CAPITOLO QUINDICESIMO L’ARALDO DEI DEFUNTI

Il lago era immobile; non spirava un alito di vento. I due uomini occupavano un paio di sedie a sdraio affiancate sul moletto. A un anello rugginoso era ormeggiata una piccola zattera. Graff aveva allungato un piede sulla corda e ogni tanto tirava la zattera verso di sé, la spingeva via, poi la attirava di nuovo.

— Lei è alquanto dimagrito.

— Ci sono tensioni che fanno ingrassare, altre che fanno dimagrire. Io sono un ammasso di semplici reazioni chimiche.

— Dev’essere stata dura per lei.

Graff scosse le spalle. — Non poi troppo. Sapevo che sarei stato assolto.

— Alcuni di noi non lo erano altrettanto. Maltrattamenti di minori, negligenza, due casi di morte violenta… Quei filmati di Bonzo e di Stilson hanno fatto un brutto effetto. Vedere un ragazzo che ne uccide un altro…

— Se non altro, credo che abbiano salvato me. Il pubblico ministero li aveva tagliati, ma noi abbiamo presentato l’intera registrazione. È stato dimostrato che il provocatore non era Ender. Fatto ciò, si è trattato solo di ribadire certi concetti. Io ho affermato che lo consideravo necessario per la salvezza della razza umana, e ha funzionato; il giudice ha dichiarato che l’accusa doveva provare oltre ogni dubbio che Ender avrebbe vinto la guerra senza l’addestramento particolare che gli abbiamo dato. Il resto è stato semplice. Le necessità della guerra.

— Comunque sia, Graff, per noi è stato un sollievo. So che abbiamo dovuto costituirci anche noi come parte lesa, e che l’accusa ha usato nastri di nostre conversazioni contro di lei. Ma io ero già convinto che lei fosse nel giusto, e mi offersi di testimoniare a suo favore.

— Lo so, Anderson. I miei avvocati me lo dissero.

— E adesso cosa farà?

— Non lo so. Per ora mi rilasso. Ho parecchi anni di stipendio accumulato in banca, e potrei vivere con gli interessi. Forse mi darò all’ozio.

— Potrebbe essere un’idea. Ma io non ne sarei capace. Ho già rifiutato la presidenza di tre diverse università, offertami in base all’ipotesi che io sia un educatore. Nessuno mi crede quando dico che alla Scuola di Guerra tutto ciò che m’interessava erano le battaglie. Penso che accetterò quell’offerta di cui le dicevo.

— Allenatore?

— Ora che le guerre sono finite, il campionato attirerà più pubblico. Ma per me sarà una specie di vacanza: soltanto ventotto squadre in serie A. E dopo anni trascorsi a guardare ragazzi che volano e rimbalzano, il rugby mi farà l’effetto di un pomeriggio dedicato a contare le lumache in giardino.

I due risero. Graff sospirò e spinse via la zattera col piede.

— Questo natante. Difficile che possa sostenere lei.

Graff scosse il capo. — Lo ha costruito Ender.

— Già, è vero, è qui che lei lo portò.

— La proprietà è stata intestata a lui. Mi sono accertato che il governo non fosse avaro. Ha più denaro di quel che potrà mai spendere.

— Sempre che gli permettano di tornare a spenderlo.

— Non lo faranno.

— Con Demostene che invoca il ritorno in patria dell’eroe?

— Demostene ha chiuso con la videostampa.

Anderson inarcò un sopracciglio. — Questo che significa?

— Demostene si è ritirato. Definitivamente.

— Lei sa qualcosa, eh, vecchio lupaccio? Lei sa chi è Demostene.

— Chi era.

— Be’, me lo dica!

— No.

— Via, adesso lei non è più divertente, Graff!

— Non lo sono mai stato.

— Almeno potrebbe dirmi perché. Molti di noi erano disposti a giurare che un giorno Demostene avrebbe potuto diventare Egemone.

— Non esisteva nemmeno la più pallida possibilità. No, neppure tutti gli asini che trottano dietro Demostene potrebbero ragliare abbastanza da convincere l’Egemone a riportare Ender sulla Terra. Ender è troppo pericoloso.

— Ha soltanto undici anni. Dodici, adesso.

— Perciò chiunque potrebbe controllarlo facilmente, il che lo rende ancor più pericoloso. In ogni angolo del globo il nome di Ender può far muovere la gente: il Dio-Bambino, la Guida-Miracolosa, il Liberatore, Lo Stregone… qualunque aspirante tiranno potrebbe metterlo alla testa di un esercito e avrebbe vinto prima di sparare un sol colpo. E qualunque uomo savio e giusto, avendo Ender dalla sua parte, lo sfrutterebbe per ottenere il potere assoluto. Se tornasse sulla Terra sarebbe per venire qui, vivere tranquillo, salvare ciò che resta della sua adolescenza. Ma non glielo permetterebbero mai.

— Capisco. E questo è stato spiegato a Demostene?

Graff sorrise. — È stato Demostene a spiegarlo a qualcun altro. Qualcuno che di Ender saprebbe farne l’uso più completo, per unificare il mondo e governarlo con mano di ferro.

— Chi?

— Locke.

— Locke è quello che ha scritto di più sulla necessità di lasciare Ender su Eros.

— Il che dimostra che le cose non sono mai quello che sembrano.

— È troppo complicato per me, Graff. Mi dia una buona squadra, ecco la politica che capisco: regole chiare, arbitri onesti, e vincitori e perdenti che alla fine della partita si stringono la mano e se ne tornano a casa dalle loro donne.

— Mi faccia avere qualche biglietto di tanto in tanto, d’accordo?

— Non vorrà davvero starsene qui ad ammuffire, eh?

— No.

— Mi sembra d’aver capito che l’Egemone le ha offerto una poltrona.

— Una nuova di zecca. Quella di Ministro delle Colonie.

— Dunque è a questo che stanno puntando.

— Appena ci arriveranno i rapporti sui mondi che erano stati colonizzati dagli Scorpioni. Voglio dire, sono lì che ci aspettano, fertili e pronti, con strade e industrie e abitazioni già edificate, e i loro vecchi padroni tutti morti. Assai conveniente. Potremo modificare le leggi sul controllo della popolazione…

— Che tutti odiano.

— … e tutti i Terzi e i Quarti e i Quinti avranno astronavi per cercare il loro destino su mondi conosciuti e sconosciuti.

— Crede che la gente ci andrà?

— La gente ci prova sempre. Sempre. Niente può togliere dalla testa a un uomo che forse su un altro mondo può trovare una vita migliore.

— All’inferno, magari è davvero così!


Nei primi tempi Ender aveva creduto che lo avrebbero riportato sulla Terra, non appena la situazione si fosse stabilizzata. Ma le cose si erano stabilizzate da un pezzo, da un anno ormai, e adesso cominciava a capire che nessuno aveva interesse a farlo, e che se la sua immagine pubblica poteva essere utilmente usata la sua presenza in carne e ossa sarebbe stata soltanto una seccatura per tutti.

Aveva potuto farsi un’idea di come andavano le cose già durante il processo intentato contro il colonnello Graff. L’ammiraglio Chamrajnagar aveva cercato d’impedirgli di assistere alle udienze, quasi tutte teletrasmesse, ma non c’era riuscito: Ender era stato promosso ammiraglio, e quella volta aveva insistito per veder rispettati i privilegi che spettavano al suo grado. Rigido e silenzioso aveva assistito alla proiezione di un filmato riguardante Stilson e della registrazione del suo combattimento con Bonzo, aveva visto le fotografie dei loro corpi, aveva ascoltato gli psicologi e gli avvocati discutere di dove finiva l’autodifesa e cominciava l’eccesso di difesa. Lui aveva le sue opinioni in merito, ma nessuno gliele aveva chieste. Durante tutto il processo si era sentito personalmente in stato di accusa. Il pubblico ministero era troppo conscio degli umori del pubblico per imputargli qualcosa, ma aveva insinuato che la sua mente fosse quella di un malato, di un pervertito con tendenze omicide, di un criminale.

— Non farci caso — aveva commentato Mazer Rackham. — I politicanti ti temono, ma non possono ancora distruggere la reputazione che ti sei fatto. A questo ci penseranno gli storici, fra una trentina d’anni.

A Ender non importava molto della sua reputazione. Aveva assistito a quelle trasmissioni televisive con faccia impassibile, ma in realtà con un certo stupore. In guerra ho ucciso decine di miliardi di Scorpioni, creature vive e intelligenti, forse non peggiori di noi e che comunque non avevano lanciato un terzo attacco contro di noi, e nessuno lo ha definito un crimine.

La morte di Stilson e quella di Bonzo non erano un peso più leggero né più grave dei delitti che già sopportava la sua coscienza.

E così, oppresso da quelle ombre, per vuoti e interminabili mesi aveva atteso che il mondo da lui salvato decidesse di richiamarlo a casa.

Uno dopo l’altro i suoi amici, pur riluttanti, s’erano separati da lui per tornare alle loro famiglie, ciascuno atteso da una città che lo avrebbe salutato come un eroe. Aveva visto alla televisione quelle cerimonie di benvenuto, e s’era commosso nel sentirli tessere a lungo gli elogi di Ender Wiggin che, affermavano, aveva insegnato loro tutto ciò che sapevano e li aveva condotti alla vittoria. Ma se avevano speso qualche parola per invocare il suo ritorno sulla Terra, quei tratti erano stati censurati e nessun altro aveva potuto udirli.

Per un po’ di tempo su Eros non c’era stato altro da fare che riparare i danni causati dalla Guerra dei Due Blocchi, e ricevere i rapporti delle astronavi rimaste in grado di esplorare i numerosi pianeti che avevano attaccato.

Ma adesso su Eros c’era più attività che mai in passato, e più affollamento, perché molti coloni erano stati trasferiti lì in attesa di partire verso i silenziosi mondi degli Scorpioni. Ender diede una mano a riattrezzare gli interni di alcuni incrociatori, lavorando più di quel che gli ufficiali e i tecnici avrebbero desiderato. Nessuno di loro sembrava pensare che quel ragazzo di dodici anni poteva essere utile in un’attività pacifica quanto lo era stato in guerra; ma lui sopportava pazientemente la loro tendenza a ignorarlo, e quando aveva proposte o suggerimenti validi ne parlava coi pochi adulti disposti ad ascoltarlo, lasciando che poi le presentassero come fossero idee loro. Non si preoccupava di ottenere credito, ma solo di far bene il suo lavoro.

L’unica cosa che non poteva sopportare era la venerazione dei coloni. Imparò a evitare i tunnel dov’erano acquartierati, dopo aver fatto esperienza della confusione che destava se solo gli capitava di passare fra quella gente. Il suo volto era ormai troppo noto. Le donne e le ragazze correvano ad abbracciarlo, gli uomini volevano strigergli la mano, le madri insistevano per fargli baciare i loro bambini, non pochi dei quali erano già stati battezzati con il suo stesso nome, e poi si commuovevano nel vederlo così giovane. E non mancavano quelli che gli giuravano di non poterlo biasimare per i suoi delitti, non loro, perché lui infine era un ragazzino e non ne aveva colpa…

Ender faceva il possibile per tenersene alla larga.

Ma fra i coloni giunse qualcuno che non poté evitare.

Quel giorno non era all’interno di Eros. Era uscito con una navetta per andare all’Attracco I.S. dove stava imparando a lavorare sullo scafo esterno delle astronavi. Chamrajnagar gli aveva fatto osservare che la carpenteria meccanica non si confaceva alla dignità di un ammiraglio, ma Ender aveva replicato che non essendoci al momento eccessiva richiesta di esperti in guerre stellari gli sembrava saggio imparare un altro lavoro.

La radio del suo casco emise un ronzio e la voce di una centralinista lo informò che una persona chiedeva di vederlo nell’interno di quella stessa astronave. Ender non aveva idea di chi potesse essere, e non si affrettò particolarmente. Finì di installare l’antenna di riserva dell’ansible, poi si agganciò a uno dei cavi usati dagli operai e trecento metri più avanti, al portello della camera stagna, chiese il permesso di entrare.

Lei lo stava aspettando fuori dal deposito degli scafandri. Per un attimo lo seccò vedere che consentivano a dei coloni di disturbarlo perfino lì, sul lavoro. Poi la ragazza si volse, sentendolo arrivare, e lui ebbe un fremito.

— Valentine!

— Salve, Ender.

— Che stai facendo qui?

— Demostene ha dato le dimissioni. Adesso parto, vado alla più vicina delle colonie.

— Ci vogliono cinquant’anni per arrivare là…

— Soltanto due, se sei a bordo della nave.

— Ma se un giorno tornerai, tutti quelli che conoscevi sulla Terra saranno morti da un pezzo e…

— Proprio questo avevo in mente. Ho la speranza, tuttavia, che qualcuno di quelli che conosco su Eros venga con me.

— Io non me la sento di andare su uno dei mondi che abbiamo rubato agli Scorpioni. Ciò che voglio è tornarmene a casa.

— Ender, tu non tornerai mai più sulla Terra. Ho fatto in modo io stessa che fosse così, prima di partire.

Lui la fissò senza riuscire ad aprir bocca.

— Ho preferito dirtelo subito, così se questi sono i tuoi sentimenti potrai cominciare a odiarmi fin dall’inizio.

Poco dopo, in una delle cabine già attrezzate per i coloni, la ragazza si spiegò meglio. — Peter sta lavorando per farti richiamare sulla Terra, sotto la protezione del Consiglio dell’Egemonia — disse. — E può riuscirci. Nella situazione che si sta evolvendo, Ender, questo ti metterebbe a tutti gli effetti sotto il controllo di Peter, perché già metà dei consiglieri fanno quel che vuole lui. E quelli che non sono anima e corpo con Locke, li può intimidire o ingannare in altri modi.

— Sanno chi è Locke in realtà?

— Sì. La cosa non è ancora pubblica, ma nelle alte sfere della finanza, della F.I. e della politica lo conoscono bene. Ha troppo potere perché qualcuno stia a pensare alla sua età. Ha fatto cose incredibili, Ender.

— Ho notato che il trattato firmato un anno fa portava il nome di Locke.

— Quella è stata la sua mossa decisiva. Ha avanzato la Proposta Locke facendola avallare dai più grossi proprietari di video-giornali, e ad essa si è accodato anche Demostene. Era il momento che aveva atteso: usare l’influenza di Demostene sulle masse e quella di Locke sugli intellettuali per raggiungere un risultato di prestigio. Ed è riuscito a individuare una forma di accordo che, per motivi diversi, andava bene all’Est come all’Ovest, evitando una guerra che poteva essere terribile.

— Ha deciso di mettersi l’aureola dello statista?

— Così credo. Ma un giorno in cui era di buonumore, vale a dire in vena di fare il cinico, mi ha detto che se avesse permesso all’Egemonia di sfasciarsi avrebbe dovuto conquistare il mondo pezzo per pezzo. Finché l’Egemonia sta in piedi, invece, lo può conquistare in un solo boccone.

Ender annuì. — Questo è il Peter che conoscevo.

— Divertente, no? Peter che salva milioni di vite.

— Mentre io ne stermino miliardi.

— Non volevo alludere a questo.

— Così pensa di potermi usare?

— Lo pensava. Aveva dei piani per te, Ender. Voleva attendere il tuo arrivo per rivelare pubblicamente la sua identità, incontrandoti di fronte alle telecamere: il fratello maggiore di Ender Wiggin, che oltre a ciò è anche il grande Locke, l’architetto della pace. Accanto a te sarebbe apparso più maturo, e la somiglianza fisica fra voi è notevole, oggi. Stava già rastrellando denaro dappertutto. Col tuo stesso cognome, e col tuo appoggio, avrebbe potuto arrivare dovunque.

— Perché lo hai fermato?

— Ender, non ti piacerebbe trascorrere il resto della vita come una marionetta di Peter.

— Perché no? Fin’ora sono sempre stato la marionetta di qualcuno.

— Anch’io. Ho mostrato a Peter del materiale che avevo messo insieme, abbastanza da provare all’opinione pubblica che è un maniaco omicida. Fra le altre cose alcune sue foto mentre tortura degli scoiattoli, varie conversazioni registrate, e altre registrazioni dei tempi in cui avevi il monitor e che lo mostrano mentre ti tormenta con ferocia. Quando ci ha riflettuto sopra mi ha chiesto che prezzo chiedevo. E il prezzo che ho chiesto è stato la tua libertà, e la mia.

— Vivere in casa di qualcuno che ho assassinato non è precisamente la mia idea di libertà.

— Ender, ciò che è fatto è fatto. Adesso i loro mondi sono vuoti, e il nostro è affollato. E possiamo portare lassù cose che non ci sono mai state: gente che vive una sua vita personale, individuale, che si ama o che si odia per ragioni soltanto sue. In tutti i pianeti degli Scorpioni c’è sempre stata soltanto una persona, una vita, una storia; quando li abiteremo noi saranno pieni di vite e di storie, di animali e bambini. Ender, la Terra appartiene a Peter, e se tu non vieni via con me lui ti avrà, ti userà, ti tormenterà finché maledirai il giorno in cui sei nato. Adesso, e con me, hai l’unica possibilità di fuga.

Ender non disse nulla.

— So cosa stai pensando, Ender. Pensi che io desidero soltanto controllarti, non troppo diversamente da Peter o da Graff o altri.

— Chi ti dice che non mi stai già controllando?

— Benvenuto nella razza umana, allora — sorrise lei. — Nessuno ha il pieno controllo della sua vita. Il meglio che puoi fare è di lasciare un po’ di questo controllo a qualcuno che sia in gamba, o che ti vuol bene. Io non sono venuta qui perché sogno la vita del colono. Sono qui perché fin’ora ho vissuto con un fratello che odio. Ora voglio una possibilità di conoscere il fratello che amo, prima che sia troppo tardi, prima che la nostra infanzia sia svanita.

— È già troppo tardi per questo.

— Sbagli, Ender. Ti senti cresciuto e logoro e stanco di tutto, ma nel tuo cuore sei un ragazzino, e io sono ancor più giovane di te. Lo terremo gelosamente segreto. E quando tu governerai la colonia e io scriverò di filosofia e politica, nessuno saprà che la sera giochiamo a dama imbrogliando dispettosamente e poi facciamo le battaglie coi cuscini.

Ender rise, ma aveva notato un paio di cosette gettate lì troppo casualmente per essere casuali. — Governare?

— Io sono Demostene, Ender. Ho lasciato la terra su ali di fiamma: un pubblico annuncio in cui dichiaravo che credevo tanto nella nostra missione colonizzatrice da partire con la prima astronave. Nello stesso tempo il Ministro delle Colonie, un certo ex colonnello Graff, rivelava che il pilota di questa astronave sarebbe stato il grande Mazer Rackham, mentre la carica di governatore della colonia era stata affidata a Ender Wiggin.

— Qualcuno avrebbe potuto prendersi il disturbo di chiedermelo.

— Te lo sto chiedendo io.

— Dopo che tutto è già stato annunciato?

— A dire il vero queste registrazioni saranno trasmesse domani, se tu accetti. Mazer si è detto d’accordo qualche ora fa, su Eros.

— Rivelerai a tutti che Demostene sei tu? Una ragazza di quattordici anni?

— Si dirà soltanto che Demostene parte con i coloni. Lasciamo pure che i curiosi trascorrano i prossimi cinquant’anni a ruminare sulla lista dei passeggeri, cercando d’immaginare chi di loro è il grande demagogo che pestò i calli a Locke.

Ender rise e scosse il capo. — Sembra proprio che tutto questo ti diverta molto, Val.

— Non vedo perché non dovrebbe.

— Va bene — disse Ender. — Verrò. Forse proverò anche a fare il governatore, se tu e Mazer sarete lì a darmi una mano. Al momento la mia sola genuina dote di politicante è un’ignoranza assoluta di quello che dovrò fare.

Lei mandò un gridolino e lo abbracciò, con tutte le manifestazioni d’entusiasmo tipiche di una fanciulla a cui il suo fratellino minore ha appena fatto il regalo più bello.

— Val — disse lui, — voglio solo che una cosa sia chiara: non vengo perché me lo hai chiesto tu, né per essere governatore, né perché qui mi annoio. Vengo perché conosco gli Scorpioni meglio di chiunque altro, e forse là riuscirò a capirli meglio. Io ho rubato loro il futuro; posso riparare soltanto cercando di studiare e conservare il loro passato.


Il viaggio fu lungo. Prima che giungesse al termine, Val aveva finito il primo volume della sua storia delle guerre contro gli Scorpioni e il testo fu trasmesso alla Terra con la firma di Demostene. Ender si era guadagnato qualcosa di più che l’adulazione dei passeggeri; la gente che aveva imparato a conoscerlo gli voleva bene e lo rispettava.

Sul nuovo pianeta s’impegnò nell’organizzazione della colonia e lavorò con la stessa energia degli altri per mettere in piedi un’economia autosufficiente. Ma il compito alla lunga più importante, come tutti furono d’accordo, consisteva nell’esplorare ciò che gli Scorpioni avevano costruito: strutture e macchinari, fattorie, depositi e miniere, cercando di apprendere cose nuove e annotando tutto quel che vi era di utilizzabile per gli esseri umani. Non si trovarono libri; gli Scorpioni non avevano mai avuto materiale scritto o registrato. Con tutta la loro scienza immagazzinata nella memoria collettiva, con tutte le informazioni tecniche presenti nei ricordi da cui potevano attingere, quando quella razza era morta la sua cultura era scomparsa con lei.

Tuttavia ogni oggetto racconta la sua storia. Dalla robustezza dei tetti delle fattorie, dalle spesse mura delle stalle e dalle dimensioni delle dispense e dei depositi di foraggio, Ender seppe che lì gli inverni erano duri, con pesanti nevicate. Dai recinti armati con punte aguzze rivolte all’infuori, seppe che vi erano predatori molto insidiosi per gli animali domestici. Dai mulini seppe che il destino dei frutti oblunghi dei malridotti frutteti era di venir macinati e trasformati in tonde forme di pane verdastro. E dagli slittini che gli adulti usavano per tirarsi dietro la prole anche nei campi apprese che, sebbene gli Scorpioni non avessero una vera mente individuale, curavano teneramente i loro piccoli.

La vita si stabilizzò, e gli anni trascorsero. I coloni abitavano in case di legno, e usavano i tunnel delle città-alveare come magazzini o per impiantarvi fabbriche. A governarli c’era adesso un Consiglio di ministri che venivano eletti, cosicché Ender, benché la gente continuasse a chiamarlo «governatore», più che altro si occupava del tribunale e dell’ordine pubblico. Crimini e beghe non mancavano, anche fra coloni la cui vita si fondava sull’amicizia e sulla collaborazione; la gente si amava e si odiava, era contenta o infelice, e da questo nascevano conseguenze che facevano di quel pianeta un mondo umano. Nessuno era molto interessato alle trasmissioni che giungevano via ansible, anche se l’apparecchio era sempre in funzione per la corrispondenza in arrivo o in partenza, e i nomi saliti alla ribalta sulla Terra significavano poco per i coloni. L’unico che conoscessero era quello di Peter Wiggin, l’Egemone della Terra, e le sole notizie diramate in diretta dalla TV locale parlavano di pace, di prosperità, di grandi astronavi che lasciavano le sponde del sistema solare per ripopolare i mondi degli Scorpioni. Presto vi sarebbero state altre colonie sul Mondo di Ender, e la gente che avrebbe fondato quelle nuove cittadine qua e là sul pianeta era già a metà strada, ma nessuno se ne preoccupava. Gli emigranti sarebbero stati ben accolti e istruiti sulle caratteristiche del pianeta, però gli argomenti che importavano al colono medio erano ben altri: chi riuscirà a sposare l’ardente Juanita Cruz, da che malattia è affetto il giovane Kristopoulos, questo terreno non è adatto per le mele ma è un miracolo per le banane, e perché dovrei pagarlo quando quel maledetto vitello è morto tre settimane dopo che me l’ha dato.

— Sono diventati gente di campagna — disse Valentine un giorno. — A nessuno interessa sapere che Demostene oggi spedisce il settimo volume della sua Storia. Nessuno lo leggerà, qui.

Ender sfiorò un pulsante e il suo banco passò a mostrargli la pagina successiva. — Vai molto a fondo nei particolari, Valentine. Quanti volumi ancora pensi di scrivere?

— Uno soltanto. La storia di Ender Wiggin.

— E cosa pensi di fare? Aspetterai che io sia invecchiato e morto?

— No. Comincerò dalla tua infanzia e arrivata al momento presente concluderò.

— Io ho un’idea migliore. Metti la parola fine al giorno dell’ultima battaglia. Da allora in poi non ho fatto nulla che meriti d’esser messo per iscritto.

— Forse farò così — disse Valentine. — E forse no.


L’ansible aveva riferito che l’astronave dei nuovi coloni era ancora a un anno di viaggio da lì. Il loro rappresentante chiamò Ender all’apparecchio e gli chiese di trovare per loro un buon insediamento, abbastanza vicino da poter comunicare e commerciare senza difficoltà, ma abbastanza lontano da esser governato separatamente. Ender si fece assegnare un elicottero e ne approfittò per esplorare oltre i confini del territorio meglio conosciuto. Come aiutante prese con sé un ragazzino, un undicenne sveglio di nome Abra, che all’arrivo dell’astronave aveva soltanto tre anni e non conosceva altro mondo che quello. Ender e il suo passeggero partirono al mattino e volarono verso est fino al tramonto, poi atterrarono per trascorrere la notte in tenda, con l’idea di esplorare a piedi la zona i giorni successivi.

Fu il mattino del terzo giorno che, d’improvviso, Ender cominciò ad avere la spiacevole sensazione d’essere già stato in quel posto. Si guardò attorno: era una nuova terra, del tutto sconosciuta ai suoi occhi. Si volse a chiamare Abra.

— Ehi, Ender! — rispose il ragazzino agitando le braccia. Era sulla cima di una piccola altura cespugliosa. — Vieni a vedere!

Ender si avviò su per il pendio, sprofondando con gli stivali nel terreno molle e fangoso. Abra gli stava indicando qualcosa più in basso, dalla parte opposta. — Guarda qui. Ci avresti creduto?

La collinetta era spaccata in due. Nel mezzo c’era una profonda depressione che l’allargava in una caverna oscura, sul cui fondo stagnava l’acqua, e le pareti apparivano concave, stranamente regolari. A sud l’altura si abbassava e si separava in due costoni, che l’allargavano a V; a nord invece campeggiava un enorme blocco di roccia bianca, simile al cranio di uno scheletro sogghignante, nella cui bocca aveva messo radici un albero.

— È come se un gigante fosse caduto morto qui — disse Abra, — e la terra si fosse ammucchiata sulla sua carcassa.

Adesso Ender sapeva perché quell’immagine gli era entrata dritta nel subconscio. Il corpo del Gigante. Da bambino aveva giocato lì troppe volte per non riconoscere il posto. Ma questo era impossibile. Il computer della Scuola di Guerra non avrebbe mai potuto disporre di dati relativi a quel pianeta. Si portò il binocolo agli occhi e d’istinto scrutò verso est, già tremando all’incredibile sospetto di ciò che avrebbe potuto vedere sullo sfondo dei boschi.

E là, sulla riva di un ruscello, altalene e piccole giostre, un toboga. Il tutto arrugginito e sepolto fra le erbacce, ma non c’era possibilità di sbagliarsi sulle forme di quegli oggetti.

— Qualcuno deve aver costruito, dentro questa collinetta — disse Abra. — Guarda il teschio, e i denti… non è roccia. È cemento.

— Lo so — mormorò Ender. — Loro l’hanno costruito per me.

Cosa?

— Conoscevo già questo posto, Abra. Gli Scorpioni l’hanno costruito per me.

— Gli Scorpioni erano tutti morti cinquant’anni prima che arrivassimo qui.

— Hai ragione, non è possibile. Ma io so quello che so. Abra, non avrei dovuto portarti con me. Potrebbe esserci un pericolo qui. Se mi conoscevano addirittura fino al punto di aver costruito questo posto, forse progettavano di…

— Di pareggiare i conti con te.

— Per averli uccisi.

— Allora vattene, Ender. Se questa è una trappola devi andartene!

— Se quel che volevano era preparare la vendetta, Abra, non me ne importa. Ma forse non era questa la loro intenzione. Forse ciò che vediamo era quel che avevano di più vicino a una forma di linguaggio… per lasciarmi scritto un messaggio.

— Ma non sapevano neppure cosa significasse leggere o scrivere.

— Forse stavano imparando, prima di morire. Meglio che tu vada via.

— All’inferno! Io non torno al campo mentre tu esplori di qua e di là. Vengo con te.

— No. Sei troppo giovane per rischiare di…

— Giovane un corno! Tu sei Ender Wiggin, perciò non dire a me cosa può fare e non può fare un ragazzo di undici anni!

Stabilirono di prendere l’elicottero, quindi tornarono sorvolando il corpo del Gigante, il parco giochi e la boscaglia, individuando la radura col pozzo. E poco più avanti c’era uno strapiombo, alla sommità del quale videro un cornicione su cui si apriva quella che era senza dubbio una porta di legno, esattamente dove avrebbe dovuto essere la Fine del Mondo. E all’orizzonte, sfumato nella foschia e tuttavia ben visibile sulla cima di un dirupo, c’era il castello. Con la torre.

Fu alla base delle mura corrose dal tempo che Ender atterrò. Scese dall’elicottero e ordinò ad Abra di mettersi ai comandi. — Qualunque cosa accada non seguirmi. Se non torno, decolla e torna a casa.

— Ah, tappati la bocca, Ender!

— Tappatela tu, pivello, o te la riempio di fango.

Malgrado il tono scherzoso di Ender, un lampo nei suoi occhi informò Abra che diceva sul serio, così si strinse nelle spalle.

In muro esterno della torre aveva pietre così sporgenti che sembravano fatte apposta per arrampicarsi. Capì che avevano voluto proprio questo.

La stanzetta in cui entrò scavalcando il davanzale della finestra era proprio come doveva essere, mobili compresi. D’istinto Ender si volse al caminetto, aspettandosi di vedere il serpente, ma c’era soltanto un tronco d’albero con un’estremità scolpita a testa di rettile. Un’imitazione simbolica, non un duplicato, e per essere delle creature che non conoscevano l’arte la cosa era fin troppo ben fatta. Dovevano aver preso quelle immagini della sua stessa mente, contattandola ed esplorandone le fantasie oniriche attraverso l’immensità degli anni-luce. Ma perché? Per suggerire al suo inconscio di venire fin lì, naturalmente. Lì dove c’era un messaggio per lui. Un messaggio… ma dov’era? E di che genere poteva mai essere? L’arcano stupore che s’era impossessato di lui continuava a dargli la pelle d’oca.

Lo specchio era fissato alle pietre della parete di fondo. Era una lastra di metallo opaco, nella quale era stata incisa rozzamente l’immagine di un volto umano. Il suo? Hanno cercato di riprodurre ciò che io vedo quando mi guardo allo specchio.

Fissò quel metallo senza capire. Ma in lui tornavano i ricordi: lo specchio scalzato dal muro, la cavità, i serpenti che ne balzavano fuori e lo attaccavano, affondando i loro denti velenosi sulla sua figura che infine cadeva al suolo uccisa e sconfitta.

Quanto dovevano conoscermi bene! si meravigliò Ender. Abbastanza bene da sapere che ho affrontato tante volte questo genere di morte da non averne più paura… abbastanza da sapere che, se anche avessi paura, questo non m’impedirebbe di staccare lo specchio dal muro.

Si avvicinò alla lastra metallica, sollevò il bordo inferiore e notò che veniva via come un coperchio. Ma niente balzò fuori ad aggredirlo. Ciò che Ender si trovò a fissare era una cavità dalle pareti lisce, sul fondo della quale riposava un ovoide di materiale bianco come la seta da cui, qua e là, pendevano stralci d’aspetto fibroso. Un uovo? No, non si trattava di un uovo: era una pupa, la larva di una regina degli Scorpioni, già fertilizzata dai maschi della sua specie e pronta a dare alla luce centinaia di migliaia di Scorpioni, compresi alcune altre regine ed altri maschi. Gli occhi di Ender stavano captando immagini che non facevano parte dei suoi ricordi, né della sua mente, né del suo mondo: le immagini dei maschi degli Scorpioni, molli e biancastri, che uscivano dall’oscurità di un tunnel. Dalla parte opposta due grosse femmine stavano introducendo la regina neonata nella sua stanza nuziale. Ognuno dei maschi si fece avanti, compì l’atto della penetrazione sulla regina larvale, tremò sconvolto da una breve estasi, cadde al suolo e morì, disseccandosi e accartocciandosi rapidamente. Poi la nuova regina fu deposta dinnanzi a un’anziana e magnifica creatura avvolta in due morbide ali scintillanti, un essere che aveva da molto tempo perso la capacità di volare ma era ancora aureolato di un maestoso potere. La vecchia regina si chinò a baciare la nuova, addormentandola con una droga lievemente venefica che le uscì dalle labbra cornee, quindi l’avvolse con i bianchi filamenti prodotti dal suo addome e nel farlo le comandò di diventare quel che lei era stata: una nuova creatrice, una nuova città, un nuovo mondo, una fonte da cui sarebbero emerse altre regine per popolare altre città e altri mondi…

Come posso sapere tutto questo si chiese Ender. Come posso vedere cose che non sono mai state nella mia memoria?

Quasi in risposta a quella domanda nuove immagini lo sommersero, e riconobbe quelle della prima battaglia contro una flotta degli Scorpioni. Le stesse che aveva osservato sul simulatore, ma capovolte, perché ora le vedeva come le aveva viste la regina di quell’alveare, attraverso moltissimi occhi diversi. Vide gli Scorpioni assumere la loro formazione globulare, sentì la loro sorpresa quando i terribili incrociatori terrestri sbucarono come lampi imprevedibili dalle tenebre; quindi vi furono i bagliori azzurri del distruttore molecolare che faceva esplodere in polvere le navi dell’alveare.

Ender provò le sensazioni che la regina aveva provato e trasmesso ad altre, mentre attraverso gli occhi delle sue operaie/combattenti vedeva piombare sulla flotta una morte troppo rapida perché fosse possibile evitarla. Non erano state sensazioni di paura o di dolore, tuttavia. Ciò che quella regina aveva sentito era stata una grande tristezza, una cupa rassegnazione all’ineluttabile. Non aveva pensato quelle parole, mentre vedeva l’attacco dei terrestri decisi ad uccidere, ma fu in parole che Ender poté tradurre la sua riflessione: Loro non ci hanno perdonato, aveva pensato quella regina. Di certo noi moriremo, adesso.

— E come puoi riavere la vita? — chiese Ender.

La regina racchiusa nel suo bozzolo di seta non aveva parole da offrirgli, ma quando lui fissò accigliato quell’oggetto, di nuovo da esso parvero scaturire delle immagini mentali: l’atto di deporre il bozzolo in un luogo fresco, un luogo oscuro, dove scorresse acqua per dargli umidità… no, non semplice acqua, bensì acqua mista alla linfa di un certo albero, e tenerlo tiepido cosicché alcune reazioni potessero avvenire nel suo interno. Poi attendere. Giorni e settimane, per dare alla pupa il tempo di completare la metamorfosi. E poi, allorché il bozzolo avrebbe assunto un polveroso colore marroncino… Ender vide se stesso nell’atto di aprirlo, e di aiutare la piccola e fragile regina ad emergerne. Vide se stesso sorreggerla per gli arti anteriori e aiutarla a camminare dal bozzolo squarciato a un nido fatto di sabbia e foglie secche. Allora sarò viva, fu il pensiero/sensazione che lui captò. Allora sarò sveglia. Allora partorirò i miei diecimila figli.

— No! — disse Ender. — Non posso farlo.

Angoscia.

— I tuoi figli, oggi, sono i mostri dei nostri incubi. Se io ti portassi alla luce, sarebbe soltanto per destinarti al massacro.

Dentro di lui lampeggiarono dozzine di immagini di esseri umani che venivano uccisi dagli Scorpioni, ma insieme ad esse scaturì un flusso di dolore così intenso che Ender non poté sopportarlo. Sentì le lacrime scorrergli sul volto, calde e veloci.

— Sì… se puoi far provare agli altri quel che fai provare a me, forse sapranno perdonare e dimenticare. Forse.

Soltanto io, rifletté. Mi hanno trovato attraverso l’ansible, seguendolo e scivolando nella mia mente. Penetrando in quei miei sogni tormentosi sono arrivati a conoscermi, proprio quando trascorrevo le giornate combattendoli e distruggendoli hanno scoperto le mie paure, e soprattutto hanno scoperto che non ero consapevole di sterminarli veramente. In quelle poche settimane che restavano loro da vivere hanno costruito questo posto per me, e il corpo del Gigante, e il precipizio alla Fine del Mondo, in modo che i miei occhi mi conducessero fin qui. Io sono il solo che essi conoscano, e così riescono a parlare soltanto a me e attraverso di me.

Noi siamo come te.

Noi siamo come te, fu il pensiero che prese forma nella sua mente. Non volevamo uccidere. E quando abbiamo capito, non siamo più tornati al vostro mondo. Noi credevamo d’essere le uniche creature intelligenti dell’universo, finché non abbiamo incontrato voi. Ma non avremmo mai supposto che il pensiero cosciente potesse nascere in animali solitari che non condividevano i loro sogni. Come avremmo potuto saperlo? Noi avremmo potuto vivere in pace con voi. Credimi. Credimi. Credimi.

Allungò le mani nella cavità e sollevò il bozzolo. Era sorprendentemente fragile, per un oggetto che conteneva tutto il futuro e tutte le speranze di una razza di esseri senzienti.

— Ti porterò con me — disse Ender, — di pianeta in pianeta, finché troverò un luogo dove tu possa svegliarti in sicurezza. E racconterò la vostra storia alla mia gente, cosicché per quel giorno possano avervi perdonato. Così come voi avete perdonato me.

Avvolse il bozzolo della regina nella blusa e tornò alla finestra, poi si calò fino alla base della torre.

— Che c’era là dentro? — chiese Abra.

— La risposta — disse Ender.

— A cosa?

— Alla domanda che mi hai fatto. — E questo fu tutto ciò che gli uscì di bocca sull’argomento. Continuarono l’esplorazione per altri cinque giorni, e infine scelsero una località molto a meridione del castello.

Qualche settimana dopo domandò a Valentine di leggere un saggio che aveva scritto. Lei batté il codice di quella registrazione, se la fece mandare su uno schermo dal computer dell’astronave, e lesse.

Era stato scritto come se la narratrice fosse l’ultima regina degli Scorpioni, che esponeva ciò che la sua razza aveva desiderato fare e ciò che aveva fatto. Parlava dei loro successi e dei loro fallimenti, e fra questi ultimi annoverava l’incontro con gli esseri umani. «Non volevamo farvi del male. Non consapevolmente» diceva, «e vi perdoniamo per averci uccisi».

Dagli albori della loro civiltà alla guerra che aveva spazzato via il loro pianeta natale, Ender ne riassumeva la storia come fosse un racconto tramandato oralmente dall’antichità. Quando arrivò a parlare della Grande Madre, l’unica regina riconosciuta nella sua epoca, colei che per prima aveva stabilito di allevare e istruire le giovani regine invece di ucciderle per non avere rivali, rallentò il ritmo della narrazione e disse di quante volte ella era stata costretta a distruggere quei frutti del suo corpo, le piccole regine che d’istinto le si rivoltavano contro, finché non ne partorì una che capiva il significato profondo dell’armonia e della collaborazione.

Questa era stata una novità rivoluzionaria per il loro mondo: due regine che si amavano e si aiutavano l’un l’altra invece di battersi furiosamente. Sotto di loro gli alveari si moltiplicarono, divennero forti e civili; prosperarono ed ebbero figlie capaci di vivere in pace. Quello era stato l’inizio di un regno destinato ad evolversi su molti pianeti.

«Ah, se soltanto avessimo saputo comunicare con voi!» sospirava l’immaginaria regina della storia di Ender. «Ma poiché ciò non accadde, vi chiediamo solo questo: che ci ricordiate, noi regine e operaie che vi combattemmo, non come nemiche ma come sventurate e tragiche sorelle, a cui Dio o il Fato o l’Evoluzione aveva dato una forma ahimè diversa dalla vostra. Se fossimo riusciti a stringerci la mano, ci saremmo apparsi l’un l’altro come creature uguali. E invece ci siamo uccisi a vicenda. Ma nonostante ciò i nostri spiriti vi danno il benvenuto, oggi, come ospiti onorati. Venite sui nostri mondi, amici della Terra; abitate i nostri tunnel, ridate la vita ai nostri campi, e ciò che non è più fatto dalle nostre mani siano le vostre a farlo in pace. Germogliate per loro, alberi e fiori. Sole, scalda questi nostri fratelli. E tu, buona terra, sii fertile per loro. Purché la vita continui, questa è l’eredità che gli lasciamo, e sia per sempre la loro casa.»

Il libro che Ender aveva scritto non era lungo, comunque conteneva tutti i fatti buoni o malvagi che erano a conoscenza della regina non ancora nata. E non lo firmò col suo nome, bensì con un titolo che aveva voluto darsi:

L’ARALDO DEI DEFUNTI

Sulla Terra il libro fu pubblicato senza molto scalpore, ma ne furono distribuite tante copie che già pochi mesi dopo era difficile credere che qualcuno non ne conoscesse il contenuto. Molti lo trovarono interessante; una ristretta minoranza prese alcuni dei suoi aspetti fin troppo sul serio. Questi diedero inizio a un culto basato sulla fratellanza universale e sul principio che, quando uno di essi moriva, aveva il diritto di avere accanto a sé un altro confratello, l’Araldo dei Defunti, il quale narrava la vita e le opere dello scomparso con le parole che lui stesso avrebbe usato, ma con spietata verità e senza celare i difetti né sottolineare le virtù. Quelli che si dedicarono a simili servizi funebri destarono spesso sconcerto e disagio fra i parenti del defunto, ma vi fu anche chi ritenne che la sua vita dovesse servire d’insegnamento a qualcun altro, anche per gli errori in essa contenuti, e s’impegnò a lasciarla scritta affinché alla sua conclusione vi fosse un Araldo che dicesse la verità come per la sua stessa bocca.

Sulla Terra essa rimase una religione fra le tante. Ma per quelli che avevano attraversato lo spazio per abitare nei tunnel delle regine degli alveari, e per coltivare i campi un tempo appartenuti agli alveari, spesso questa fu la sola religione. E non ci fu colonia che non avesse il suo Araldo dei Defunti.

Nessuno seppe, e nessuno in realtà volle sapere, chi fosse stato il primo degli Araldi. Ender preferì non dirlo.

All’età di venticinque anni Valentine finì l’ultimo volume della sua storia delle guerre contro gli Scorpioni. Ad esso accluse il testo completo del piccolo libro di Ender, senza però rivelare il nome dell’autore.

Fu allora che l’anziano Egemone della Terra, Peter Wiggin, ormai settantasettenne e sofferente di gravi disturbi cardiaci, si mise in contatto con lei, via ansible.

— Io so chi l’ha scritto — le disse il fratello. — Ebbene, se lui può dar voce alle parole degli Scorpioni, sicuramente potrà farlo anche per me.

Ender parlò così con lui a mezzo ansible, e Peter gli raccontò la storia della sua vita senza omettere nessuno dei suoi crimini né le azioni che avevano portato vantaggi a qualcun altro. E quando Peter morì, Ender scrisse un secondo volume ancora a firma dell’Araldo dei Defunti. I due libri, insieme, vennero chiamati La Regina dell’Alveare e l’Egemone, e furono considerati scritti sacri.

— Coraggio, Val — disse un giorno a sua sorella. — Voliamo via, e andiamo a vivere per sempre.

— Non ci è concesso — rispose Valentine. — Ci sono miracoli che neppure la velocità relativistica può fare, Ender.

— Dobbiamo andarcene. Sento che qui potrei perfino trovare la felicità.

— Allora rimani.

— Ho vissuto troppo a lungo col mio dolore. Non voglio sapere che persona sarei senza di esso.

Così si imbarcarono su un’astronave e viaggiarono di pianeta in pianeta. Dovunque si fermarono lui fu soltanto Andrew Wiggin, Araldo itinerante dei defunti, e lei fu soltanto una storica di nome Valentine, che metteva per iscritto le opere dei vivi mentre lui dava voce alle storie dei defunti. E in ognuno di quei luoghi Ender portò sempre con sé il prezioso bozzolo di seta bianca, in cerca del mondo in cui la regina dell’alveare avrebbe potuto risvegliarsi e crescere, e vivere in pace.

La sua fu una lunga ricerca.

FINE
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