Era una costruzione in una strada secondaria, in un quartiere commerciale piuttosto vecchiotto che aveva perduto da diversi anni il suo lustro economico. C’era un uomo che camminava dall’altra parte della strada, a un paio d’isolati di distanza, e all’entrata di un vicoletto un cane fiutava tre bidoni della spazzatura, e probabilmente cercava di decidere quale dei tre gli sarebbe convenuto rovesciare per frugarci dentro.
Quando Lansing inserì la chiave più grande nella serratura della porta d’ingresso, girò senza difficoltà. Entrò. C’era un lungo corridoio debolmente illuminato che si estendeva per l’intera lunghezza della costruzione. Trovò la porta 136. La chiave più piccola girò agevolmente come la grande, e Lansing entrò nella stanza. Di fronte a lui c’era una dozzina di slot machines, allineate contro il muro. La quinta da sinistra, gli aveva detto la macchina con cui aveva parlato poche ore prima. Contò, partendo da sinistra, e si mosse, andò a fermarsi davanti alla numero cinque. Si frugò in tasca, pescò uno dei dollari d’argento e l’inserì nella fenditura. La macchina prese vita, gioiosamente, e ticchettò quando azionò la leva. I rulli girarono con quel movimento folle che è tipico esclusivamente delle slot machines. Uno dei rulli si arrestò, un altro sobbalzò e tornò indietro, e il terzo si fermò con un tonfo improvviso. Lansing vide che i caratteri allineati davanti a lui erano tutti eguali. La macchina emise un suono che sembrava un colpo di tosse e dallo scivolo del pagamento delle vincite scese un torrente di monete d’oro, grandi come un dollaro. Riempirono il ricettacolo e zampillarono sul pavimento, e il getto d’oro continuò a sgorgare. Alcune monete caddero di taglio e rotolarono tutto intorno, come minuscole ruote luccicanti.
I rulli ricominciarono a girare, a girare senza che nella fenditura fosse stato inserito un altro dollaro, e ancora una volta si arrestarono con un tonfo. Anche adesso i simboli erano tutti eguali, e la macchina, con disinvolta noncuranza, rigurgitò un altro fiume di monete.
Lansing era sbalordito e un po’ agitato, perché era uno spettacolo inaudito. Non era possibile: non potevano esserci due vincite così, consecutive.
Quando la macchina si spense con un ticchettio e restò muta e impassibile, attese per un momento, quasi aspettandosi che ricominciasse daccapo e producesse un’altra vincita. Con una macchina come quella, si disse, tutto poteva essere: non esistevano limiti ai miracoli di cui era capace.
Ma la macchina non si ripeté; quando fu sicuro che non avrebbe ricominciato, Lansing raccolse le monete dal ricettacolo e le mise in una tasca della giacca, poi s’inginocchiò per raccogliere quelle che erano sparpagliate sul pavimento. Ne tenne una in modo che la luce la investisse, e la esaminò. Non c’era il minimo dubbio: era oro. Innanzi tutto, pesava un po’ di più di un dollaro d’argento. Era splendidamente coniata, lucida come uno specchio, d’un peso gradevole nella mano: ma non ne aveva mai vista una simile. Su una faccia era raffigurato un cubo, su uno sfondo zigrinato che, con ogni probabilità, rappresentava il terreno. Dall’altra parte c’era qualcosa che sembrava una torre molto esile. Ed era tutto. Non c’erano scritte, non c’era neppure la designazione del valore.
Lansing si rialzò in piedi e si guardò intorno. La macchina che aveva parlato con lui gli aveva detto di inserire il secondo dollaro nella settima slot machine. Tanto valeva che lo facesse, pensò. La transazione con la quinta non era andata poi tanto male, e poteva darsi che continuasse ad aver fortuna anche con la settima.
Si avviò, lungo la fila, fino alla numero sette. Tese la mano per inserire la moneta, ma poi la ritrasse. Perché correre quel rischio? si chiese. Forse la numero cinque non aveva fatto altro che adescarlo. Solo Dio sapeva cosa sarebbe accaduto se avesse giocato con la numero sette. Eppure, pensò, se adesso avesse girato sui tacchi e se ne fosse andato con una tasca piena d’oro, non avrebbe mai saputo, e non avrebbe mai smesso d’interrogarsi. Non avrebbe più avuto un momento di pace, avrebbe continuato a chiedersi…
— Oh, al diavolo — disse a voce alta, e inserì il dollaro. La macchina lo trangugiò, emise un suono sferragliante, e le luci si accesero. Lansing abbassò la leva, e i rulli incominciarono a girare all’impazzata. Poi le luci si spensero e la macchina sparì. E sparì anche la stanza.
Lansing era su un sentiero, in una valletta boscosa. Era circondato da alberi alti e massicci, e a poca distanza si sentiva il ciangottio liquido e canoro d’un ruscello. Non c’erano altri suoni, e non c’era nulla che si muovesse.
E ora sapeva, si disse Lansing. Avrebbe fatto meglio a non toccare la numero sette, anche se non era del tutto certo. La traslazione nella valletta boscosa poteva essere un risultato piacevole quanto la vincita di tutto quell’oro, sebbene, non riuscisse a convincersene, neppure nel momento stesso in cui se lo diceva.
Non muoverti, pensò. Guardati bene intorno prima di muovere un passo. E non cedere al panico… Perché già in quei primi secondi aveva sentito i fremiti del panico.
Si guardò intorno. Davanti a lui il terreno saliva, piuttosto dolcemente, e a giudicare dal suono il ruscello non poteva essere molto lontano. Gli alberi erano querce e aceri, e le loro foglie stavano cambiando colore. Poco lontano, uno scoiattolo attraversò correndo il sentiero che saliva ad angolo verso la collina. Quando lo scoiattolo sparì, Lansing poté seguirne il percorso grazie al fruscio delle foglie cadute, smosse dal piccolo turbine del suo passaggio. Quando il rumore si perse in lontananza, ritornò il silenzio, interrotto soltanto dal chiocchiolio del ruscello. Ma ora il silenzio non sembrava tanto opprimente. C’erano rumori sommessi… il suono d’una foglia che cadeva, i fruscii appena discernibili prodotti dagli esserini della foresta che si muovevano di qua e di là, e altri suoni fievoli che non riusciva a identificare.
Lansing parlò alla numero sette, parlò a chi (o cosa) l’aveva portato lì.
— Sta bene — disse. — Che cosa significa? Se ti sei divertito abbastanza, facciamola finita.
Ma non era finita. La valletta boscosa restò al suo posto. Niente indicava che la numero sette l’avesse sentito. La numero sette o qualunque altra cosa.
Era incredibile, pensò; eppure era stato tutto incredibile, fin dall’inizio. Questo, in realtà, non era più incredibile del fatto che una slot machine gli avesse parlato. Se mai fosse ritornato, si ripromise, avrebbe stanato quello studente, Jackson, e lo avrebbe fatto a pezzi con le sue mani.
Se fosse ritornato!
Fino a quel momento aveva considerato la situazione temporanea; aveva creduto, inconsciamente, che da un momento all’altro sarebbe ritornato nella stanza dove c’erano tutte quelle slot machines allineate contro il muro. Ma se non fosse andata così? Era un pensiero che lo faceva sudare, e il panico che era rimasto in agguato tra gli alberi, fino a quel momento, lo assalì all’improvviso. Si mise a correre, a fuggire. Fuggiva, senza riflettere, irrazionalmente… fuggiva alla cieca, dominato da un terrore che non gli permetteva di pensare ad altro.
Finalmente urtò con il piede contro un piccolo ostacolo sul sentiero e andò a sbattere barcollando contro un albero. Cadde a terra. Non tentò neppure di rialzarsi. Rimase accasciato, ansimando, cercando di riempirsi d’aria i polmoni.
E mentre era lì, steso a terra, un po’ del terrore defluì da lui. Non c’era nessuna belva che l’azzannasse con lunghi denti acuminati. Non c’era un mostro orribile che gli sbavasse addosso. Non succedeva nulla di nulla.
Quando ebbe ripreso fiato, si rimise in piedi. Era ancora sul sentiero, e vide che aveva raggiunto la sommità di una cresta, e il sentiero la costeggiava. La foresta era ancora fitta, come prima, ma il ciangottio del ruscello non si sentiva più.
E adesso che cosa doveva fare? Adesso che aveva ceduto al panico e poi l’aveva superato, almeno in una certa misura, quale doveva essere la sua prossima mossa? Era inutile ritornare indietro fino al punto, nella valletta boscosa, dove si trovava all’inizio. Era molto probabile, si disse, che anche se avesse tentato di farlo, non sarebbe riuscito a riconoscerlo.
Aveva bisogno d’informazioni. Innanzi tutto, aveva bisogno di sapere dov’era. Doveva assolutamente saperlo, se voleva sperare di ritornare al college. Quel posto, pensò, sembrava situato nel New England. Chissà come, era stato trasportato attraverso lo spazio dalla slot machine, ma forse non era stato spostato a una grande distanza. Se fosse riuscito a scoprire dov’era e a trovare un telefono, avrebbe potuto chiamare Andy e pregarlo di venire a prenderlo con la sua macchina. Se avesse percorso il sentiero, era molto probabile che in poco tempo avrebbe raggiunto una località abitata.
S’incamminò. Era facile seguire il sentiero, perché sembrava usato molto di frequente. Ad ogni svolta guardava davanti a sé, con ansia sperando di poter scorgere una casa o d’incontrare qualche escursionista che gli avrebbe spiegato dove si trovava.
Sembrava veramente il New England. La foresta, per quanto fosse piuttosto fitta, era amena. Non c’era traccia della presenza di mostri o spiriti maligni o altri abitatori odiosi. E la stagione era la stessa del posto dal quale era venuto. Al college era autunno ed era autunno anche lì: ma c’era qualcosa che lo inquietava profondamente. Sul campus era già scesa la notte quando lui aveva deciso di andare in cerca delle dodici slot machines: ma lì era ancora pomeriggio, per quanto fosse ormai pomeriggio inoltrato.
C’era un altro pensiero che lo inquietava. Se non fosse riuscito a trovare un posto per passarvi la notte, avrebbe dovuto trascorrerla all’addiaccio, e non era preparato. Non aveva addosso gli indumenti pesanti che avrebbero potuto proteggerlo dal freddo notturno, e non aveva possibilità di accendere il fuoco. Dato che non fumava, non aveva mai fiammiferi in tasca. Diede un’occhiata all’orologio, e solo quando lo guardò si rese conto che l’ora indicata, lì, non avrebbe avuto alcun significato. Non era stato traslato soltanto nello spazio ma, sembrava, anche nel tempo. Anche se era un pensiero spaventoso, per il momento non lo sconvolgeva troppo. Aveva altre preoccupazioni, e la più importante era il timore di non riuscire a trovare un riparo per la notte.
Aveva camminato un paio d’ore, o almeno così sembrava. Era pentito di non aver guardato prima l’orologio perché, sebbene non indicasse l’ora esatta di quel luogo, almeno avrebbe potuto dirgli da quanto tempo si trovava sul sentiero.
Era possibile che fosse in una zona disabitata? Era l’unica eventualità che spiegasse la mancanza d’una presenza umana. In circostanze normali, ormai avrebbe dovuto imbattersi in una fattoria.
Il cielo stava declinando e fra un’ora, due al massimo sarebbe scesa l’oscurità. Lansing ricominciò a correre, poi si fermò. No, così non andava: la corsa poteva ispirargli il panico, e adesso non poteva permetterselo. Tuttavia allungò il passo. Trascorse un’ora, e non vide abitazioni, non vide tracce di presenze umane. Il sole calava all’orizzonte e il buio si avvicinava rapidamente.
Un’altra mezz’ora, si disse, facendo un patto con se stesso. Se non avesse trovato nulla entro una trentina di minuti, avrebbe dovuto fare il possibile per prepararsi ad affrontare la notte… avrebbe dovuto cercarsi un riparo naturale, o arrangiarsi a costruirsene uno, alla meglio.
L’oscurità scese più rapida di quanto avesse immaginato e, prima che fosse passata mezz’ora, incominciò a cercare un posto dove rintanarsi. Poi, più avanti, scorse un barlume di luce. Si fermò trattenendo il respiro, e lo guardò, per assicurarsi che fosse una luce, per non fare un gesto che potesse metterla in fuga. Avanzò di qualche passo, nella speranza di vederla meglio; e sì, era una luce, su questo non c’erano dubbi.
Proseguì in quella direzione, distogliendo lo sguardo solo per il tempo strettamente indispensabile per assicurarsi d’essere ancora sul sentiero. Via via che procedeva il barlume divenne più luminoso e più nitido, e Lansing si sentì pervadere da un’ondata di sollievo e di gratitudine.
La foresta si aprì in una radura e Lansing vide la sagoma d’una casa, nell’imbrunire sempre più fondo. La luce proveniva da diverse finestre, a un’estremità della casa, e dal comignolo massiccio usciva un filo esile di fumo.
Nell’oscurità, andò a sbattere contro una staccionata: aveva abbandonato il sentiero, nella fretta di raggiungere la casa. Procedette cautamente, a tentoni, lungo lo steccato fino a quando arrivò al cancello. Il cancello era incardinato a un palo massiccio, più alto del necessario. Lansing alzò gli occhi, e capì perché era così alto. C’era fissata una trave trasversale, e dalla trave pendeva un’insegna, da due corte catene.
Lansing socchiuse le palpebre per vedere meglio, e riuscì a distinguere che era l’insegna d’una locanda; ma ormai la notte era così buia che non riuscì a discernere il nome.