— Colonnello Graff, fin’ora le partite sono sempre state giocate con lealtà. Sia che la dislocazione delle stelle fosse casuale, sia che fosse simmetrica.
— La lealtà è una dote meravigliosa, maggiore Anderson. Non ha niente a che fare con la guerra.
— I risultati ne saranno compromessi. La classifica diventerà un dato privo di significato.
— Così sia.
— Ci vorranno mesi, anni, per attrezzare le nuove sale di battaglia e regolamentare le simulazioni belliche.
— È di questo che sono venuto a parlarle, infatti. Ricominci. Sia creativo. Pensi a ogni insolita o impossibile dislocazione delle stelle. Pensi ad altri modi in cui le regole possono essere aggirate. Aggiunga articoli, comma, eccezioni. Poi collaudi le simulazioni e veda qual è il loro grado di difficoltà. Vogliamo che qui ci sia una progressione calcolata. Vogliamo portare avanti il ragazzo.
— Quando ha intenzione di farne un comandante? A otto anni?
— No, naturalmente. Non ha ancora messo insieme la sua orda.
— Ah! Dunque mette sotto il torchio anche altri allo stesso modo?
— Lei sta dando troppa importanza alle gare, Anderson. Dimentica che si tratta di un addestramento e nient’altro.
— Dalle gare emergono lo stato sociale dell’individuo, i suoi scopi di vita, la sua identità. I bambini ne vengono fuori con una personalità formata. Se si pensasse che le gare possono essere oggetto di manipolazioni e imbrogli, la Scuola ne sarebbe scossa fin nelle fondamenta. Non sto esagerando.
— Lo so.
— Allora preghi che Ender Wiggin sia davvero il suo uomo, perché lei ha rovinato l’efficienza del suo metodo di addestramento e non potrà metterci una pezza per un bel po’ di tempo ancora.
— Se Ender non è quello che spero, e se il momento in cui giungerà al meglio delle sue possibilità militari non coinciderà con l’arrivo delle nostre flotte al mondo d’origine degli Scorpioni, allora non avrà alcuna importanza quali metodi usiamo qui alla Scuola.
— Spero che lei mi perdoni, colonnello Graff, ma sento di dover riferire i suoi ordini e la mia opinione sulle loro conseguenze allo Stratega e all’Egemone.
— Perché non anche al nostro amato Condottiero?
— Tutti sanno che lei ce l’ha nella manica.
— Quanta ostilità, maggiore Anderson! E io che credevo fossimo amici.
— Lo siamo. E penso che lei possa aver ragione su Ender. Solo non credo che lei, e soltanto lei, debba decidere il destino del mondo.
— Io non penso neppure d’avere il diritto di decidere il destino del solo Ender Wiggin.
— Così non le importa se faccio un rapporto?
— Certo che m’importa, razza d’un dannatissimo ficcanaso. Questa è una cosa che va decisa da gente che sa quel che sta facendo, non da dei cacasotto di politicanti che hanno usato i loro quattrini per farsi dare una poltrona.
— Ma lei capisce perché devo farlo.
— Certo: perché lei è un piccolo bastardo di burocrate dalla vista corta e pensa soltanto a star bene ammanigliato nel caso che le cose vadano male. Be’, se le cose andranno male tutti quanti saremo cibo per le larve degli Scorpioni. Così adesso abbia fiducia in me, Anderson, e non tiri sulle mie spalle tutta la dannata Egemonia. Quel che sto facendo è già abbastanza difficile anche senza di loro.
— Oh, che peccato! Qualcosa le rende dura la vita? Può farlo a Ender, ma non sopporta quando capita a lei, vero?
— Ender Wiggin è dieci volte più intelligente e robusto di me. Quello che gli faccio tirerà fuori la sua genialità. Se al suo posto ci fossi io, ne uscirei a pezzi. Maggiore Anderson, so che sto facendo naufragare le gare, e so che lei è più affezionato di me ad alcuni dei ragazzi che le giocano. Mi odi pure, se vuole, ma non mi fermi.
— Mi riservo il diritto di parlarne all’Egemone e allo Stratega quando vorrò. Ma per ora… faccia quello che ritiene meglio.
— Grazie per la sua così spontanea fiducia.
— Ender Wiggin… il piccolo mangiamerda che furoreggia nella grande graduatoria! Che piacere averti qui con noi! — Il comandante dell’orda dei Topi giaceva spaparanzato su una delle cuccette inferiori, vestito solo del suo banco. — Con te attorno, un’orda deve proprio mettercela tutta per perdere. — Parecchi ragazzi della camerata risero forte.
Non avrebbero potuto esserci due orde più diverse delle Salamandre e dei Topi. Il locale era un caos di disordine, sporco e rumoroso. Dopo Bonzo, Ender avrebbe creduto che un po’ d’indisciplina sarebbe stata un sollievo. Invece scoprì che s’era atteso quiete e ordine, e che quella baraonda lo metteva a disagio.
— Le cose ci vanno già a tutto vapore, Enderello bello. Io sono Rose de Nose, un geniale comandante ebreo, e tu un testavuota buono a nulla di un goy. Non scordarlo mai, e tutto ti andrà facile.
Fin da quando la F.I. era stata fondata, lo Stratega delle operazioni militari era sempre stato un ebreo. Questo per via del mito secondo cui un generale ebreo non perdeva mai una guerra. E fino a quel momento il mito non era stato smentito. Ciò conferiva prestigio a ogni ebreo della Scuola di Guerra fin dall’inizio, e gli faceva sognare di diventare Stratega. Era anche causa di rancori. Di conseguenza c’era chi chiamava i Topi «l’orda dei Giudei» o con titoli ancor meno gentili. Ma c’era anche chi ricordava volentieri che durante la Seconda Invasione il Presidente americano, un ebreo, era stato l’Egemone degli alleati, e un ebreo israeliano aveva ricoperto l’incarico di Stratega nella difesa a terra. E il Condottiero della Flotta era stato un ebreo d’origine per metà russa e per metà maori della Nuova Zelanda, Mazer Rackham, inizialmente sconosciuto e per due volte sottoposto a corte marziale, la cui leggendaria Forza d’Assalto aveva spezzato l’accerchiamento delle strapotenti astronavi nemiche per poi distruggere gli Scorpioni in una battaglia terribile presso Saturno.
E se Mazer Rackham era riuscito a salvare il mondo, allora non importava un fico se uno era ebreo o non lo era. Così diceva la gente.
Ma importava, e Rose de Nose lo sapeva. Si compiaceva di prendere in giro se stesso per prevenire i commenti sarcastici degli antisemiti (quasi tutti quelli che sconfiggeva in sala di battaglia diventavano, almeno per qualche giorno, dei mangiaebrei) ma nello stesso tempo si assicurava che tutti sapessero chi era. La sua orda occupava il secondo posto in classifica, e aspirava al primo.
— Ti ho preso con me, goy, perché non mi va di sentir dire che vinco soltanto perché ho dei bravi soldati. Tutti devono vedere che perfino con un soldo di cacio di poppante come te posso sempre vincere. Noialtri qui abbiamo solo tre regole. Fai quello che dico io, e non pisciare a letto.
Ender annuì. Sapendo che Rose voleva sentirsi chiedere quale fosse la terza regola si rassegnò a domandarlo. L’altro strinse le palpebre.
— Vuoi dire che quelle non erano tre? Be’, ragazzo, non siamo molto bravi in matematica, qui.
Il messaggio era chiaro. Vincere contava di più di ogni altra cosa.
— Le tue piccole esercitazioni con quei lattonzoli del tuo gruppo sono finite, Wiggin. Dimenticale. Sei in un’orda di ragazzi grandi, adesso. Ti faccio l’onore di arruolarti nel branco di Dink Meeker. Da ora in poi, per quello che ti riguarda, Dink Meeker è il tuo solo Dio. OK?
— Allora tu chi sei?
— Il boss a cui Dio viene a fare rapporto tutti i giorni. — Rose sogghignò. — E per cominciare ti è proibito usare ancora il banco finché non farai fuori due nemici nella stessa battaglia. L’ordine serve solo alla difesa di noi poverini. Corre voce che tu sia un seduttore di computer, e non voglio che tu metta le tue laide mani sul mio banco innocente.
Tutti scoppiarono a ridere, anche chi non poteva aver sentito, e Ender ci mise qualche momento a capirne il perché. Rose aveva programmato sullo schermo del suo banco un disegno animato, rappresentante un organo genitale maschile fornito di braccia e gambe che si toglieva l’uniforme delle Salamandre per indossare quella dei Topi. Nudo e con l’apparecchio poggiato sull’addome, lo aveva inviato ai banchi degli altri. Questo è proprio il tipo di comandante a cui Bonzo voleva vendermi, pensò Ender. Come riesce a vincere le partite un ragazzo che passa il suo tempo a questo modo?
Ender trovò Dink Meeker in sala giochi, seduto a guardare un paio di compagni. — Alla porta mi hanno detto che tu sei Meeker. Io sono Ender Wiggin.
— Lo so — annuì l’altro.
— Faccio parte del tuo branco.
— Lo so — disse ancora lui.
— Sono piuttosto inesperto.
Il ragazzo lo fissò. — Senti, Wiggin, queste cose le so già. Perché credi che io abbia chiesto a Rose di assegnarti a me?
Non era stato affibbiato a qualcuno, era stato scelto, lo avevano chiesto. Meeker lo voleva. — Perché? — domandò.
— Ho assistito a un paio dei tuoi allenamenti coi nuovi arrivati. Credo che tu abbia delle doti. Bonzo è uno stupido, e voglio che tu abbia un addestramento migliore di quello che può darti Petra. Tutto ciò che lei sa è come usare la pistola.
— Avevo bisogno di far pratica di tiro.
— Ti muovi ancora come se avessi paura d’inciampare nelle scarpe.
— Allora insegnami.
— Tu pensa a imparare.
— Non ho intenzione di smettere l’allenamento nel mio tempo libero.
— Io non ti ho chiesto di smetterla.
— Lo ha fatto Rose de Nose.
— Rose de Nose non può darti quest’ordine. D’altra parte, può impedirti di usare il tuo banco.
— Credevo che i comandanti potessero ordinare qualsiasi cosa.
— Potrebbero anche ordinare alla luna di diventare blu, ma questo non accadrebbe. Ascolta, Ender, i comandanti hanno esattamente l’autorità che tu gli permetti di avere. Più ubbidisci ciecamente, più potere avranno su di te.
— Anche quello di prendermi a pugni a loro piacimento? — chiese Ender, ricordando la punizione inflittagli da Bonzo.
— Ho sentito dire che quello è stato a causa di una tua certa iniziativa non autorizzata.
— Mi hai tenuto d’occhio sul serio, allora. È così?
Dink non rispose.
— Non voglio che anche Rose mi prenda di mira. Voglio scendere in battaglia come gli altri, adesso. Sono stanco di star seduto fuori a guardare.
— Nella classifica dell’efficienza personale andrai giù.
Stavolta fu Ender a non rispondere.
— Ascolta, Wiggin, finché sarai parte del mio branco sarai parte della battaglia.
Lui ne capì presto il motivo. Dink addestrava il suo branco indipendentemente dal resto dell’orda dei Topi, con vigore e disciplina; non si consultava mai con Rose, e solo di rado l’orda eseguiva manovre d’insieme. Era come se Rose comandasse un esercito e Dink un altro molto più piccolo che per caso si allenava in sala di battaglia nelle stesse ore.
Dink diede inizio ai primi esercizi chiedendo a Ender di dare una dimostrazione della sua tecnica d’attacco a piedi in avanti. Agli altri ragazzi non piacque. — Come si può andare all’attacco distesi sulla schiena? — domandarono.
Con sorpresa di Ender, Dink non li corresse dicendo: — Non state attaccando sdraiati sulla schiena, state cadendo giù verso di loro. — Aveva visto la posa in cui Ender agiva, ma non aveva capito il diverso orientamento che essa implicava. A Ender fu subito chiaro che per quanto Dink fosse esperto e molto in gamba, la tenacia con cui restava attaccato all’orientamento gravitazionale del corridoio anche in sala di battaglia limitava la sua mentalità.
Fecero pratica d’attacco contro una stella tenuta dal nemico. Prima di sperimentare il sistema di Ender a piedi in avanti, s’erano sempre spinti in volo in posizione «eretta», con l’intero corpo esposto ai colpi. A quel modo non ebbero difficoltà a conquistare la stella con una manovra agile ed efficiente. — In alto, adesso! — gridò Dink, e il branco balzò verso il «soffitto». A suo credito, tuttavia, volle far ripetere l’esercizio ordinando: — A piedi in avanti, forza! — Ma a causa del loro inconscio collegamento a parametri gravitazionali che non esistevano, i ragazzi eseguirono la manovra con goffaggine, come se il vuoto che avevano sotto i piedi desse loro le vertigini.
Detestavano quel modo di andare all’attacco. Dink insisté che era pratico e dovevano usarlo. E come risultato essi detestarono Ender. — C’è bisogno che venga un novellino a insegnarci a volare? — brontolò uno di loro, a voce alta perché anche Ender sentisse. — Pare di sì — rispose Dink. I ragazzi continuarono a lavorare.
E impararono. Nelle scaramucce pratiche cominciarono a capire quanto fosse più difficile colpire un avversario che arrivava a piedi in avanti. Non appena si furono convinti di questo, eseguirono le manovre molto più volentieri.
Quella era la prima sera in cui Ender usciva da un intero pomeriggio di addestramento. All’arrivo di Alai era stanco.
— Ora che sei in un’orda — osservò l’amico, — non hai bisogno di far pratica con noi.
— Da voi posso imparare cose che nessuno sa — disse Ender.
— Dink Meeker è il migliore. Ho sentito dire che sei nel suo branco.
— Perciò diamoci da fare. Vi insegnerò quello che oggi ho imparato da lui.
Guidò Alai e due dozzine di altri attraverso le stesse esercitazioni che nel pomeriggio l’avevano sfibrato. Ma aggiunse particolari nuovi agli schemi; costrinse i ragazzi a tentare manovre con una gamba congelata, o con tutte e due, e ad usare la massa di un soldato già immobilizzato come appoggio per cambiare direzione.
A un certo punto, voltandosi, notò che Dink e Petra erano insieme sulla porta della sala e stavano guardando. Più tardi, quando si girò di nuovo, i due se n’erano andati.
Così mi stanno sorvegliando, e quel che faccio è risaputo, pensò. Non sapeva se Dink fosse suo amico o meno; supponeva che Petra lo fosse, ma non era certo di niente. Avrebbero potuto essere irritati nel vederlo indossare i panni di capobranco o addirittura di comandante intento ad addestrare i suoi uomini. Oppure offesi, trovando che un soldato preferiva la compagnia dei novellini. A disagio rifletté che i suoi rapporti coi ragazzi più anziani non sarebbero mai stati facili.
— Credevo d’averti ordinato di tenere il tuo banco sotto naftalina, pupo — disse Rose de Nose, fermandosi accanto alla sua cuccetta.
Ender non alzò lo sguardo. — Sto finendo il compito di trigonometria per domani.
Rose appoggiò un ginocchio sullo schermo. — Credi di poter prendere sottogamba i miei ordini?
Ender depose il banco sul letto e si alzò. — Credo di aver bisogno della trigonometria più di quanto ho bisogno di te.
Rose era almeno venti centimetri più alto di lui, ma questo non lo preoccupava particolarmente. Non si sarebbe giunti alla violenza fisica, e anche il tal caso lui avrebbe potuto difendersi. Rose era un pigro, e non conosceva le tecniche di combattimento individuale.
— Scenderai molto in classifica, ragazzo. — Rose scosse il capo.
— Era previsto. Stavo in cima alla lista solo perché l’orda delle Salamandre mi ha usato nel modo più stupido.
— Stupido? La strategia di Bonzo gli ha fatto vincere una partita chiave.
— La strategia di Bonzo non gli farebbe vincere una partita di ravanelli in scatola. Lui mi aveva messo fuori. Estraendo la pistola dal fodero ho violato i suoi ordini.
Rose non ne era stato al corrente. La rivelazione lo irritò. — Così tutto quello che Bonzo ha detto di te era una bugia. Non sei né svelto né competente… e inoltre disubbidisci agli ordini.
— Ma ho trasformato una disfatta in un pareggio, e da solo.
— Be’, vedremo come fai a vincere una partita da solo, la prossima volta. — Rose si allontanò.
Uno dei compagni di branco guardò Ender e scosse il capo. — Solo lo sciocco sputa nel piatto dove mangia.
Ender si volse a controllare Dink, che stava disegnando sul proprio banco. Come se lo fosse aspettato Dink alzò gli occhi e gli restituì in silenzio uno sguardo fermo. Nessuna espressione, nessun cenno. Benissimo, pensò Ender. So prendermi cura di me stesso.
Due giorni dopo ci fu una battaglia. Era la prima volta che Ender si batteva come parte di un branco, e questo lo rendeva nervoso. I ragazzi di Dink si allinearono sul lato destro del corridoio, e luì cercò di imitarne l’atteggiamento sicuro e noncurante. Almeno fingi, si disse a dentri stretti.
— Wiggin! — lo chiamò Rose de Nose.
Ender sentì la tensione bloccargli d’un tratto la gola, e una goccia di sudore gli scivolò lungo una guancia. Rose la notò.
— Tremante? Sudato? Non bagnare la tua tuta nuova, pivello. — Rose gli batté un dito sul calcio della pistola, poi lo spinse verso il campo di forza che celava alla vista l’interno della sala di battaglia. — Adesso vedremo quanto sai esser bravo, Ender. Appena questa porta si apre, tu schizzi dentro e fili dritto avanti verso la porta nemica. OK?
Un suicidio. Autodistruzione immotivata e senza significato. Ma lui doveva eseguire gli ordini, quella era una battaglia e non una seduta di allenamento. Per un attimo l’ira gli fece stringere i denti, poi si costrinse alla calma. — Eccellente, signore. — Annuì. — La direzione in cui sparerò sarà quella del loro contingente principale.
Rose sorrise ampiamente. — Sparare? Non ti daranno neppure il tempo di sputare, bambino.
Il muro d’energia svanì. Ender balzò in alto, si aggrappò al corrimano superiore e con una torsione puntò i piedi in «basso», poi si spinse verso la porta nemica.
Avevano di fronte l’orda dei Millepiedi, e i soldati stavano appena cominciando a uscire dalla loro porta quando Ender era già a mezza via nella sala di battaglia. Molti di loro furono svelti a saltare al riparo delle stelle, ma lui aveva ripiegato le gambe sotto di sé e, con la pistola fissa nel varco fra le ginocchia per assicurarsi la mira, sparò un colpo dopo l’altro centrando gli avversari al momento del loro ingresso nel locale.
Gli congelarono le gambe, cosa che servì soltanto a regalargli altri preziosi secondi prima d’arrivare sotto il fuoco di quelli allargatisi ai lati. Ne colpì ancora diversi, quindi allargò le braccia in croce, puntando quello armato verso il grosso dell’orda dei Millepiedi. Fece fuoco sui loro corpi in rapido spostamento, e subito dopo una gragnuola di colpi lo congelò.
Un secondo più tardi andò a sbattere in pieno sul campo di forza della porta nemica, che lo rispedì indietro roteante come una trottola. Ormai inerme finì in mezzo a un branco di avversari attestati dietro una stella, e uno di loro lo tolse di mezzo con un calcio che lo fece roteare ancor più velocemente. Per il resto della battaglia rimbalzò qua e là, mentre la frizione dell’aria lo faceva rallentare poco a poco. Non aveva modo di sapere quanti Millepiedi fosse riuscito a metter fuori causa, ma poté stabilire che l’orda dei Topi stava comunque vincendo, come al solito.
Dopo la battaglia Rose non gli disse verbo. Ender risultava sempre primo nella classifica dell’efficienza, poiché ne aveva congelati tre, disabilitati interamente due, e parzialmente altri sette. Non vi furono più accenni al suo comportamento insubordinato, né proibizioni di usare il banco. Rose restò nella sua zona della camerata e lo lasciò in pace.
Dink cominciò a sperimentare la tattica dell’uscita istantanea dal corridoio; l’attacco di Ender mentre il nemico era ancora in fase d’ingresso era stato giudicato devastante. — Se un solo uomo può fare tanto danno, pensate cosa riuscirebbe a ottenere un branco. — Dink convinse il maggiore Anderson a far aprire una porta nel centro di una parete, nelle sedute di allenamento, al posto di quella a livello del «pavimento», per esercitarsi alle uscite di slancio in condizioni di battaglia. La voce si sparse subito. Da quel giorno in poi nessuno avrebbe concesso ai suoi uomini di uscire in campo con tutta calma. Le gare erano cambiate.
Ci furono altre battaglie. Ender vi partecipò svolgendo il suo ruolo come parte del branco. Commise degli errori. Parecchi scontri lo videro soccombere. Nella classifica scese dapprima al secondo posto, poi al quarto. Ma più imparava come porre rimedio ai suoi sbagli, più si adattava e si affiatava al branco, e riuscì a risalire al terzo posto, quindi al secondo e di nuovo al primo.
Un pomeriggio, dopo gli allenamenti, Ender si trattenne in sala di battaglia. Aveva notato che Dink Meeker arrivava invariabilmente a cena con un po’ di ritardo, e s’era detto che il capobranco si dedicava a un addestramento extra di qualche genere. Non aveva una gran fame, ed era curioso di sapere come Dink si allenava quando nessuno poteva vederlo.
Ma Dink non fece assolutamente nulla. Rimase fermo accanto alla porta, lo sguardo fisso su Ender.
Dal centro del vasto locale lui lo osservò in silenzio.
Nessuno dei due disse parola. Era chiaro che Dink aspettava l’uscita di Ender. E altrettanto chiaramente lui gli stava comunicando che non se ne sarebbe andato.
Dink allora gli volse le spalle, con gesti metodici si tolse la tuta da battaglia e poi si diede una spinta leggera, fluttuando via dal pavimento. Il suo volo lentissimo, fluido, lo portò attraverso la sala immersa nella penombra, col corpo quasi del tutto rilassato e le braccia mollemente distese quasi a cogliere il respiro delle inavvertibili correnti d’aria.
Dopo la fatica e la tensione degli esercizi, le imprecazioni, gli ordini e le manovre concitate, guardarlo galleggiare a quel modo era perfino riposante. Dink impiegò almeno dieci minuti per raggiungere la parete opposta. Infine si spinse indietro con uno scatto rapido, tornò dove aveva lasciato la tuta e la indossò.
— Andiamo — disse a Ender.
Tornati in camerata trovarono il locale vuoto, poiché tutti i ragazzi erano a mensa. I due andarono ai loro armadietti e misero tute da fatica pulite, quindi Ender ripassò accanto alla cuccetta di Dink e si fermò ad attendere che anch’egli fosse pronto.
— Perché mi hai aspettato? — domandò Dink.
— Non ho molta fame.
— Be’, ora sai perché non sono un comandante.
Ender se l’era già chiesto.
— In realtà mi hanno promosso, due volte, ma ho rifiutato.
Rifiutato? si stupirono gli occhi di Ender.
— Mi hanno tolto ogni volta la cuccetta, gli armadietti e il banco, mi hanno assegnato una cabina da comandante e mi hanno dato un’orda. Ma io sono rimasto nel mio alloggio, finché non si sono rassegnati a rimandarmi di nuovo in un’orda come subordinato.
— Perché?
— Perché non voglio che mi manovrino fino a questo punto. Non credo che tu abbia già saputo guardare in fondo a questa situazione, Ender. Ma tu sei ancora ingenuo. Tutte le altre orde, non sono loro il nemico. I nostri nemici sono gli insegnanti. Riescono a farci combattere l’uno contro l’altro, a farci odiare l’un l’altro. Tutto è gara. Vincere, vincere, vincere. E dietro questo c’è il niente. Ci ammazziamo a vicenda, diventiamo matti per battere questo o quell’avversario, e per tutto il tempo quei vecchi bastardi ci sorvegliano, ci studiano, scoprendo i nostri punti deboli, decidendo se siamo abbastanza bravi o no. Be’, abbastanza bravi per cosa? lo avevo sei anni quando mi hanno portato qui. Cosa diavolo potevo sapere? Loro decisero che io ero adatto al programma in corso, ma nessuno mi ha mai domandato se il programma era adatto a me.
— Allora perché non torni a casa?
Dink ebbe un sorriso storto. — Perché io non mi arrendo a metà gara. — Palpeggiò il tessuto della sua tuta da battaglia, distesa sulla cuccetta. — Perché amo tutto questo.
— Se è così, perché non essere un comandante?
Dink scosse il capo. — Mai. Guarda quel che ha fatto a Rose. Il ragazzo è matto. Rose de Nose. Dorme qui con noi invece che nella sua cabina. E sai perché? Perché ha paura della solitudine, Ender. Ha paura del buio.
— Rose?
— Ma loro lo hanno fatto comandante, e così deve comportarsi come se lo fosse davvero. E non sa cosa sta facendo qui. Vince le partite, e questo lo spaventa più di qualunque altra cosa, dato che non sa perché le vince, salvo che io ho qualcosa a che fare col risultato. Teme che da un momento all’altro qualcuno possa scoprire che lui non è una sorta di magico generale israeliano. Non si chiede neppure perché ci lasciano accanire tanto in queste gare. Nessuno se lo chiede.
— Questo non significa che sia matto, Dink.
— Lo so, tu sei qui da appena un anno e credi che questi ragazzi siano normali. Be’, non lo sono. Noi non lo siamo. Io frugo in biblioteca, e chiedo dei libri sul mio banco. Libri vecchi, perché non ci permettono di consultare roba recente; comunque mi è bastato per avere un’idea di ciò che è un ragazzino. E noi non siamo dei ragazzini. Quelli possono perdere qualche volta, e a nessuno importa. I ragazzini non vengono chiamati alle armi, non diventano comandanti, non spadroneggiano su più di quaranta altri della loro età. Questo supera ciò che chiunque possa sopportare senza diventare un po’ pazzo.
Ender cercò di rammentare quali altri bambini, nella sua vecchia scuola e in città, erano di quel genere. Ma il solo a cui poté paragonarli fu Stilson.
— Io avevo un fratello. Un tipo proprio normale. L’unica cosa che gli importava erano le ragazze. E il volo. Voleva volare. Gli piaceva anche giocare a pallone… qualche partitella, far rimbalzare la palla contro il muro, dribblare e correre su e giù per i corridoi della città, finché un agente della quiete non gli sequestrava il pallone. Insieme ce la spassavamo. Mi stava insegnando a dribblare, quando fui arruolato.
Ender ripensò al proprio fratello, e non si trattò di un ricordo molto consolante.
Dink fraintese l’espressione del suo volto. — Ehi… so che qui nessuno parla di casa. Ma noi proveniamo da un luogo, no? La Scuola di Guerra non ci ha partorito. Semmai ci distrugge. E tutti quanti ricordiamo le cose di casa nostra. Forse non volentieri, a volte, ma le ricordiamo e poi davanti agli altri fingiamo che… senti, Ender, perché fanno in modo che nessuno parli mai di casa? Questo non ti fa pensare che la cosa abbia un’importanza? Ci manovrano in modo che nessuno osa ammettere… ah, al diavolo anche te!
— No, aspetta — lo corresse Ender. — Stavo solo pensando a Valentine. Mia sorella.
— Scusa. Non volevo metterti di cattivo umore.
— Non fa nulla. Non ho pensato molto a lei, ultimamente, e proprio perché sto diventando… come hai detto tu.
— Già. E non piangiamo mai. Cristo, a questo non avevo mai pensato. Stiamo davvero mettendocela tutta per essere adulti. Come i nostri padri. Scommetto che tuo padre era come te, eh? Un bambino tranquillo, paziente, ma capace di…
— No, io non sono come mio padre.
— Be’ forse dico delle sciocchezze. Ma guarda Bonzo, il tuo ex comandante: si è praticato da solo un’overdose di antico onore spagnolo. Non può concedere a se stesso un attimo di debolezza. E chi riesce meglio di lui, lo sta insultando. Ma essere forte a quel modo è come tagliarsi le palle. Ecco perché ti odia: quando cercava di punirti tu non ne soffrivi. Così ti odia, e gli sembra normale desiderare di ammazzarti. È un pazzo. Tutti sono pazzi.
— E tu no?
— Sì, anch’io, ragazzino. Ma almeno, quando ho fatto un’indigestione di pazzia mi alzo in volo come un uccello nello spazio… finché la pazzia non mi esce dalla pelle e va ad appiccicarsi ai muri. Ma il giorno dopo arrivano altre battaglie, e torme di ragazzi urlanti vanno a sbattere calci sulle pareti. E la pazzia ne schizza fuori e mi ritorna addosso.
Ender sorrise.
— E anche tu sei pazzo — disse Dink. — Avanti, andiamo a mangiare.
— Magari tu potresti essere un comandante senza essere un pazzo. Magari il fatto di conoscere questa pazzia ti impedirà di cascarci dentro.
— Io non lascerò che quei bastardi mi manovrino, Ender. Sono riusciti a metterti sotto ben bene, e non hanno in programma di trattarti coi guanti. Guarda quello che ti hanno combinato fin’ora.
— Non mi hanno fatto niente, a parte darmi una promozione.
— E questa ti ha reso la vita tanto dolce, eh?
Ender rise e scosse il capo. — No, se la metti così.
— Loro pensano di averti su un vassoio. Non permetterglielo.
— Ma è per questo che sono venuto qui — disse Ender. — Per lasciare che mi trasformino in uno strumento. Per salvare il mondo.
— Non mi capacito che tu creda ancora a queste cose.
— Quali cose?
— La minaccia degli Scorpioni. Salvare il mondo. Ascolta, Ender, se gli Scorpioni volessero tornare, sarebbero già qui. Ma non ci stanno invadendo. Li abbiamo battuti, e loro se ne sono andati.
— Ma i filmati che…
— Tutta roba della Prima e della Seconda Invasione. Quando Mazer li spazzò via, i tuoi nonni non erano ancora nati. Apri gli occhi. È tutta una commedia. Non c’è nessuna guerra, e la F.I. ci tiene qui per i suoi scopi.
— Quali scopi?
— Finché la gente avrà paura degli Scorpioni, la F.I. resterà in una posizione di potere, e finché deterrà il potere certe nazioni continueranno a esser governate come in passato. Ma guarda i telegiornali, Ender: presto la gente non vedrà più il motivo di questa alleanza, e ci saranno di nuovo guerre, forse anche quella che metterà fine a tutte le guerre. La minaccia è questa, Ender, non gli Scorpioni. E in questa guerra, quando verrà, tu e io non saremo amici. Perché tu sei americano, proprio come i nostri cari insegnanti. E io non lo sono.
Andarono in sala mensa e cenarono, parlando d’altre cose. Ma Ender non poté impedirsi di continuare a riflettere su quel che Dink aveva detto. La Scuola di Guerra era un ambiente a tal punto chiuso, intorno a quei bambini così presi dalle gare, che lui dimenticava perfino l’esistenza del mondo esterno. Onore spagnolo. Guerre. Manovre politiche. Sì, la Scuola di Guerra era un posto ben piccolo al confronto.
Ma lui non poteva prendere per buone le conclusioni di Dink. Gli Scorpioni erano veri. La minaccia era reale. La F.I. controllava un sacco di cose, ma non la TV e la stampa. Non nella città in cui era nato. A casa di Dink, in Olanda, dopo tre generazioni di egemonia sovietica forse tutto era controllato. Ma suo padre aveva detto spesso che le bugie non potevano durare a lungo in America. E lui ci credeva.
Ci credeva, anche se il seme del dubbio era lì, ma del tutto inerte, e ogni tanto metteva fuori una piccola radice. Era un seme che nel crescere stava causando dei mutamenti. Lo rese più attento al significato dei discorsi altrui che alle loro parole. Lo rese più saggio.
Quella sera non c’erano molti ragazzi al solito allenamento, neppure la metà. — Dov’è Bernard? — s’informò Ender.
Alai si limitò a sogghignare. Shen alzò gli occhi al cielo e assunse un’aria di meditazione ispirata.
— Non te l’hanno detto? — intervenne un altro, un novellino di un gruppo arrivato un paio di mesi prima. — Corre voce che chi viene a imparare con te poi non combina niente di buono nell’orda di qualcun altro. Dicono che i comandanti non vogliono soldati che siano stati rovinati dai tuoi allenamenti.
Ender annuì.
— Ma io non me ne curo — continuò il ragazzino. — Voglio diventare il miglior soldato che ci sia, e allora un comandante che abbia un grammo di cervello pregherà per avermi. No?
— Sicuro. — Ender esibì un’aria convinta.
Cominciarono a lavorare di lena. Dopo circa mezz’ora, mentre stavano addestrandosi a manovrare i corpi congelati altrui per farsene scudo, numerosi comandanti vestiti di uniformi diverse entrarono in sala. Ostentando un’aria grave presero il nome a tutti.
— Ehi! — gridò Alai quando se ne andarono. — Siete sicuri di aver scritto bene il mio nome?
La sera dopo i ragazzi presenti erano ancora meno. E agli orecchi di Ender stavano giungendo voci preoccupanti: bambini del gruppo appena arrivato gettati a terra nelle docce, presi a spinte in sala giochi, sottomessi a soprusi in qualche corridoio, e le registrazioni dei compiti di scuola nei loro banchi cancellate o rovinate da ragazzi più anziani che sapevano come inserirsi nel computer.
— Stasera niente esercizi — disse Ender.
— Niente esercizi col cavolo! — si oppose Alai.
— Diamogli soddisfazione per qualche giorno. Non voglio che facciano del male a questi ragazzini.
— Se la smettiamo, anche per una sola sera, si convinceranno che le prepotenze di questo genere funzionano. Proprio come se tu fossi rimasto zitto e buono quando Bernard ti prendeva a pugni in testa.
— Inoltre — aggiunse Shen, — qualunque cosa facciano, noi non abbiamo paura. Perciò dobbiamo continuare. Abbiamo bisogno di pratica, e tu anche.
Ender ripensò a quel che aveva detto Dink. Le gare erano irrilevanti a confronto del resto del mondo. Perché qualcuno avrebbe dovuto regalare tutte le serate della sua vita a quello stupido, stupidissimo gioco?
— Pochi come siamo, non concluderemmo molto in ogni modo — disse Ender avviandosi all’uscita.
Alai lo prese per un gomito. — Ti hanno messo paura? Ti hanno pestato nelle doccie? Ti hanno ficcato la testa nel gabinetto? I ragazzi della tua orda ti sparano alla schiena quando nessuno li vede?
— No — disse Ender.
— Sei ancora mio amico? — chiese Alai sottovoce.
— Sì.
— Allora restiamo uniti, Ender. Io starò qui e mi allenerò con te.
I ragazzi più anziani tornarono a curiosare, ma pochi di loro erano comandanti di un’orda. Nel gruppo che venne dentro Ender vide alcune uniformi delle Salamandre, e anche un paio di Topi. Stavolta non presero nomi. Ridacchiarono, si diedero di gomito l’un l’altro e cominciarono a far battute pesanti ad alta voce, deridendo gli sforzi dei ragazzini più giovani che compivano esercizi coi loro muscoli non allenati. Non pochi di essi ne furono umiliati; qualcuno accennò a smettere.
— Ascoltate bene quello che dicono — intervenne Ender. — Annotatevi le loro parole. Vi saranno utili per quando vorrete far uscire dai gangheri il vostro avversario. Noi invece sappiamo mantenere la calma, no?
Shen volle sviluppare quel concetto, e ad ogni comparsa dei sogghignanti spettatori preparò un gruppetto di novellini per ripetere in coro le frasi più offensive. Quando ci presero gusto e acquistarono ritmo, quel coro intercalato da ululati sarcastici divenne così sfottente che alcuni dei ragazzi più anziani si spinsero via dalla parete e vennero avanti per battersi.
Le tute da battaglia erano confezionate per combattimenti a impulsi luminosi; offrivano scarsa protezione nelle lotte corpo a corpo in gravità zero, oltre ad ostacolare molto i movimenti. Metà dei ragazzi di Ender, tuttavia, indossavano tute di quel genere e non potevano lottare a mani nude. Ma la rigidità del tessuto li rendeva potenzialmente utili. In fretta lui ordinò ai novellini di radunarsi in un angolo della sala. I ragazzi più anziani risero di quella mossa, e altri nel vedere che il gruppetto si ritirava lasciarono la parete per unirsi agli attaccanti.
Ender e Alai decisero di proiettare un soldato congelato in faccia a un avversario. Il ragazzo prescelto usò la pistola su se stesso, abbassò l’elmo sul volto, e i due lo scaraventarono avanti. L’avversario fu colpito dal casco in pieno petto, e rantolò di dolore.
Nessuno scherzava più, adesso. Il resto dei ragazzi anziani si lanciò in volo verso la zona della battaglia. Ender non aveva troppe speranze che i suoi compagni se la cavassero senza ferite, forse anche serie. Ma il nemico li aggrediva in disordine e senza alcuna coordinazione: non avevano mai lavorato insieme, mentre la piccola orda di Ender, benché composta da appena una dozzina di elementi, aveva già una serie di schemi pronti per le manovre di gruppo.
— Quattro-Tre-Nova! — gridò Ender. Gli avversari risero. I suoi ragazzi formarono tre gruppi, coi piedi uniti e tenendosi per mano, simili a piccole stelle a contatto della parete di fondo. — Aggirare gli avversari e raggiungere la porta. Pronti… adesso!
Al segnale le tre stelle esplosero, mentre ciascuno dei quattro componenti schizzava via in una direzione diversa per rimbalzare sulle pareti laterali e raggiungere la porta. I loro assalitori si trovavano al centro del locale, dove mutare direzione era assai più difficoltoso, e oltrepassarli fu una manovra facile.
Ender aveva calcolato la sua posizione in modo che la spinta lo portasse a raggiungere il ragazzo congelato che s’era lasciato usare come un missile. Ora la sua tuta s’era di nuovo ammorbidita, e appena l’ebbe preso Ender sfruttò il proprio momento d’inerzia per spedirlo verso la porta. Sfortunatamente l’inevitabile risultato fu che lui venne respinto dalla parte opposta, e a velocità ridotta. Isolato dai suoi soldati stava ora fluttuando in direzione del fondo della sala, dove gli avversari s’erano riuniti. Si girò e controllò che i suoi compagni fossero giunti senza danni nei pressi dell’ingresso.
Ma intanto gli altri, furibondi e disorganizzati, s’erano accorti di lui. Ender cercò di calcolare quanti secondi aveva a disposizione per arrivare alla parete e spingersi via. Non abbastanza. E parecchi avversari già rimbalzavano verso di lui. Per un attimo fu sgomento nel vedere fra i loro volti quello di Stilson. Poi, con un brivido, capì che s’era trattato di uno scherzo della fantasia. Ma la situazione non era poi troppo diversa, con la differenza che stavolta non poteva risolverla con un duello. Quei ragazzi non avevano un capobanda, almeno per quanto ne sapeva lui, ed erano tutti più grossi e più forti.
Tuttavia qualcosa aveva imparato sui combattimenti corpo a corpo in assenza di peso, e sulla meccanica degli oggetti in movimento inerziale. Nelle partite in sala di battaglia non c’era bisogno di quelle tecniche; un soldato non si gettava in mezzo a un gruppo di avversari non congelati per colpirli a mani nude. Così, nei pochi secondi che gli restavano, cercò d’assumere la posizione migliore per accogliere gli assalitori.
Per sua fortuna essi conoscevano la lotta a zero G ancor meno di lui, e i pochi che tentarono di prenderlo a pugni scoprirono che i colpi avevano ben scarso effetto, dal momento che i loro corpi si muovevano all’indietro nell’istante stesso in cui facevano scattare avanti un braccio. Ma alcuni stavano arrivando a gambe tese, chiaramente intenzionati a spaccargli una costola con una pedata, e Ender si disse che doveva togliersi via al più presto dal loro punto d’impatto.
Afferrò per un polso un ragazzo che gli aveva appena mollato una sventola e lo tirò con forza verso di sé. Lo strattone servì a farlo roteare fuori portata dagli avversari in avvicinamento, ma lo allontanò ancor di più dalla porta. — State dove siete! — gridò ai compagni, che si preparavano ad accorrere in sua difesa. — Non muovetevi da lì!
Qualcuno lo afferrò per un piede. La stretta gli servì da leva, e riuscì a piazzare sull’orecchio destro del ragazzo un pedatone che gli strappò un grido. Se l’avversario l’avesse lasciato andare per tempo il colpo gli avrebbe causato assai meno danni. Invece volle essere testardo: il calcio gli lacerò l’orecchio facendone sprizzare gocce di sangue, e soltanto il dolore lo costrinse infine a mollare la presa.
Lo sto facendo di nuovo, pensò Ender. Faccio del male agli altri, soltanto per salvare me stesso. Perché non mi lasciano in pace? Perché devono costringermi a questo?
Altri tre ragazzi stavano convergendo su di lui, e stavolta agivano di concerto. La loro intezione era di ancorarsi a lui e di colpirlo tenendolo fermo. Ruotò su se stesso in modo da consegnare i suoi piedi a due di loro, e avere le mani libere per affrontare il terzo.
Come aveva previsto, i due avversari gli agguantarono subito le gambe. Ender prese l’altro per le spalle della tuta, lo trasse a sé e lo colpì con una testata in piena faccia. Ancora un gemito, ancora gocce di sangue che fluttuavano attorno. Gli altri due lo stavano percuotendo sui fianchi e cercavano di girarlo. Ender sbatté loro addosso il ragazzo che perdeva sangue dal naso, scalciò più volte e le sue gambe furono libere. Poi fu solo questione di usare lo stesso avversario come punto di appoggio, e spingendolo via si proiettò in direzione della porta. La manovra non fu pulita e veloce come quelle eseguite in allenamento, e lo fece roteare in modo antiestetico, ma poco importava. Nessuno lo stava inseguendo.
Alla porta si trovò in mezzo ai compagni. Dieci mani lo presero e lo dirottarono nel corridoio. I ragazzi ridevano sollevati e gli davano grandi manate sulle spalle. — Dannato bastardo! — lo complimentarono. — Razza di volpone! In gamba! Sei andato forte, amico!
— Be’, basta con l’addestramento, per oggi — disse Ender.
— Domani quelli torneranno — pronosticò Shen.
— Non otterranno quel che sperano — disse Ender. — Se verranno senza tute, finirà come oggi. Se avranno le tute da battaglia, li batteremo sulla velocità.
— Però — disse Alai, — scommetto che gli insegnanti non lo permetteranno.
Ender tornò a ripensare alle parole di Dink, e si disse che forse Alai aveva visto giusto.
— Ehi, Ender! — gli gridò dietro uno dei ragazzi anziani, mentre lui se ne andava. — Tu non sei nessuno, pivello. Sei zero!
— È il mio ex comandante, Bonzo — sospirò Ender. — Sembra che io non gli sia simpatico.
Quella sera Ender chiese sullo schermo del suo banco il rapporto dell’infermeria. Quattro ragazzi s’erano presentati per ricevere cure. Uno con una costola incrinata, uno con un testicolo dolorante, uno con l’orecchio destro lacerato, e uno col naso rotto e un incisivo spezzato. La causa riferita al medico era la stessa nei quattro casi:
Se gli insegnanti avallavano quel palese falso nelle registrazioni ufficiali, era ovvio che non intendevano prendere provvedimenti contro chi aveva partecipato alla zuffa in sala di battaglia. Possibile che non facciano niente? Non gli importa quel che succede in questa scuola?
Visto che era tornato in camerata prima del solito, chiamò la partita libera sul suo banco. Da un po’ di tempo non la giocava più, e forse per quel motivo la sua figura non cominciò nel posto in cui l’aveva lasciata. La vide prender forma presso il corpo del Gigante. Soltanto che adesso era a stento identificabile come un corpo, a meno che uno non indugiasse a esaminarlo. La massa mummificata s’era trasformata in una collinetta su cui crescevano erbacce e rampicanti. Il cranio era invece ancora riconoscibile per i tratti di osso nudo e bianco, simile a roccia gessosa levigata dalla pioggia.
Ender proseguì, aspettandosi di dover eliminare i bambini licantropi, ma giunto al parco giochi ebbe la sorpresa di trovarlo vuoto. Forse una volta uccisi restavano morti per sempre. Questo lo rese un po’ triste.
Attraversò la foresta, scese nel pozzo, uscì dalla caverna piena di gemme e si trovò sul cornicione che sovrastava il meraviglioso panorama campestre. Di nuovo si gettò nel vuoto, la nuvoletta lo prese al volo e lo trasportò nella stanza in cima alla torre del castello.
Il serpente cominciò a sciogliere le sue spire dinnanzi al focolare, ma stavolta Ender non esitò: balzò sulla testa del rettile e la schiacciò sotto i piedi. La bestiaccia si contorse furiosamente, costringendolo a calpestarla a lungo, ma finalmente giacque immobile. Ender sollevò il serpente e lo scosse per controllare che non potesse tornare in vita. Poi, trascinandoselo dietro, cominciò a cercare se c’era una via d’uscita.
Trovò invece uno specchio. E in esso vide comparire una faccia che riconobbe all’istante. Era Peter. Sul suo mento ruscellavano gocce di sangue, e da un angolo della bocca gli sporgeva la coda di un serpente.
Con un grido di spavento Ender respinse il banco. I pochi ragazzi che c’erano in camerata si volsero di scatto, allarmati, e lui dovette scusarsi spiegando che non era successo nulla. Ma quando trasse di nuovo il banco a sé gli tremavano le mani. La sua figura era sempre nella stanza, davanti allo specchio. La fece voltare e cercò di usare un mobile per rompere il cristallo, ma non riuscì a spostarlo. Inutile fu anche il tentativo di staccare lo specchio dal muro. Alla fine Ender vi scaraventò contro il serpente. Lo specchio andò in frantumi e dietro di esso comparve un foro sbrecciato nei mattoni. Dall’apertura guizzarono fuori dozzine di serpentelli che si gettarono sulla figura di Ender, mordendola dappertutto. Strappandosi i rettili di dosso con movimenti frenetici la figura barcollò, cadde morta e fu ricoperta da un viluppo di forme verdi che la nascosero.
Lo schermo diventò nero, e apparve una scritta:
Ender spense il banco e lo mise nell’armadietto.
Il giorno dopo parecchi comandanti vennero a stringere la mano a Ender, o mandarono uno dei loro soldati a dirgli che erano solidali con lui. Alcuni dichiararono che i suoi allenamenti extra una buona idea e che dovevano continuare. Per esser sicuri che nessuno avrebbe tentato soprusi si dissero disposti ad affidargli quei loro soldati che avevano bisogno di migliorare. — E i miei sono grossi come quegli Scorpioni che vi hanno attaccato l’altra sera — disse uno di loro. — Adesso dovranno pensarci due volte.
Quella sera invece di dodici ragazzi ce n’erano quarantacinque, più dei componenti di un’orda. E sia che fosse per la presenza di quelli che avevano affiancato Ender, sia che la sera prima ne avessero avuto abbastanza, nessuno dei loro provocatori si fece vivo.
Ender non chiamò più sul suo banco la partita libera. Ma essa continuava a svolgersi nei suoi sogni, mista al ricordo di come aveva ucciso il Gigante, alla ferocia con cui aveva schiacciato il serpente e affogato i licantropi, ai calci che aveva dato a Stilson, all’indifferenza con cui aveva rotto un braccio a Bernard. E terminava col volto di Peter che lo fissava orribilmente dallo specchio. Questo gioco sa troppe cose di me. Questo gioco dice delle sporche bugie. Io non sono Peter. Io non ho l’istinto omicida nel mio cuore.
Ma restava la paura più raggelante, il sospetto di essere un killer, e perfino migliore dello stesso Peter. Il pensiero che proprio quella sua dote compiacesse maggiormente gli insegnanti. È di killer che hanno bisogno contro gli Scorpioni. Gente che può prendere il nemico a calci nei denti e far schizzare il suo sangue per tutto lo spazio.
Be’, io sono il vostro uomo. Sono io il bastardo sanguinario che volevate quando avete autorizzato la mia nascita. Io sono il vostro strumento, e che differenza fa se odio la parte di me della quale avete più bisogno? Che differenza fa se quando i serpentelli della partita mi hanno ucciso io ero d’accordo con loro, e ne ero contento?