XXIX

Era meglio così, si disse Lansing. Da solo avrebbe potuto viaggiare più facilmente e rapidamente. Dalla mattina aveva percorso parecchia strada… molto più, ne era sicuro, che se avesse avuto con lui gli altri due. E soprattutto, non aveva nessuna simpatia per loro. Melissa era una piagnucolona, e Jorgenson un maleducato.

Se c’era qualcuno che gli dispiaceva aver lasciato, quello era Correy. Sebbene avesse trascorso soltanto poche ore in sua compagnia, l’aveva trovato simpatico. Gli aveva dato un po’ più della metà delle monete che gli rimanevano e gli aveva stretto la mano. Quando aveva accettato il dono, Correy s’era mostrato molto cortese, e l’aveva ringraziato a nome dell’intero gruppo.

— Amministrerò questa ricchezza inaspettata nell’interesse comune — aveva detto. — Immagino che tutti vorranno ringraziarti.

— Lascia stare — aveva risposto Lansing. — Forse io e Mary torneremo qui.

— Vi terremo un posto accanto al fuoco — aveva detto Correy. — Ma spero sinceramente che non dobbiate tornare. La vita, qui, non è molto piacevole. Forse troverete una via d’uscita. Alcuni devono trovarla. Vi auguro che voi ci riusciate.

Fino al momento in cui ne aveva parlato Correy, Lansing non aveva pensato che restasse qualche speranza di uscire da quella situazione. Era una speranza cui aveva rinunciato ormai da molto tempo. Aveva sperato soltanto di ritrovare Mary per poter affrontare con lei ciò che li attendeva.

Ci pensò, mentre camminava. Correy, lo sapeva, aveva parlato con un ottimismo che non provava realmente, ma l’interrogativo restava immutato… poteva esserci ancora una speranza? La logica diceva che era una speranza molto esile, e Lansing era irritato con se stesso perché continuava ad aggrapparsi. Eppure, mentre procedeva tutto solo, la percepiva ancora nel profondo del suo essere, come un minuscolo barlume.

Il cammino era relativamente agevole. Le colline erano scoscese, ma la foresta non era fitta. L’acqua non costituiva un problema. Incontrava spesso torrentelli e rigagnoli che scendevano dalle alture.

Verso sera arrivò alle maleterre. Non erano, tuttavia, l’incubo colorato che il suo gruppo aveva attraversato dopo aver lasciato la città. Queste erano maleterre circoscritte, e si erano arrestate prima di spingersi molto lontano. Lì l’azione delle acque primordiali non aveva portato a termine la sua opera. Le piogge erano cessate e l’erosione massiccia s’era interrotta prima di creare maleterre troppo ampie. C’erano piccole piane alluvionali, alcuni canaloni profondi, fantastiche formazioni scolpite ma incompiute, come se uno scultore avesse gettato via mazzuolo e scalpello, vinto dalla frustrazione e dal disgusto, prima che il suo lavoro fosse ultimato.

— Domani — disse Lansing a se stesso, parlando a voce alta, — domani raggiungerò la città.

La raggiunse l’indomani, immediatamente dopo mezzogiorno. Si soffermò su una delle alte colline che la cingevano e la scrutò. Laggiù, pensò, Mary lo stava aspettando, forse; e a quel pensiero si sentì tremare.

Scese in fretta e trovò una via che conduceva nel cuore della città. Tutto aveva il vecchio aspetto familiare… i muri rossi ed erosi, i blocchi caduti che ostruivano parzialmente la strada, la polvere che copriva ogni cosa.

Sulla piazza si fermò e si guardò intorno per orientarsi. Adesso sapeva dove si trovava. Laggiù, a sinistra, c’era la facciata malconcia del cosiddetto palazzo amministrativo, con l’unica torre ancora in piedi, e lungo una delle vie che lo raggiungevano avrebbe trovato l’installazione.

Dal centro della piazza chiamò Mary, ma non ebbe risposta. La chiamò qualche volta ancora e poi non più, perché l’eco ossessivo della sua voce era terrificante.

Attraversò la piazza, dirigendosi verso l’edificio dell’amministrazione, salì l’ampia scalinata per raggiungere l’atrio dove s’erano accampati. I suoi passi destavano echi rimbombanti, simili a voci querule che lo chiamassero. Si aggirò nell’atrio e trovò i segni della loro sosta, un paio di barattoli vuoti, una scatola di crackers egualmente vuota, una tazza dimenticata da qualcuno. Avrebbe voluto scendere nel sotterraneo a guardare le porte, ma non osava. Più volte si mosse per andare, e ogni volta tornò sui suoi passi. Di che cosa aveva paura? si chiese… Paura di scoprire che una di quelle porte era stata aperta? Forse quella che conduceva al mondo dei meli in fiore? No, si disse… no, no, Mary non l’avrebbe mai fatto. Non l’avrebbe fatto, per ora; forse più tardi, quando avesse perduto completamente la speranza di trovarlo, e tutte le altre speranze, ma non ora. Forse, pensò, sarebbe stato impossibile per chiunque. Il generale di brigata aveva portato via la chiave inglese, probabilmente l’aveva nascosta chissà dove. Aveva giurato che nessuno avrebbe più aperto una di quelle porte.

Mentre stava immobile nell’atrio, in silenzio, ebbe l’impressione di sentire le loro voci. Parlavano: non a lui, ma tra loro. Cercò di non ascoltarle, ma le voci persistettero.

Aveva progettato di accamparsi lì, ma decise che non poteva farlo. C’erano troppe voci, e i ricordi erano troppo assillanti. Tornò al centro della piazza e incominciò ad ammucchiarvi la legna che riuscì a trovare in giro. Lavorò per tutto il resto del pomeriggio, ammassando una piccola catasta. Poi, all’imbrunire, accese il fuoco e lo alimentò perché si mantenesse vivo, con le fiamme alte. Se Mary era in città, o vi si stava avvicinando o l’osservava da una certa distanza, avrebbe visto il fuoco e avrebbe compreso che lì c’era qualcuno.

Su un fuocherello più piccolo, Lansing preparò il caffè e cucinò qualcosa. Mentre mangiava, cercò di elaborare un piano d’azione, ma non gli venne in mente altro che cercare in tutta la città, strada per strada, se fosse stato necessario. Eppure, si disse, sarebbe stata una fatica inutile. Se Mary era nella città, o se stava per raggiungerla, si sarebbe diretta immediatamente verso la piazza, sapendo che chiunque altro fosse venuto lì avrebbe fatto altrettanto.

Il Lamentatore uscì sulle colline quando spuntò la luna e urlò il tormento della sua solitudine. Lansing restò seduto accanto al fuoco e ascoltò, assalito dalla stessa angoscia.

— Scendi quaggiù con me accanto al fuoco — disse al Lamentatore. — Potremmo piangere insieme.

Solo in quell’attimo si rese conto che la sua solitudine poteva protrarsi per sempre, che forse non avrebbe più ritrovato Mary. Cercò d’immaginare cosa avrebbe provato… non rivederla più, continuare a vivere senza di lei. E Mary, che cosa avrebbe provato? Rabbrividì a quel pensiero e si accostò di più al fuoco, ma non trovò il calore che cercava.

Tentò di addormentarsi, ma dormì pochissimo. L’indomani mattina incominciò la ricerca. Stringendo i denti per dominare la paura, andò a vedere le porte. Nessuna era stata riaperta. Andò all’installazione e scese la scala. Indugiò a lungo, ascoltando il canto in sordina delle macchine. Frugò le vie a casaccio, senza troppa attenzione, sapendo che era tempo perso. Ma insistette, perché sentiva il bisogno di darsi da fare, per distrarsi.

Cercò per quattro giorni e non trovò nulla. Poi scrisse un biglietto per Mary e lo lasciò, sotto la tazza dimenticata da qualcuno, accanto al vecchio bivacco nell’edificio dell’amministrazione, e si mise in cammino per ritornare al cubo e alla locanda.

Quanto tempo era trascorso, si chiese, da quando era venuto in quel mondo? Tentò di contare i giorni, ma aveva la memoria annebbiata, e ogni volta si confondeva. Un mese? si domandò. Poteva essere un mese e non di più? Ripensandoci, gli parve che fosse trascorsa mezza eternità.

Cercò di trovare i punti di riferimento, lungo la strada. Qui c’eravamo accampati, si diceva; qui Mary ha visto le facce nel cielo. E là Jurgens aveva trovato la sorgente. Qui avevo tagliato la legna. Ma non sapeva mai se fosse davvero così. Erano avvenimenti perduti in un passato troppo lontano, si diceva: un mese nel passato.

Finalmente arrivò sulla cima d’un colle, e da lassù poté scorgere il cubo. Era sempre là, splendente, classicamente bello come lo ricordava. Per un momento si sorprese di vederlo… certo, s’era aspettato di trovarlo, ma non si sarebbe meravigliato troppo se non l’avesse trovato affatto. Quel mondo, negli ultimi giorni, aveva assunto una qualità fantomatica, e lui aveva l’impressione di procedere in un vuoto.

Scese i tornanti che si snodavano lungo il fianco scosceso della collina e raggiunse la conca dov’era situato il cubo. Quando superò l’ultima curva della strada, vide che c’era qualcosa. Prima non li aveva visti, ma adesso erano là, tutti e quattro, seduti sulla lastra di pietra scoperta da lui e da Mary, la lastra al bordo del cerchio di sabbia bianca che cingeva il cubo. Erano seduti a gambe incrociate e continuavano a giocare la loro interminabile partita a carte.

Non si accorsero della sua presenza quando si avvicinò. Per un po’ rimase fermo a guardarli giocare.

Poi disse: — Credo di dovervi ringraziare, signori, per la corda che mi avete lanciato.

Al suono della sua voce, i quattro alzarono le teste, lo guardarono con le facce bianche di porcellana, con quelle orbite rotonde e prive di sopracciglia e quelle agate nere sospese nelle occhiaie, le fenditure gemelle delle narici, lo squarcio della bocca.

Non dissero nulla; rimasero a fissarlo, impassibili, anche se gli sembrò di scorgere un’espressione d’irritazione e di rimprovero nelle facce bianche e levigate così simili a maniglie rotonde sulle quali fossero stati tracciati i lineamenti.

Poi uno disse: — Scostati per favore. Ci togli la luce.

Lansing indietreggiò di un paio di passi e poi, dopo una sosta, arretrò ancora, fino a quando si trovò sulla strada. I quattro avevano ripreso a giocare.

Mary non era nella città, pensò; se ci fosse stata avrebbe visto il fuoco e l’avrebbe raggiunto. E non era lì. C’era ancora un luogo dove cercarla.

Proseguì ostinatamente lungo la strada, senza più speranza, ma spronato ancora dalla necessità di continuare la ricerca fino a quando non fosse più rimasto un altro posto dove andare.

Era scesa la notte, quando arrivò alla locanda. Dalle finestre non filtrava la luce, dal comignolo non usciva il fumo. Chissà dove, nella foresta, chiurlava un gufo solitario.

Si accostò alla porta e strinse la maniglia. Non si abbassò, sotto la pressione: evidentemente era chiusa a chiave. Bussò all’uscio e nessuno rispose. Smise di bussare e ascoltò, in attesa di sentire uno scalpiccio di passi all’interno. Non sentì nulla, e allora serrò i pugni e cominciò a tempestare di colpi la porta. La porta si aprì all’improvviso e Lansing, sbilanciato com’era, varcò la soglia barcollando.

L’Oste era lì, con una mano sulla porta aperta e l’altra che stringeva un mozzicone di candela. Alzò la candela perché la luce piovesse sul viso di Lansing.

— Ah, è lei — disse l’Oste con voce terribile. — Che cosa vuole?

— Sto cercando una donna. Mary. La ricorda?

— Non c’è.

— È stata qui? È venuta e se n’è andata?

— Non l’ho più vista da quando siete partiti.

Lansing gli girò intorno e si accostò al tavolo accanto al camino spento. Sedette su una sedia. Non aveva più fiato. Di colpo, si sentì debole e inutile. Era la fine. Non c’erano altri posti dove andare.

L’Oste chiuse la porta e lo seguì al tavolo, vi posò la candela.

— Non può restare — disse. — Me ne vado. Chiudo per l’inverno.

— Oste — disse Lansing, — sta dimenticando le buone maniere e i doveri dell’ospitalità. Mi fermerò questa notte, e dovrà procurarmi qualcosa da mangiare.

— Non ci sono letti disponibili — disse l’Oste. — Sono tutti disfatti e non intendo prepararne uno. Se vuole, può dormire sul pavimento.

— Sta bene — disse Lansing. — C’è qualcosa da mangiare?

— Ho preparato una pentola di zuppa. Può prenderne una scodella. C’è un avanzo di arrosto di agnello. E credo che potrò trovare un pezzo di pane.

— Basterà — disse Lansing.

— Lei sa, naturalmente, che non può restare. Domattina dovrà andar via.

— Sì, certo — disse Lansing, troppo stanco per discutere.

Restò seduto sulla sedia e guardò l’Oste che si avviava a passo pesante verso la cucina, dove brillava una luce fioca. La cena, pensò, e un pavimento per dormire, e l’indomani mattina se ne sarebbe andato. Ma dove? Si sarebbe avviato di nuovo lungo la strada, oltre il cubo, verso la città, sempre alla ricerca di Mary ma con scarse speranze di trovarla. Molto probabilmente, sarebbe finito nell’accampamento in riva al fiume, con gli altri sperduti che si arrangiavano a vivere alla meno peggio. Era una prospettiva sgradevole, e non voleva pensarci; ma probabilmente era l’unica possibilità che gli restava. E se avesse trovato Mary? Sarebbero stati costretti a cercare rifugio nell’accampamento? Rabbrividì.

L’Oste portò la cena e la sbatté sul tavolo davanti a Lansing, poi si voltò per andarsene.

— Un momento — disse Lansing. — Prima di ripartire, dovrò fare provviste.

— Posso darle tutti i viveri che vuole — disse il locandiere. — Ma il resto della merce l’ho già messo via.

— Va bene così — disse Lansing. — Ho bisogno soprattutto di viveri.

La zuppa era saporita; il pane era vecchio e duro, ma l’intinse nel brodo e lo mangiò. La carne d’agnello, soprattutto fredda, non gli era mai piaciuta, ma ne mangiò alcune grosse fette.

L’indomani mattina, dopo una notte di sonno inquieto e un piatto di crema d’avena servito controvoglia dall’Oste, Lansing acquistò una scorta di viveri, mercanteggiò sul prezzo e si rimise in cammino.

Il tempo, che si era mantenuto al bello dal momento in cui Lansing era giunto in quel mondo, si rannuvolò. Un vento freddo e tagliente soffiava da nord-ovest e a volte c’erano brevi raffiche di grandine che gli martellavano la faccia.

Quando scese la strada ripida nella conca dove stava il cubo, grigiocupo sotto il cielo nuvoloso, vide che i giocatori di carte non c’erano più.

Giunse ai piedi della collina e si avviò sul tratto pianeggiante, verso il cubo, con la testa china per proteggersi dal vento.

Sentì un grido e alzò la testa di scatto. Lei gli stava correndo incontro lungo la strada.

— Mary! — urlò, lanciandosi verso di lei.

Poi se la trovò fra le braccia, stretta a lui: le lacrime le rigavano le guance quando sollevò il viso per ricevere il suo bacio.

— Ho trovato il tuo biglietto — gli disse. — Mi sono affrettata. Per raggiungerti.

— Grazie a Dio sei qui — disse Lansing. — Grazie a Dio ti ho trovata.

— La locandiera ti ha dato il mio biglietto?

— Ha detto che gliel’avevi lasciato, ma l’aveva perduto. L’abbiamo cercato, abbiamo messo la locanda a soqquadro, ma non l’abbiamo trovato.

— Ti avevo scritto che sarei andata in città ad aspettarti. Poi mi sono smarrita nelle maleterre. Avevo abbandonato la pista e non sono riuscita a ritrovarla. Ho vagato per giorni, senza sapere dove fossi, e poi sono salita su una collina e ho visto la città sotto di me.

— Io ti ho cercato da quando sono tornato alla torre che canta. Ho trovato Sandra morta e…

— Era morta prima che me ne andassi. Avrei voluto restare, ma poi è apparso il Lamentatore. Continuava ad avvicinarsi, sempre di più. Ho avuto paura… Dio, che paura! Mi sono messa in cammino per raggiungere la locanda, e quella bestia mi ha sempre seguita. Sapevo che saresti venuto alla locanda a cercarmi, ma la padrona mi ha ordinato di andarmene. Non avevo denaro e non mi ha permesso di restare, perciò ti ho scritto la lettera e sono ripartita. Il Lamentatore non è più comparso, e sembrava che tutto andasse bene, ma poi mi sono perduta.

Lansing la baciò. — Adesso è tutto a posto, — disse. — Ci siamo ritrovati. Siamo insieme.

— Dov’è Jurgens? È qui con te?

— Si è perduto. È precipitato nel Caos.

— Il Caos? Edward, che cos’è il Caos?

— Te lo dirò più tardi. Ne avremo tutto il tempo. Jorgenson e Melissa sono tornati dall’ovest, ma non sono venuti con me.

Mary si svincolò gentilmente.

— Edward — disse.

— Sì, Mary?

— Credo di aver trovato la soluzione. È il cubo. È sempre stato il cubo.

— Il cubo?

— Ci ho pensato, poco fa, mentre percorrevo la strada. Qualcosa che abbiamo trascurato. Qualcosa che non abbiamo mai pensato. Mi è venuto in mente all’improvviso. Non ci stavo neppure pensando, e poi, di colpo, ho capito.

— Hai capito? In nome di Dio, Mary…

— Ecco, non posso esserne sicura. Ma credo di non sbagliare. Ricordi le pietre piatte che abbiamo trovato? Le tre lastre nella sabbia? Abbiamo dovuto toglierla, per scoprirle. Le copriva completamente.

— Sì, le ricordo. Ieri i giocatori di carte stavano seduti su una delle tre.

— I giocatori di carte? E perché i giocatori di carte dovrebbero…?

— Lascia stare, per il momento. Cosa dicevi delle pietre?

— E se ce ne fossero altre? Altre pietre che formano una passerella e portano al cubo? Tre passerelle per il cubo. Messe in modo che chiunque lo voglia possa arrivare al cubo, al sicuro da ciò che lo difende. Ma coperte dalla sabbia, in modo da non essere visibili.

— Vuoi dire…

— Diamo un’occhiata — disse Mary. — Possiamo tagliare il ramo di un albero o di un arbusto e usarlo come scopa.

— L’userò io come una scopa — disse Lansing. — Tu stai tranquilla in disparte.

— D’accordo — disse Mary, docilmente. — Starò dietro di te.

Trovarono un arbusto e lo tagliarono.

Quando si avvicinarono al cerchio di sabbia, Mary disse: — Il cartello è caduto. Il cartello in russo. Tu l’avevi piantato di nuovo, e adesso è a terra, coperto quasi completamente dalla sabbia.

— Qui c’è qualcuno — disse Lansing, — che si dà da fare per rendere la vita difficile alla gente. I biglietti si perdono, i cartelli cadono, le passerelle sono coperte. Da quale pietra dobbiamo incominciare?

— Non penso che abbia importanza. Se una non va, proveremo con le altre.

— Se ci sono altre pietre, se esiste una passerella. Che cosa faremo, quando arriveremo al cubo?

— No lo so — disse Mary.

Lansing salì sulla lastra di pietra e si accosciò, guardingo, all’estremità, protese il fascio di rami per rimuovere la sabbia. Affiorò un’altra lastra. Lansing continuò a spazzare.

— Hai ragione — disse. — C’è un’altra pietra. Perché non ci abbiamo pensato subito?

— Una svista — disse lei. — Causata dall’apprensione. Jurgens s’era appena infortunato, e c’eravamo spaventati per quello che era successo al reverendo e al generale.

— Io sono spaventato anche adesso — disse Lansing.

Ripulì l’estremità più vicina della seconda lastra, vi salì e spazzò via il resto della sabbia. Si sporse e usò di nuovo la scopa improvvisata. Affiorò un’altra lastra.

— Come beole — disse Mary. — Arrivano fino al cubo.

— E quando ci arriveremo, cosa succederà?

— Allora lo scopriremo — disse lei.

— E se non succederà niente?

— Bene — disse Mary, — almeno avremo tentato.

— Sì, credo che abbia ragione — disse Lansing.

— Un’altra lastra — disse, domandandosi se c’era. Sarebbe stato del tutto degno dei buffoni che avevano organizzato tutto quanto, predisporre un sentiero e non mettere l’ultima lastra.

Si chinò per spazzare, e l’altra lastra c’era.

Mary lo raggiunse. Si fermarono, fianco a fianco, di fronte alla faccia azzurro scura del cubo. Lansing tese la mano e passò il palmo sulla superficie.

— Non c’è niente — disse. — Fino a questo momento avevo pensato che potesse esserci una porta. Ma non c’è. Se ci fosse si vedrebbe almeno una fenditura sottilissima. Ma è soltanto un muro, niente altro.

— Spingilo — disse Mary.

Lansing spinse, e la porta c’era. La varcarono in fretta e la porta si chiuse dietro di loro con un sibilo.

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