Orson Scott Card Il gioco di Ender

CAPITOLO PRIMO TERZO

Io ho guardato con i suoi occhi, ho ascoltato con i suoi orecchi, e le dico che è l’unico. O almeno, il migliore che possiamo avere.

Questo lo aveva detto anche del fratello.

I test hanno rivelato che il fratello è inadatto. Per altre ragioni. Niente a che vedere con le sue capacità.

Lo stesso per sua sorella. E su di lui ci sono dei dubbi. È troppo malleabile. Si adegua troppo volentieri alla volontà degli altri.

Non se questi altri sono suoi nemici.

E allora cosa dovremmo fare? Circondarlo di nemici giorno e notte?

Se sarà necessario.

Credevo d’averle sentito dire che questo bambino le piace.

A confronto di ciò che gli potrebbero fare gli Scorpioni, io gli sembrerei uno zietto affettuoso.

E va bene. Dobbiamo salvare il mondo, dopotutto. Lo prenda.


La donna del monitor sorrise con molta simpatia, gli scarruffò i capelli e disse: — Credo proprio che tu non ne possa più di avere quell’orribile monitor, Andrew. Be’, ho buone notizie per te. Oggi è l’ultimo giorno che lo porti. Adesso te lo leveremo, e non sentirai male neppure un poco.

Ender annuì. Che non gli avrebbero fatto male, naturalmente, era una bugia. Ma visto che gli adulti dicevano sempre così quando faceva male, lui poteva basarsi su quella frase per un’accurata previsione di quel che lo aspettava. A volte le bugie risultavano più affidabili della stessa verità.

— Bene, Andrew, se vuoi venire qui, intanto puoi sederti sul lettino per le visite. Il dottore verrà a occuparsi di te fra un minuto.

Il monitor tolto. Ender cercò d’immaginare la sua nuca priva del minuscolo apparecchio. A letto potrò girarmi sulla schiena senza sentirmi pigiare qui. Non lo sentirò più formicolare freddo quando faccio il bagno.

E Peter non mi odierà più. Appena torno a casa gli faccio vedere che mi hanno levato il monitor, così saprà anche che non ce l’ho fatta. E che sarò un bambino qualsiasi, adesso, come lui. Non sarà più così crudele, allora. Dimenticherà che io ho tenuto il monitor per un anno più di lui. E saremo…

Non amici, probabilmente. No, Peter era troppo pericoloso. Peter andava in collera troppo facilmente. Fratelli, comunque. Non nemici, non amici, ma fratelli… capaci di vivere nella stessa casa. Non mi odierà, mi lascerà in pace. E quando avrà voglia di giocare a Scorpioni e Astronauti, forse sarò io a non volere, forse me ne andrò a leggere un libro.

Ma anche mentre si diceva questo, Ender sapeva che Peter non avrebbe smesso di prendersela con lui. C’era qualcosa nei suoi occhi quando Peter era in vena di pazzia, e ogni volta che lui vedeva quello sguardo, quel lampo nelle pupille, poteva star certo che Peter avrebbe fatto di tutto salvo che lasciarlo in pace. Voglio esercitarmi al piano, Ender. Vieni a girare le pagine per me. Oh, il bambino col monitor ha troppo da fare per aiutare suo fratello? Si crede molto intelligente, vero? Vuoi ammazzare un po’ di Scorpioni, Astronauta? No, no, io non ho bisogno del tuo aiuto. Posso benissimo fare da solo, razza di bastardo, piccolo stupido Terzo!

— Non ci vorrà molto, Andrew — disse il dottore.

Ender annuì.

— È progettato per essere rimosso. Senza infezioni e senza danni. Ma proverai un po’ di prurito, e qualcuno a volte dice d’avere la sensazione che gli manchi qualcosa. Capiterà anche a te di guardarti intorno come in cerca di questo qualcosa, senza trovarlo, e senza neanche sapere cosa stai cercando. Perciò te lo dico io: quello che ti scoprirai a cercare è il monitor, e non ci sarà più. In pochi giorni questa sensazione sparirà.

Il dottore stava girando un oggetto dietro la testa di Ender. A un tratto un ago rovente di dolore lo attraversò dalla nuca all’inguine. I muscoli della schiena gli si contrassero di colpo e s’inarcò all’indietro, con violenza, sbattendo la testa sul lettuccio. Si accorse che le sue gambe scalciavano a vuoto, e aveva le mani strette l’una all’altra così forte da fargli male.

— Deedee! — gridò il dottore. — Ho bisogno di te! — L’infermiera sopraggiunse di corsa, ansando. — Cerca di fargli rilassare questi muscoli. Qui, tira verso di me, adesso. Che stai aspettando?

Altre mani s’impadronirono di lui, ma Ender non poteva vedere niente. Si torse di lato e cadde giù dal lettino delle visite. — Lo blocchi! — strillò l’infermiera.

— Basta che tu lo tenga saldamente e…

— Lo tenga lei, dottore, è troppo forte per me…

— Non tutta la fiala! Vuoi rischiare di fermargli il cuore?

Ender sentì la puntura di un ago giusto sopra il colletto della camicia, dietro la nuca. Bruciava, ma dovunque quel bruciore si espandeva i suoi muscoli si rilassavano gradualmente. Adesso riusciva ad aprire la bocca per gemere, spaventato e dolorante.

— Va meglio, Andrew? — lo interrogò l’infermiera.

Ender non ricordava neppure come si facesse a parlare. I due lo rimisero sul lettino. Gli controllarono le pulsazioni e fecero altre cose, che lui non fu assolutamente in grado di capire. Il dottore stava tremando; quando parlò la sua voce era rauca. — Lasciano questa roba addosso ai ragazzini per tre anni, e poi cosa si aspettano? Avremmo potuto rovinarlo, ti rendi conto? Avremmo potuto alterare il suo cervello irreversibilmente.

— Quanto dura l’effetto del tranquillante? — chiese l’infermiera.

— Tienilo qui per almeno un’ora. Sorveglialo. Se fra quindici minuti non riesce ancora a parlare, chiamami. Potremmo averlo rovinato per sempre. Certa gente si comporta peggio degli Scorpioni, maledizione!


Rientrò nella classe di miss Pumphrey appena quindici minuti prima che suonasse l’ultima campanella. Era ancora un po’ instabile sulle gambe.

— Ti senti bene, Andrew? — domandò miss Pumphrey.

Lui annuì.

— Hai avuto la febbre?

Lui scosse il capo.

— Mi sembri pallido.

— Sto benissimo.

— Meglio che ti sieda, Andrew.

Lui si diresse al suo posto, ma si fermò. E adesso cosa sto cercando? Non riesco a ricordare cosa sto cercando.

— Il tuo banco è dall’altra parte — disse miss Pumphrey.

Lui sedette, ma la cosa di cui sentiva il bisogno era un’altra, qualcosa che gli sembrava d’aver perso. La cercherò più tardi.

— Il tuo monitor — sussurrò la bambina dietro di lui

Ender scosse le spalle.

— Il suo monitor! — la sentì sussurrare agli altri.

Ender alzò una mano a tastarsi la nuca. Le sue dita incontrarono un cerotto. Gliel’avevano tolto. Adesso era come tutti gli altri.

— Ti senti giù, eh, Andy? — chiese un bambino della fila accanto, un posto più indietro. Non riesco a ricordare come si chiama. Peter. No, quello è qualcun altro.

— Silenzio laggiù, signor Stilson — disse miss Pumphrey. Stilson ridacchiò sottovoce.

Miss Pumphrey stava parlando delle moltiplicazioni. Ender cominciò a scribacchiare sullo schermo del banco, disegnò i contorni orografici di alcune isole montuose e poi ordinò al banco di svilupparglieli in tre dimensioni da ogni angolo visivo. La maestra, naturalmente, si sarebbe accorta che non stava attento, ma questo non lo preoccupava. Sapeva sempre quali risposte dare, anche quando lei era convinta che fosse distratto.

Nell’angolo in basso del banco una parola apparve e cominciò a scivolare lungo il bordo dello schermo. All’inizio era capovolta, ma Ender ne conosceva il significato già molto prima che ruotando sul lato superiore del banco si raddrizzasse.

TERZO

Ender sorrise. Era stato lui a scoprire il modo di mandare messaggi e farli muovere: anche se quel suo nemico anonimo lo stava insultando, il metodo scelto per farlo lo inorgogliva. Non era colpa sua se era un Terzo. L’idea l’avevano avuta quelli del Governo, i soli che potevano autorizzare una cosa simile… altrimenti come avrebbe potuto un Terzo come lui essere iscritto a scuola? E adesso il monitor non c’era più. L’esperimento etichettato «Andrew Wiggin» non aveva funzionato, dopotutto. Se avessero potuto farlo, era certo che avrebbero volentieri ritirato anche il permesso speciale in base al quale lui era stato messo al mondo. Esperimento fallito: cancellare e gettare via. La campanella suonò. Gli alunni cominciarono a spegnere i banchi, e alcuni batterono in fretta gli ultimi appunti. Altri stavano trasferendo i dati della lezione al computer di casa loro. Due o tre si misero in fila davanti a una stampante per farsi riprodurre qualche illustrazione che li aveva interessati. Ender poggiò le mani sulla piccola tastiera del banco, adatta alle dita di un bambino, e si chiese cosa si provasse ad avere mani larghe come quelle degli adulti. Dovevano sentirsele massicce e goffe, con quei ruvidi palmi carnosi. Naturalmente essi avevano tastiere più grandi… ma come avrebbero potuto i loro pesanti polpastrelli tracciare una linea così fine e precisa che poteva farla spiraleggiare settantanove volte dal centro del banco verso i lati, senza che si sovrapponesse mai. Questo almeno gli teneva occupate le mani, intanto che la voce della maestra gli ronzava negli orecchi noiose spiegazioni di aritmetica. Aritmetica! Valentine gli aveva insegnato quella roba quando lui aveva appena tre anni.

— Ti senti meglio, Andrew?

— Sì, signora.

— Perderai l’autobus.

Ender annuì e si alzò. Gli altri ragazzini erano usciti. Lo avrebbero aspettato però, quelli più perfidi. Nella sua nuca non c’era più un monitor a udire quel che udiva lui, e a vedere ciò che vedeva. Potevano dirgli tutto quello che s’erano tenuto in bocca fin’allora. Avrebbero potuto anche picchiarlo: non ci sarebbero stati altri occhi a osservarli, e dunque nessuno sarebbe comparso a difendere Ender. Il monitor aveva comportato anche dei vantaggi, e adesso li aveva perduti.

Ad attenderlo fu Stilson, naturalmente. Non era più robusto di altri ragazzini, ma superava Ender di tutta la testa. E con lui c’erano i suoi amici, cinque o sei. Come sempre.

— Ehi tu, Terzo.

Non rispondere. Non hai niente da dirgli.

— Ehi, Terzo! Stiamo parlando con te, Terzo. Ehi, amico degli Scorpioni, è con te che parliamo.

Non riesco neanche a pensare a qualcosa da dire. E dire qualsiasi cosa sarebbe peggio. Così starò zitto.

— Ehi, Terzo, Terzetto, stronzetto… fai finta d’essere sordo, eh? Pensavi di essere meglio di noi, eh? Ma adesso l’hai perduto l’occhio spione, Terzino stronzone, e sulla testa ti ci han messo un tampone!

— Volete lasciarmi passare, o no? — chiese Ender.

— Vogliamo lasciarlo passare, o no? Dobbiamo lasciarlo passare? — tutti risero. — Sicuro che ti lasciamo passare. Prima lasciamo passare i tuoi denti, però. E poi la testa. E poi lasciamo passare anche il tuo culo, a calci.

I ragazzini cominciarono a girare in cerchio, stringendosi attorno a lui. — L’occhio-spia te l’hanno rotto, Terzotto! L’occhio-spia ha fatto fagotto, Terzotto!

Stilson gli appoggiò una mano in mezzo al petto e lo spinse; qualcuno, dietro di lui, lo proiettò di nuovo verso Stilson.

— Vuoi giocare all’altalena, Terzo? — gridò un altro.

— Vuoi giocare alla palla da tennis, Terzo?

Uno spintone lo gettò indietro. — Sei una palla da ping pong, Terzo?

Ender capì che la cosa sarebbe finita male. Ma finisse come finisse, decise, lui non sarebbe stato il solo a piangere. E appena Stilson fece per spingerlo ancora, lui lo afferrò per il petto. L’altro si liberò con uno strattone.

— Ah, vuoi sfidarmi, eh? Vuoi batterti con me, Terzocchio?

I ragazzini alle spalle di Ender lo afferrarono per le braccia e lo tennero fermo.

Ender non aveva nessuna voglia di ridere, ma rivolse loro un sogghigno misurato. — Ci vogliono cinque di voi per picchiare un Terzo solo?

— Noi siamo normali, non Terzi, faccia di merda. Tu non hai la forza di una scoreggia!

Ma gli tolsero le mani di dosso. E nello stesso istante in cui lo lasciavano Ender colpì Stilson allo sterno con un pugno in cui mise tutta la sua forza. L’avversario cadde lungo disteso. Questo lo colse di sorpresa: non s’era aspettato di mettere a terra Stilson con un sol pugno. Non si rese conto che l’altro doveva aver preso la sfida alla leggera, e non era stato preparato a un colpo così disperato.

Nel vedere l’immobilità di Stilson gli altri sbarrarono gli occhi e si azzittirono, come chiedendosi se fosse vivo o morto. Ender stava invece pensando a come rintuzzare la prevedibile vendetta del ragazzo. L’indomani Stilson avrebbe fatto polpette di lui. Devo vincere adesso, e una volta per tutte, altrimenti mi dovrò battere con lui di continuo e ogni giorno sarà peggio.

Benché avesse appena sei anni Ender conosceva le regole non scritte della lotta. Era proibito infierire sull’avversario che giaceva a terra inerme; soltanto un animale l’avrebbe fatto.

Così si accostò a Stilson e lo colpì con un violento calcio nelle costole. Lui emise un grugnito e cercò di rotolare via. Ender gli girò attorno e gli sferrò una pedata al basso ventre. Dalla bocca di Stilson non uscì un lamento, ma si piegò in due e i suoi occhi si empirono di lacrime.

Ender rivolse agli altri uno sguardo freddo. — Forse vi sta venendo l’idea di buttarvi su di me. Probabilmente mi potete picchiare a sangue. E allora guardate quello che faccio alle carogne. Se ci provate, saprete che d’ora in poi aspetterò di trovarvi da soli, e saprete che vi succederà questo. — Con un altro calcio colpì Stilson in piena faccia. Il sangue gli uscì dal naso e ruscellò sul pavimento. — Solo che con voi non sarà così — disse. — Sarà molto peggio.

Volse loro le spalle e si allontanò. Nessuno provò a seguirlo. Uscito da scuola s’avviò nel corridoio sotterraneo verso la fermata del bus, e fece in tempo a sentire uno di loro che diceva: — Gesù! Guardalo, gli ha spaccato la faccia. — Ender appoggiò la fronte alla parete, e pianse fino all’arrivo dell’autobus. Sono uguale a Peter. Mi avete levato il monitor, e adesso sono proprio come Peter.

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