivare Ender.

E Bonzo aveva ragione su un’altra cosa: Ender non era pronto. Tutto il tempo degli allenamenti era dedicato a lavorare sulle manovre. Branchi che non potevano vedersi l’un l’altro mettevano in atto operazioni coordinate con precisione cronometrica, o si regolavano sulla posizione altrui per effettuare imprevisti mutamenti direzionali senza scomporre la formazione. Da tutti questi soldati ci si aspettavano come scontate delle capacità che Ender non aveva. L’istinto di un atterraggio morbido e senza rimbalzi, la precisione di volo, la capacità di sfruttare come ripari i soldati congelati che fluttuavano a caso attraverso il locale. Roteare, spingersi via, schivare. Scivolare lungo le pareti, manovra questa difficile quanto preziosa, che consentiva il continuo contatto con una superficie utile.

E mentre si rendeva conto di quante fossero le cose che non sapeva, Ender ne vide altre che avrebbe potuto perfezionare. La manovra in formazioni prestabilite era un errore. Permetteva ai soldati di ricevere ed eseguire immediatamente gli ordini a voce, ma li rendeva anche molto più prevedibili. Inoltre ai singoli elementi era concessa poca iniziativa. Una volta che uno schema era ritenuto valido, c’era l’obbligo di seguirlo dall’inizio alla fine. Questo non lasciava spazio alle improvvisazioni, necessarie allorché il nemico si rivelava più capace del previsto. Ender analizzava le manovre di Bonzo come l’avrebbe fatto un comandante avversario, prendendo nota dei loro punti deboli.

Durante la partita libera di quella sera Ender chiese a Petra di giocare con lui.

— No — disse alla ragazzina. — Io voglio diventare comandante un giorno o l’altro, perciò ho intenzione di cimentarmi solo in sala giochi.

Era convinzione comune che gli insegnanti spiassero elettronicamente le partite, e scegliessero lì i potenziali comandanti. Ender ne dubitava. I giocatori si esibivano su una macchina, i capibranco potevano mostrare sul campo le loro capacità di comando.

Ma non volle discutere con Petra. La sua offerta di fargli fare un po’ di pratica era generosa. Tuttavia, quel breve allenamento dopo colazione non gli bastava. E non poteva esercitarsi da solo, salvo che in certe attività di base. Molte delle sue attività più complesse richiedevano un compagno o una squadra. Se soltanto avesse avuto Alai o Shen…

Be’, cosa gli impediva di allenarsi con loro? Non aveva mai sentito di un membro di un’orda che andasse a far pratica coi novellini, però non c’erano regole che lo vietassero. Semplicemente, visto il generale disprezzo per i pivelli, nessuno s’era mai abbassato a tanto. Ender si disse che comunque l’orda avrebbe continuato a trattarlo come un pivello. A lui interessava avere qualcuno con cui esercitarsi, uno al quale avrebbe potuto dare in cambio ciò che apprendeva osservando l’orda.

— Ehi, il grande soldato è di ritorno! — fu il saluto con cui lo accolse Bernard, quando lo vide comparire sulla soglia della sua vecchia camerata. Mancava da appena ventiquattr’ore ma già gli sembrava che il posto avesse qualcosa di estraneo, e così anche i ragazzini con cui aveva vissuto fianco a fianco. Per un attimo fu tentato di voltarsi e di andarsene. Ma poi vide il volto di Alai, con cui aveva stretto un sacro patto di amicizia. Alai non era un estraneo.

Ender non si curò affatto di nascondere il modo in cui era trattato nell’orda delle Salamandre. — E non hanno torto — disse poi. — Io servo loro come uno sternuto in una tuta spaziale. — Alai rise, e altri del gruppo si fecero loro attorno. Ender propose il suo affare: partite libere ogni giorno, lavorando sodo in sala di battaglia sotto la sua direzione. Loro avrebbero appreso comportamenti e tecniche usate dalle orde in battaglia, lui si sarebbe impratichito nelle capacità militari che gli servivano. — Potremo migliorare insieme. D’accordo?

I ragazzi che accettarono subito furono parecchi. — A patto — disse però lui, — che veniate per lavorare. Chi ha soltanto voglia di svagarsi, è escluso. Io non ho tempo da gettar via.

Non fu gettato via, infatti, il tempo di quelli che lo seguirono in sala di battaglia. Ender ebbe delle difficoltà a far visualizzare loro gli addestramenti a cui aveva assistito, nuovi per tutti. Ma al termine della prima partita libera i ragazzi avevano imparato diverse cosette. Quando se ne andarono, sfiniti, già si eccitavano nel discutere questa o quella tecnica.

— Dove sei stato? — fu la domanda con cui lo accolse Bonzo.

Davanti alla cuccetta del comandante Ender si mise sull’attenti. — A far pratica in sala di battaglia, signore.

— Sì? Mi è stato detto che avevi con te alcuni dei tuoi ex compagni.

— Non potevo esercitarmi da solo.

— I soldati dell’orda delle Salamandre non devono far comunella con i novellini. E tu sei soldato, adesso.

Ender lo fissò senza aprir bocca.

— Mi stai ascoltando, Wiggin?

— Sì, signore.

— Niente più trasgressioni con quei pidocchietti merdosi.

— Posso parlarti privatamente? — domandò Ender.

Era un genere di richiesta che i comandanti dovevano accogliere. Bonzo non nascose un’espressione irritata, ma precedette Ender nel corridoio esterno. — Apri bene gli orecchi, Wiggin. Io non ti voglio, e sto cercando di liberarmi di te. Ma provati a darmi dei problemi e io ti faccio passare attraverso questo muro.

Un buon comandante, pensò Ender, non ha bisogno di fare queste stupide minacce.

Seccato dal suo silenzio Bonzo emise un grugnito. — Allora, mi hai fatto venire qui solo per rimirarmi? Sentiamo cos’hai da dire.

— Comandante, hai fatto bene a non aggregarmi a un branco. Io non so far niente.

— Non ho bisogno delle tue opinioni su quello che faccio, Wiggin.

— Però io intendo diventare un buon soldato. Non voglio disturbare le vostre esercitazioni giornaliere, ma ho necessità di far pratica, e posso farla soltanto con quelli che accettano di esercitarsi con me. I miei ex compagni.

— Tu farai quello che dico io, piccolo bastardo!

— Certo, signore. Io eseguirò tutti gli ordini che sei autorizzato a darmi. Ma la partita libera è libera. Non possono essere imposte delle restrizioni. Nessuna. E da nessuno.

Il bel volto di Bonzo fu deformato da una smorfia di furore. Lasciarsi andare a emozioni così accese era uno sbaglio. Ender lo sapeva, ed era freddo, e sapeva come usare la sua freddezza. Bonzo prendeva fuoco, ed era la rabbia a usare lui.

— Signore, questa carriera l’ho scelta liberamente. Non voglio interferire coi vostri allenamenti e le vostre battaglie, ma ho il diritto d’imparare. Non ho chiesto io d’essere assegnato alla tua orda, e tu stai cercando di vendermi al più presto. Però nessuno mi acquisterà se non so fare niente, no? Lasciami imparare qualcosa, e questo ti aiuterà a liberarti di me in minor tempo e a scambiarmi con qualcuno che ti sarà veramente utile.

Bonzo non era così sciocco da lasciare che l’ira gli impedisse di riconoscere un’osservazione logica e sensata. Ma questo non bastò a fargliela sbollire del tutto.

— Chi indossa l’uniforme delle Salamandre non deve azzardarsi a discutere i miei ordini, bamboccio!

— Alterare le partite libere di qualcuno può costare il congelamento.

Questo probabilmente non era vero. Ma era possibile. Certo, se Ender avesse fatto un esposto agli insegnanti, l’aver interferito con le sue partite libere poteva costare a Bonzo il grado di comandante. Inoltre era ovvio che gli ufficiali dovevano aver visto qualcosa in Ender, per avergli dato quella promozione. Forse Ender aveva abbastanza influenza presso gli ufficiali da ottenere il congelamento di qualcuno. — Bastardo! — ringhiò Bonzo.

— Non è colpa mia se mi hai dato quell’ordine davanti a tutti — disse Ender. — Ma se vuoi, adesso fingo di andarmene a letto con la coda fra le gambe. E domani potrai informarmi che hai cambiato idea.

— Sei così presuntuoso da suggerire a me come mi devo comportare?

— Non voglio che gli altri ti vedano costretto a far marcia indietro. Altrimenti non potresti conservare la tua autorità.

Quella cortesia Bonzo se la legò al dito come uno sgarbo, quasi che Ender gli avesse concesso a titolo di favore di non perdere la faccia con gli altri. Lo fissò con odio, conscio che pur dandogli una scappatoia quel novellino non gli lasciava scelta. E non stette a pensare che la colpa era sua, per avergli dato un ordine irragionevole. Sapeva solo che Ender lo aveva messo alle strette, e che adesso si degnava d’essere magnanimo con lui.

— Un giorno o l’altro avrò le tue palle su un vassoio — disse Bonzo.

— Probabilmente — annuì lui. Le luci si abbassarono e un cicalino ronzò il segnale della ritirata. Ender rientrò nel dormitorio a capo chino. Irritato. Mogio mogio. Gli altri ragazzi poterono trarne le ovvie conclusioni.

Il mattino successivo, mentre Ender si metteva in fila coi compagni diretti a far colazione, Bonzo gli ordinò di fare un passo avanti e disse, a voce alta: — Ho cambiato idea, ragazzo. Forse far pratica con i tuoi vecchi compagni ti insegnerà qualcosa, e potremo imbrogliare l’orda a cui ti venderemo dicendo che almeno due soldi li vali. D’accordo?

— Sissignore. Grazie, signore — disse lui.

— E spero — sussurrò Bonzo, — di vederti finire congelato.

Ender gli rivolse un sorriso di gratitudine e uscì con gli altri. Dopo colazione fece ancora pratica con Petra. Per tutto il pomeriggio assisté alle esercitazioni di Bonzo e ipotizzò metodi per distruggere la sua orda. Durante la partita libera lavorò con Alai e gli altri finché furono esausti. Posso farcela, si costrinse a pensare quella sera lasciandosi cadere sulla cuccetta. Aveva i muscoli a pezzi. Posso tenere in pugno questa cosa.


Quattro giorni dopo l’orda delle Salamandre entrò in campo contro l’orda dei Condor. Ender sfilò nei corridoi con gli altri soldati, marciando al passo verso la sala di battaglia. Sulle pareti scorrevano due striscie luminose, la verde verde marrone delle Salamandre e la bianca nera bianca dei Condor. Nel corridoio centrale le due striscie si separarono, e le Salamandre seguirono i loro colori in una diramazione. Dopo un’ultima svolta a destra l’orda si fermò davanti a una parete nuda.

I branchi serrarono i ranghi in silenzio, mentre Ender restava in coda alla formazione. Bonzo mitragliava già i primi ordini: — A, predere per il corrimano e andare su, B a sinistra, C a destra, D in basso. — Controllò che gli uomini fossero pronti, poi si volse. — Tu, pivello, aspetta quattro minuti poi entra e fermati a lato della porta. Non muoverti e non estrarre la pistola.

Ender annuì. Ad un tratto la parete davanti a Bonzo diventò trasparente. Non era un muro dunque, ma un campo di forza. Anche la sala di battaglia che vide era diversa. Nell’aria erano sospesi cassoni poligonali di colore marroncino, che ostruivano in parte la visuale. Dunque quelli erano gli ostacoli che i soldati chiamavano stelle. Apparentemente erano distribuiti a caso. Bonzo sembrò non preoccuparsi della loro dislocazione, così Ender pensò che i soldati sapevano già quale uso fare delle stelle.

Ma quasi subito, mentre sedeva in corridoio a osservare l’inizio delle ostilità, gli fu chiaro che non lo sapevano affatto. Non erano capaci di compiere un atterraggio morbido su una di esse e sfruttarla per coprirsi, quando dovevano attaccarla per distruggere un avamposto nemico attestato sul retro. Non avevano il senso di quello che era al momento il valore strategico di una stella: insistevano ad attaccare anche quelle che avrebbero potuto lasciarsi alle spalle per conquistare posizioni più avanzate.

L’altro comandante stava approfittando delle manchevolezze strategiche di Bonzo. L’orda dei Condor invitava le Salamandre a effettuare attacchi che costavano loro un prezzo eccessivo, e dopo aver conquistato una stella erano sempre meno gli uomini non congelati che si spingevano verso la successiva. Dopo cinque o sei minuti soltanto fu evidente che l’orda delle Salamandre non poteva vincere insistendo in quell’attacco.

Ender oltrepassò la porta. In assenza di peso si spinse leggermente verso il basso. Le sale di battaglia in cui s’era esercitato avevano l’ingresso al livello del pavimento. Negli scontri fra orde questo era invece al centro di una parete, equidistante dalle altre quattro.

In pochi istanti il suo senso dell’orientamento cambiò come gli era accaduto la prima volta nella navetta. Quello che era stato il basso diventava a piacere l’alto, oppure un lato. A zero G non c’era motivo di restare orientato secondo i punti cardinali del corridoio, e poiché la porta era quadrata gli era già impossibile dire dov’era stato l’alto. Non che questo importasse. Ender aveva stabilito su quale parametro un soldato doveva regolarsi: la porta d’ingresso del nemico era giù. L’obiettivo della battaglia stava nel cadere verso le postazioni avversarie.

Con alcuni movimenti si orientò in quella nuova direzione. Invece di essere steso all’infuori con l’intero corpo esposto ai Condor, adesso presentava loro solo le suole delle scarpe. Era un bersaglio molto più ristretto.

Qualcuno lo vide. E non c’era da aspettarsi altro, dato che fluttuava indifeso all’aperto. D’istinto ripiegò le gambe sotto di sé. Nello stesso istante su di lui balenò un circoletto di luce, e le gambe della sua tuta si congelarono in quella posizione. Le braccia invece restarono libere, poiché se il colpo non giungeva in pieno corpo a subirne l’effetto erano solo gli arti che lo incassavano. Ender rifletté che se non si fosse messo per il lungo il Condor l’avrebbe colpito al corpo. E lui sarebbe rimasto del tutto immobilizzato.

Visto che Bonzo gli aveva ordinato di non estrarre la pistola Ender continuò a fluttuare senza muovere la testa né le braccia, come se avessero congelato anche lui. Il nemico lo ignorò, e concentrò il fuoco sui soldati che stavano sparando. La conclusione si prospettava amara. Ormai inferiore di numero l’orda delle Salamandre, pur tenace, stava cedendo terreno. La battaglia si frammentò in una dozzina di scontri isolati. Ma la disciplina imposta da Bonzo dava adesso i suoi frutti, perché ogni Salamandra colpita si portava dietro almeno un avversario. Nessuno fuggiva o si lasciava prendere dal panico: tutti conservavano la calma e sparavano finché non venivano sopraffatti.

La più micidiale fra i superstiti era Petra. I Condor erano stati costretti ad accorgersene, e un intero branco manovrava per toglierla di mezzo. Infine riuscirono a congelarle il braccio con cui sparava, e il torrente d’imprecazioni della ragazzina s’interruppe soltanto quando una gragnuola di colpi la immobilizzò completamente e la visiera del suo casco s’abbassò fino al mento. L’orda delle Salamandre non oppose più una valida resistenza, e pochi minuti dopo tutto era finito.

Ender notò compiaciuto che i Condor potevano appena mettere insieme cinque soldati, il numero minimo indispensabile per aprire la porta in caso di vittoria. Quattro di loro toccarono con l’elmetto i punti luminosi ai quattro angoli della porta delle Salamandre, ed il quinto passò oltre il campo di forza. Questo atto mise termine alla partita. Le luci tornarono alla massima luminosità, e Anderson entrò in sala dalla porta degli insegnanti.

Avrei potuto estrarre la pistola, pensò Ender mentre i Condor uscivano. Mi sarebbe bastato colpire uno di loro e sarebbero stati troppo pochi per aprire. La partita sarebbe finita in pareggio. Servono quattro uomini per consentire al quinto di oltrepassare la porta. E i Condor non avrebbero avuto la vittoria. Bonzo, razza di somaro, avrei potuto salvarti dalla disfatta. Forse perfino trasformarla in un successo, perché quei cinque erano bersagli facili e non avrebbero capito subito da dove sparavo. Sono già abbastanza bravo come tiratore.

Ma gli ordini erano ordini, e lui aveva promesso di ubbidire. La sola soddisfazione l’ebbe pensando che nei documenti di gara delle Salamandre sarebbero stati registrati non quarantuno eliminati, bensì quaranta eliminati e uno parzialmente inabilitato. Bonzo non l’avrebbe saputo finché non avesse consultato il registro di Anderson e visto di chi si trattava. Inabilitato, Bonzo, capisci? Io potevo ancora sparare.

S’era quasi atteso che Bonzo venisse a cercarlo e dicesse: — La prossima volta che capita una cosa simile, sei autorizzato a sparare. — Ma lui non gli rivolse la parola fino al mattino successivo dopo colazione. Naturalmente Bonzo mangiava nella mensa dei comandanti, ma Ender era abbastanza certo che lo strano risultato della partita avrebbe causato là tante chiacchiere quante ne stava destando nella mensa comune. In ogni partita che non fosse terminata in pareggio tutti i soldati dell’orda perdente risultavano eliminati oppure completamente disabilitati, cioè non del tutto congelati ma privi della possibilità di sparare o infliggere danni al nemico. Le Salamandre erano l’unica orda che fosse riuscita a perdere con un uomo ancora nella categoria di quelli in grado di usare l’arma.

Ender s’era riproposto di tener la bocca chiusa, ma accanto a lui vennero a sedersi delle Salamandre che con aria grave pretesero una spiegazione. E quando i ragazzi gli chiesero perché non avesse ignorato gli ordini e sparato, lui rispose con calma: — Io ubbidisco agli ordini.

Dopo colazione Bonzo lo fece chiamare. — Le istruzioni che hai restano tali e quali — disse. — E bada a non sgarrare.

Questo continuerà a costarti caro, idiota. Forse non sarò un buon soldato, ma posso sempre essere d’aiuto e non c’è ragione che tu me lo proibisca.

Ender non diede voce ai suoi pensieri.

Un interessante effetto collaterale della battaglia fu che il nome di Ender emerse in cima alla lista dei quozienti d’efficienza individuale. Dal momento che non aveva sparato un sol colpo, il computer gli conferiva un record perfetto: errori zero. E visto che non era mai stato eliminato né disabilitato, il quoziente d’efficienza risultava ottimo. Il secondo della lista era abbondantemente distanziato. Questo fece ridere molti dei ragazzi, mentre altri imprecarono contro l’imbecillità dei cervelli elettronici, ma restava il fatto che quei risultati conducevano a un premio, e che Ender era il primo in graduatoria.

Continuò ad assistere inattivo agli allenamenti dell’orda, e continuò a lavorare sodo per conto suo, con Petra al mattino e col gruppo di Alai alla sera. Altri dei novellini adesso si stavano unendo a loro, non per passatempo ma perché potevano vederne i risultati: imparavano a battersi, e questo era soddisfacente. Ender e Alai però erano sempre un passo più avanti degli altri. In parte perché Alai non la smetteva di ideare nuove varianti, cosa che forzava Ender a studiare nuove contromosse per rintuzzarle. In parte perché seguitavano a fare errori stupidi, per rimediare ai quali si adattavano ad azioni che nessun soldato ben addestrato e conscio della propria dignità avrebbe mai fatto. Molte delle tecniche che escogitarono si rivelarono inutilizzabili. Ma era pur sempre divertente, sempre eccitante, e le cose che funzionavano erano abbastanza da convincerli che non stavano perdendo tempo. La sera era il momento migliore delle loro giornate.

Le due battaglie successive furono vinte con facilità dalle Salamandre. Ender entrò in sala allo scadere dei quattro minuti e rimase intoccato dagli avversari sconfitti. Questo lo convinse che l’orda dei Condor, da cui erano stati battuti, era decisamente pregevole. Le Salamandre, per quanto le tattiche di Bonzo fossero stucchevoli, erano fra le orde migliori e consolidando la loro posizione in classifica stavano contendendo il terzo posto all’orda dei Topi.

Ender compì sette anni. Il calendario terrestre, con le sue date e festività, veniva ignorato alla Scuola di Guerra, ma lui aveva scoperto il modo di richiamare la data sullo schermo del banco e poté prender nota del suo compleanno. Anche il magazzino della Scuola aveva notato la data; gli presero le misure e gli consegnarono nuove tute da fatica, oltre a quella speciale da portarsi in sala di battaglia, con i colori sgargianti delle Salamandre. Tornò in camerata con la pila di indumenti sulle braccia. Nel provarli li aveva sentiti strani e larghi, come se la sua pelle stentasse ad adattarsi ad essi.

Gli sarebbe piaciuto fermarsi alla cuccetta di Petra e parlarle un poco di casa sua, di ciò che erano stati là i compleanni, oppure dirle semplicemente che quel giorno compiva gli anni in modo che lei facesse una battuta ironica sull’allegria di simili ricorrenze. Ma lì nessuno parlava dei compleanni. Era una cosa infantile. Torte e candeline erano roba che non usava quasi più neppure sulla Terra. Per il suo sesto compleanno Valentine aveva fatto una torta alla crema. Ma la pasta s’era rifiutata di lievitare. Nessuno sapeva più cucinare in casa, però quello era il genere di stravaganze tipico di Valentine. Tutti avevano biasimato sia lei che il sapore della torta, ma Ender ne aveva messo via una fetta avvolta nella stagnola. Poi gli avevano tolto il monitor, era partito, e per quel che ne sapeva la fetta era ancora là nel suo armadio, un pezzetto di roba gialla dura e polverosa. Nessuno parlava di casa, non fra i soldati; la vita prima della Scuola di Guerra era un periodo chiuso. Nessuno riceveva lettere, né le scriveva. Tutti fingevano di non interessarsi più al passato.

Ma a me importa, pensò Ender quella sera. La sola ragione per cui sono qui è perché gli Scorpioni non riescano mai a spegnere per sempre gli occhi di Valentine, a farla a pezzi coi raggi a esplosione come quei marines dei filmati ripresi durante le prime battaglie. Non le colpiranno la testa con quei raggi così ardenti che il cervello ribolle nel cranio e schizza fuori giallo quanto il budino di una pasta scoppiata, come succede nei mei incubi peggiori, nelle mie notti peggiori, quando mi sveglio tremante ma zitto… zitto, perché non sentano che ho nostalgia della mia famiglia. Come vorrei essere a casa!

Il mattino dopo si sentiva meglio. La casa era soltanto una lieve fitta di dolore in un angolo della sua memoria. Una luce grigia nei suoi occhi. Mentre si vestivano Bonzo entrò a lunghi passi. — Tute da battaglia! — ordinò. Li attendeva una partita, la quarta dall’arrivo di Ender.

L’avversario era l’orda dei Leopardi. Non si prevedevano difficoltà. I Leopardi erano un’orda nuova, messa in piedi soltanto sei mesi prima dal suo comandante, Pol Slattery, e stazionava nelle ultime posizioni della classifica. Ender indossò la sua tuta di battaglia fresca di magazzino e si allineò con gli altri; Bonzo lo spinse rudemente fuori dalla fila e lo spedì in coda a tutti. Non c’era bisogno che tu facessi così, disse lui dentro di sé. Potevi lasciarmi in fila dov’ero.

Dal corridoio osservò l’inizio delle ostilità. Pol Slattery era giovane, ma in gamba e pieno di idee nuove. Teneva i suoi soldati in perpetuo movimento facendoli balzare da stella a stella, o slittare lungo le pareti per arrivare sopra o dietro le stolide Salamandre. Ender sorrise. Quella tattica gettava Bonzo in uno stato di confusione, e così anche i suoi branchi. I Leopardi sembravano avere uomini piazzati dappertutto. Tuttavia lo scontro non era così squilibrato come poteva sembrare. Ender notò che i Leopardi stavano perdendo molti uomini, troppi… la loro strategia basata sul movimento li portava di continuo allo scoperto. Ciò che faceva gioco, però, era il fatto che le Salamandre si sentivano surclassate. Avevano perso completamente l’iniziativa. Pur dimostrando maggiori capacità individuali si stringevano assieme come gli ultimi superstiti di un massacro, come se sperassero che nel carnaio il nemico si dimenticasse di loro.

Ender scivolò lentamente dentro dalla porta, si girò in modo che la posizione del nemico fosse in basso rispetto a lui, e pian piano si spinse fino all’angolo di destra dove pochi avrebbero potuto notarlo. Nel fluttuare sparò alle sue stesse gambe, per tenere le ginocchia ripiegate nella posa che gli offriva la migliore protezione. A un occhio poco attento sarebbe parso uno fra i tanti soldati congelati che galleggiavano via ai margini della battaglia.

Appena fu chiaro che le Salamandre attendevano più o meno supinamente la sconfitta, i Leopardi s’impiegarono ferocemente in cerca della vittoria. Avevano ancor nove uomini attivi quando il fuoco delle Salamandre cessò. Questi si riunirono e s’accinsero ad aprire la porta degli avversari.

Col braccio teso in avanti come Petra gli aveva insegnato, Ender prese accuratamente la mira. Prima che gli altri capissero cosa stava succedendo, aveva congelato tre dei soldati che erano sul punto di poggiare il casco sugli angoli luminosi della porta. Poi alcuni dei superstiti lo individuarono e puntarono le armi… ma i colpi giunsero a segno sulle sue gambe, già immobilizzate. Questo gli diede il tempo di centrare gli ultimi due di quelli che erano andati alla porta. Allorché Ender fu finalmente colpito al braccio e disabilitato, i Leopardi avevano soltanto quattro uomini non congelati. La partita era terminata in pareggio, e non lo avevano neppure mai colpito al corpo.

Pol Slattery era furibondo, ma nella cosa non c’era stato nulla di sleale. Tutti i Leopardi diedero per certo che lasciar fuori un uomo fino all’ultimo minuto era stata una mossa tattica di Bonzo. Nessuno poteva sospettare che Ender aveva sparato contravvenendo agli ordini. Ma le Salamandre sapevano come stavano le cose. Bonzo lo sapeva, e dal modo in cui lo guardava Ender constatò che il comandante lo odiava per avergli risparmiato la disfatta. Non me ne importa, si disse. Questo gli renderà più facile vendermi, e intanto i ragazzi non scenderanno troppo in classifica. Ma tu vendimi. Ho già imparato tutto quel che potevo da te: come perdere con faccia impassibile, ecco l’unica cosa che sai far bene, Bonzo.

Cos’ho imparato di buono oggi? Ender cercò di tirare i conti della giornata, mentre si spogliava accanto alla sua cuccetta. La porta del nemico è sempre giù. Usare le gambe come scudo in battaglia. Alcune riserve, tenute da parte fino al termine degli scontri, possono essere decisive. E il fatto che a volte i soldati sanno prendere decisioni più intelligenti degli ordini che hanno avuto.

Era nudo e sul punto di arrampicarsi sul letto a castello quando Bonzo arrivò nel passaggio centrale, con faccia dura e ferma. Ho già visto quell’espressione in Peter, pensò Ender. Silenzio, e l’omicidio nello sguardo. Ma Bonzo non è Peter. Bonzo sa cos’è la paura.

— Finalmente ti ho venduto, Wiggin. Sono riuscito a persuadere l’orda dei Topi che il tuo incredibile posto nella lista dell’efficienza individuale non è soltanto un puro caso. Domani te ne vai.

— Grazie, signore — disse Ender.

Forse il suo tono fu eccessivamente grato. Bonzo si volse di scatto e lo colpì con un furibondo ceffone in piena faccia, che lo mandò a barcollare stordito contro il montante delle cuccette. Poi gli sferrò un pugno secco e calcolato al plesso solare. Ender cadde in ginocchio.

— Questo perché hai disubbidito — disse Bonzo ad alta voce, perché tutti sentissero. — Un buon soldato non disubbidisce mai.

Ma anche mentre gemeva sul punto di vomitare Ender riuscì a sentire, con un acre fremito di soddisfazione, il mormorio che s’era levato nella camerata. Sei uno sciocco, Bonzo. Non hai rafforzato la disciplina, le hai dato un calcio. Loro sanno che ho trasformato io la sconfitta in un pareggio, e adesso hanno visto come mi ripaghi. Hai fatto la figura dell’idiota davanti a tutti. Quanta ne rimane della tua disciplina, ora?

Il giorno dopo disse a Petra che per il suo bene le conveniva non dargli più lezioni di tiro al mattino. Per giungere ad atti estremi Bonzo non aspettava altro che vedersi sfidato, così lei avrebbe fatto meglio a tenersi alla larga da Ender per un po’. La ragazzina capì benissimo la situazione. — Comunque — gli disse, — sei già sul punto di arrivare al massimo delle tue capacità di tiratore.

Lasciò il banco e la tuta da battaglia negli armadietti. Avrebbe tenuto addosso l’uniforme delle Salamandre finché non avesse potuto andare in magazzino a cambiarla con quella marrone e nera dei Topi. Non aveva oggetti personali; non avrebbe portato via nulla con sé. Tutto ciò che poteva affermare di possedere si trovava nel computer della Scuola, nella sua testa e nel suo cuore.

Usò una delle scrivanie pubbliche della sala giochi per registrare la richiesta di un corso personale di combattimento a gravità-Terra durante l’ora successiva alla colazione. Non intendeva vendicarsi di Bonzo. Ma non voleva che qualcuno potesse ancora colpirlo e metterlo a terra a quel modo.

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