I SIGNORI DI MAXUS

La stazione fortificata di entrata era sospesa a dieci miglia sopra Maxus, un anello bianco e pesante di un miglio di diametro, trapunto di finestre panoramiche. Attraverso l’aria rarefatta ogni dettaglio era nitido, chiaro, distinto.

La navicella di Gardius non ricevette alcuna immediata intimazione. Attese, quasi rannicchiato sui comandi, guardando la stazione fortificata, poi l’altoparlante, ancora la stazione. Un minuto… due minuti…

Gardius imprecò, premette l’interruttore sul comunicatore, parlò per la seconda volta nella griglia. «Permesso visitatore undici A cinque cento e sei… Voglio atterrare… Datemi istruzioni… un segnale, un riconoscimento.»

Una voce crepitò. «Il permesso è in fase di controllo. Prego attendere nostri ordini.»

Gardius si abbandonò sul sedile, poi si alzò e guardò giù verso la città di Alambar. Si stendeva fino all’orizzonte e oltre, un tappeto disegnato a colori cupi, verdi e neri ossidati, ruggini e ocre scure, grigi di fumo e cemento e mattoni.

Direttamente sotto di lui tre fiumi plumbei si univano sfociando in un lago di mercurio, circondato e adombrato dai grandi edifici amministrativi, dai palazzi e dalle case di città dei Sommi. Strade elevate andavano e venivano per la città come vene esposte; lì, altrove, ovunque c’era un incessante ammiccare di movimento, una miriade di tremolii.

Gardius alzò lo sguardo, fissò la stazione fortificata oltre lo spazio vuoto. Risalire con la navicella, speronare la stazione, sbriciolare la città come pane raffermo. Mettere in fila i Signori di Maxus, lacerare le facce, squarciare i ventri…

«Undici A cinquecento e sei,» disse l’altoparlante, «avvicinarsi alla Piattaforma Sei, prepararsi a ricevere una squadra di ispezione.»


Gardius balzò a sedere, fece avanzare la navicella. Una serie di campate piatte bordava il perimetro interno della stazione. Gardius scese sul cemento macchiato della campata col numero sei. Tre uomini in tenuta da altitudine apparvero e batterono al portello esterno. Gardius li fece entrare; erano uomini dalla faccia dura e i capelli neri, smunti, pallidi, con uniformi nere e berretti di cuoio a punta.

Il caporale, un uomo con una faccia lunga e stretta, le guance incavate, il naso a uncino, salì sul ponte di controllo. «Vediamo il tuo permesso.»

Gardius gli diede il documento. Il caporale arricciò le labbra mentre leggeva: «Pianeta di origine… Exar. Titoli segnalati… diecimila milreis. Durata prevista della visita… una settimana. Motivo della visita…» Sollevò le sopracciglia. «Oh, va bene,» disse con indulgenza, «buona fortuna, buona fortuna.»

Gardius non disse nulla.

«Darai la caccia all’ultimo carico di Arman.»

«Corretto.»

«Saresti dovuto arrivare prima,» disse il caporale. Gettò il permesso sul tavolo dei comandi. «È tutto in ordine.» Guardò i suoi due uomini, che stavano ritornando dalla sezione posteriore. «Come l’avete trovata, ragazzi?»

«Pulita.»

Il caporale fece un cenno di assenso. I due uomini rimisero a posto il casco con uno scatto e lasciarono la nave.

Il caporale si sporse sul tavolo. «Un uomo con uno scopo come il tuo ha con sé un sacco di soldi. E ha fretta. Io vorrei aiutarti, ma c’è un intendente di campo ostinato, che si è appisolato e non si s veglierà senza un grugnito, a meno che gli porti qualcosa che lo plachi. E naturalmente, se non apre il campo, tu non atterri.»

Gardius strinse forte le labbra. «Quanto?»

«Oh… duecento milreis.»

Gardius gli voltò la schiena, tirò fuori un paio di certificati dal portafoglio. «Duecento. Eccoli. Per favore, fate in fretta.»

«Cinque minuti e sarai a terra,» disse il caporale. «Vai al portello di atterraggio appena oltre il parco. Chi è, tua moglie?»

«Mia madre, due sorelle, un fratello.»

Il caporale fischiò tra i denti. «Devi essere un milionario.» Esitò, lanciò un’occhiata alla tasca di Gardius.

«Non lo sono,» scattò Gardius. «E ho fretta.»

«Temo che sia troppo tardi per il carico di Arman. Adesso osserva quel globo. Quando si accende la luce abbassati attraverso il buco, scendi verticalmente fino a un’altitudine di trentamila piedi, poi da lì sei da solo. Non svoltare più in alto, o il campo ti ridurrà a un carboncino.»


Gardius rallentò la navicella fino a quando si arrestò stridendo. Aprì il portello, saltò fuori nell’aria che sapeva di pietre combuste e fumo. Corse a un portale di mattoni neri che dava su una via stretta, lo attraversò, si irrigidì, fece un balzo indietro per evitare un veicolo rombante. Esitò pochi secondi, guardò su e giù lungo la via.

I passanti — individui alti dai lineamenti affilati, scura e saturnina — lo fissarono con viva curiosità. Sentì un bambino con una giacchetta marrone dire con voce squillante: «Guarda quell’Orth, e non ha il marchio!»

E Gardius sentì un sussurro sommesso: «Sst! Nessuno l’ha ancora comprato.»

Si avvicinò a un vecchio con un camiciotto aderente di gabardine nero. «Dov’è il Distributore di Schiavi, per favore? Come ci arrivo?»

Il vecchio lo osservò un momento, e Gardius pensò che non avrebbe risposto. Invece disse con voce piatta: «Prendi lo svincolo, segui la striscia rossa e verde. Passato il secondo tunnel troverai alla tua destra un edificio di cemento marrone con il tetto piatto.»

«Grazie.» Gardius si girò, attraversò la via, fece il grande passo che lo portò a bordo dello svincolo. Strisce multicolori di luce si allungavano sulla superficie. Gardius si spostò obliquamente di lato, trovò la striscia rossa e verde, e avanzò camminando tanto in fretta quanto permetteva il traffico.

La striscia rossa e verde deviò verso l’estremità. Gardius la seguì. Lo svincolo si divise, la striscia rossa e verde entrò in un tunnel stretto che odorava di ammoniaca e gas illuminante. Dopo un tratto di oscurità piena di rumori, si ritrovò di nuovo fuori alla luce del giorno.

Alte residenze a ripidi spioventi fiancheggiavano la striscia, strutture complesse precedute da colonne di pietra levigata, cornalina, diaspro, onice. Un miglio; due miglia… poi la striscia si allontanò dalle case di città, girò attorno a una collina di scisto alterato, salì per un pendio fiancheggiato dal mercato alimentare. L’aria era pregna dell’odore acre del pesce secco, dell’aceto, della frutta.

Gardius allungò il passo, proseguì al piccolo trotto. La striscia saliva lungo un argine scosceso, si tuffava in uri altro tunnel. Il tempo sembrava non passare mai. Gardius aumentò il trotto, e si mise a correre. Nel buio si scontrò con una figura alta e, ignorando le aspre imprecazioni, continuò a correre.


Apparve una fioca chiazza di luce, ed eccolo sotto il cielo caliginoso di Maxus. Alla sua destra sorgeva un enorme blocco marrone di cemento, senza finestre, con la facciata liscia. Mentre Gardius si avvicinava una nave spaziale lasciò il tetto, e si allontanò galleggiando sullo scintillante piano di gravitoni. I portelli erano oscurati.

Gardius la guardò sfrecciare via in un’agonia di frustrazione. Su quella stessa nave forse… Vide davanti a sé la porta al livello della via, e si avvicinò ansimando, senza più fiato. Una guardia in uniforme nera di pelle uscì e gli sbarrò la strada.

«Vediamo il tuo lasciapassare.»

«Non ho un lasciapassare. Sono appena arrivato sul pianeta.»

«Non ha importanza, non puoi entrare. Nessuno può entrare senza il lasciapassare firmato dall’Alto Ricognitore.»

Gardius si sporse in avanti, curvò le spalle, quasi abbassò la testa. La guardia si appoggiò al muro, rise piano, diede una pacca sull’arma appesa contro la gamba rivestita di nero.

«Il cancello è chiuso. Fallo a pezzi con le unghie, se ci tieni.»

Gardius disse con voce roca: «Dov’è l’Alto Ricognitore?»

«Il suo quartiere generale si trova all’Arco Guchman,» disse la guardia, e indicò lo svincolo. «Torna per dove sei venuto, cambia a Bosfor Strali e prendi la striscia arancione e marrone. Se ti sbrighi forse riesci ancora ad avere un appuntamento.» Contorse la bocca in un ghigno cadaverico.

«Adesso se fossi in te mi darei via… a un uomo come me. L’Alto Ricognitore ha una mente agile e potrebbe pensare a qualche sgradevolezza tecnica. Io ti venderei soltanto, e a un signore altolocato, per le faccende di cucina.»

Le tempie di Gardius pulsavano. Fissò in faccia la guardia, poi si girò e ritornò sullo svincolo.

L’Alto Ricognitore sedeva con il capo mezzo reclinato su un seggio foderato color cremisi, e girava tra le dita un calice azzurro lattiginoso. Era magro come uno spillo, con i capelli neri impastati in un ricciolo appuntito che gli scendeva sulla fronte. Le palpebre cascavano sdegnose, il naso gli tagliava la faccia come una falce, la pelle era del colore e della consistenza di un guscio d’uovo. Portava una veste di seta verde prato e un mostruoso rubino dondolava appeso a una catena d’oro all’orecchio.

Dopo averlo lentamente esaminato, gli fece cenno di sedersi. Gardius si sedette.

«Che cosa vuoi?» chiese cortesemente l’Alto Ricognitore.

«Voglio un lasciapassare per il Distributore di Schiavi. Ho molta fretta. Devo ritornare subito se voglio fare in tempo.»

L’Alto Ricognitore annuì. «Naturalmente. Parenti? Tua moglie?»

Gardius disse: «Mia madre, le mie due sorelle, e mio fratello.»

«Un bel colpo, un bel colpo davvero,» disse l’Alto Ricognitore sorseggiando dal calice. «Posso comprendere il tuo desiderio di fare in fretta. Specialmente se si trovavano sul carico consegnato da… vediamo, il suo nome è…»

«Arman.»

«Arman. Corretto. Un nuovo operatore, di molto successo.» Si appoggiò allo schienale. «Temo che sia troppo tardi.»

«Ne sono certo,» mormorò Gardius, «a meno che non torni laggiù.»

L’Alto Ricognitore sorrise debolmente, scribacchiò su una tessera, e gliela gettò. «Eccoti il lasciapassare. Dopo la tua visita, ripassa a trovarmi, vorrei parlarti ancora.»

La notte scendeva sgocciolando come acqua tenebrosa, e le luci di Alambar scintillavano bianche e gialle. Un vento gelido sferzò le guance di Gardius, mentre per la seconda volta si avvicinava al Distributore di Schiavi.

La guardia inarcò le sopracciglia alla vista del lasciapassare, e lo rigirò tra le dita.

«Fai in fretta,» lo pregò Gardius.

La guardia si strinse nelle spalle, parlò in una cellula dietro di sé.

La porta si aprì. Gardius si trovò in una piccola stanza senza uscita apparente. Percepì un’ispezione, raggi alla ricerca di armi, esplosivi, droghe. La parete in fondo alla stanza scorse via. Gardius uscì in un corridoio illuminato, e chiese a una donna seduta a una scrivania: «Dov’è la sala dei compratori?»

«In fondo al corridoio. Le camere di ispezione sono alla tua destra, ci passi davanti.»

Gardius corse in fondo al corridoio. Oltrepassò una cortina di aria gelida, un’altra scrivania in un’ampia sala. Un vecchio con una sgargiante sopravveste albicocca lo esaminò. «Lasciapassare, prego.»

Gardius glielo mostrò. «Il carico che Arman ha portato da Exar è già andato?»

Il vecchio alzò le spalle, emise un sibilo. «Vengono, vanno. Mi pare che abbiamo vagliato quell’elenco stamattina.»


Gardius si chinò in avanti con la faccia tesa. «Devo saperlo!» Fece per afferrare una spalla del vecchio, rammentò la propria posizione precaria di visitatore in permesso, si trattenne. «Dove posso accertarmene?»

Il vecchio, che aveva iniziato a gonfiarsi dentro la sopravveste albicocca, agitò la mano. «Laggiù c’è affisso l’elenco, con le descrizioni. Il materiale ancora invenduto è confinato nelle camere di ispezione.»

Gardius attraversò la sala. Alla sua sinistra c’era una fila di divani imbottiti di morbida pelle. Sui divani erano comodamente seduti alcuni Sommi, che consultavano liste, bevevano da pesanti calici, parlavano, scherzavano. L’arena davanti a loro per il momento era vuota.

Gardius trovò l’elenco, scorse le liste del giorno. Sul fondo, segnato con spessi tratti di matite di diverso colore, trovò quello che cercava:


Nome

Sesso

Età

Osservazioni

Minimo richiesto

1

Vitaly Galwane

F

4

Allegra, attenta

Ms 600

2

Donal Camus

M

4

Intelligente

400

3

Rabald Retts

M

5

Svelto ad apprendere

200

4

Glee Kerlo

F

8

Diventerà una bellezza

1000

5

Temmi Helva

M

9

Ragazzo incantevole e ben fatto

2800

6

Jonalisma Stanisius

F

9

Obbediente di buon carattere

1000


Molti nomi avevano accanto funesti visti in matita blu; quelli erano stati venduti, suppose Gardius. Scese col dito fino in fondo alla lista:


Nome

Sesso

Età

Osservazioni

Minimo richiesto

29

Lenni Gardius

F

14

Fresca come un fiore

5000


Un grosso visto in matita blu precedeva il suo nome. Il respiro gli raschiò nella gola. Pallido, con gli occhi sbarrati, continuò.


Nome

Sesso

Età

Osservazioni

Minimo richiesto

64

Thalla Gardius

F

18

Squisita

5000


Nessun visto, niente. Lesse ancora.


Nome

Sesso

Età

Osservazioni

Minimo richiesto

115

Gray Gardius

M

21

Ingegnere metallurgico

3000


Un visto in matita blu. Gardius si umettò le labbra secche. Poi scese proprio in fondo:


Nome

Sesso

Età

Osservazioni

Minimo richiesto

427

Iardeth Gardius

F

58

Amabile, affascinante

300


Il nome era stato malamente cancellato — Gardius l’aveva quasi saltato. Dopo il nome era scarabocchiata la parola Morta.

Gardius fissò la parola con la testa che gli girava. C’era del rumore dietro di lui, delle voci, uno scalpiccio di piedi, uno scoppio di risate.

«Seimila e cinquecento,» disse una voce, «e sento seicento e sessanta… sessanta… sessanta… settanta… Signori miei, signori miei, un bocconcino delicato. Parlate, signori, parlate! Seicento e ottanta… e novanta… seicento e novanta… ah, settemila da Lord Erulite. Settemila… settemila… è tutto signori? Tu, forse, Lord Spangle? No? Venduta a Lord Erulite per settemila milreis. Venduta, parola mia.»

Gardius si voltò, e nell’arena vide sua sorella. Il suo acquirente, un uomo alto e robusto di mezza età con un naso carnoso, una testa mezza calva e la carnagione rosa porporina, le stava girando attorno, evidentemente compiaciuto della sua proprietà.

Gardius la chiamò: «Thalla!»

Lord Erulite alzò gli occhi; il banditore rivolse uno sguardo sbigottito all’arena mentre Gardius vi entrava correndo.

«Jaime! Hanno preso anche te?»

Gardius si spinse oltre il torvo Erulite, prese tra le braccia la ragazza. Stava tremando, ansimava.

«Sono venuto più in fretta che ho potuto per riportarvi tutti indietro,» disse Gardius.

Thalla gli disse: «Jaime, la mamma è morta questa mattina.» Si abbandonò singhiozzando contro la sua spalla.

Gardius si rivolse a Lord Erulite, che se ne stava poco lontano con espressione minacciosa. «Signore, questa è mia sorella. Volete permettermi di pagare l’importo dell’incanto, e di riportarla a casa?»

Lord Erulite farfugliò e divenne rosso in volto. Infine rispose: «Adesso è di mia proprietà. Non mi va di separarmene. L’ho avuta legalmente…»

Gardius disse: «Signore, ti prego umilmente di non portarmi via questa poveretta. Ho percorso diciotto anni luce per trovare lei e gli altri della mia famiglia. Sicuramente non vorrete ostacolarci così grandemente.»

Una voce da dietro esclamò: «Fai valere i tuoi diritti, Erulite. Non lasciare che l’Orth ti persuada a forza di moine. L’hai comprata e pagata.»

Lord Erulite spinse in fuori il petto. «Fatti da parte, allora. Meglio per te essere discreto.»

La voce disse: «È qui solo col permesso di visitatore, sulla sua buona condotta. Se solo infrange il codice stradale può venire preso e venduto anche lui.»

«Jaime, è inutile,» disse Thalla con voce fioca, spenta ed esangue.

«Lord Erulite,» disse Gardius, «ti pagherò diecimila milreis per mia sorella.»

Erulite si spostò di fianco per esaminare meglio il suo acquisto.

«Assolutamente no,» disse con voce compiaciuta. «Nemmeno per quindicimila. Dubito che la venderei per ventimila.»

Gardius insistette. «Te ne darò quattordicimila in contanti, e il mio impegno per settemila.»

Erulite aggrottò la fronte colto da una furia improvvisa. «Vattene, tu e le tue proposte!»

Thalla si strinse a Gardius. Era fredda, tesa, tremante. «Ho mancato,» mormorò Gardius depresso. «Ho mancato al mio impegno!»

Thalla si agitò, emise un sospiro profondo e singhiozzante. «Non preoccuparti, Jaime, starò bene. Non puoi aiutarmi ora. Stai attento, Jaime.»

Gardius rise sordamente. «Stai attento a cosa? A me stesso? Non mi importa cosa sarà di me.»

«Oh, Jaime, non dire così. Hai tutta la vita davanti. Forse puoi aiutare qualcun altro.» Deglutì a fatica. «C’è un’altra ragazza, che hanno tenuto per ultima. Mi ha aiutato a prendermi cura della mamma. Mi ha dato tutto il suo cibo. Jaime, se potessi aiutarla sarebbe come se aiutassi me.»

«Tenterò, Thalla. Dov’è la mamma?»

Thalla chiuse forte gli occhi, e disse con voce atona: «Poco prima che morisse l’hanno portata fuori. L’hanno messa in una stanza che chiamano il Mattatoio. È per quelli che sono morti, e per quelli che devono uccidere, anche, immagino…»

Gli occhi di Gardius erano palle di fuoco. «Un giorno, in un modo o nell’altro, cose come questa avranno fine.»


Erulite prese Thalla per un braccio e la tirò via. «Basta, basta, questa scena è molto commovente. Non può continuare più a lungo.»

Thalla rabbrividì sotto la sua stretta, si divincolò. Erulite la guardò adirato. «Niente storie, ragazzina, adesso sei una mia proprietà. Ti accorgerai che sono un padrone gentile, ma devi marcare il passo. Adesso vai nella sala d’aspetto, mentre vedo la fine dell’asta.»

Thalla si allontanò. Gardius rimase immobile, poi lentamente la seguì. La voce roca borbottò qualcosa a Erulite. Erulite disse: «Bene, allora, la prenderò io.» E mugghiò al banditore: «Quando ci fai vedere quel fiore di cui tessi tante lodi?»

«Tra poco, mio signore, venti minuti.»

Erulite chiamò Thalla: «Vieni, andiamo dal supervisore del registro.» E passò attraverso un portale. Thalla lo seguì, guardando infelice Gardius. Gardius fece un breve passo verso di lei, si fermò, poi la seguì.

Il corridoio fiancheggiava le camere di ispezione; Thalla si fermò davanti a una finestra. «È li dentro, Jaime, la ragazza nell’angolo. Cerca di aiutarla. Il suo nome è Mardien…»

Gardius vide una ragazza con un camiciotto azzurro, appoggiata contro il muro. Si stava fissando le mani, accarezzandole una con l’altra, e la sua espressione era rapita, quasi assente. Mentre guardavano mosse la testa, e un ricciolo di capelli chiari le scivolò sulla guancia.

«Vieni,» disse Erulite, a dieci iarde lungo il corridoio. «Ho poco tempo a disposizione.»

Thalla sussurrò: «L’aiuterai, Jaime?»

«Farò del mio meglio, Thalla.»

Si voltarono, seguirono Erulite su piedi che sembravano insensibili.

Davanti a una porta di ferro Thalla si fermò. «Questa è la stanza che chiamano il Mattatoio… e lì dentro c’è nostra madre.»

La mano di Gardius si tese come costretta da una forza che andava oltre la sua volontà. Spinse. La porta si aprì verso l’interno. L’aria gelida uscì a fiotti attorno alle loro ginocchia. Thalla sospirò a fondo, entrò nella stanza ondeggiando come una sonnambula. Gardius la seguì, rigido.

Le pareti della stanza erano di mattoni scuri, il soffitto era ad arco e sostenuto da contrafforti. A destra c’era una depressione quadrata nella quale si apriva un pozzo nero. Era stata lavata di fresco, ma l’acqua non aveva levato le macchie dai mattoni. Dalla parte opposta c’era un disordinato mucchio di cadaveri.

Thalla si lasciò cadere grottescamente sul pavimento di mattoni, e nascose la testa sulle ginocchia. Gardius era incapace di muoversi. Da qualche parte in quel mucchio di carne morta giaceva qualcuno che aveva amato. Meglio adesso lasciarla in pace, meglio voltarsi, spostare lo sguardo sull’uomo che li aveva portati lì: Arman.

Una voce rude e impaziente disse: «Vieni, andiamo… subito!»

Ringhiando, Gardius balzò avanti, dirigendo un colpo terribile alla faccia rosa porporino. Erulite barcollò all’indietro, con le sopracciglia alzate, la bocca aperta in un cerchio di carne molle. Il pugno di Gardius gli colpì ancora la spalla, sfiorò la guancia.

Erulite gracchiò, preso dalla rabbia: «Dannato Orth, adesso ti ucciderò!» Batté la mano dietro alla cintura, sganciò la pistola. Gardius gli si avvicinò, sferrò un pugno violento al fianco di Erulite. Erulite tirò il grilletto. Raggi ionici si dispersero per la stanza, bruciando dove cadevano. I cadaveri fremettero, si mossero a scatti.

Gardius si fece sotto, deviò con un colpo il braccio di Erulite, lo strinse alla gola. Il raggio si abbatté sul pavimento, schizzò sul soffitto.

La pistola cadde dalle dita ormai inerti di Lord Erulite, il corpo vibrò, si contrasse, la faccia perse mobilità, si rilassò. Gardius mollò la presa, si raddrizzò ansante. «Thalla…»

Thalla era morta. Uno sfregio scuro le correva diagonalmente al volto, dove gli ioni della pistola di Erulite avevano colpito.


Gardius restò lì, indolenzito, con le braccia staccate dal corpo. Alzò gli occhi al soffitto, li spostò lungo le pareti. Lentamente, faticosamente, come un vecchio, si chinò, raccolse la pistola di Erulite, se la mise in tasca… Un rumore di passi e di voci alte risuonò nel corridoio. Gardius sollevò la testa, eretta in una posa ferina, selvaggio come un lupo.

I rumori oltrepassarono la porta, che si era richiusa dietro Erulite, si spensero in lontananza.

«Perché no?» chiese Gardius rivolto alla stanza umida e fredda e ai cadaveri. «Perché no? Sarà una bella vita. Uccidere…»

Si girò, prese tra le braccia il corpo della sorellina. «Povera piccola Thalla.» Lo adagiò delicatamente accanto agli altri corpi.

E adesso Erulite. La giacca ricamata, rosso fiamma, era appariscente. Gardius la strappò via dalla schiena massiccia. Sentì un oggetto duro in una tasca, lo tirò fuori. Era l’astuccio portadenaro di Erulite. All’interno c’era un ordinato fascio di banconote da mille milreis. Gardius mise in tasca il denaro e gettò l’astuccio in un raccoglitore etichettato rifiuti. Gli abiti di Erulite seguirono l’astuccio, e poi Gardius trascinò il cadavere nel mucchio.

Gardius scivolò fuori nel corridoio, ritornò nella sala d’aste. Nessuno notò il suo ingresso. Gli occhi di tutti erano sull’arena, sulla ragazza che il banditore stava vendendo.

«… Voi gentiluomini siete prudenti, lo so bene,» disse il banditore, «ma queste offerte sono ridicolmente caute; ferirete i sentimenti di questa squisita creatura. Settemila, dice Lord Spangle. Ora… ah, Lord Jonas settemila cinquecento… Ci sono altre offerte? Lord Hennex, settemila seicento. Andiamo, andiamo, signori, chi dice ottomila?»

«Settemila settecento,» disse la voce roca. Gardius ne identificò la fonte in Lord Spangle, un uomo magro e curvo con radi capelli neri, guance flosce e un enorme naso a becco.

Gardius si avvicinò lentamente. La ragazza lo guardò. Era Mardien. Era davvero bellissima, pensò Gardius, di una bellezza che sembrava comportare o condividere un ricco e giusto orgoglio con il cervello. Aveva un’espressione determinata, né spaventata né arrabbiata, uno spettatore, piuttosto che un oggetto in vendita.

«Settemila ottocento,» disse Lord Jonas.

«Ottomila,» disse Lord Spangle.

Il banditore si rilassò, si fece mellifluo. Lo schema era chiaro. Prima offerte basse, e i clienti che ostentavano disinteresse. Era poco probabile che la merce venisse venduta a basso prezzo.

«Ottomila cento,» squillò una voce da in fondo alla sala.

«Ottomila duecento,» replicò Lord Jonas.

«Signori, gentiluomini,» implorò il banditore, «cerchiamo di procedere più velocemente. Novemila, ho sentito novemila?»

«Novemila,» squillò la voce.

«Novemila cento,» disse Lord Spangle.

«Chi dice novemila cinquecento? Novemila cinquecento? Novemila cinquecento?»

«Diecimila,» disse Gardius con voce piatta.

«Ah, bene, signore. Diecimila, diecimila, diecimila…»

La ragazza aveva voltato la testa all’udire la voce di Gardius. Gardius incontrò i suoi occhi, sentì la fragranza della sua personalità: frutta, vino, profumo, pioggia. La ragazza distolse lo sguardo.

Con la sua voce roca, Spangle disse: «È l’Orth. Un dannato oltraggio, lasciarli entrare qui dentro a fare offerte!»

«Dovrebbe essere all’incanto anche lui,» borbottò Lord Jonas. «Lo comprerei dovesse costarmi il mio ultimo ana, quel selvaggio. Lo farei lavorare nei banchi di zolfo fino a diventare giallo come la giacca di Ollifans.»

«Diecimila… diecimila… diecimila,» strillò il banditore.

«Diecimila cinquecento,» disse Lord Spangle.

«Bene, mio signore,» gridò il banditore. «Adesso siamo a diecimila cinquecento. E chi può pagare ciò che vale questo bocciolo in gioia pura? Chi dice undicimila?»

«Undicimila,» disse Gardius.

«Undicimila cinquecento,» disse Spangle. «Dannazione a lui, avrei dovuto averla per ottomila.»

«Undicimila seicento,» disse Gardius.

Jonas toccò Spangle con il gomito. «Sta calando, comincia a essere a corto. Undicimila settecento ed è tua.»

«Undicimila settecento,» disse Spangle.

«Dodicimila,» disse Gardius.

«Dodicimila,» urlò felice il banditore. «Ho sentito dodicimila!»

«Tredicimila,» giunse la voce squillante da in fondo alla sala.

La mente di Gardius ragionò freneticamente. Aveva venduto le tenute di famiglia su Exar, aveva macellato le mandrie, venduto i gioielli e i manufatti che possedeva, e aveva messo insieme un totale di quarantunomila milreis. Con undicimila aveva comprato la navicella spaziale, c’era stata una cauzione di diecimila milreis, molte altre spese. Valutava approssimativamente i propri averi a quindicimila milreis. Disse: «Tredicimila cento.»

Spangle brontolò: «Quell’Orth sta gonfiando i prezzi. È così che succede quando permettiamo loro di ricomprarsi i congiunti. Dico tredicimila duecento, dovessi impegnare il cimiero.»

«Quattordicimila,» disse la voce acuta.

«Quattordicimila cento,» ruggì Spangle disperatamente.

«Quindicimila,» disse Gardius.

«Quindicimila… quindicimila… quindicimila!» gridò il banditore. «Ho sentito sedici?»

Spangle si sedette pesantemente. «Quindicimila cento,» mormorò.

Gardius trovava arduo pensare. Quarantunomila… meno dieci ne restavano trentuno. Trentuno meno undici faceva ventimila. Mille per un permesso di visita, e altri cinquecento di tangente. Duemila per il carburante, mille per carte e provviste, i duecento milreis scucitigli dal caporale alla stazione fortificata… possedeva ancora quattordicimila milreis.

Di nuovo un fallimento; girò la testa dall’altra parte allo sguardo interrogativo del banditore. Un forestiero che facesse un’offerta superiore alle sue possibilità era colpevole di un illecito, e poteva essere preso e venduto. E l’offerta era già troppo alta per lui.

Poteva vendere la navicella spaziale, ma non gli sarebbe certo stato di aiuto in quel momento. Notò gli sguardi furtivi nella sua direzione, trionfo, malignità, disgusto. Cercando il portafogli, la sua mano toccò una forma non familiare. Era il denaro di Erulite.

«Quindicimila cinquecento,» disse.


Si fece silenzio. Poi il banditore disse: «Quindicimila cinquecento è l’ultima offerta…»

Spangle bestemmiò, sottovoce, pesantemente.

«Quindicimila cinquecento… chi dice sedicimila? Tu, signore? Tu, Lord Jonas? Lord Hennex? Lord Spangle? Sedicimila? No?… Venduta, allora, è tuo, signore, questo prezioso gioiello biondo.»

Gardius non disse una parola alla ragazza. Pagò la somma a Ollifans, il vecchio con la sopravveste color albicocca, e ricevette un certificato rosa di proprietà.

Ollifans sfogliò uno schedario. «La sua frequenza penale è ventisei punto settecento trentatré millesimi di megaciclo. Lo scrivo sul certificato.»

«Frequenza penale? Che cos’è?»

Ollifans ridacchiò. «Dimenticavo. Tu sei un Orth, un sempliciotto. Un circuito è stato iniettato sotto la pelle della sua incantevole schiena, una ragnatela di polvere conduttiva che entra in risonanza a una determinata frequenza.

«Se si è perduta e vuoi ritrovarla, invia un segnale alla frequenza giusta, e lei ti rimanderà le sue coordinate. E se è insolente e pigra, e tuttavia non vuole lasciarsi battere, metti a punto la forza del segnale e la griglia si riscalderà, e lei imparerà da che parte si trova l’autorità.»

Ollifans infilò le dita nelle asole della dorata giacca albicocca, si appoggiò all’indietro e fece un cenno pomposo con la testa. Gardius aprì la bocca per parlare, la richiuse, infine disse: «Dimmi, chi ha comprato queste due persone?» Indicò i numeri ventinove e centoquindici sulla lista: suo fratello e sua sorella.

Ollifans corrugò la fronte, arricciò le labbra. «Queste sono informazioni riservate.»

«Quanto?» chiese Gardius, sogghignando come una maschera di legno scolpito.

Ollifans esitò. Gardius mise sulla scrivania cinque banconote da cento milreis.

«Mille,» disse Ollifans.

Gardius arrivò a mille.

«Cosa sta succedendo qui?» domandò una voce roca. Apparve Lord Spangle, passando con occhi acuti dal denaro a Gardius a Ollifans. «Ho forse sorpreso il tentativo di corruzione di un servo del Distributore? Se è così…»

«No, no, mio signore,» protestò Ollifans, mettendo il denaro nella borsa che portava alla cintura. «Una regalia, mio signore, solo una regalia. Come ben sai, sono incorruttibile.»

Lord Spangle si rivolse a Gardius. «E allora sparisci, spandidenaro di un Orth, sparisci con la tua donna.»

Gardius si voltò lentamente verso la porta.

«Allora, Jonas,» disse Spangle in tono lamentoso. «Se quel pappamolla di Erulite tornasse come ha promesso, ce ne andremmo.»

Mentre uscivano dalla porta Mardien disse, esitante: «Ti ha chiamato Orth. Sei un forestiero, quindi?»

«Ti sembra che assomigli a uno di questi Sommi?»

«No… molto poco.»

«Sono venuto dalla Grande Isola Farees di Exar,» disse Gardius, «per comprare mia madre, le mie due sorelle e mio fratello. Ho fallito. Mia madre e una sorella sono morte. Mio fratello e mia sorella minore sono stati venduti, è come se fossero morti. La sorella che è morta, Thalla…»

Mardien gli lanciò uno sguardo esterrefatto. «Thalla… morta?»

«Sì,» disse Gardius. «Morta. Mi ha chiesto di comprarti e di portarti a casa. Lo farò al meglio delle mie capacità.»

La ragazza distolse lo sguardo. «Oh!»

Gardius la fissò intensamente. La sfumatura della sua voce non era certo di esultanza. Era forse tristezza per la morte di Thalla… disappunto?

«Pensavo che mi avessi comprata perché… ti serviva una schiava,» disse lentamente Mardien.

«No,» disse Gardius. «Non mi servono schiavi. Non appena lasceremo il pianeta — e lo lasceremo stanotte…» Si gettò un’occhiata alle spalle. Non c’era segno di agitazione. Il corpo di Erulite giaceva ancora nel Mattatoio. «…strapperò questo certificato rosa. Fino a quel momento… potrei dover esibire un attestato di possesso.»

Arrivarono dalla donna alla scrivania. La donna guardò distrattamente il foglio rosa, spinse un bottone. Il divisorio si aprì con uno scatto. Uscirono nella notte fredda e umida di Maxus. Gardius respirò a fondo. Lì fuori almeno poteva correre.

Tre delle cinque lune erano già alte nel cielo, e i rigorosi edifici di Alambar erano canuti e smerigliati dal gelo nella luce bianca.

Mardien rabbrividì. Il leggero camiciotto azzurro non era certo caldo. Gardius si levò la cappa e gliela pose sulle spalle.

Con fare introverso Mardien disse: «Non voglio andarmene da Maxus.»

«Che cosa?»

«Ho una missione qui.»

Gardius si sentì travolgere da una rabbia improvvisa e testarda. «Di che missione si tratta?»

Nella stessa voce assente, la ragazza gli rispose: «Una faccenda privata.»

Gardius si allontanò. «Privata o no, tu vieni via con me.»

Mardien gli lanciò un’occhiata lunga e fredda che sembrava irriderlo, come per dirgli: «Hai fallito nel recare aiuto alla tua famiglia, perciò volente o nolente io devo essere trascinata a casa per placare il tuo ego.»

«Dov’è casa tua?» le chiese Gardius bruscamente.

«Non è su Exar.»

«Dove allora?»

L’atteggiamento forzatamente distaccato l’abbandonò per un istante. La sua espressione rivelò un mondo interno di fuoco e di emozioni, di colori sontuosi solo temporaneamente celati.

«Non te lo dirò.»


È proprio una situazione confusa, pensò Gardius. Ingratitudine, perversità, come diceva quella citazione?: la donna è la tua dannazione. Che andasse al diavolo, allora! L’avrebbe scaricata sul primo pianeta civilizzato e avrebbe considerato compiuto il suo dovere.

Poi… davanti a lui si stendeva il corso della sua vita. Come sembrava facile e largo! Nessuna ambiguità, nessuna esitazione; il futuro era fissato. Prima — e Gardius sorrise, un sorriso ampio che gli scoprì i denti — prima Arman. Arman!

Aggrottò la fronte. Chi era Arman? Mardien forse lo sapeva. Mentre lo svincolo li portava attraverso il tunnel, adesso fiocamente illuminato da una lunga tubatura azzurra, le chiese: «Tu devi avere visto Arman.»

La ragazza si irrigidì. «Sì.»

«Com’è il suo aspetto?»

La sua voce era diffidente. «È un uomo magnifico. Giovane come te, più alto, un viso… oh, meraviglioso! Come il sogno di Penthe. La sua voce è pronta, diretta, come una tromba. Sta ritto sul ponte dalla sua nave come un dio dello spazio.»

Gardius torse la bocca. «Parli come se lo ammirassi.»

Mardien tacque un momento. Poi disse: «Tu non lo conosci?»

«Intendo conoscerlo,» disse Gardius. «E bene anche. E lui mi conoscerà altrettanto bene. La mia sarà l’ultima faccia che guarderà.»

Mardien si ritirò in se stessa. Gardius non notò nemmeno lo sdegno col quale alzò la testa. Come trovare Arman? Come attraversare l’estremità settentrionale della galassia con il suo mezzo bilione di stelle e dire: «Qui posso trovare l’uomo che cerco?»

Ma c’era un uomo su Maxus che doveva sapere dove si trovava Arman: l’Alto Ricognitore. E l’Alto Ricognitore aveva suggerito un secondo colloquio.

La mente di Gardius ribolliva. Uscirono in fretta dal tunnel, scesero il pendio fiancheggiato dal mercato alimentare, ormai chiuso per la notte. Un grosso gatto nero fuggì a precipizio davanti a loro lungo la striscia. Tra gli alberi alla loro sinistra si vedeva lo scintillio metallico delle tre lune su uno dei fiumi di Alambar.

Gardius tentò di ordinare gli elementi della situazione. Innanzitutto il corpo di Erulite sarebbe stato presto scoperto. Poi un grido d’allarme si sarebbe levato contro Gardius. E se l’avessero preso non l’avrebbero sprecato per un’esecuzione. Sarebbe stato assegnato a una squadra nelle miniere di piombo sotto la calotta glaciale di Sraban. Non avrebbe mai più rivisto il cielo. Perciò era meglio lasciare Maxus finché era ancora in tempo.

Eppure… doveva trovare Arman. L’Alto Ricognitore poteva saperlo, ma glielo avrebbe rivelato? Un mercante di schiavi di successo era un bene da tenere caro per i Sommi di Maxus.

Poi c’era Mardien. Le lanciò un’occhiata obliqua, vide il luccichio dei suoi occhi sparire di colpo. Allora lo stava guardando. Sentì un fremito per la sua vicinanza, inquietante, conturbante. La sua bellezza era più di una conformazione di carne e ossa. Era un incantesimo della mente. Era una ninfa, una creatura di seta e sogno, un pallido loto notturno della Foresta Calda.

Poteva portarla sulla nave con sé senza subire una grande tensione mentale? E se avesse dimenticato la sua missione, dimenticato la sua promessa a Thalla, e avesse pensato di prendere la sua dolcezza, e se lei avesse resistito, non avrebbe forse potuto conquistare con la violenza ciò che non gli fosse stato dato spontaneamente? E allora… dove sarebbe stata la sua integrità, l’anima pura che gli avrebbe consentito di uccidere Arman senza dolore né dubbio?

E se l’avesse presa, avrebbe nello stesso tempo perso la parte migliore di lei, anche se fra sé non si esprimeva certo così. Dannata donna! Che cosa poteva volere su Maxus? Arman ce l’aveva portata. Era stata scelta per uno scopo. Ovviamente la sua bellezza aveva giocato una parte importante nella selezione. Le belle donne erano buone spie.

Ma… che valore avevano le spie su Maxus, quando uno schiavo, dopo essere passato attraverso il Distributore, era perduto per tutto il resto dell’universo? Un moderno adagio diceva che mandare una spia su Maxus era come dare del latte a un pesce. Dannata donna! Gardius si chinò in avanti.

Ma si raddrizzò di nuovo. C’erano gli altri problemi. Probabilmente poteva concedersi la notte, prima che venisse dato l’allarme per la morte di Erulite. In effetti, se l’eliminazione dei corpi era compiuta dagli schiavi, la presenza di Erulite in mezzo ai cadaveri poteva non venire denunciata.

Tutto considerato, sembrava ragionevole tornare a far visita all’Alto Ricognitore. E Mardien… cosa fare di lei? Era imbarazzante doversela portare appresso. Tuttavia, a causa del suo espresso desiderio di restare su Maxus, non sarebbe stato consigliabile perderla di vista. Si sarebbe sottratta con facilità al suo controllo. Decise improvvisamente ma definitivamente che non desiderava vederlo succedere.

«Vieni,» le disse bruscamente. «Questo è il Bosfor Strali. Cambiamo qui. Andiamo a far visita all’Alto Ricognitore.»


Sua Eccellenza l’Alto Ricognitore indossava una guaina lucente di gabardine color cinnamomo, con un colletto alquanto frivolo di seta verde slavata. Era in piedi all’estremità opposta di una biblioteca, con il pavimento coperto da un tappeto verde acceso e le pareti da pannelli di marmo bianco tra tozzi pilastri di muratura nera. In mano aveva un grosso libro di pelle chiara dalla legatura flessibile, che posò quando Gardius entrò, con Mardien che lo seguiva a un passo di distanza.

Gardius indicò una sedia a quella che ufficialmente aveva acquistato come schiava. «Siediti lì.»

L’Alto Ricognitore fece un cenno con la mano elegante. «Bene, Gardius, hai avuto fortuna nella tua ricerca?»

«Molto poca,» disse Gardius.

L’Alto Ricognitore si sedette su una panca di metallo, fece segno a Gardius di fare altrettanto. «Senza dubbio provi un certo risentimento contro il popolo di Maxus,» suggerì, fissando attentamente Gardius con gli occhi neri.

«Non posso negarlo,» disse Gardius.

L’Alto Ricognitore rise mestamente. «È il peso dell’incomprensione che subiamo. Sai tu, Gardius, quanti Sommi vivono su Maxus?»

Gardius si strinse nelle spalle. «Non ho mai sentito dire una cifra affidabile.»

«Siamo in poco più di quaranta milioni. Pensaci, Gardius! Soltanto quaranta milioni! Noi progettiamo e produciamo industrialmente per tutta la galassia. Le nostre industrie producono i complicati meccanismi grazie ai quali voi dei pianeti esterni soggiogate l’ambiente. Quaranta milioni di uomini che posseggono e dirigono il più grande complesso industriale di tutti i tempi!»

Gardius, che non desiderava venire coinvolto in una discussione sociologica, non disse nulla.

«Questi quaranta milioni di uomini ci mettono il cervello,» continuò l’Alto Ricognitore. «Noi organizziamo, sovrintendiamo. Capisci? Il nostro talento viene sfruttato dalla galassia a suo vantaggio. Commerciamo ovunque. I tuoi indumenti sono tessuti sui telai di Maxus. La tua navicella spaziale è stata costruita nell’officina spaziale di Giunzione Pardis.

«Ma,» l’Alto Ricognitore si sporse in avanti, «i quaranta milioni di cervelli sono necessari al vertice. Non possiamo sprecare la nostra energia. Perciò ci serviamo di qualunque manodopera troviamo conveniente e — ripeto — l’intera galassia ne trae vantaggio.»

Gardius disse pacatamente: «Stai rivelando un aspetto della vita su Maxus che non avevo considerato.»

L’Alto Ricognitore si alzò, passeggiò avanti e indietro lungo lo sgargiante tappeto verde; l’aderente guaina bronzea di gabardine enfatizzava la sua magrezza. Sottile come una matita, o come un’anguilla, pensò Gardius, un ridicolo bellimbusto con quel curatissimo ricciolo di capelli neri, e il colletto pieghettato. E tuttavia — pensò incontrando gli occhi brillanti dell’Alto Ricognitore — un uomo con un cervello di estrema sveltezza e intelligenza.

«Ora,» disse l’Alto Ricognitore, «i quaranta milioni di Sommi gestiscono una forza lavoro di — diciamo — un grande numero di lavoratori. E qui è il nocciolo di una situazione precaria.» Rise vedendo l’espressione sul volto di Gardius. «Stai pensando a una rivolta, a un’insurrezione? Schiavi con le mani grondanti di sangue che cantano per strada? Nonsenso, la possibilità non esiste.

«Abbiamo un sistema centrale di controllo che concretamente, teoricamente, e definitivamente, rende impossibile una simile eventualità.» Si umettò le labbra, inclinò interrogativamente le sopracciglia rivolgendosi a Gardius. «Parlo delle nostre tecniche industriali. Esse sono il nostro tesoro fondamentale. Per esempio, dammi poche once di ferro, un foglio di mica, un’inezia di polonio per un catalizzatore, e ti costruirò una cellula che esposta all’aria genererà costantemente diverse migliaia di ampere per anni ed anni.

«Guarda.» Mise un dito sotto un angolo del tavolo. «Silicio espanso. Leggero come l’aria, forte come il legno più duro. I nostri mattoni, i mattoni neri che usiamo per costruire le nostre case, forti, economici, isolanti eccellenti, sono le scorie delle nostre distillazioni minerarie, formati migliaia alla volta in stampi istantaneamente riutilizzabili.

«I gruppi di gravitoni che vendiamo a milioni, il condizionatore automatico d’aria che raffredda una stanza espellendo neutrini attraverso le pareti, e la riscalda assorbendo neutrini dalle onnipresenti nubi, convertendo l’energia in calore: questi segreti sono la nostra vita.

«Non coltiviamo cibo, i nostri mari sono veleno, il suolo è cenere bagnata. Così, quando un lavoratore viene assegnato a una fabbrica, quando ha appreso le tecniche industriali di Maxus, non possiamo permettergli di andarsene, mai più.»

Tornò al suo posto, guardò Gardius in attesa, come aspettandosi un applauso. Gardius disse: «La vostra cautela è comprensibile.»

L’Alto Ricognitore fece un gesto disinvolto. «Naturalmente, se una persona come te arriva su Maxus e riesce a recuperare un amico o un parente prima che venga assegnato, allora siamo contenti di fare cosa grata. In primo luogo,» rise apertamente, «il forestiero pagherà prezzi elevati al Distributore. Più alti, solitamente, di quanto valga la persona che cerca come lavoratore. E poi… non siamo privi di umanità.»

«Mi fa piacere sentirlo,» disse Gardius seccamente. «Mio fratello e mia sorella minore sono stati venduti prima del mio arrivo. L’impiegato ha rifiutato la tangente; o meglio, ha preso la tangente, ma si è rifiutato di darmi qualsiasi informazione quando si è accorto che uno dei vostri Lord lo osservava.»

«Malissimo,» disse l’Alto Ricognitore. Indicò Mardien con un cenno del capo. «Questa, suppongo, è l’altra tua sorella.»

Gardius rimase in silenzio.

«E tua madre?»

«Morta.»

L’Alto Ricognitore agitò le dita. «Condoglianze.»

D’un tratto Gardius disse: «Localizzerai mio fratello e mia sorella per me? Pagherò volentieri…»

L’Alto Ricognitore scosse la testa. «Spiacente; è impossibile. Costituirebbe un precedente imbarazzante. Il Patriarca, per quanto di vedute notevolmente ampie,» ammiccò a Gardius arricciando le labbra, un ammicco scaltro e sarcastico, «a questo riguardo è adamantino. Me ne chiederebbe giustificazione, e io non saprei cosa fare.»

«Perché allora,» domandò Gardius, «hai voluto vedermi ancora?»

«In relazione a quel tipo, Arman,» disse l’Alto Ricognitore, lucidandosi le unghie sulla manica. «Le mie spie mi dicono strane cose di lui.»

«Davvero?» Gardius si chinò in avanti.

«Non è un comune mercante di schiavi.»

«L’ho sentito dire.»

«Era il figlio di un Lord di Maxus e di una schiava del pianeta Fell. Di solito questi bambini diventano lavoratori, ma il padre, in questo caso, si affezionò al bambino, gli diede un’istruzione semitecnica, e garantì la sua posizione come membro esterno della casta militare.» L’Alto Ricognitore scosse la testa.

«Arman è cresciuto con cattivi risultati. È diventato un acrobata, un ginnasta vanesio. Stanco di questo mezzo di sussistenza, dette vita a un culto religioso tra donne anziane. Ebbe un brillante successo, finché alla fine venne sospettato di avere strangolato alcune sue benefattrici per i loro gioielli.»

Si udì un suono sommesso provenire da Mardien. L’Alto Ricognitore le rivolse un’occhiata incuriosita, poi continuò. «Vedi dunque che ha svariati interessi. Prima un buono a nulla, poi un acrobata in calzamaglia color porpora, e per tutto il tempo un assassino di vecchiette.

«Maxus divenne un luogo troppo pericoloso per lui. Si rese necessario fuggire per non venire condannato alla schiavitù. Riuscì a compiere l’impossibile: fuggì. Cosa ne pensi di tutto ciò?»

«Sono interessato.»

«Si è servito dello yacht privato del Patriarca.» L’Alto Ricognitore sorrise debolmente, come per una battuta. «La Prima Consorte del Patriarca l’aveva fatto costruire apposta per lui. Era uno yacht bellissimo: sale da bagno con tubature ricavate nell’avorio massiccio, tappeti in lanugine di anglesite, camere tappezzate di seta viola increspata.

«Il Patriarca naturalmente era — ed è — adirato. E lo sarà ancora di più quando scoprirà che Annan, sotto l’inattaccabile immunità del permesso di visitatore, ci ha venduto un grosso carico di schiavi. Sarà curioso di sapere perché non ho provveduto affinché Arman fosse adeguatamente punito per i suoi crimini. Il Patriarca ha una memoria per gli insulti uguale a quella del mitico leviatano terrestre.»

Gardius sorrise amaramente. «Perché non mandate uno dei vostri infuocati Lord a ucciderlo? Lord Spangle, per esempio, che sembra essere uno spirito di valore.»


L’Alto Ricognitore scosse la testa. «I Sommi non lasciano mai Maxus se non su una nave da guerra. Un uomo solo potrebbe venire catturato, e tutti i nostri segreti potrebbero venirgli estorti con la tortura. Come minimo sarebbe ucciso, poiché i popoli esterni non hanno certo pretese di amicizia nei nostri confronti. Tutti i nostri agenti esterni sono Orth… chiedo scusa, dovrei dire forestieri.»

«E allora?»

«E allora,» disse l’Alto Ricognitore, «la notizia della morte di Arman sarebbe di grande conforto per me e per il Patriarca. Arman consegnato vivo sarebbe motivo di giubilo. Scelgo te per queste confidenze, tu capisci, perché presumibilmente hai una disposizione personale a causare ad Arman dell’imbarazzo.»

Gardius si mosse al suo posto. «Cosa offri?»

«Hai parlato di un fratello e di una sorella?»

Gardius fissò indeciso il pavimento. Uccidere Arman era il suo più caro desiderio. Diventare un assassino prezzolato, un tagliagole… E tuttavia, Lenni e Gray. Una subitanea vampata di vergogna gli salì al volto. Aveva osato esitare, anche solo un istante? «Sì. Un fratello e una sorella.»

«Quando verrà accertata la morte di Arman per mano tua, saranno a tua disposizione.»

«Illesi? Mia sorella…»

«Illesi. Tua sorella verrà messa al servizio di una vecchia signora.»

«Accetto la tua parola.»

«E adesso,» disse l’Alto Ricognitore, «passiamo al denaro. Necessiti di ulteriori fondi, o il portafogli di Lord Erulite basta alle tue necessità?»

Gardius socchiuse gli occhi. Si irrigidì e lo fissò, senza parole.

«Un lazzarone buono a nulla, quell’Erulite,» osservò l’Alto Ricognitore. «Ma mio caro amico, non hai ancora risposto alla mia offerta.»

«I soldi servono sempre,» disse Gardius reprimendo il disgusto.

«Eccellente. La tua risposta mi rassicura. Ecco.» L’Alto Ricognitore gli gettò un pacchetto. «Trentamila milreis. La tua navicella è stata revisionata e ha il pieno di carburante. Partirai immediatamente.»

«Per dove?»

L’Alto Ricognitore centellinò del liquido in un calice, lo offrì a Gardius che rifiutò; allora lo assaggiò di persona, arricciò le labbra e schioccò la lingua con un rumore aspirante.

«Ah, non posso dirlo con certezza. Ma abbiamo una tecnica per scoprire queste cose quando i nostri agenti si rivelano degli inetti. Te la confiderò. Compiliamo un accurato elenco degli acquisti effettuati dai membri dell’equipaggio della nave. Per esempio, sappiamo che il cameriere di bordo di Arman ha riempito la dispensa di frutta fresca per due settimane. Altamente significativo: troppo poco, capisci, per un viaggio prolungato.

«Arman, comunque, ha caricato al massimo i depositi di combustibile. Inoltre, il cameriere ha portato a bordo una grossa scorta — sufficiente per diversi mesi — di glidio, che come ben sai è una polpa fermentata consumata quasi esclusivamente da razze di estrazione Iarnimmica, come noi Sommi, i Clas di Jena, i Luchistain.»

Si accomodò in una poltrona, si massaggiò una guancia. «Tutto molto significativo. E ancora, il medico ha fatto rifornimento di parabamina sessantasette da usarsi in atmosfere ricche di ossigeno, e di parecchi milioni di unità di siero stomatico, oltre ai soliti antivirali, antiallergici e tonificanti cellulari.

«E poi il carico di Arman, molto interessante. Non piccoli rotatori automatici, ma casse di micrometri, campionatori di luce, e i nostri nuovi energometri multiuso. Niente torce, pistole, macchine per cucire, gruppi di gravitone, ma duplicatori tridimensionali e lingotti del nostro piombo cristallizzato superconduttivo.» Osservò Gardius con educata curiosità. «Ora cosa deduci da tutto questo?»

Gardius disse: «Immagino che prima abbiate stabilito una sfera a due settimane di raggio da Maxus, e abbiate fatto una lista dei pianeti abitati compresi in quella sfera.»

«Corretto. Ce n’erano quarantasei.»

«Un’atmosfera ricca di ossigeno implica un mondo ricco di vegetazione. La stomatite suggerisce umidità. Un pianeta con paludi estese e giungle.»

«Continua.»

«Un pianeta con frutta fresca ma senza glidio. Di conseguenza un pianeta abitato non da Iarnimmici ma da Savari, Gallicretini, Congoin o Pardus. Un popolo senza grandi centri di ricerche, con piccole fabbriche che producono solo per il consumo locale, invece di progettare o creare.»

L’Alto Ricognitore fece un gesto vago. «Soltanto un mondo di quei quarantasei assolve tutte queste condizioni. E si tratta di Fell, il terzo pianeta di Ramus.»

«Fell,» disse Gardius pensieroso.

L’Alto Ricognitore disse: «Su Fell vive un popolo insolito, separato dal resto della popolazione da una superstizione locale: gli Otro. La madre di Arman era una Otro. Si dice che siano tutti quanti folli.»


Lo svincolo li guidò attraverso l’oscurità. Era da tempo passata mezzanotte. Le vie erano deserte. Un vento gelido, che odorava di scorie industriali e fognatura, sferzava loro la schiena. Gli edifici si levavano enormi, opachi e senza vita su ogni lato. Nessuna luce si mostrava sulla via, e la brina baluginava sui mattoni neri dove batteva la luce dei rari lampioni. Era difficile immaginare dell’umanità, dentro quelle masse complesse e pesanti.

Sullo svincolo erano da soli. Per quanto potessero vedere davanti a loro le vie erano deserte. I vicoli scuri che si dipartivano a intervalli erano abbandonati, umidi e freddi, senza vita. Una pioggia sottile cominciò a cadere, e il vento soffiava veli spettrali contro i lampioni.

Finalmente il portico che conduceva al campo centrale apparve nella pioggia. Due lanterne a gabbie metalliche, a ricordo di un evento passato, fiammeggiavano impetuose su ogni lato dell’arco, sibilando allo sgocciolio dell’acqua. Lasciarono lo svincolo, passarono sotto l’arco e uscirono nel campo. La pioggia cessò all’improvviso. Le tre lune si aprirono un varco tra le frastagliate nubi argentee, ma la luce si arrestò tra gli intricati profili dei tetti, e non poterono vedere la terra umida che scricchiolava e crepitava sotto i loro piedi.

Gardius finalmente trovò la sua navicella in mezzo alla dozzina di altri velivoli del campo. Alzò una mano, e abbassò la scaletta. Mardien salì, e Gardius la seguì accendendo le luci. Si guardò attorno nella cabina, dove aveva trascorso tanti giorni e notti frenetici, e sospirò, improvvisamente sopraffatto dalla malinconia e dalla frustrazione.

Energia sprecata, tempo sprecato, emozioni sprecate; come avrebbe potuto, come avrebbe potuto qualunque uomo sperare di impadronirsi del potere e della forza di Maxus? Sospirò una seconda volta, andò ai comandi, diede energia al generatore. Il nucleo di metallo pesante balzò nel centro, e cominciò a vorticare.

Il generatore gemette, aumentò di tono, gradatamente diminuì fino a divenire silenzioso. Gardius regolò i comandi per il decollo, si sedette ad aspettare la luce che gli avrebbe segnalato lampeggiando quando il rotore avrebbe raggiunto una velocità sufficiente a schiacciare i mesoni impazziti in un costante flusso di energia.

Girò la testa. Mardien era in piedi in mezzo alla cabina, estranea e fuori posto ai suoi occhi come un albero in fiore. Il suo volto era tirato e disperato. I pallidi capelli biondi erano umidi, e ricadevano in ciocche appiccicate. Gardius, con voce per quanto possibile amichevole, disse: «Ti porterò ovunque desideri, basta che l’approdo si trovi nel quadrante verso cui mi dirigo.»

Mardien non gli rispose direttamente, ma guardando nella cabina chiese: «Dove sono i miei alloggi?»

Gardius rise stancamente. «Alloggi? Sei fortunata ad avere un armadietto per i tuoi vestiti. Tirerò una tenda davanti a quell’angolo, e quelli saranno i tuoi alloggi.»

La guardò attraversare la cabina con le sue poche cose. Con uno sforzo staccò gli occhi dalla schiena flessuosa, dalle gambe snelle. Una tristezza dolce, ma remota e impersonale, lo sopraffece. Cose simili non erano per lui. La sua vita era consacrata. Non poteva permettersi distrazioni, morbide creature, ragazze bionde, nessuna proprietà che non potesse immediatamente gettare via. Doveva essere libero, senza vincoli.

Con voce sommessa Mardien disse: «Perché mi guardi in quel modo?»

Gardius sbatté le palpebre. «Come?»

«Ho fatto qualcosa di sbagliato?»

«Niente che io sappia,» fu la prudente risposta. «E comunque la tua vita ti appartiene.»

«Mi hai comprata. Io sono di tua proprietà secondo le leggi di Maxus.»

La luce diventò verde, lampeggiò. Gardius chiuse di scatto il portello, avvitò la sigillatura. Poi infilò una mano in tasca, le porse un foglio di carta rosa. «Tra dieci minuti saremo oltre la stazione di entrata, nello spazio libero. Allora udrai l’unico ordine che mai ti darò.»

Scivolò al posto del pilota, mosse i comandi. La navicella si levò da terra, su nella luce delle tre lune. Alambar precipitò, divenne un panorama dai mille toni del nero e del grigio.

L’ispezione al satellite fu breve. Poi si trovarono nello spazio. «Qual è l’ordine, Gardius?» chiese Mardien.

«Straccia il foglio rosa.»

Mardien obbedì. «Grazie, Gardius.»

«Non voglio ringraziamenti,» disse Gardius guardando lontano. «Ringrazia il ricordo di mia sorella. Ringrazia la tua bontà che ti ha fatto voler bene da lei. Hai deciso dove vuoi essere sbarcata?»

«Sì,» disse Mardien. «A Huamalpai, sul pianeta Fell.»


Due esseri umani in uno scafo di vetro e di metallo, che sfrecciano nello spazio come sogni attraverso una mente addormentata. Due personalità spinte una contro l’altra, in una forzata intimità, nell’intimità dell’amicizia o nella difficile e spiacevole intimità dell’astio.

Prima l’intimità fisica. Uno si muove, e l’altro è conscio del movimento. Un respiro, un sospiro, sono rumori nel silenzio. Quando uno fa un passo, la direzione del suo passo è condizionata dallo spazio che l’altro occupa.

Poi la solitudine, che chiunque viva sulla superficie di un pianeta non può concepire. È per terra, e guarda in su, verso la volta del cielo notturno. Ma se questa volta fosse anche sotto di lui, se lo circondasse, e se fosse da solo in quel nero vuoto, con le stelle che si allontanano all’infinito?

E se fosse rinchiuso in uno scafo? Questa è la vita in una navicella spaziale. Un compagno sarebbe legato a lui psichicamente, importante e molteplice quanto lui. Forse il legame diverrebbe anche più stretto, perché il compagno sarebbe l’unica variante nell’area ordinata a disposizione.

E infine l’inattività, la mancanza di occupazione. In circostanze ordinarie un uomo che si trovasse accanto a una ragazza bionda e sinuosa si lascerebbe prendere dalla passione. Sarebbe incomprensibile, non umano, se accadesse altrimenti.

Ma le circostanze erano uniche. Gardius aveva consacrato la sua vita, e la concentrazione rapita in cui viveva sembrava annullare la sua virilità più manifesta. Era consapevole delle possibilità esistenti. Talvolta i suoi occhi si posavano sulla curva di un fianco, o sulla linea della gamba, ma non provava alcuno stimolo.

Mardien, che aveva accettato il contatto fisico come inevitabile corollario della schiavitù, considerava il suo disinteresse sconcertante. Poiché aveva una normale vanità, la situazione era sottilmente fastidiosa. La trovava sgradevole? Forse Gardius era un uomo contro natura? Guardando di sottecchi le ampie spalle, la corta zazzera scura di capelli spettinati, la bocca chiusa come una morsa e i gesti essenziali e controllati, sapeva che quell’ipotesi non era corretta.

Forse era legato a un’altra donna.

«Gardius?»

Gardius si voltò. I suoi occhi erano inespressivi come pezzi di marmo. «Sì?»

«Non hai più famiglia su Exar?»

«No.»

Gli si sedette accanto. «Cosa facevi prima di lasciare Exar?»

«Architettura, progetti industriali.» La guardò con un barlume di curiosità. «E tu?»

«Oh, io curavo l’educazione dei bambini.»

«E dov’è casa tua?»

Mardien esitò, poi disse: «È su Fell, sulle Terre Alte di Alam, sopra Huamalpai. Mi stai portando a casa.»

Gardius la fissò un istante, guardò dall’altra parte della stanza la Guida ai Mondi Abitati, poi guardò di nuovo Mardien.

«Ma è dove vivono gli Otro, i pazzi Otro. Tu sei una Otro?»

«Sì.»

Gardius la studiò un momento. «Non sembri anormale. È vero quello che dice la Guida sugli Otro?»

«Non lo so. Che cosa dice?»

«Oltre a descrivere gli Otro come una razza di matti… ebbene, leggilo tu stessa.» Si alzò, trovò il paragrafo sul libro, e glielo tese. Mardien lesse passivamente, e Gardius la osservò, corrucciato, dubbioso. La ragazza posò il libro.

«Allora? È vero?»

Mardien alzò le spalle. «Ti sembro sovrannaturale o sovrumana?»

Gardius sorrise brevemente. «No. Lo sei?»

Mardien scosse la testa. «No di certo. Siamo normali esseri umani. I nostri bambini non sono diversi dai bambini di Exar. Ma siamo stati educati in un modo che ci arreca dei vantaggi.»

«Che tipo di vantaggi?»

Esitò. «Non è una faccenda di cui parliamo volentieri.»

«Benissimo. Tieniti pure i tuoi segreti.»

Gli rivolse uno sguardo afflitto. «Non intendo essere misteriosa. Ma il nostro popolo… ecco, è una tradizione.» Esitò, poi disse impulsivamente: «Sei stato molto buono con me e se desideri farò di te uno di noi. Allora saprai più di quanto potrei dirti.»

Gardius sogghignò. «E diventerei un matto?»

«Se accetti le nostre credenze probabilmente diventerai come noi.»

«No,» disse Gardius. «Religioni, culti, rituali, persino forme di follia, non hanno alcun interesse per me.»

«Come desideri,» gli rispose freddamente. «Devo rimarcare, comunque, che una persona con una mente chiusa non impara nulla.»

Gardius rise. «Mi aspetto una vita molto breve. Dubito che questa nuova conoscenza avrebbe molto valore per me.»

«Forse hai ragione, e forse ti sbagli.»

«Se la vostra conoscenza, o sistema, come lo chiamate, è utile, perché non l’avete esteso all’intero universo?»

«Ci sono dei buoni motivi. Innanzi tutto abbiamo paura del popolo delle Terre Basse, e degli altri uomini predatori.»

Con una lieve sfumatura della voce, Gardius disse: «E non hai paura di Arman?»

Mardien lo guardò rapidamente. «Ma Arman è un eroe, un nuovo Evangelo.»

Gardius ringhiò: «Hai sentito l’Alto Ricognitore. Prima un acrobata, poi un inventore di religioni e un assassino di vecchiette, e adesso un mercante di schiavi. E tu dici che è un eroe.»

«Qualche volta,» disse Mardien lentamente, «le motivazioni di un uomo vengono fraintese, qualche volta le sue azioni vengono distorte quando si raccontano.»

«Ho visto i cadaveri nel Villaggio di Farees,» disse Gardius. «Ho visto la nave di Arman levarsi dall’isola con seicento persone della mia gente nella stiva. Non c’è nient’altro da aggiungere per renderla peggiore di quello che è.»

«Qualche volta,» disse Mardien balbettando, «pochi devono soffrire per il bene di molti…»

«È vero,» disse Gardius, «e qualche volta molti devono soffrire per il bene di uno solo.»

Mardien gli chiese con fervore: «L’hai mai visto, Gardius? Gli hai mai parlato? L’hai mai guardato negli occhi?»

Gardius le rispose acido: «No. Sembra che tu abbia fatto tutte queste cose. Sembra che tu lo conosca molto bene.»

«Sì. Io lo adoro.»

«Allora devi essere malvagia come lui, o pazza come gli altri Otro.»


Due esseri umani in uno scafo di vetro e di metallo, due personalità costrette all’intimità fisica; ma la simpatia, l’amicizia, erano inacidite. Nella cabina c’era un gelo, una desolazione di menti chiuse in loro stesse. I giorni passavano, e nel pilota automatico la perla di liptivio si avvicinava sempre più all’incavo, nel liquido viscoso che era lo stereotipo dello spazio.

Poi un giorno la perla scattò al suo posto. I generatori diminuirono il canto di mille inaudibili ottave, attraversarono brevemente due o tre ottave udibili, e la navicella gorgogliò passando nello spazio normale.

Proprio davanti a loro era sospesa una gigantesca stella rossa, Ramus, e nel telescopio, come un carbone ardente, ruotava il pianeta Fell.

Il pianeta si gonfiò come un pallone sotto i loro occhi. Gardius rintracciò i continenti e le conformazioni studiati sulla Guida. La cintura color pesca era il Deserto del polo Nord, la distesa marrone e verde magenta era la giungla nella quale il continente Kalhua sguazzava come una zattera sempre in procinto di affondare. Sul confine occidentale c’era la città principale, Huamalpai, e proprio dietro ad essa, come una scatola sulla zattera, si levava l’altopiano delle Terre Alte di Alam.

Gardius atterrò senza indugio. Il campo era sulla zona pianeggiante sul lato di Huamalpai che dava verso le paludi, una pianura asciutta sotto la luce rosata di Ramus. Huamalpai si trovava a dieci miglia di distanza tra le basse colline, che offrivano una misera protezione contro le scorrerie dei mercanti di schiavi.

Mardien preparò il poco bagaglio con mani ansiose, guardando ogni dieci secondi fuori dal portello verso il grande dirupo roccioso che segnava il limitare della sua terra natia. Gardius la vide d’un tratto in una nuova luce: una ragazza molto entusiasta, molto idealista, e molto giovane. Si girò di scatto, con un vago rossore di colpa che gli scaldava le guance, e si mostrò occupato ad assumere la dose di parabamina 67 per contrastare gli effetti dell’atmosfera altamente ossigenata.

Batterono al portello esterno. Gardius aprì, e si identificò ai rappresentanti di Re Daurobanan. Erano uomini bassi e con i lineamenti appiattiti, e capelli diritti e neri legati in codini. La loro uniforme era costituita da un paio di brache azzurre ampie e luccicanti, e da un peculiare ornamento che portavano sulle spalle come grandi ali di libellula, utili a chissà quale funzione. Erano taciturni, veloci, vaghi. Gardius pagò la piccola tassa di approdo e gli ufficiali se ne andarono.

Si gettò la cappa sulle spalle, agganciò la borsa alla cinghia che gli passava diagonalmente sul petto, e fu pronto a scendere. Mardien saltò a terra, si girò e attese che Gardius chiudesse la navicella.

Poi Gardius la raggiunse e ci fu un momento di imbarazzato silenzio. Allora Mardien gli tese la mano. «Le nostre vite sembrano portarci in differenti direzioni, Gardius.»

Il vento, sollevando turbini di polvere dal campo, le scompigliava i capelli. Gardius deglutì a fatica, le afferrò la mano. Mardien, con gli occhi umidi, gli cadde sul petto con un rantolo lieve che parve sfuggirle di gola. Gardius se la tenne contro, la strinse forte. Una vampata calda sgorgò da non sapevano dove.

«Mardien, voglio qualcos’altro dalla vita oltre a uccidere.»

«Oh, Jaime,» gli disse pronunciando il suo nome per la prima volta, «Vorrei che fosse semplice!»

Da sopra la spalla di lei, dall’altra parte del campo, Gardius vide una nave nera con la prua rincagnata, e un’enorme, prominente stiva di carico. Era la stessa nave che si era levata rollando da Farees, con la pancia piena di schiavi per Maxus; era la nave di Arman.

Mardien lo sentì fremere, sentì i suoi muscoli tendersi. Alzò gli occhi, vide l’espressione sul suo volto, seguì il suo sguardo.

Gardius curvò le spalle, lasciò cadere le braccia. «Le nostre vite vanno in direzioni differenti.» E la sua vita sembrava desolata, dura e grigia.

Mardien si allontanò lentamente. «Addio, Gardius. Sei stato molto buono con me.»

«Ringrazia mia sorella,» disse Gardius. «Ringrazia Thalla.»

«Addio, Gardius.» Mardien attraversò piano il campo fino a una sala d’aspetto decrepita. Gardius la vide salire su un’aeromobile, che decollò e la portò su nel cielo rosato verso Huamalpai.


Gardius rimase fermo, osservando l’orizzonte con una sensazione di sollievo fisico. Spazio da ogni lato, e sopra la sua testa la vasta cupola del cielo. Dopo settimane trascorse nella ristretta cabina si sentiva libero, pieno di energia repressa.

Oltrepassò le aerovetture, attraversò il padiglione d’attesa scoperto, e si incamminò.

La strada portava in mezzo a una pianura brulla, pavimentata di duri funghi immaturi grigioverdi. Piccoli sbuffi di polvere, turbinanti mulinelli rosa, vermigli, rossi, si avvicinavano roteando da lontano, e vagabondando verso l’orizzonte sparivano alla vista. Più avanti si appressava il dito scuro della palude.

Quando si fu affiancato, Gardius vide un terreno acquitrinoso e di odore acre. Gruppi rugginosi di canne erano allineati lungo la strada, e facevano ondeggiare barbe di ragnatele che il vento aveva trasportato dalla giungla profonda. La palude si ritirò. La strada svoltò, correndo parallela a una piantagione di granoturco.

Gardius proseguì, fischiettando tra i denti, in mezzo ai ciuffi leggeri che ondeggiavano e si inchinavano sopra la sua testa. Arman e gli Otro… perché? Era un problema che lo intrigava. Naturalmente Arman era per metà Otro. Pazzo per metà, allora?

Rifletté sugli indizi trovati nella Guida. «Gli Otro sono fanatici della legittima difesa. Non temono nulla e nessuno. Muoiono allegramente se solo possono portarsi appresso uno dei loro nemici. Nonostante tutte le loro personali stravaganze cooperano magnificamente in qualunque situazione di crisi, come quando hanno cacciato l’esercito di Re Vauhau dalla Foresta di Nord Alam. Il popolo delle Terre Basse attribuisce agli Otro caratteristiche soprannaturali, come l’immortalità, la seconda vista e simili, e racconta strane storie su questa razza insolita…»

In un certo senso la descrizione si adeguava a quello che sapeva di Arman, un mistico convinto del proprio destino. Apparentemente Arman sperava di rafforzare i dogmi del suo culto con il rituale ormai stabilito degli Otro. Immortalità? Seconda vista? Tutte le religioni prosperavano sull’umano terrore della morte, pensò Gardius: più erano sfacciate le pretese di una vita dopo la morte, più la religione era popolare. Mentre camminava Gardius sorrise lievemente. E così quello era il sogno di Arman: una rete di menti attraverso la galassia.

Ma il sorriso svanì, e tornò il corruccio. C’erano difficoltà pratiche che nemmeno una canaglia irresponsabile come Arman poteva trascurare. In primo luogo i Sommi non avrebbero tollerato un’organizzazione simile. Avevano i mezzi per scoprirla: una rete di spie e la polizia segreta. E avevano il potere per distruggerla: embargo, assassinio in massa, e come ultima risorsa le forze militari ufficiali.

Gardius smise di fischiare. Persino Arman doveva essere in grado di vedere l’insieme di contraddizioni. Per organizzare un blocco di potere era necessario sconfiggere la ricchezza, la forza e la potenza industriale di Maxus. E per sconfiggere Maxus era necessario un vasto complesso industriale, un’organizzazione planetaria. Era un circolo vizioso. Questo era Maxus e per questo avrebbe continuato a esistere.

Gardius fissò la strada polverosa senza vederla. C’era un sillogismo nascosto da qualche parte, una combinazione di idee che avrebbero chiarito il problema. Scosse la testa. Troppi fattori erano ancora sconosciuti. E quei fattori sapeva che erano variabili.

Alzò gli occhi sulle Terre Alte di Alam. Mardien ormai sarebbe stata a casa, in mezzo alla sua famiglia, ai suoi amici. Avrebbe visto Arman? Gardius strascicò i piedi nella polvere. Pensieri simili lo confondevano. Interferivano con l’impulso della sua vita. Era stata — era, si corresse — meravigliosamente semplice, meravigliosamente facile.

Primo: uccidere Arman o portarlo vivo su Maxus. Secondo: scovare e uccidere quanti mercanti di schiavi gli fosse stato possibile nell’arco della sua vita. C’erano uomini che cacciavano lupi, altri che cacciavano tigri-luna. Gardius avrebbe cacciato mercanti di schiavi. Avrebbe messo insieme una galleria delle loro teste, e avrebbe gioito nel percorrere la fila dagli occhi vitrei.

Dietro di lui risuonò uno scoppiettio, un fragore. Saltò a lato della strada, si voltò di scatto. Un autocarro carico di grassi animali grigi gli si affiancò. Gardius sollevò la mano. L’autocarro si fermò con un sibilo. Gli animali grugnirono e strillarono.

Il guidatore guardò giù dall’alta cabina. «Dove stai andando?»

«Huamalpai,» disse Gardius.

«Sali a bordo.»

Gardius volteggiò sulla scaletta, e si sedette sulla scarsa imbottitura del sedile. L’autocarro, un bruciatore a carbonella di manifattura locale, emise nuvole di fumo e di vapore. Le grosse ruote motrici si misero in moto con un gemito.

Il guidatore era un uomo all’incirca della sua stessa età, di costituzione più sottile, con i capelli neri legati in codini e una faccia appiattita. Era incline alla verbosità, e Gardius ascoltò pazientemente il flusso di parole.

«… quindici ettari il prossimo solstizio li metteremo a riso. È stato richiesto a Huamalpai, e le bestie da macello ci crescono bene. Si dice che anche i ragni si tengono a distanza, perché le foglie buttano fuori un olio rancido, ma non ho ancora visto i ragni stare lontani per un odore.»

«Ragni?» chiese Gardius.

Il guidatore annuì enfaticamente. «Arrivano dalle paludi per le bestie. Sono mostruosi, alcuni almeno. Altri, ovviamente, non sono più grandi del mio micetto domestico, e poi c’è una specie di animale con otto zampe, giallo-verde sulla pancia e nero sulle zampe, che può prendere una bestia sotto ognuna delle due zampe posteriori, e ritornarsene nella giungla, e non c’è niente da fare…»


Proseguendo la regione si fece più curata. Il granoturco e le pianure aride vennero lasciati indietro. Adesso vigneti e risaie irrigate fiancheggiavano la strada. Le piccole capanne di legno erano rannicchiate sotto tetti di paglia azzurro vivo. In lontananza si levava un gruppo di colline, sulle quali la terra e le mura di legno di Huamalpai si distendevano, si aggrappavano, sgocciolavano come glassa rosa su una torta scura. Dietro a Huamalpai sorgeva il Dirupo di Alam, due miglia di roccia nera contro il cielo rosa.

Notando la direzione dello sguardo di Gardius, il guidatore disse: «Quelle sono le Terre Alte di Alam.» Fece una pausa, volgendo gli occhi luccicanti in attesa su Gardius.

Allora Gardius disse: «Non è dove vivono gli Otro?»

«Esatto.»

«Ho sentito dire che sono una strana razza di gente.»

Il guidatore scrollò le spalle. «Pazzi come scarafaggi. Un uomo ha indosso un mantello rosso con su delle mezzelune azzurre. Un altro uomo gli va incontro con un mantello identico. Sai cosa succede?»

«No.»

«Tutti e due si strappano di dosso i mantelli, li bruciano, se ne vanno a casa e ne fanno dei nuovi, a colori e disegni diversi. Un uomo magari canta o parla. A un altro non piace. Allora gli va vicino e gli dice: «Chiudi la bocca!» E poi?»

«Combattono?»

«Niente affatto. Si stringono la mano. Ci sono grandi risate e ilarità.»

«E per che cosa combattono?»

Il guidatore si strinse nelle spalle. «Per esempio non vogliono prendere ordini. Ed è un insulto entrare nella casa di un altro.»

«Mi chiedo quale possa esserne la ragione.»

«Oh… semplice varietà da giardino di follia.»

«Come trattano gli stranieri?»

«Li ignorano per un giorno o due, poi li cacciano via. A loro piace l’isolamento.»

«Uhm.»

«Noi delle Terre Basse non andiamo molto spesso lassù. Quello che non capiamo non ci piace. E adesso è ancora peggio.»

«Come mai?»

La fronte piatta del guidatore si corrugò. «Ebbene, è difficile a dirsi.» Esitò.

«Ho sentito varie voci,» disse Gardius.

Il guidatore sbuffò. «Probabilmente sono vere, qualsiasi cosa dicano. Sono della strana gente, e io non vorrei averci niente a che fare, anche se non fossero pazzi. Si dice che non abbiano anima, e così sono impazienti di rubarla a noi delle Terre Basse, e mercanteggiarla per tutta la comunità fino a che tutti ne abbiano guadagnato.»


Gardius emise gli appropriati suoni di sbalordimento.

«Adesso dicono che c’è un grande Evangelo venuto dallo spazio,» disse il guidatore, «e sta facendo miracoli fra di loro, e vengono da tutte le Terre Alte per ascoltarlo e sospirare e gridare come spettri della palude. Naturalmente,» aggiunse con modestia, «sono soltanto voci che ho sentito, ma vado in città spesso, e non mi si prende facilmente in giro.»

Gardius chiese: «E come può un uomo comune verificarlo con i propri occhi?»

Il guidatore ci pensò un poco. «Ci sono diversi modi. Può andare a piedi lungo il Sentiero della Fortitudine, che sale dritto fuori da Huamalpai, oppure può andare in auto per quaranta miglia sotto il ciglio del Dirupo fino alla Tacca di Nuathiole. C’è una strada che è percorribile in auto, soltanto che quando arriva su sulle Terre Alte è un po’ malandata, così dicono.»

Gardius guardò di traverso la scogliera. «Perché non in volo?»

«Questo è il terzo modo, e stavo proprio per dirtelo. C’è un hangar a Huamalpai che noleggia velivoli — costruiti dagli schiavi su Maxus, devo dirtelo — e se puoi pagare il noleggio puoi sfrecciare su come un uccello.»

Quando finalmente l’autocarro si fermò a Huamalpai, Ramus era basso e rosso cupo, e il cielo tendeva al magenta. Gardius scese dall’alta cabina, e prese commiato dal guidatore.

Rimase in silenzio per un momento, sfregandosi il mento con gli occhi fissi sul ciglio del Dirupo di Alam.

Arman era così vicino. Perché attendere? Si guardò attorno.

In fondo alla via sorgeva il palazzo di Re Daurobanan, un gigantesco accalcarsi di cupole, panoplie, colonne, balconate e volute rococò. Più vicini c’erano i negozi e i mercati, vari luoghi d’affari, tutti con le facciate quadrate di legno chiaro scolpito. Gardius fermò un passante, e apprese l’ubicazione dell’hangar.

Ascoltò le informazioni, girò lungo l’argine di un fiume color sangue, oltrepassò una trasandata fila di moli e banchine frettolosamente rizzati nel fango. Quando riuscì a trovare l’hangar e ad affittare un velivolo, era già scesa la notte.

Il cielo era di una sfumatura color melanzana, con un bagliore color lavanda che rifletteva nel fiume una debole luminescenza.

I comandi del velivolo erano un modello di Maxus. Gardius sollevò il velivolo dritto nell’aria calda, su, su, sempre più su.

Huamalpai si allontanò, un disordinato spaglio di case su e giù dalle colline.

Ancora più su, fino alle Terre Alte di Alam. Oltrepassò il bordo dell’altopiano, e scrutò incuriosito nelle tenebre. L’aspetto della regione era reso indistinto dall’oscurità, ma percepiva un vasto pianoro ondulato fino all’orizzonte.

Spruzzi di luci splendevano qui e là, luci di tutti i colori, che ammiccavano di rosso, di verde, azzurro, giallo, porpora, come se ogni villaggio fosse un grande carnevale.

Da qualche parte là sotto c’era Arman. Dove? Gardius guardò accigliato le luci colorate. Arman avrebbe sbrigato i suoi affari nel modo più discreto possibile, certamente consapevole del lungo braccio della vendetta di Maxus. Se si fosse stabilito tra gli Otro qualunque domanda posta da uno straniero, per quanto casuale, avrebbe destato sospetti.

Mardien doveva sapere dove si nascondeva Arman. Probabilmente in quel momento era al suo fianco. Trovata Mardien, avrebbe trovato anche Arman. Ma come trovare Mardien? Scendere a chiedere? No!

Gardius pensò al modo di localizzare Mardien.

Girò di scatto il braccio sulla fila dei comandi. Il velivolo scese in picchiata, e tornò in diagonale verso Huamalpai.


Gardius volava di nuovo sulle Terre Alte di Alam. Sul sedile accanto oscillava la goffa sagoma di un trasmettitore costruito dai nativi.

Fece scattare l’interruttore, si sintonizzò sui 26.733 megacicli. Trovata Mardien, trovato Arman. La risonanza del circuito penale l’avrebbe guidato da Mardien: 26.733 megacicli a bassa intensità. Intendeva localizzare, non punire, nemmeno disturbare. Ruotò l’antenna tutto intorno al nero orizzonte, e ascoltò.

Silenzio.

Aumentò l’angolatura degli ipersostentatori; il velivolo lo portò su, inclinato nell’aria. Sintonizzò di nuovo il trasmettitore, ascoltò, udì un suono breve e debole. Aumentò la potenza e il suono si rafforzò. Allineò l’antenna con la bussola — nord-ovest — voltò il velivolo, e seguì la direzione del segnale.

Mentre volava il segnale diventava sempre più forte, e Gardius diminuì la potenza perché il pizzicore non mettesse in guardia Mardien. Dieci, venti, trenta miglia passarono. Gardius guardò innanzi a sé. Le Terre Alte erano larghe solo cinquanta miglia.

Ancora dieci miglia… e l’antenna indicò verso il basso. Rimase a librarsi in quel punto, scrutò oltre il montante della cupola. Sotto di lui si stendeva l’oscurità, non interrotta da spruzzi di luci multicolori come le città altrove sull’altopiano. Non si vedeva nulla oltre all’oscurità di una regione disabitata. Esaminò con scetticismo il trasmettitore. Il quadrante era sintonizzato correttamente, ma era calibrato secondo un criterio corretto?

L’unico modo per scoprirlo era atterrare. E guardò senza alcuna attrazione la massa scura e indistinta che lo aspettava. Pensò al nottiscopio, uno dei tanti strumenti miracolosi di Maxus, attraverso il quale la notte era come il giorno. Ma ne custodivano il segreto con tutta la loro monumentale gelosia. Non era certo ad uso degli stranieri.

Gardius diede un’occhiata all’altimetro. Segnava duemila piedi dalla superficie. L’ago del tattigrafo oscillava tra il 6 e il 7 — la densità e la trama del fogliame della foresta.

Fece abbassare il velivolo con un’elevata inclinazione. Mille piedi… cinquecento… quattrocento… trecento… lo rialzò appena in tempo. Proprio sotto di lui incombeva una massa amorfa che sembrava fremere e ribollire, la chioma di un albero gigantesco.

Gardius si mosse a disagio sul sedile. Il motore del velivolo faceva poco rumore, un ronzio rotatorio, ma le eliche creavano un risucchio che poteva anche perdersi tra i rumori della foresta.

Con cautela abbassò il velivolo. L’oscurità adesso lo circondava, un poco meno fitta alla sua destra. Le eliche crepitarono tra le foglie a sinistra. Piegò a destra. Le eliche ruotarono nell’aria soffice, e Gardius scese al suolo senza altri impedimenti.

Saltò a terra, si fermò accanto al velivolo, in tensione, in silenzio, scrutando l’oscurità. L’aria era quieta, umida, odorosa di un balsamo non familiare, sufficiente a ricordargli che camminava per un mondo sconosciuto.

I suoi occhi si abituarono all’oscurità, e si accorse che il buio non era affatto completo, e che il legno marcescente generava un lucore azzurro fosforescente parallelo al terreno.

Gardius esitò. Se abbandonava il velivolo rischiava di non ritrovarlo. Una volta fuori dal suo campo visivo — un centinaio di piedi nella semioscurità — avrebbe potuto vagare per ore attraverso la foresta.

Ritornò nella cabina, inviò gli impulsi più deboli a ventisei punto settecento trentatré millesimi di megacicli e il segnale ritornò forte e chiaro. Allineò esattamente l’antenna, si sedette a riflettere. I suoi occhi caddero sulla bussola della navicella, un aggeggio magnetico e quindi utile allo scopo.

Staccò la bussola, l’allineò all’asse dell’antenna. Nord-nord-ovest.

Si incamminò alla svelta, procedendo a lunghi passi sull’erba spugnosa. Le sue impronte splendevano di un improvviso azzurro acceso alle sue spalle.

Non sapeva per quanto o quanto a lungo stesse camminando. La fioca luce azzurra gli mostrava tronchi neri da ogni parte, che si levavano nitidi, senza rami, e il legno era duro e freddo come metallo. I suoi passi scricchiolavano su fragili funghi, affondavano nell’humus. Più volte calpestò grossi viticci, e gli parve di calpestare braccia umane.

Un lucore giallo-rosato che pareva scaturire dal suolo crebbe davanti a lui. Gardius avanzò lentamente e la luce si diffuse di fronte a lui, illuminando le prime fronde del fogliame a sessanta piedi sopra la sua testa.

La foresta terminò, il terreno scese a picco. Gardius si trovò a guardare oltre un ciglio roccioso in un sabbioso anfiteatro naturale. Una tenda di pesante tessuto rosso manteneva bassa la luce. File di panche si curvavano attorno a una piattaforma di grezze assi nere con un parapetto intagliato. Le panche erano per tre quarti occupate da uomini e donne.

Gardius osservò i presenti. Erano alti, ben fatti, con lineamenti armoniosi e regolari. Gli Otro delle Terre Alte di Alam, i pazzi Otro, erano davvero pazzi? Gardius trovava difficile credere diversamente. Gli abiti di ogni individuo erano completamente diversi per foggia e colore da quelli di tutti gli altri.


Era come un ballo in maschera, come il carnevale suggerito dalle luci colorate delle città Otro. Un uomo indossava un giustacuore di cuoio verde pallido, e calzoni di raso color bronzo; un altro ampi pantaloni bianchi e una voluminosa blusa porporina. Lì una donna era cinta di nastri dorati, là un’altra portava una veste pieghettata di seta azzurra, e un’altra ancora una tuta grigia con gheroni gialli sulle gambe e spalline nere.

Le acconciature si differenziavano allo stesso modo: disposizioni varie di setole di bronzo, piumini rossi, penne, elmetti di metallo e veli trasparenti. Stupefatto Gardius girava con lo sguardo da una faccia all’altra. Forse era un’occasione di festa. No, erano tutti ugualmente seri.

Gardius guardò di nuovo le facce: non c’era nulla che facesse sospettare la follia, niente che indicasse dei poteri sovrannaturali. A dispetto dell’abbigliamento fantastico, scoprì una serenità, un rilassamento e una calma che distendevano i volti dando loro un aspetto giovanile. Dov’era Arman?Dov’era Mardien? Da qualche parte in mezzo al pubblico?

Esaminò attentamente la circonferenza dell’arena. Non c’erano uscieri, né guardie, né assistenti. I nuovi arrivati che si univano al pubblico non destavano la minima attenzione. Lì un costume stravagante non avrebbe suscitato scalpore, pensò Gardius. La sua tuta grigia di volo sarebbe stata notata solo per l’assenza di colori. Uscì nel lucore giallo rosato, avanzò in mezzo a due file di panche, e prese posto. Nessuno gli badò. Una mezza dozzina di donne di mezza età si sedettero davanti a lui, e si divertì ad ascoltare i loro discorsi. Otro oppure no, erano chiacchiere di donne su qualunque pianeta della galassia.

«…Così aggraziato, ha detto Teresha. Le ha davvero tenuto la mano, e lei dice che il suo tocco l’ha fatta rabbrividire tutta.»

«Teresha non è sempre attendibile, sapete.»

«Ho una certa idea di invitarlo al notturno…»

«Dubito che venga. È sempre così occupato, studia in continuazione. È in grado di leggere otto lingue antiche…»

Le panche si riempirono rapidamente. Ben presto l’anfiteatro fu gremito. Una vecchia con una martingala giallo limone e un fascio di rose tra i capelli si sedette di fianco a Gardius. Dall’altra parte si sedette un quindicenne con una giacca verde. Nessuno gli rivolse una seconda occhiata.

La luce di un riflettore disegnò un alone bianco-rosato sulla piattaforma, e Arman apparve. Dalla folla si levò un sibilo a mezza voce. Arman. Gardius respirava appena tant’era tesa la sua attenzione. Arman: un uomo di magnifica statura e bellezza, con un cervello che irradiava sicurezza e intelligenza. Il suo volto era composto da mille campioni, tutti gli eroi su tutti i medaglioni.

La voce di Arman era seria, ricca, melodiosa, rendeva impellente la frase più ordinaria. E accresceva l’impellenza con un modo di parlare a testa bassa, guardando negli occhi del pubblico. Osservando quell’uomo, Gardius poteva capire la riluttanza di Mardien a pensare male di lui. Fisionomicamente era uno degli arcangeli, raggiante di virtù.

«Uomini e donne del futuro,» disse Arman, «domani comincia la nostra grande avventura. Domani lasciamo le Terre Alte.» Fece una pausa, girò lo sguardo per l’anfiteatro. Gardius sentì il momentaneo impatto. Arman continuò con voce lenta.

«Non ho molto da dirvi. Persino qui nella foresta, con voi che ho personalmente convocato, temo gli occhi e le orecchie di Maxus, e devo trattenere molto di ciò che è nella mente del Dio.»

Gardius si agitò sulla panca. Dio? Quale Dio?

Arman continuò a parlare con grandi frasi dondolanti, come un artista ispirato che stenda il colore sulla tela. Il tema era meno politico che spirituale, eppure Gardius si sentì turbato ascoltandolo. L’entusiasmo, l’ardore, erano sentimenti difficili da contraffare. Se Arman credeva nei propri sermoni… Attonito Gardius rimase seduto ad ascoltare.

L’uomo aveva perso la speranza, diceva Arman, aveva perso la fede nel destino che un tempo l’aveva mandato fino ai confini della galassia. C’era bisogno di un nuovo scopo, una nuova fiamma per accendere il cuore degli uomini, una nuova crociata.

«Una crociata viene iniziata dai crociati,» disse Arman dolcemente. «E i crociati siete voi che verrete con me domani. E la centralità, lo scopo… è in me. Chiamatelo Dio, Fato, Destino, Fine… esso è in me. Esso mi dona la parola. Esso fa di me ciò che sono.

«Mentre vi vedo davanti a me, questo Dio, questo Destino, guarda con i miei occhi. Quando io parlo, il Dio parla. La dichiarazione solenne è: gettate via i cenci della vita, indossate i vestiti dorati del nuovo universo. L’umanità affonda nello stagno. Maxus sguazza nel vino e nelle orge, mangia il grasso dal posteriore delle sue vittime. Maxus è una grande sanguisuga che succhia la vita, e l’umanità barcolla.

«Le vecchie frontiere si stanno ritirando, le colonie lontane sono preda delle bestie. Un mondo viene colpito dalla peste. Su un altro mondo la gente invecchia, indebolisce, vacilla e muore, e le loro pietose rovine sono perdute tra le stelle.» Arman alzò la voce, e la pelle si accapponò sulla nuca di Gardius.

«Noi contraiamo il volto nella risoluzione. Noi purifichiamo l’universo. Noi infondiamo il nostro liquore ardente! Noi gettiamo a terra la sanguisuga, la schiacciamo fino a farne poltiglia. Coloro che hanno schiavizzato saranno gli schiavi, suderanno, faticheranno e moriranno come sono morti i loro schiavi! Noi costruiamo nel nome di Arman il Dio! I nostri mattoni sono le menti umane, il nostro mortaio è il cammino degli Otro, la nostra struttura sarà un nuovo universo!»

Arman indietreggiò, respirando profondamente. La folla sospirò, un rumore acuto uscito dal diaframma. E Gardius si mosse irritato, seccato dalla discordanza tra la sua mente e le sue emozioni. Prima Mardien, adesso Arman, entrambi cospiravano a confondere la chiarezza delle sue intenzioni.

Arman riprese a bassa voce: «Domani noi lasciamo il pianeta, ci imbarchiamo per la nostra grande avventura. Voi che venite vedrete uno strano mondo. Vedrete l’oscura elegante putrefazione di una vecchia cultura che si basa sul male. Voi che restate preparatevi, preparatevi e imparate, costruite e attendete.

«Assieme vedremo grandi eventi. È la storia che stiamo vivendo questa notte sulle Terre Alte di Alam; noi che ci siamo incontrati qui nella foresta siamo la pulsante scintilla del futuro.»


Gardius sedeva intorpidito in una specie di autoipnosi. Attraverso un leggero velo di nebbia vide l’alone di luce spegnersi tremolando su Arman, sentì la folla alzarsi, andarsene. C’era qualcosa nell’aria. Una crociata, contro Maxus, contro lo stesso grande stato schiavista. E i crociati? Un anfiteatro di uomini e donne dai vestiti bizzarri? Ridicolo. Arman era pazzo come i suoi simili.

Ma lo era davvero? Forse Mardien aveva detto la verità. Forse le motivazioni di Arman erano state travisate. Forse Arman agiva su una scala secondo la quale seicento vite erano pari a nulla. Forse Arman era il Dio, il Destino, comunque si chiamasse. Forse Gardius era l’iconoclasta irresponsabile.

L’indecisione era peggiore della tortura. La sua vita era stata decisa così nettamente. Non c’erano stati dubbi, e adesso… E tuttavia nel cuore della sua mente risuonavano una serie di parole, lottava per raggiungere la sua coscienza.

Gardius si mosse; l’intontimento si dissipò. Parole — una frase — quale? La chiave per il suo dilemma. Chinò la testa tra le mani, rimase seduto un momento ad accarezzarsi il mento. In un punto Arman aveva sollevato la tenda, e un barlume era penetrato. Adesso ricordava. Gardius si alzò in piedi, fissò la piattaforma. La folla aveva lasciato l’arena. Arman se n’era andato. Divenne consapevole di un’altra presenza, di un sospettoso esame. Rivolse un’occhiata al ragazzo quindicenne che gli si era seduto di fianco. Erano quasi soli nel lucore che si andava affievolendo.

Il ragazzo disse: «Tu non sei un Otro.» Era una piatta affermazione.

Senza rancore né astio, Gardius disse: «Come lo sai?»

«Te lo vedo in faccia,» disse il ragazzo, «nelle rughe turbate degli uomini della morte. Lo leggo nell’inespressività della tua mente, la cui superficie è come il Deserto di Granito. Tu non sei un Otro.»

«E allora?»

«Se sei una spia di Maxus verrai ucciso.»

«Se fossi una spia di Maxus come avrei trovato la strada per questa adunanza?»

Il ragazzo scosse la testa, si allontanò indietreggiando. Gardius vide che era pronto a chiamare aiuto. L’arena era vuota ma gli uomini non erano molto lontani.

Gardius disse: «Bene, vedremo se sono una spia oppure no. Andiamo da Arman.»

Il ragazzo esitò. «Desideri vedere Arman? Parti domani?»

«Forse,» disse Gardius. «Non abbiamo ancora deciso.»

Il ragazzo si fermò guardando Gardius con la coda dell’occhio.

«Andiamo da Arman,» disse Gardius. «Tu sei più pratico della foresta. Fai strada.»

Il ragazzo fissò Gardius, che non corrispondeva all’immagine mentale che si era fatto di una spia. Le spie erano basse, con gli occhi sfuggenti, piene di falsi sorrisi. Gardius era grande, snello, muscoloso come una tigre della foresta…

«Ti dirò dove trovare Arman,» disse indeciso. «Non ti ci porterò.»

L’accordo andava benissimo a Gardius. «Come desideri.»

Il ragazzo cambiò idea. «No, ti ci porterò io. Così saprò che va tutto bene. Sono un Praticante Ingegnere,» aggiunse impacciato.

«Eccellente,» disse Gardius. «E qual è il tuo ruolo nella grande avventura?»

«Oh!» Il ragazzo scelse attentamente le parole. «Io tradurrò le idee in disegni accurati. Questa è la mia specializzazione.»

Gardius annuì. «Capisco, capisco. E ora, portami da Arman.»

Il ragazzo esitò. «Forse farei meglio a portarti da mio padre e lasciare che decida lui.»

Gardius si accarezzò il mento come se stesse riflettendo. «No,» disse infine, «ho poco tempo. Sarebbe meglio andare direttamente da Arman.»

Il ragazzo tentennò. Non era mai stato al cospetto di Arman, non aveva mai parlato con il grande uomo. Forse quella sarebbe stata l’occasione. «Seguimi,» disse.

Lasciarono l’arena, presero un sentiero che attraversava una strada lastricata e si rituffarono nei boschi. Camminarono per cinque minuti. La foresta si fece meno fitta. Uscirono in uno spiazzo. A est un pianeta luminoso splendeva come una gigantesca perla rosata. Gardius vide che si trovavano in una brughiera ondulata. Il vento gli soffiò in faccia l’odore forte della palude. Più avanti brillavano le luci di un villino.

Il giovane si fermò di colpo, improvvisamente indeciso. Sarebbe stato ringraziato per avere portato uno straniero a disturbare l’eroe? E se quel cupo straniero dai capelli neri era un nemico, una spia di Maxus? Gli si agghiacciò il sangue.

«Abbiamo preso la strada sbagliata,» disse il ragazzo con voce fioca. «Meglio che ritorniamo nella foresta. Ti porterò da mio padre.»

Gardius tese il braccio quasi per caso, prese la nuca del ragazzo in una mano, tastò il punto giusto tra i muscoli, strinse. Il ragazzo si irrigidì, le braccia penzolarono insensibili, le gambe lo sostennero a malapena. Gardius si frugò nella borsa, tirò fuori un piccolissimo iniettore, un minuscolo sacco di narcotico con un ago. Allentò la presa. Il braccio del ragazzo scattò verso l’alto in un movimento riflesso, facendo cadere l’iniettore di mano a Gardius.

Gardius emise un grido soffocato, digrignò i denti, aumentò la stretta. Il ragazzo si irrigidì di nuovo. Dov’era l’iniettore? Costrinse il ragazzo inerte al suolo, tastò qua e là nell’intrico di ginestre spinose con la mano libera.


Trascorsero cinque minuti prima che lo trovasse, infilato nella biforcazione di un ramo. Lo spinse nel collo del ragazzo. Il ragazzo si intorpidì. Gardius mollò la presa. Il ragazzo rimase immobile.

Gardius attese fermo nel buio. Evidentemente il grido non era stato udito, forse soffiato via da quella brezza che odorava così forte. Si avviò furtivo verso il villino, una casa di campagna con un tetto a due spioventi meravigliosamente alto, finestre ovali e una porta a forma di tre dischi.

Dalle finestre filtravano crepe e punti di luce dorata, ma nessuna immagine era visibile all’interno. Gardius fece il giro della casa, passò casupole, capanni, edifici annessi. Trovò l’entrata posteriore, e la stanza dietro sembrava al buio.

Tirò il chiavistello. Come si era spettato la porta era chiusa. Infilò la mano nella borsa, prese il raggio termico, e, soffocando per il fumo, bruciò un buco attorno al chiavistello. Allungò le dita tra le schegge incandescenti, fece scorrere all’indietro il catenaccio, appoggiò la spalla alla porta e la socchiuse.

La stanza era buia e odorava di frutta guasta. Una cornice di luce rivelava un’altra porta opposta a quella di servizio. Gardius girò intorno il raggio della torcia e attraversò la stanza rapido e furtivo.

Dall’interno non giungevano né suoni né voci, nemmeno il fruscio di un movimento. Con in mano il raggio termico, Gardius aprì silenziosamente la porta.

Arman era seduto su una panca accanto al focolare, e fissava pensieroso le fiamme. Era solo. Gardius avanzò senza fare rumore. Arman percepì la sua presenza, sollevò lo sguardo.

«Silenzio,» disse Gardius mostrandogli il raggio termico. Arman si alzò in piedi, lo osservò tranquillamente. La sua presenza era straordinaria, sconcertante. Gardius si chiese se avrebbe dovuto tirare il grilletto. Alla fine sarebbe stato più facile. Ma Arman riportato vivo su Maxus avrebbe avuto più valore di Arman morto su Fell. Non c’erano solo suo fratello e sua sorella, ma anche molti amici, che Arman vivo avrebbe potuto riscattare.

«Voltati,» disse Gardius. Arman obbedì, osservandolo da sopra la spalla con grandi occhi luminosi finché si fu girato completamente.

Gardius si avvicinò con prudenza. Le ampie spalle muscolose di Arman emanavano forza. Qualunque presa sarebbe stata inaffidabile contro quel fascio di nervi. Allungò la mano, e trafisse il collo di Arman con l’iniettore.

Da dietro venne un fievole gemito di sorpresa e paura. Indietreggiando da Arman che si andava irrigidendo, Gardius vide una donna nello specchio di una porta. Portava pantaloni neri e una blusa bianca con alamari verdi. Era bionda come il sole di Exar. Con un piccolo strazio al cuore, Gardius riconobbe Mardien.

Arman si accasciò. Gardius disse a Mardien. «Entra, svelta. Potrei anche ucciderti.»

Mardien si fece avanti, con gli occhi velati da uno strano sguardo spento. «Uccidermi?» La sua voce era perplessa. «Perché?»

Gardius la fissò incollerito, senza sapere cosa rispondere. La risposta alla sua domanda era in qualche modo legata alla fitta di dolore che aveva sentito nel vederla nel villino di Arman. Mardien vide l’eroe prono a terra, e si portò una mano alla gola.

«L’hai ucciso… così presto?»

«No, non è morto.»

«E adesso che cosa farai?»

«Lo porterò su Maxus, e lo baratterò con mia sorella, mio fratello, e quanti amici sarà possibile.»

«Ma lo tortureranno!» Guardò di nuovo Gardius, e già il velo stava lasciando i suoi occhi.

Gardius alzò le spalle, gettò un’occhiata al grande corpo. «Avrebbe dovuto pensarci prima di diventare un mercante di schiavi. Può sopportare parecchio.»

Mardien gli si avvicinò. «Gardius… Jaime! Tu non capisci! Non puoi, non sei così malvagio! Qui c’è la speranza dell’universo, in Arman! Saresti tanto crudele?»

Gardius emise un suono cupo, a metà tra un risolino e una sbuffata. «Forse sei cieca. Forse sei troppo ingenua.»

Bianca in viso, con gli occhi sbarrati, Mardien disse: «Dietro a quello che dici non c’è nulla, solo le tue emozioni.»

Gardius ripeté il suono sarcastico. «Le stesse parole valgono per te.»

«Ma io so! Io so!» disse tra i denti stretti.

Gardius scrollò le spalle. «Ha parlato di partire domani. Perché? E per dove?»

Mardien esitò, poi la risposta le scaturì rabbiosa dalle labbra. «Per Maxus con seicento persone del mio popolo. Ecco quanto crediamo in Arman! In seicento si sono offerti volontari.»

«Volontari? Per cosa?»

«Hanno offerto i loro corpi volontari per la schiavitù.»

Gardius rimase immobile, sondandola con lo sguardo. «Perché?»

Mardien distolse gli occhi. «Ho detto troppo.»

Gardius disse lentamente: «Ho capito bene che seicento Otro si lasciano — volontariamente — vendere come schiavi?»

«Sì!» rispose in tono di sfida. «Hai capito bene.»

«E Arman si prende il denaro che sarà pagato per loro?»

«Sì.»

«Adesso so che siete pazzi, tutti quanti.»

«Sei uno sciocco!» scattò Mardien. «Il denaro serve per comprare attrezzature tecniche, per le fabbriche, per gli impianti elettrici, gli utensili.»

«E chi lavorerà in queste fabbriche?»

«Noi Otro.»

«E chi vi darà da mangiare quando i vostri campi resteranno incolti?»

«Quelli delle Terre Basse. Compreremo il cibo.»

«E chi proteggerà le vostre industrie da Maxus?»

«Avremo uno schermo come lo schermo attorno a Maxus.»

«Quello,» disse Gardius, «è uno dei segreti meglio custoditi di Maxus: come schermare un pianeta.»


Mardien gli rivolse un sorriso gelido. «Quando gli Otro saranno schiavi su Maxus, Maxus non avrà più segreti. Coloro che andranno sono tecnicamente preparati.»

Gardius la guardò accigliato. «Non ti capisco.»

«Naturalmente. Tu non sei un Otro.»

«No,» disse Gardius. «Non lo sono. Come farete uscire quei segreti dal pianeta?»

«Questo è uno dei nostri segreti. Lo faremo. Scoveremo ogni formula, ogni progetto strutturale, ogni fase di conoscenza avanzata di Maxus. E qui nelle Terre Alte di Alam ricreeremo i segreti.

«Schermeremo Fell dalle navi da guerra di Maxus fino a quando avremo delle navi da guerra nostre. Allora ci espanderemo, esporteremo le nostre tecniche sugli altri pianeti. Maxus scomparirà davanti a noi.»

«Molto fantasioso,» disse Gardius seccamente. Si appoggiò alla parete. «Ma perché barattare le occasionali predazioni di Maxus con la tirannia di questo,» toccò Arman con un piede, «questo mercante di schiavi, questo assassino?»

«Non ci sarà tirannia sotto Arman!»

Gardius scosse piano la testa. «Innocenti fiduciosi! Persino quando Arman dice «coloro che hanno schiavizzato saranno gli schiavi», voi avete ancora fiducia in lui.»

««Coloro che hanno schiavizzato saranno gli schiavi»,» ripeté Mardien lentamente, stupita. «Tu eri all’incontro.»

«Sì.»

«Cosa intendi dire con ciò?»

«Intendo dire che forse potrete creare un sistema industriale, ma che per controllarlo avrete bisogno di milioni di uomini, molti più di quanti ce ne siano su Fell. Ti rendi conto di quanto sia complicata una nave da guerra spaziale? Quanti anni di lavoro nella vita di un uomo ci vogliono per costruire anche solo un incrociatore?»

«No,» disse Mardien debolmente.

«E quanti anni di lavoro nella vita di un uomo ci vogliono solamente per costruire i meccanismi, le attrezzature, le maschere di montaggio che sono appena sufficienti per cominciare?»

«Cominceremo su piccola scala.»

«Non ci sono piccole scale. O è grande, o non esiste affatto. Ci vogliono quaranta milioni di Sommi semplicemente per sovrintendere alle industrie di Maxus. E voi siete solo in pochi milioni. Da dove verrà tutta questa forza lavoro aggiuntiva? Nel suo discorso Arman vi ha dato la risposta. Gli viene in mente senza sforzo, poiché è un mercante di schiavi per professione. Schiavi!

«Un’altra cosa: mentre il vostro sistema industriale si starà espandendo, credete che i Sommi se ne andranno a dormire? Sono dei realisti. Si espanderanno con voi, più in fretta di voi. Costruiranno più fabbriche, schiavizzeranno più pianeti, e hanno duemila anni di anticipo su di voi.

«Se il vostro piano riesce, voi non vincerete, nessuno vincerà. Perderanno tutti. Non ci sarà solamente Maxus a devastare i pianeti in cerca di uomini, ci saranno anche i mercanti di schiavi di Fell. Due sistemi industriali, in competizione per i mercati della galassia, per comprare cibo sufficiente a nutrire i loro schiavi.»

«No, no, no!» gridò Mardien. «Questo non è per niente il nostro piano.»

«Certamente no,» disse mitemente Gardius. «Voi siete idealisti. Gli idealisti sono sempre i rivoluzionari, le zampe del gatto. Poi i realisti consolidano la situazione, raggiungono i compromessi, liquidano l’opposizione.»

Restarono a guardarsi l’un l’altra attraverso la stanza, entrambi schiacciati contro la parete come cariatidi, e in mezzo a loro giaceva l’idolo prono. Mardien disse con voce sottomessa: «Cosa proponi, allora? Cerchi di distruggere la mia fede, ma non mi offri nulla.»

«Mi dispiace,» disse Gardius con calma. «Non posso offrire soluzioni gradevoli, se non rendere il mercato degli schiavi così pericoloso che esseri come questo,» toccò ancora Arman con un piede, «saranno costretti a fare acrobazie. Ho pianificato la mia vita in questa direzione. Sto cominciando con il mercante di schiavi che mi ha privato della mia famiglia: Arman.

«Quando l’avrò consegnato all’Alto Ricognitore non ci sarà quartiere. Li ucciderò come mi capiteranno sotto mano.» La sua voce assunse un’aspra vivacità. «Come scorpioni!»

Notò lo strano pallore sul volto di Mardien, notò la direzione del suo sguardo. Era fisso sul pavimento in una fascinazione inorridita.

Troppo tardi balzò indietro. Da terra scaturì il movimento, una massa rapida e agile lo colpì alla vita, lo scagliò, con un tonfo, lungo disteso sul pavimento. Il raggio termico cadde sull’assito. Mardien gemette, corse avanti ad afferrarlo.

Gardius sferrò un calcio da dov’era sdraiato, colse Arman nell’addome. Scorse Mardien, con la faccia contorta nell’agonia del dubbio. La pelle splendeva dov’era tirata sulle ossa, i denti erano bianchi contro le labbra grigie. I suoi occhi erano grandi, un velo scese davanti al suo sguardo.

Gardius intuì la sua decisione, rotolò di fianco mentre un ago di luce rossa carbonizzava il pavimento vicino a lui.

Balzò in piedi, schivò il boccheggiante Arman passandogli alle spalle, afferrò uno sgabello e lo lanciò contro Mardien, che si accasciò a terra. Gardius si girò di nuovo verso Arman, che gli si stava avvicinando con il volto in fiamme e la bocca ruggente.


Era peso, forza e furia contro furiosa destrezza, e furiosa forza. Arman aveva l’esperienza delle implacabili città dell’uomo. Gardius era un montanaro di Exar. Era come una contesa tra un toro e una pantera nera. La resistenza di Arman era prodigiosa, sembrava venirgli da una scorta sovrumana. Colpiva con maggiore violenza del più debole Gardius, eppure quando la vista di Gardius vacillava e si annebbiava, Arman sembrava fresco, impaziente, pieno di risorse.

Attraversò la stanza con un balzo, Gardius si spostò barcollando. Arman roteò il braccio come una mazza, mancò il bersaglio. Gardius afferrò il braccio, fece leva, e Arman cadde pesantemente a terra, prono. Per la prima volta giacque immobile un istante, e in quell’istante Gardius scattò in avanti, gli sferrò un calcio alla testa. Arman emise un gemito sordo, contrasse le mani, le unghie raschiarono il pavimento.

Mardien si stava muovendo carponi verso il raggio termico; Gardius si scagliò in avanti, lo prese, indietreggiò.

Ansimava, gli occhi vacillavano, il cuore gli batteva forte; le ginocchia sembravano cardini molli, cento contusioni pulsavano, il sangue gli sgocciolava dalla guancia, dalla bocca, dal mento. Mardien era seduta sul pavimento, lo guardava con occhi cattivi, e Gardius vide l’immagine fugace di una bestia primordiale. Fu la più fugace delle immagini, e pensò quale meravigliosa maschera era la bellezza, e un eone di civiltà.

«Sei marcia quanto lui,» ansimò. «Sei la sua amante.»

«Sei geloso,» gli disse Mardien. «Ecco perché lo odi, ecco perché odi me. Sei geloso!»

«Non lo nego,» disse Gardius con una voce che risuonò strana alle sue stesse orecchie. Nemmeno le parole erano quelle che voleva dire.

«Se lo fossi… se anche lo fossi,» si corresse, «non è nulla di cui ho vergogna.»

Gardius non rispose. Il silenzio scese su di loro, il tempo sembrava fermo per le tre creature immobili nella loro posizione, Arman sdraiato con le braccia scomposte, Mardien rigidamente seduta, Gardius appoggiato contro la parete. I suoi occhi caddero sull’iniettore: perché non aveva immobilizzato Arman?

Allungò la mano, lo raccolse, lo esaminò. L’ago era rotto, il sacco era vuoto. Rimase inerte un momento, riflettendo. Gli eventi stavano diventando troppo grandi per lui, si stavano scontrando e accalcando oltre il suo controllo. Dov’era il ragazzo? Era stato drogato? Era andato a chiamare aiuto?

Arman rantolò, scosse la testa dolorosamente e si sollevò piano sulle braccia.

«Stai fermo,» disse Gardius. Arman alzò lentamente gli occhi su di lui. «Tieni le braccia dietro la schiena.»

Arman obbedì, impassibile. Gardius si chinò in avanti con un rotolo di nastro adesivo. Una cosa magra e ossuta gli saltò addosso, gli immobilizzò le braccia.

Ecco dov’era il ragazzo.

Arman balzò avanti, afferrò il raggio termico. Il ragazzo si era tirato indietro, adesso, e balbettava ad Arman le sue giustificazioni.

«…Sapevo che non aveva in mente niente di buono il momento stesso in cui l’ho visto. Ho creduto meglio tenerlo d’occhio, qualsiasi cosa per aiutarti, Lord Arman…»

Arman osservava Gardius riflettendo. Gardius aspettava con le braccia conserte, aspettava di essere ucciso. Mardien si tastava i lividi, dove lo sgabello l’aveva colpita, e assisteva inespressiva.

Arman si rivolse improvvisamente al ragazzo. «Fuori, dietro la casa, nel velivolo. Nell’armadietto di coda c’è una lunga corda.»

«Sì, signore.»

«Prendila.»

Il ragazzo corse via, ritornò dopo un momento.

«Legagli i polsi,» disse Arman. «Dietro la schiena.»

Arman raccolse l’estremità della corda. «Fuori,» disse a Gardius. E a Mardien: «Porta la sua torcia.»


Condusse Gardius al velivolo, legò l’estremità della corda alla struttura inferiore. Gardius si irrigidì. Quando il velivolo si fosse sollevato lui si sarebbe trovato sospeso per i polsi, che erano legati dietro la schiena. Il peso del suo corpo gli avrebbe strappato le braccia all’indietro fuori dalle articolazioni, e il suo corpo avrebbe penzolato impotente sotto le braccia tese.

Arman si girò verso il ragazzo. «Sai guidare?»

«Sì, Lord Arman…»

«Portalo sulla palude, e taglia la corda.»

Il ragazzo rise quasi istericamente. «Sì, signore. Cibo per i ragni, ecco come finirà.»

Mardien, con la faccia bianca come uno spettro, si aggrappò al gomito di Arman. «Arman… non possiamo torturarlo…»

«Lasciami,» disse Arman bruscamente. «È una spia di Maxus.»

«No, non lo è, veramente. E anche se lo fosse… non possiamo torturare, Arman…»

Arman girò la testa minaccioso. «Chiudi la bocca! Tornatene in casa se non ti piace!»

Mardien lo guardò un agghiacciato istante, poi si voltò e si allontanò in fretta.

«Decolla,» disse Arman. «Assicurati che faccia la fine che merita.»

«Non preoccuparti, Lord Arman. Vivo solo per servirti.»

«Bene. Mi ricorderò di te.»

Il ragazzo saltò nella cabina. Gardius lanciò un’occhiata alla corda. Arman era stato generoso con la lunghezza. Le eliche rotearono, l’aria venne convogliata verso il basso, il velivolo si sollevò. Gardius si gettò sul dorso, avvolse la corda attorno a una caviglia. Il velivolo si levò nella notte, e sotto, a testa in giù, penzolava Gardius. Scomodo, pensò, ma non tanto scomodo come starsene appeso alle braccia slogate durante le sue ultime ore di vita.

Arman gridò rabbiosamente ma il ragazzo non l’udì. Il velivolo volò via nella notte, facendo pazzamente ondeggiare Gardius. La luce proveniente dalla porta aperta del villino si ridusse a tre dischi dorati, a una striscia, poi più nulla.

Per quanto tempo volassero, Gardius, col sangue che gli pulsava nella testa, non poteva tenerne conto. Doveva concentrarsi per non perdere conoscenza, se sveniva le sue gambe si sarebbero rilassate, la corda sarebbe scivolata via dalle caviglie, e lui sarebbe caduto di lato restando appeso come Arman avrebbe voluto. Il tempo passò. Il vento sferzava il suo viso, lo scuoteva avanti e indietro. Era vagamente consapevole della sagoma scura e costante sopra, della notte, del buio sotto, della perla matura e opulenta che era la luna di Fell. Questi erano gli elementi essenziali della sua nuova esistenza. La vita sembrava lontana, passata, un grido in un sogno assolato.

E così Gardius venne trasportato a testa in giù nell’oscurità, a cavallo del vento come una strega insolitamente ridicola. Respirare gli riusciva difficoltoso. Gli occhi sembravano uscirgli dalle orbite. Si aggrappò alla coscienza con una presa che lentamente diventava scivolosa.

Il velivolo si fermò, librandosi in cielo. Mille piedi più sotto si stendeva la palude, completamente nera, se non per l’occasionale scintillio dell’acqua. Gardius sentì la testa del ragazzo che guardava giù, udì debolmente le parole al di sopra del fragore della corrente d’aria discendente.

«Lo vedi questo? È un coltello. Io taglio la corda, e tu vai giù. Cibo per ragni.» Rise. «Una lunga strada per scendere, una lunga camminata per tornare a casa. Se ti lascio andare piano piano ti godrai la passeggiata, e ci saranno i ragni a darti le indicazioni.»

Il velivolo si assestò rapidamente, l’orizzonte si levò come liquido nero in una grande scodella di vetro purpureo. Erano ormai a venti piedi, e quasi Gardius urtava il fogliame.

«Spero che ti goda la passeggiata,» gridò il ragazzo. «Ci sono solo cento miglia, e hai un sacco di tempo.» Gardius sentì vibrare la corda. I fili si divisero… uno, due, tre. Cadde, attraverso le foglie e i ramoscelli che si spezzavano, in un folto di grandi baccelli sferici. Qualcuno scoppiò sotto di lui, altri si staccarono e andarono alla deriva nell’oscurità, leggermente luminosi, come bolle piene di fumo lucente.

Gardius giacque inerte, semincosciente, privo di volontà, di energia, di reminiscenze.


La breve notte di Fell si attenuò, ritirandosi davanti all’alba color prugna. Gardius rabbrividì, destato dai profili emergenti delle fronde della giungla, che agitandosi nella brezza si strofinavano, raspavano e stormivano in un milione di piccoli rumori.

Dolorosamente distese le gambe, si sistemò in una posizione più comoda, cominciò a lavorare ai nodi. Riusciva a sentire la corda con la punta delle dita. Un filo alla volta la indebolì; alla fine diede uno strattone e la corda si spezzò.

Allungò la mano, si appoggiò e si alzò in posizione eretta su un ramo. Con cautela controllò lo stato delle ossa, brontolando ogni volta che incontrava una contusione. Sembrava che non ci fosse niente di rotto. Tese il collo, guardò a terra. La luce ancora non era penetrata. Sotto di lui le immagini erano indistinte.

Prese in considerazione di scendere lungo il tronco dell’arbusto. Poi, ricordando i ragni, esitò. Scrutando attraverso i rami scorse una ragnatela. Gettò un ramoscello nella ragnatela e una creatura nera grossa come un gatto uscì a precipizio dall’ombra una zampa dopo l’altra, rimbalzò sul ramoscello; poi, lentamente, gettando via il ramoscello con rammarico, se ne ritornò alla tana buia.

Gardius distese braccia e gambe, si mise più comodo sul ramo. Era vivo, e già era più di quanto si fosse aspettato. Dai rami dell’albero delle sfere riusciva a vedere a circa cinquanta piedi prima che lo sguardo si perdesse nel grigioverde e nell’intrico color prugna. L’aria odorava di terra fredda e bagnata, con tracce di muschio animale e un dolce putridume vegetale.

Ramus, il sole rosso, galleggiava alto. Gardius si mosse dal suo trespolo, si arrampicò un poco più in alto tra i rami. Uno strido gutturale echeggiò nella giungla, seguito da un grande fracasso. Gardius rimase immobile, fisicamente spaventato per la prima volta da quando si era ridestato alla coscienza.

Dopo un momento si arrampicò ancora per alcuni piedi, e altri grandi globi che fungevano da baccelli si staccarono e volarono via nella luce rossa del sole.

Gardius fece l’inventario della sua borsa: un lungo coltello a serramanico, un alimentatore per il raggio termico, l’ormai inutile sacco dell’iniettore, un rasoio a secco, denaro, una fionda per lanciare dardi avvelenati, una dozzina di dardi, una scatola di compresse vitaminiche. Molto poco per aiutarlo ad attraversare cento miglia di fango molle, boscaglia e foresta intricata, e niente con cui nutrirsi. Si chiese come sarebbero stati i ragni. Non aveva modo di accendere un fuoco. Avrebbe dovuto mangiarli crudi.

Guardò lontano nella direzione della terraferma. Quel giorno Arman sarebbe partito per Maxus con seicento Otro. Quel giorno a che ora, mattina, pomeriggio, sera? Gardius guardò attorno a sé la giungla, in alto il cielo rosato, e sotto la melma.

Arman, Mardien, gli Otro, Maxus, avevano tutti perduto importanza, come eventi visti dall’estremità sbagliata di un telescopio. E se Arman fosse partito quel giorno? Oggi, domani, ieri, era indifferente per un uomo ingoiato e scomparso. Cambiò posizione. I suoi movimenti disturbarono altre bolle, che si alzarono, vennero afferrate dalla brezza e portate lontano.

Gardius fissò i globi, la ragnatela, e i suoi pensieri presero un nuovo corso. Improvvisamente si scosse, il tempo riprese significato. Quando sarebbe partito Arman da Fell? In fretta, si disse Gardius, doveva fare in fretta. Voleva vivere.

Alcune ore più tardi diede un’ultima occhiata alla piccola radura. Da un lato erano ammucchiate le sterpaglie che aveva tagliato. Dall’altro c’era un cumulo di ragni morti, dozzine, di tutte le dimensioni, da creature color della sabbia grandi come la sua mano, agili sulle zampe elastiche, a un mostro obeso grande quasi come lui stesso.

Quello l’aveva combattuto per venti minuti di sudore, usando il coltello e la lancia cauterizzante che aveva costruito con l’alimentatore e un lungo bastone. I due grandi occhi del ragno erano esattamente alla stessa distanza che c’era tra i due morsetti scoperti. Gardius l’aveva accecato quasi subito, ma nella creatura c’era una vitalità talmente inesorabile che era riuscita a individuare Gardius altrettanto bene senza occhi.

Con un’ostinazione esasperante e carica d’odio il ragno gli aveva dato la caccia tutt’attorno alla radura, nella melma fumante. Indietreggiando Gardius gli aveva spezzato le zampe. Finalmente il ragno era barcollato in un mucchio di peli e zampe affusolate, e Gardius era crollato, ansimando, contro il tronco dell’albero delle sfere.

Girò le spalle alla radura. Sopra la sua testa ondeggiava alto un gruppo di globi, centinaia e centinaia, ognuno assicurato con un filo di ragnatela a una corda centrale.

Non c’era più nulla che potesse trattenerlo. Scivolò sul seggiolino che aveva tagliato da un pezzo di radice, si chinò, e tagliò la corda con il coltello. La fune di ormeggio si schiantò, e il pallone sollevò Gardius dal terreno fradicio, lontano dalla radura con il mucchio di ragni morti, su nella luce rossa di Ramus.

La brezza lo afferrò e lo portò verso la terraferma.


Andò alla deriva per tutto il giorno. Il vento che soffiava verso le pianure calde lo sospingeva senza sosta. Gardius calcolava che la sua velocità si aggirasse tra le dieci e le quindici miglia all’ora. Per percorrere cento miglia ci sarebbero volute otto, dieci ore, sarebbe stata notte. Troppo tardi. Si agitò nell’imbracatura, guardò avanti, nel bagliore rosato: nient’altro che la grande scodella di melma, foglie, rami.

Ramus attraversò il cielo, scese ruotando sull’orizzonte, e finalmente Gardius vide il profilo viola delle montagne che scintillavano come lamé. Allora ritornò il pieno significato della sua esistenza, l’assoluta urgenza della sua rapidità. Ma il vento non soffiava più forte, anzi avvicinandosi la sera diminuiva, e Gardius veniva sospinto blandamente nell’aria serica.

La notte scese prima che potesse vedere sotto di sé gli appezzamenti di terra coltivata. All’istante liberò una dozzina di globi e scese a terra.

Dolorante, rabbioso, esultante, impaziente, si alzò sulla terraferma in uno dei campi spazzati dal vento e costellati di funghi immaturi. Il mazzo di bolle scomparve nella notte. Attraversò il campo al piccolo trotto, saltò un fossato, girò intorno a un campicello di granoturco, trovò una strada. In lontananza scintillava un gruppo di luci.

Con i piedi gonfi, sofferente, affamato, assetato, Gardius entrò nel villaggio. Si fermò a una taverna con i muri fatti di terra grumosa. Un’insegna appesa sopra la strada diceva Al Gaio Caunbal, con sotto un pesce fosforescente verde e giallo.

Gardius spinse la porta di assi e l’aprì; entrò in una stanza acre dell’odore di cibo e bevande. Si lasciò cadere su una sedia a un lungo tavolo, e una donna grassa e impassibile, al suo comando, gli portò stufato, pane, e birra gialla e spumosa. Si riempì la bocca, tracannò la birra, si guardò attorno per la stanza. «Dov’è il telefono?» chiese alla donna.

La faccia scura della donna si raggrinzì in uno spasmo di innocente ilarità. Indicò sopra la sua testa. «Ti sta quasi tra i capelli.»

Gardius si alzò, sfogliò la guida, compose il numero. La linea si collegò con un sibilo, una voce disse: «Spazioporto, parla Jeotsa.»

«La nave di Arman è decollata oggi?»

Ci fu una pausa, poi: «Sì, è decollata. È partita questo pomeriggio.»

Le spalle di Gardius si incurvarono Era incapace di muoversi e di parlare. La voce all’altro capo disse: «Si dice che si sia solo spostata da qualche parte su Alam. Forse è ancora sul pianeta. A quanto ne so non c’è un campo lassù, e non so dove potrebbe atterrare. Gli Otro sembra che abbiano i carboni ardenti sotto i piedi.»

«Dov’è la loro più grande pista d’atterraggio?»

«Non ne hanno. Qualche volta le aeromobili atterrano a Solveg.»

Gardius riappese. Chiamò la donna grassa «Dove posso trovare un velivolo?»

Il volto della donna mostrò interesse. «Mio figlio ti porterà dove vuoi. Ma il denaro, dov’è il tuo denaro?»

Gardius ringhiò. «Verrà pagato. Fallo venire subito qui davanti.»

Si buttò in bocca dell’altro cibo, e bevve birra fino a quando udì il ronzio e il sibilo delle eliche fuori dalla finestra.

Lasciò una moneta d’argento sul tavolo, corse all’esterno, saltò nel velivolo. «Sulle Terre Alte di Alam. A Solveg, se sai dove si trova.»


L’altopiano mostrava scure colline ondulate e valli spruzzate di luci colorate come un immenso, irreale paese dei balocchi.

Il pilota disse: «Quella è Solveg e quello è il campo. Vuoi che atterri?»

«No, basta che voli basso.»

Alla luce dell’umido satellite rosa il campo era deserto. Gardius disse: «Vai a nord, alla punta estrema delle Terre Alte.»

Volarono per venti minuti. I villaggi correvano via sotto di loro. Poi fu la volta della foresta scura, e finalmente la brughiera dove sorgeva il villino dal tetto a punta di Arman. A cento iarde di distanza giganteggiava la nave nera. La luce balenava fioca dal portello d’entrata, e da uno o due oblò. Per il resto la nave era immersa nel buio.

«Fammi scendere,» disse Gardius. «In silenzio.»

Gli venne in mente che non aveva armi. Chiese al pilota: «Hai una pistola, un raggio termico, esplosore, ionico, qualunque cosa? Ti pagherò bene.»

Il pilota lo guardò in tralice. «No. Perché hai bisogno di un’arma?» Poi, come pentendosi dell’audacia della domanda — perché Gardius, con i vestiti macchiati, la faccia smunta e contusa e gli occhi infuocati non invitava certo alla confidenza — distolse gli occhi.

Gardius non gli diede risposta. Il velivolo si posò a terra. Gardius tirò fuori un biglietto dalla borsa. «È abbastanza?»

Il pilota assentì con un borbottio, e subito si sollevò in aria.

Gardius si fermò a guardare la nave nera, barcollando un poco. Avrebbe dovuto essere lucido, vigoroso, ma aveva la vista annebbiata e si sentiva le braccia e le gambe pesanti, idropiche. La fatica gli ottundeva il cervello, impedendogli di essere vigile e attento.

Non aveva altra arma oltre al suo coltello, e Arman era sicuro di sé e arrogante sulla nave nera. Udì un rumore di passi bruschi e decisi sulla ghiaia. Ritirandosi nell’ombra vide due uomini avvicinarsi alla nave ed entrare. Dall’interno udì il clangore del metallo.

Gardius si passò una mano sul viso. Tempo… aveva bisogno di tempo per riposare, per recuperare le sue facoltà. Ma non c’era tempo.

Rinfrancò la mente, racimolò energia pensando alla sua risoluzione. Il coltello era sufficiente, avrebbe ucciso rapidamente quanto un raggio termico. E quando Arman fosse morto c’era il velivolo, che lo aspettava nel bosco, e la sua navicella al campo d’aviazione di Huamalpai, e poi lo spazio.

Trasse un respiro profondo, distese i muscoli contratti delle spalle. Il primo luogo da perlustrare era il villino…

Mentre si avvicinava la sua cautela svanì, e al suo posto insorse un’irragionevole rabbia. Perlustrare? No. Avrebbe aperto la porta, sarebbe entrato. Arman non avrebbe certo aspettato una simile visita.

Percorse il vialetto, e il bizzarro tetto a punta lo sovrastò, e giunse infine all’altrettanto bizzarra porta a tre dischi. Tirò il chiavistello, e i tre dischi ruotarono all’interno, due a destra e uno a sinistra. La luce lo inondò.

Un passo lo portò in mezzo alla stanza. Con gli occhi frugò gli angoli, dietro i lunghi mobili avvolgenti. La stanza era vuota. Aprì tutte le porte, ascoltò. Da una giungeva uno sgocciolio d’acqua, da un’altra un sussurro di vento, silenzio dalla terza.

Gardius ritornò all’esterno, guardò la nave in fondo al campo. Arman doveva essere a bordo. Con Mardien? Con seicento Otro? Da solo? La nave era circondata da un alone di imminenza, come se già si stesse staccando dal suolo. Gardius si avvicinò nell’oscurità violacea. Poteva entrare nella nave, oppure aspettare vicino al portello.

Come un fantasma salì la rampa, guardò all’interno. Davanti a lui c’era un corridoio con file di armadietti metallici. Un uomo con un grembiule verde chiaro stava spingendo involti di frutta a grappolo giù per uno scivolo. Gardius si sfilò un sandalo, gli si avvicinò e lo colpì alla testa. L’uomo si accasciò. Gardius gli tolse il grembiule, lo indossò sopra i vestiti macchiati, imbavagliò l’uomo con un fazzoletto, gli legò i polsi con la cintura, annodò assieme i lacci dei sandali e lo chiuse in un armadietto.


Si guardò attorno cercando di orientarsi. Sopra di lui il soffitto si piegava in un arco convesso: il pavimento della parte centrale del meccanismo che occupava tutta la lunghezza della nave. Lungo il perimetro c’erano delle rampe. In fondo al corridoio c’erano le stive per i passeggeri, che comunicavano tramite le rampe con il corridoio dove si trovava. Da lì saliva la doppia scaletta verso la cupola dei comandi e gli alloggi dell’equipaggio.

Gardius socchiuse appena una porta che dava in una delle stive. Alle sue orecchie giunse il rumore di una moltitudine di respiri. Chiuse la porta. Seicento Otro, drogati e stivati per il trasporto. Seicento Otro pazzi.

Per un po’ camminò, poi corse lungo il corridoio, e con il coltello in mano si arrampicò sulla scaletta. La cupola di comando era deserta.

Una luce azzurra sul pannello brillava vivida. Sotto c’era una scritta a lettere bianche: Pronto. Gardius, con la testa tesa in avanti come un animale in caccia, guardò ovunque. Dov’era Arman? E dov’era l’equipaggio?

Fece scorrere il pannello che dava sulla passerella diretta al nucleo centrale. Allora udì delle voci, vide una mezza dozzina di uomini intorno a una turbina, mentre uno di essi stringeva un perno con una chiave. Riparazioni. Dov’era Arman? Nel capannello di figure scure? Non poteva esserne sicuro. Ce n’era uno, un uomo grande e grosso, che forse…

Arman salì la scaletta dietro di lui. Gardius udì il rumore felpato dei passi, si girò di scatto con il coltello che luccicava.

Arman aveva un’arma spianata. Sorrideva, un sorriso esagerato che sembrava più una smorfia. I denti splendevano come cunei di ghiaccio. «Stai fermo, amico, stai fermo.» Abbassò la testa, lo guardò meglio. «Tu! Ancora tu?» La sua espressione cambiò. «Ero sicuro di averti ucciso.»

Gardius ondeggiò appena, spostando gli occhi dall’arma alla faccia di Arman. La morte… forse era questo che era andato a cercare, precipitandosi lì alla cieca. La morte l’avrebbe sollevato da tutti i suoi problemi. Era un pensiero debole, un pensiero di resa. Fece un piccolo passo avanti.

«Stai fermo,» disse Arman. «Dimmi, quel ragazzo non mi ha obbedito?»

«Sì,» disse Gardius. «Ti ha obbedito.»

«E tu ti sei rifiutato di cadere, e sei tornato in volo come un antrocoro?»

«Sono tornato in volo.»

«Butta quel coltello!» disse Arman. Gardius chinò lentamente la testa, piegò le spalle in una gobba. «Muoviti!» latrò Arman. «O ti stacco la mano con una fiammata!»

Gardius lasciò cadere il coltello.

«So tutto di te,» disse Arman. «Speravi di portarmi su Maxus… vivo. Per la tortura.»

Gardius non disse nulla.

«La notte scorsa,» disse Arman, «ho permesso al mio temperamento di interferire con l’intelletto. Un uomo è una proprietà di valore. Troppo di valore per gettarlo nella palude. Un uomo come te si venderà per duemila milreis ad Alambar. Perciò…» Alzò la voce. «Kyle!»

Ci fu uno scalpiccio di piedi lungo l’inferriata della passerella. Un uomo basso e tarchiato in tuta si affacciò nella stanza. Aveva un volto scuro, percorso da rughe, e occhi come prugne secche. Chiese: «Che cosa desideri?»

«Vaporizza quest’uomo.»

L’uomo tarchiato, senza mutare espressione, si girò verso uno stipetto e ritornò con un ipo vaporizzatore. Lo applicò al collo di Gardius, e subito ci fu il sibilo acuto della droga vaporizzata.

Arman disse: «Tra un minuto sarai addormentato, e ti risveglierai ad Alambar. Un uomo più vendicativo di me potrebbe punirti, ma il ricavato dal tuo corpo sarà utile. Ogni ana sarà utile.»

Gardius sentì una lenta marea salirgli alla testa come una vertigine. Gli si piegarono le ginocchia, le braccia si rilasciarono. Vide Arman che sorrideva leggermente fare un cenno al piccolo uomo scimmiesco perché lo prendesse. Mentre i suoi occhi si appannavano vide una donna salire la scaletta verso la cabina. La nebbia invase il suo campo visivo. Avrebbe potuto essere Mardien.


Sentì delle dita sulla faccia, un ronzio nelle orecchie, una vibrazione al cuoio capelluto.

Aprì gli occhi. Un vecchio con un rasoio elettrico gli stava tagliando i capelli. Gardius si drizzò a sedere di scatto. Era in una grande stanza piastrellata di bianco, su una lastra di ardesia grigia che sentiva fredda e umida sotto di sé. Era nudo.

La sensazione di umido e la vista di una canna sul pavimento gli fecero capire che era stato lavato. Attorno a lui su altre lastre giacevano circa cinquanta uomini e donne, tutti nudi, tutti bagnati e luccicanti. Altri due inservienti stavano lavorando con i rasoi elettrici.

Sentì una costrizione al polso. Abbassò lo sguardo. Era ammanettato. L’inserviente arrivò con una chiave e gli tolse le manette. «Qualche volta i nuovi arrivati sono nervosi — rabbiosi, capisci — quando si svegliano,» disse in tono quasi di scusa.

Gardius si rilassò sulla lastra. «Suppongo di essere ad Alambar.»

«Corretto,» disse l’inserviente.

«Al Distributore.»

«Corretto.»

Gardius osservò rigidamente la stanza. «E questi altri erano nello stesso mio carico?»

L’inserviente annuì. «Seicento in un colpo. Il carico di Arman.»

«Da quanto tempo sono qui?»

«Siete stati scaricati questa mattina.»

Gardius si alzò in piedi, barcollò un poco. Gambe e braccia erano pallide; i tessuti sembravano flaccidi, deteriorati. L’inserviente disse: «Un giorno o due di buon cibo ti faranno ritornare come nuovo.»

«Dove sono i miei vestiti,» borbottò Gardius. «Devo andarmene da qui.» Poi con rabbia: «Dove sono i miei vestiti?»

L’inserviente tirò su col naso. «Stai buono, amico, buono. Gridare non serve mai. Adesso sei marcato con un circuito penale, e ti strineranno la pelle con qualunque scusa le prime settimane. Si divertono a vederti lottare e ruggire. È l’unico svago che hanno.»

«Voglio vedere l’Alto Ricognitore,» borbottò Gardius.

«A suo tempo, a suo tempo. Dillo a uno dei Sommi. Io non sono altro che uno schiavo come te.»

Gardius ricadde sulla lastra. Il tempo passò. Altri si mossero spasmodicamente, si sedettero. Gardius guardò una faccia dopo l’altra. Se gli Otro fossero stati pazzi ci sarebbero state bizze, attacchi di isterismo. Ma si mantenevano in perfetto ordine e serietà.

Erano uomini e donne che avevano oltrepassato il primo ardore della gioventù. Gli uomini non erano né muscolosi né appesantiti; le donne non erano né formose né bellissime. Quegli uomini e quelle donne non sarebbero stati assegnati né ai lavori pesanti né alle camere da letto. Potevano benissimo venire addestrati per attività tecniche.

Suonò un campanello, una porta si aprì, e una guardia in uniforme nera entrò nella stanza. Aveva in mano un frustino leggero e flessibile che agitava con disinvoltura. Gardius, incontrando i suoi occhi, sentì la rabbia ribollirgli dentro.

La guardia disse: «Titus, questo è un gruppo beneducato. Neanche un urlo. Bene, quelli di voi che sono vivi, in piedi adesso. Mettetevi in fila e seguitemi. Passerete dallo spaccio e ognuno di voi prenderà un completo di biancheria, un camiciotto, un paio di sandali, niente di più, niente di meno. Svelti, adesso, cerchiamo di essere un po’ vivaci e di partire con il piede giusto.» E fendette l’aria con il frustino.

Vennero fatti sfilare davanti a un bancone, dove ricevettero i vestiti, e davanti a una scrivania dove venne loro appeso al collo un distintivo. Poi gli uomini vennero diretti attraverso una porta e le donne attraverso un’altra.

Gardius si trovò un lungo salone bene illuminato, con la facciata a vetrine. Era una stanza familiare, come la stanza in cui aveva visto Mardien per la prima volta. All’incirca altri cinquanta uomini erano nel salone; alcuni camminavano a capo chino, imbronciati, altri fissavano il vetro senza nessuna espressione. Pochi parlavano a voce bassa e cupa. Un ragazzo tirava su col naso tristemente.

In fondo alla sala c’era uno schiavo corpulento coi capelli rossi e una divisa nera e verde, un piantone che evidentemente godeva della propria posizione. Gardius gli si avvicinò, e incontrò un paio d’occhi freddi e assenti come quelli di un ranocchio.

Gardius disse: «Come posso usare un telefono?»

«Non puoi. I giorni in cui potevi telefonare sono finiti.»

«Voglio chiamare l’Alto Ricognitore. È un mio amico.»

Il piantone trovò l’osservazione divertente. «E io sono lo zio del Patriarca.»

Con voce misurata, Gardius disse: «Chiama il responsabile.»

«Io sono responsabile.»

«Allora se c’è anche un minimo ritardo, la responsabilità è tua.»

La guardia sbatté le palpebre. Dopotutto, erano accadute cose ancora più strane. «Solo un minuto.»

Andò alla porta, chiamò attraverso uno schermo, e un minuto dopo il Sommo caporale apparve all’esterno. Il piantone indicò Gardius con un movimento del pollice. «Quell’uomo dice che è amico dell’Alto Ricognitore. Vuole telefonargli.»

Il caporale sollevò le nere sopracciglia, sorrise indulgente. «Qualcuno pretende di essere il Messia in persona.»

Gardius disse pazientemente: «Voglio parlare con l’Alto Ricognitore al telefono o al teleschermo. Vi dico che lavoravo per lui. Sono qui per sbaglio. Ve la passerete dura se lo ostacolate.»

Il sorriso svanì dalla faccia magra e sarcastica. «Andiamo, allora. Vedremo. Te ne pentirai se stai solo creando fastidi.»

Portò Gardius in un ufficio centrale, dove Gardius raccontò la sua storia a un luogotenente in un’uniforme attillata nera e oro. Il luogotenente indicò un teleschermo. «È lì. Usalo. Titus lo sa, io mi faccio da parte dove cammina l’Alto Ricognitore.»

Gardius guardò il quadrante, premette il bottone che diceva «Ufficio Centrale». Sullo schermo apparve una stella a sette punte, e una voce disse: «Connessione.»

«L’Alto Ricognitore,» disse Gardius.


Apparve un volto aggrottato, una faccia con folte sopracciglia nere, una zazzera ispida di capelli, un naso a becco. «Ebbene?»

«Voglio parlare con l’Alto Ricognitore,» disse Gardius.

«E tu chi sei?» I suoi occhi passarono in rassegna la faccia e l’abbigliamento di Gardius. «Sei uno schiavo. Dov’è il tuo rispetto?»

«Sono Jaime Gardius. Di’ all’Alto Ricognitore che Jaime Gardius vuole parlargli.»

Grugnendo l’uomo si girò, parlò in una griglia, parlò ancora. Si voltò verso lo schermo. «Dice che non ti conosce.»

Dietro a Gardius il luogotenente e il caporale si mossero irrequieti. Disperato, Gardius tentò ancora. «Digli che ci siamo visti per Arman, un mese fa. Che mi ha mandato a inseguirlo.»

L’uomo si girò di nuovo, parlò nella griglia, annuì, parlò ancora. La sua faccia scomparve. Gardius si trovò a guardare nella faccia stretta dell’Alto Ricognitore.

«Ah, Gardius,» disse l’Alto Ricognitore, e rise di una risata esile e allegra. Gardius stette cupamente in silenzio, e arrossì. L’Alto Ricognitore disse infine: «Tutto ciò è ridicolo e triste. Ti ho mandato perché mi riportassi Arman, e invece Arman ti vende al Distributore come schiavo. Non è una farsa?»

«Una farsa davvero,» convenne Gardius. «Comunque, se mi tiri fuori da questo recinto, sarò felice di riprovarci.»

L’Alto Ricognitore scosse la testa. «Ah, mio caro amico, temo di essere impotente. Ormai sei fuori dalle mie mani. Il Patriarca sarebbe indignato se mi immischiassi con le forniture di manodopera. Potevo trattare con te quando avevi un permesso di visitatore. Allora eri inviolabile.

«Ti ho chiesto che mi portassi Arman. Invece è lui che mi ha portato te. Non ti voglio male, ma non ho per te nemmeno gratitudine. No, Gardius, per Maxus vali più come operaio che come rapitore. Servi bene, comportati bene, e fai che non senta più parlare di te.»

Lo schermo si spense.

Gardius rimase a fissarlo, con la bocca ancora piena di parole. Dietro a lui il luogotenente disse con voce pratica: «Riportatelo nel salone.»

Gardius si abituò alle costanti perizie effettuate nel salone. Sovrintendenti al personale con occhi rigorosi valutavano la sua resistenza, la forza, la flessibilità. Signori alla ricerca di azzimati lacchè consideravano il suo equilibrio e il portamento. Le signore delle grandi case di città adorne di colonne, che cercavano valletti e servitori, studiavano il suo fisico e i suoi lineamenti.

Una faccia dal naso ossuto e le labbra sottili attirò la sua attenzione. Guardandolo, il proprietario della faccia corrugò perplesso la fronte, poi si girò eccitato verso un compagno e lo indicò. Gardius lo riconobbe. «Lord Spangle,» mormorò fra sé. «Sono nei guai.»

L’asta era quello stesso pomeriggio. Ad uno ad uno gli occupanti del salone vennero chiamati fuori nell’arena. Il turno di Gardius venne quasi subito. Uscì e rimase immobile a guardare duramente verso la folla.

Il banditore gli sussurrò: «Cerca di assumere un atteggiamento piacevole, ragazzo, ci sono delle signore. Se non riesci ad accaparrarti una signora, sono le miniere o i metalli pesanti, è lì che hanno bisogno di uomini rudi come te. Quindi sii amabile e sorridi alle donne che fanno delle offerte, e forse ti guadagnerai un morbido letto.»

Alzò la voce. «Un uomo da Exar, avvenente e con muscoli sviluppati. Guardate il torace eccellente, osservate il collo diritto, i piedi forti. Un uomo valido in ogni campo, perciò, signore e signori, fatemi sentire le vostre offerte.»

«Ottocento milreis.»

«Ottocento e cinquanta»… «Novecento e cinquanta…» Dicevano le voci impassibili e caute degli addetti agli impianti industriali.

«Mille milreis,» disse una voce roca, con un tono giulivo. Gardius la riconobbe, era quella di Lord Spangle. Suo malgrado Gardius si guardò attorno, e incrociò gli occhi di Spangle. Spangle stava sussurrando da dietro la mano nell’orecchio di un uomo con un sontuoso farsetto giallo e verde, nel quale Gardius riconobbe Lord Jonas.

Con voce esitante, una donna disse: «Mille e cento.»

«Mille e cento e cinquanta,» disse uno dei sovrintendenti. Gli altri tacquero, e si rilassarono ai loro posti.

«Mille e duecento,» disse Spangle con rapidità e sicurezza.

Il banditore disse: «Andiamo, signore, signori, un po’ più di brio. Su la voce, su la voce! Questo è un uomo di valore. È intelligente, ha studiato al Collegio Tecnico di Exar. È un ingegnere qualificato, sagace e affidabile. Parlate, adesso, parlate. Chi dice mille e cinquecento?»

Uno dei sovrintendenti fece per muoversi, ma una donna grossa e ossuta levò un dito. «Mille e trecento.» E il sovrintendente rimase calmo al suo posto.

Con voce suadente Spangle disse: «Mille e quattrocento.»

«Mille quattrocento e cinquanta,» disse la donna con voce decisa.

Jonas rise a un commento di Spangle e disse: «Mille e cinquecento.»

«Mille e seicento,» disse Spangle guardando Jonas con aria di rimprovero.

La donna ossuta tirò su col naso e distolse lo sguardo.

«Mille e seicento? Mille e seicento?» abbaiò il banditore. «Ho sentito mille e settecento?»

«Mille e settecento,» disse una voce acuta vicino alla parete.

«Mille e ottocento,» disse una donna dal fondo.

«Mille e novecento,» disse Spangle acidamente.

«Duemila,» disse la donna.


Spangle, un poco a disagio, mormorò qualcosa a Jonas, poi si strinse nelle spalle. «Duemila e cento.»

«Duemila e duecento,» ancora la donna.

«Un’offerta di duemila e duecento,» gridò il banditore. «Un uomo bello e valido, un buon lavoratore, lo garantisco. Duemila e trecento? Chi dice duemila e trecento?»

Silenzio. Spangle aprì a metà la bocca per parlare, poi la richiuse fissando l’impassibile Gardius con un astio da serpente.

«Venduto allora!» gridò il banditore. «Venduto alla signora per duemila e duecento milreis.» Si girò verso Gardius. «Scendi, e vai alla scrivania per la registrazione.»

Gardius attraversò l’arena senza una parola, e si avvicinò alla donna che era già al tavolo. La guardò, e i suoi passi vacillarono. «Mardien!»

Mardien sorrise, e Gardius vide che aveva gli occhi umidi. «Era il meno che potessi fare per te, Jaime.»


Fuori sotto il cielo grigio del tardo pomeriggio, fuori sullo svincolo, oltre i magazzini di mattoni neri, bui e sudaticci. Attraversarono un tunnel, e, quando uscirono di nuovo nella luce, la nebbia umida accarezzò loro le guance. Oltrepassarono le eleganti case di città, percorsero un altro tunnel freddo e bagnato, e si ritrovarono nel frenetico cuore di Alambar.

Gardius, imbarazzato per non avere mai appreso l’arte della conversazione aggraziata, disse: «Suppongo di doverti ringraziare.» Poi fece una pausa, a disagio.

Mardien girò la testa. «Ebbene?»

Gardius rise. «Grazie. Anche se non capisco perché tu… mi hai salvato. Un paio di settimane fa eri felice di vedermi morto. Mi hai sparato tu stessa.»

«Questo è stato due… o meglio, tre settimane fa. Da allora ho pensato molto. E credo, in queste tre settimane, di essermi lasciata alle spalle la giovinezza.»

«Lì c’è una taverna,» disse Gardius. «Sediamoci.»

Era un edificio piatto di mattoni smaltati, con una porta quadrata di legno dipinta di rosso ruggine. L’interno era caldo e tranquillo. La luce filtrava dalle finestre di vetro decorato, e cadeva gradevolmente sui tavoli dove si sedettero.

Vennero loro serviti cracker e pesci salati, e poco dopo una grande bottiglia panciuta di vino caldo, che nei tazzoni splendeva contemporaneamente di color verde acqua e rosa. Guardando Mardien dall’altra parte del tavolo, Gardius si rilassò del tutto. Mardien si sporse verso di lui, gli prese una mano con entrambe le sue. «Jaime… sono confusa.»

«Devi avere raggiunto qualche conclusione, o non saresti venuta a prendermi.»

Mardien si morsicò un labbro, esitante. «Non lo so. Ci sono tante incertezze, tante opinioni su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.»

«La certezza è dentro di te. Si sta solo facendo riconoscere.»

Con un sorriso mesto Mardien gli chiese: «E tu come fai a esserne così sicuro?»

«Perché sei qui con me. Invece di essere con quel tuo… invece di essere con Arman.»

L’ultima parte della frase era così evidentemente intrisa di amarezza che Mardien ritirò la mano. Poi disse: «Jaime, io credo che tu sia davvero geloso. Ti ho accusato una volta, ma non lo credevo. Lo sei davvero?»

«No. Sarei un presuntuoso.»

«Ma lo sei, vero?»

«No. Nella mia vita non c’è posto per… per le donne.»

«Intendi dire una donna come me, giusto?»

«Suppongo di sì.»

«Jaime, io non sono, non sono mai stata, non ho mai voluto essere altro per Arman se non una seguace, un’Armanita.» Distolse lo sguardo, arrossì un poco. «Se puoi tollerare un entusiasmo perfettamente normale e la venerazione per un eroe. Avrebbe potuto avermi se fosse stato meno ambiguo.

«Se mi avesse presa, con disinvoltura, come un utensile o un capo di abbigliamento, io mi sarei concessa felicemente, fiera di servire un dio. Ma ha tentato di corteggiarmi come un essere umano al mio stesso livello, e io ne sono stata turbata. L’ho respinto. Ho scoperto una cosa, Jaime. Arman è un debole.»

Gardius bevve il vino, insolitamente a proprio agio. «Ha bisogno di uccidere.»

Più vagamente, Mardien disse: «Il suo corpo esige rispetto. Ed è svelto a usare questo rispetto. È abile con la lingua, ma non ha forza interiore, Jaime. Quando stavate lottando, tu eri battuto. Eri quasi morto. Lo vedevo. Ma rifiutavi di smettere. Arman ne ha avuto paura, e si è arreso. Quando è caduto a terra, è rimasto sdraiato lì passivamente. È una perversità da debole, ch… mi ha disgustato, Jaime.»

«Dov’è adesso?»

Mardien lo guardò seriamente. «Jaime, quando ti ho aiutato non ho posto condizioni. Vorrei porne una adesso.»

«Quale?»

«Che tu non faccia nulla senza prima parlarne con me.»

Si era sporta sul tavolo, di nuovo gli aveva preso una mano tra le sue. Gardius gliele coprì con l’altra mano, strinse. Mardien rispose alla sua stretta, i loro occhi si incontrarono. Gardius sospirò. «Non sono destinato a condurre una vita tranquilla, Mardien.»

«Nemmeno io, Jaime. Saremo felici insieme.»

Gardius disse, con voce sommessa: «Non mi riposerò fino a quando ci saranno schiavi e mercanti di schiavi. Ne ho sofferto troppo.»

«Nemmeno io, Jaime.» Si riappoggiò allo schienale, si lasciò scivolare fino ad avere le spalle e i fianchi sulla stessa diagonale, con le gambe tese in avanti. «Pensavo che Arman promettesse di porre fine alle cattiverie. Ma adesso ne dubito, Jaime. Arman potrebbe essere stato fuorviato.»

Gardius sbuffò. «Fuorviato, è una parola debole per un assassino, uno sfruttatore, un mercante di schiavi, uno stregone.»

Mardien rabbrividì. «Lo so, Jaime. Odio persino pensarci. Perché adesso seicento Otro sono stati tolti alle loro case e condotti in schiavitù.»

«Ma perché?» esclamò Gardius. «Perché? Non vedo nessuna logica. Voi Otro siete davvero pazzi?»

Mardien scosse la testa. «Ovviamente no. La gente dice che siamo pazzi perché siamo individualisti.»

«Siete uno strano popolo, sono d’accordo.»

«Sì, lo siamo, ma non nel modo che credi tu. La nostra stravaganza superficiale, i nostri vestiti, le case, le affettazioni, sono soltanto un riflesso della nostra diversità interiore, e questo è il segreto della nostra razza.»

Gardius, senza parole, bevve ancora un po’ di vino.

«La nostra vittoria sulla morte.»

Gardius la osservava in silenzio.

«Jaime, io ti amo. Unisco la mia vita alla tua. Già una volta sono stata disposta a fare di te uno di noi. Ti amavo allora, ma non volevo ammetterlo nemmeno a me stessa. Me ne sono accorta e mi ha sorpreso.»

«Non posso diventare un Otro senza aiuto?»

«Oh no. All’inizio ce n’era solo uno, Sagel Domino. La differenza era nel suo cervello. Era fortemente telepatico, sapeva leggere con facilità nella mente, e pensò: «Perché dovrei morire? Se appena prima di morire posso raggiungere un rapporto, un’identità di coscienza con qualcun altro, questo mio corpo se ne andrà, ma la mia coscienza supererà il divario, sopravviverà, e io vivrò per sempre.»

«Si è messo in contatto con il suo migliore amico, ha stabilito un rapporto. E poi scoprirono che il rapporto aveva stimolato il cervello dell’amico, e che anche lui era un Otro. Non era telepatico quanto lui, ma poteva creare il rapporto. Rese Otro alcuni suoi amici, e le loro mogli, e così fece Sagel Domino.

«E adesso siamo in diversi milioni, qualcuno telepatico, qualcuno no. Ma nessuno di noi teme la morte. Quando siamo in pericolo costruiamo un rapporto con qualcuno che ci ama, e la nostra coscienza supera il divario, come un uomo che passa da una nave che affonda a una integra.»

Gardius fece una smorfia. «Sembra che ci sia poca privacy tra di voi.»

Mardien scosse la testa con foga. I setosi capelli biondi si aprirono a ventaglio. «Sì, invece! La nuova anima non avanza pretese. Non c’è conflitto di volontà. La vecchia coscienza ottiene una continua consapevolezza senza interruzione. I vecchi ricordi, poiché non sono saldamente incanalati nei gangli, in breve tempo vanno perduti, ed esiste solo la sensazione di continuità.

«Per la persona che sta per morire è come posare un libro interessante e prenderne un altro. E per la persona che continua a vivere — poiché intratteniamo un rapporto solo con chi amiamo — è la felicità di essere d’aiuto, felicità di sostenere la vecchia personalità.»

Gardius la guardò incuriosito. «E quante persone ci sono dentro di te?»

Mardien trasalì. «Jaime… tu non capisci! Io sono io. Io sono me stessa! Anche se quaranta persone avessero superato la morte in me io sarei sempre me stessa. Infatti, come puoi renderti conto, noi compensiamo con atteggiamenti eccessivamente singolari. Siamo consapevoli del bisogno di individualismo, e della necessità di rassicurare costantemente tale idealismo. Forse esageriamo.

«Altre razze raggiungono una pace malinconica rendendosi simili per quanto possibile, identificandosi esteriormente con la razza. La nostra identificazione è interiore. I simboli esteriori di perseveranza sono superflui. Non ci sono tombe sulle Terre Alte di Alam, non c’è accumulo di ricchezza.

«Mia madre amava il suo giardino. Aveva molti fiori. È morta e tuttavia è vissuta in me. Io non ho alcuna passione per fiori o piante. Mi preoccupo della gente e del futuro e delle piaghe sociali. Così vedi che il legame è solo di consapevolezza. È come se tu volassi sulla regione, e raccogliessi un passeggero; il passeggero si gode il viaggio con te, ma a poco a poco diventa parte del velivolo.»

«Che cosa hai provato quando tua madre è entrata in te?»

«Solo una grande gioia per poterle essere d’aiuto,» disse Mardien seriamente. «Come se l’avessi salvata dall’annegamento. Ho sentito la sua presenza per alcune settimane, come se fosse nella stanza con me, era molto piacevole. Poi gradatamente si è confusa completamente in me.»

«E Arman,» chiese Gardius, «anche lui è un Otro? Vivrà dopo la sua morte?»

Mardien arrossì, annuì con espressione vergognosa. «Sua madre era una Otro. Una dei pochi Otro che i Sommi abbiano mai reso schiavi. Di solito noi Otro ci uccidiamo e sfuggiamo così alla schiavitù.»

«Ma con chi è in rapporto Arman? Con te?»

Mardien si fece ancora più rossa. «Gliel’ho impedito una settimana fa. Non so in che altro modo sia protetto.»

«Spiegami.» disse Gardius. «Perché seicento Otro sono venuti su Maxus come schiavi?»

Mardien rimase un momento in silenzio. Poi disse: «Se non altro, Arman ha risvegliato in noi un senso di responsabilità. Per centinaia di anni siamo stati egoisti, isolati, gelosi del nostro segreto.» Incontrò gli occhi di Gardius. «Quei seicento, Jaime, sono i nostri telepati più sviluppati. Sono le nostre spie. Si inseriranno nelle industrie critiche, e attraverso la telepatia comunicheranno a Fell le tecnologie più segrete.»

«E poi?»

Mardien annuì con un sorriso triste. «E poi… avremmo due stati schiavisti. Lo capisco ora. E lo capiranno anche altri. Ma… possiamo fermarci adesso? La crociata è partita. Seicento di noi sono qui su Maxus. Come possiamo sacrificarli… per niente?»

«La tua enfasi è fuori posto,» disse duramente Gardius.

«Cosa vuoi dire?» gli chiese Mardien sbigottita.

«Ti preoccupi per seicento Otro. Pensa alle centinaia e centinaia di milioni di schiavi che sono già su Maxus.»

Lo sguardo di Mardien vacillò, si abbassò sul tavolo. «Non ho nulla da dire. Arman è il capo. Non appena le stive della nave saranno piene, tornerà indietro per un altro carico.»

Gardius si sporse in avanti. «Ma deve esserci un centro di autorità tra gli Otro.»

«Oh, sì, gli Anziani, i consigli di territorio. Ma non hanno nessuna particolare autorità. Arman ha organizzato una crociata privata. Gli Armaniti sono gli elementi attivi.»

Gardius tamburellò sul tavolo con le dita. «C’è qualcosa che mi sfugge… qualcosa, da qualche parte. Mi domando se il tuo popolo si rende conto di quanto a lungo dovrà rimanere su Maxus, di quanto bene i Sommi custodiscano i loro segreti, di quanti di loro verranno uccisi.»

«Questo non ha importanza,» gli ricordò Mardien.

«Se tutti gli schiavi fossero Otro,» disse Gardius, «se nessuno degli schiavi temesse la morte, non ci sarebbe più uno stato di schiavi.» Guardò Mardien. «Mi hai sentito? Se i tuoi seicento Otro indottrinassero gli altri schiavi non ci sarebbe più disciplina E di conseguenza il sistema crollerebbe.»

«Se solo il venti percento dei nuovi Otro fosse telepatico…»

«Organizzazione,» disse Gardius. «Ci sarebbe l’organizzazione.»

«Dobbiamo ritornare su Fell, dai telepati che possono mettersi in comunicazione con i seicento.»

«Due cose,» disse Gardius. «Prima Arman. È un ostacolo. Deve essere rimosso. E poi… mio fratello e mia sorella.»


La nave nera ingombrava silenziosa il campo, circondata da un’attività intensa. Uomini ripulivano i tubi, strisciavano sulla superficie per pulire la polvere di meteora dai finestrini. Dal lungo magazzino nero su un lato del campo un argano sosteneva una cinghia interminabile che trasportava una lenta fila di scatole fino a un portello sul fianco della nave. Carri carichi delle casse più pesanti si fermavano su una piattaforma di gravitone sotto il portello di carico e le casse venivano lanciate all’interno e stivate.

Nuvole frastagliate incombevano su Alambar e un vento freddo sospingeva rifiuti lungo il campo. Arman si stava avvicinando alla nave, e il mantello gli batteva contro le gambe. All’interno faceva più caldo. Percorse il corridoio, salì la scaletta fino alla cupola di comando, guardò il campo, verso il tetto verde oliva del palazzo del Patriarca, che si levava enorme in lontananza.

Sollevò le mani, sentì gonfiarsi i muscoli del torace, respirò a fondo. Pace, rilassamento, nessuna preoccupazione, nessuna decisione da prendere. Gli schiavi erano al sicuro fuori dalla sua responsabilità, il carico stava per essere ultimato. Gli si prospettavano tre settimane di dolce far niente.

Pensò a Mardien. Poiché non aveva in mente niente di serio, era tempo di considerare i suoi piaceri. L’aveva respinto. Ma no, non poteva essere. Lui era Arman. Avrebbe dovuto essere fiera di riceverlo. Se l’aveva respinto, l’aveva respinto per troppo tempo.

Guardò la porta della sua cabina. Dall’interno giungevano rumori di qualcuno che si muoveva. Col sangue che gli pulsava nelle orecchie, si diresse alla porta, bussò.

«Sì?» ci fu la risposta. La sua voce era ansiosa, nervosa. Ah, conosceva il suo desiderio. Provò ad aprire la porta. Era chiusa a chiave.

«Mardien,» disse Arman con voce rauca. «Apri la porta.»

«No, Arman.»

«Apri! Io ti voglio, Mardien. Ti prenderò come dovrebbe fare un dio.» La sentì alzarsi in piedi. Scosse rumorosamente la maniglia della porta. «Fammi entrare, o aprirò la porta col fuoco.»

«Benissimo,» disse Mardien con una voce strana.

La porta si aprì. Arman entrò nella stanza. C’era un uomo, con la schiena rivolta alla luce.

Furioso Arman si girò verso Mardien. «Donnaccia… sgualdrina…» Guardò l’uomo che era avanzato di un passo. Arman sbatté le palpebre, curvò le spalle. La mano cadde sulla borsa che portava alla cintura. Gardius sparò per primo.


«Assassinio,» disse il poliziotto, sollevando gli occhi dal cadavere verso Gardius.

«Legittima difesa,» disse Mardien. «È stata legittima difesa. Io l’ho visto.»

«Il morto è Arman,» disse Gardius.

«Me ne rendo conto,» disse il poliziotto. «Qual è il tuo stato?»

«Schiavo,» disse Gardius seccamente.

«Perché, no, Gardius…» protestò Mardien.

Il poliziotto balzò in piedi. «Questo è un crimine terribile!»

«Andiamo a trovare l’Alto Ricognitore,» suggerì Gardius, «e vediamo qual è la sua opinione.»

«L’Alto Ricognitore? Non è necessario disturbarlo per cose come questa.»

«Vorrà sapere di Arman. Sarà interessato.»

L’Alto Ricognitore stava misurando a passi nervosi il pavimento della stanza quando finalmente furono ammessi alla sua presenza. Indossava un lungo mantello di seta nera marezzata, che dava riflessi azzurri dov’era colpita dalla luce e frusciava ritmicamente in sintonia coi suoi passi. Il volto era arrossato, eccitato; sembrava assorto in un problema personale, e prestò poca attenzione ai visitatori.

Mardien e Gardius stavano uno accanto all’altra, e il poliziotto era a un passo di distanza in un sottile atteggiamento di accusa.

L’Alto Ricognitore si fermò di colpo di fronte ai tre. Le sopracciglia si alzarono subitaneamente alla vista di Gardius. Mormorò: «Gardius? Sono stupefatto.»

«Ha commesso un assassinio, tua Signoria,» disse il poliziotto.

«Assassinio? È molto grave. Chi? Quando? Dove? Come?»

«Il mercante di schiavi Arman, signore. Circa un’ora fa con una pistola a ioni.»

«Ah!» L’Alto ricognitore schioccò le dita. «Questo è interessante. Assassinio, dici?»

«Sì, signore. Nella cupola di comando della nave dello stesso Arman.»

«È un faccenda sporca!» L’Alto Ricognitore scosse la testa, poi fece un cenno con la mano. «Puoi andare. Disponi pure del corpo.»

Il poliziotto partì; l’Alto Ricognitore si lasciò cadere su una sedia. «Mio caro Gardius, temo che il tuo entusiasmo ti abbia ficcato nei guai.»

«Non ti capisco.»

L’Alto Ricognitore, con le mani espressivamente rivolte in fuori, disse: «È chiarissimo! L’assassinio è un grave crimine qui su Maxus. Specialmente l’assassinio di un Sommo da parte di uno schiavo. Tu sei uno schiavo, vero? Lo eri una settimana fa, se mi hai informato correttamente.»

«A parte le mie condizioni, Arman non era un Sommo.»

«Era in visita a Maxus con un permesso. Perciò gli vengono accordati i privilegi di un Sommo. Così dev’essere, e noi non facciamo eccezioni, altrimenti il nostro commercio con i pianeti stranieri si ridurrebbe a niente.»


«È stata legittima difesa, tua signoria,» disse Mardien.

«Niente scuse,» dichiarò l’Alto Ricognitore. «Non ci sono giustificazioni. Uno schiavo non può valutare così altamente la sua vita. Potete pensare che sia legalista, ma queste sono regole sulle quali basiamo la nostra civiltà.»

«Ma,» sottolineò indignato Gardius, «mi hai assunto tu per uccidere Arman.»

«Le circostanze erano differenti. Un evento che ha luogo sul pianeta Fell io posso approvarlo o disapprovarlo su basi personali. Qui, su Maxus, devo far rispettare la legge.»

Disperatamente, Mardien disse: «Tu non conosci le circostanze, Signore! Io ho comprato Gardius al Distributore. Era nella mia cabina. Arman ha chiesto che lo facessi entrare. Io gli ho detto di andarsene, e lui ha minacciato di bruciare la porta. Lui… lui aveva in mente di usarmi violenza. Ho aperto la porta e quando ha visto Jaime ha subito estratto la pistola per sparargli. Ma Jaime ha sparato per primo, in difesa mia e sua. Ha agito come mia guardia, come mio protettore.»


L’Alto Ricognitore si massaggiò pensieroso il mento. «Vi sottomettereste all’esame ipnotico sulla base di questa testimonianza?»

«Sì, certo. È la verità.»

L’Alto Ricognitore sospirò. «Molto bene. Con un imbroglio così contestabile non forzeremo le accuse. Non c’erano altri testimoni, presumo.»

«No.»

«Bene, allora.» Si mise alla scrivania. «Ma il Patriarca insiste su un’applicazione severa. Se viene a sapere di questa… questa uccisione, temo il peggio. Se fossi in voi lascerei il pianeta quanto prima possibile.»

Gardius lo guardò stringendo improvvisamente gli occhi. Le accuse, la stretta osservanza della legge, erano forse espedienti per eludere altri impegni? Sarebbe stato pericoloso fare ulteriori pressioni, pensò.

L’Alto Ricognitore era chiaramente di umore nervoso.

«Mio Signore,» disse Gardius gentilmente, «ad ogni modo, al di là del metodo, del motivo, del tempo e del luogo, ho adempiuto il mio… il nostro scopo. Ho ucciso Arman. Ora vuoi restituirmi mio fratello e mia sorella come promesso?»

L’Alto Ricognitore sollevò lentamente lo sguardo. «Mio caro Gardius, ho sentito bene? Proprio adesso, sulla parola infondata di questa ragazza, ho assunto la responsabilità di rilasciarti… e tu mi fai delle richieste! Sei sorprendentemente audace!»

Mardien tirò Gardius per un braccio. «Vieni, Jaime.»

«Devo capire allora,» chiese Gardius, «che non mi renderai mio fratello e mia sorella?»

L’Alto Ricognitore abbassò le sopracciglia in una linea diritta. «Naturalmente no. Sono felicemente integrati nella loro nuova vita. Tuo fratello fa funzionare un congegno elettrico. Tua sorella occupa… ha un interessante impiego altrove. Sei un arrogante. Il Patriarca esigerebbe la mia testa. Adesso vattene prima che mi penta della mia generosità!»

«Vieni, Jaime,» sussurrò Mardien. «Andiamo.»

Riluttante Gardius si allontanò. La voce dell’Alto Ricognitore li seguì. «Capite, la nave di Arman è confiscata, assieme al suo carico. Nella presumibile assenza di eredi e riconoscendo il debito di Arman nei confronti del Patriarca, di cui ha rubato lo yacht privato, lo stato avrà diritto incontestabile alla proprietà della nave. Perciò è meglio che trasferiate immediatamente i vostri effetti personali.»

Mardien e Gardius si fermarono sulla via, proprio sotto l’Arco di Guchman.

«Di nuovo un fallimento,» disse Gardius, aprendo e chiudendo i pugni. «Beffati e allontanati.»


Mardien lo tirò per il braccio, incitandolo a camminare, sentendo che fino a quando Gardius si muoveva non avrebbe fatto gesti avventati.

«Fallimento! La mia povera sorellina… così fiduciosa e innocente…»

«Jaime, non rimuginarci sopra. Non serve a niente. E siamo fortunati ad essere vivi.»

Gardius si fermò di colpo sui suoi passi, si volse e guardò l’Arco di Guchman, su verso la suite dell’Alto Ricognitore.

«Quello è l’uomo che avrei dovuto uccidere. Se lui e quelli come lui non esistessero, non ci sarebbero quelli come Arman.»

«Sciocchezze,» disse Mardien. «Ci sono sempre stati uomini cattivi… e sempre ci saranno. Adesso andiamo, Jaime, caro, prima che ti metta in guai peggiori. Ci compreremo un passaggio per tornare su Fell su una delle navi da carico.»

«Non è ancora finita,» borbottò Gardius. «E la prossima volta che me lo troverò di fronte… la prossima volta…»


Il Reverendo Patriarca di Maxus e il suo Alto Ricognitore erano entrambi magri come un insetto stecco. In entrambi il naso scendeva a picco da una fronte pallida, e separava le orbite incavate come una lama di osso. Il Patriarca era più alto di una testa, e aveva i capelli grigi. I capelli dell’Alto Ricognitore, neri e lucenti, erano avvolti, arricciati e impastati secondo la moda di Alambar.

L’espressione del Patriarca era volubile, sospettosa, caratterizzata da occhi perennemente spalancati. L’Alto Ricognitore ostentava invece uno sguardo sul quale si abbassavano palpebre pesanti. Il Patriarca era più duro e insensibile, l’Alto Ricognitore era più sottile. Per una strana coincidenza quel giorno indossavano entrambi pesanti vesti scarlatte.

Il Patriarca passeggiava sul tappeto rosso ciliegia. L’Alto Ricognitore era tranquillamente seduto in una soffice poltrona ricoperta di pelle umana tinta di giallo e di nero. Il Patriarca si sfregava le mani una con l’altra, e le dita si muovevano rapide sui pallidi polsi.

«Innocuo oppure no, culto religioso oppure no, significa organizzazione. E non possiamo permettere un’organizzazione tra gli schiavi.»

L’Alto Ricognitore fece una smorfia indifferente. «Costituisce un contentino, un oppiaceo. Soddisfa un bisogno.»

«Bisogno?»

«Certamente. Considera la rapidità con cui questo movimento si è diffuso tra gli schiavi, qui, altrove, ovunque. Se non soddisfacesse un bisogno non avrebbe incontrato un’accettazione tanto rapida.»

«Significa organizzazione,» dichiarò il Patriarca ostinatamente.»

«Non posso essere d’accordo. È amorfo, non c’è alcuna centralità. È una mera mania, una moda passeggera, un culto popolare. Io dico, lasciamo che ci trovino diletto, lasciamo che esauriscano le loro energie nervose nel rituale. Avremo meno problemi disciplinari e di conseguenza una più alta produttività. Già noto una più estesa docilità, specialmente tra le categorie meno trattabili.»

«Bah! Gli schiavi sono docili solo quando c’è corrente nei circuiti penali.» Si abbatté su una sedi e bevve dalla coppa di infuso bollente. «E come fai a sapere quali codici e quali simboli segreti sono presenti in questi rituali?»

L’Alto Ricognitore giocherellò con il rubino che gli ciondolava all’orecchio. «Ho spie e informatori che me lo dicono…»

«E così,» esclamò il Patriarca trionfante, «provi una preoccupazione che non ammetti! Bada a te, Lesman, non tentare sotterfugi!»

«Certo no, Magnificat. Mi limito a dimostrare la mia determinazione a non trascurare alcuna possibile fonte di agitazioni, nessun nodo di irrequietezze anche se minimo.»

«Vedi di continuare così.» il Patriarca riprese a passeggiare. «C’è ancora una questione di…»

Un servo in una tunica rossa, bianca e grigia entrò nella stanza e tossì timidamente. L’Alto Ricognitore, irritato, disse: «Cosa significa questa intrusione? Non vedi che siamo impegnati in una discussione?»

Il servo chinò la testa. «Scusami, Signore, c’è un uomo che insiste per avere udienza immediata.»

«Udienza immediata! A quest’ora di mattina? E chi è?»

«Il suo nome è Jaime Gardius. Dice di essere appena arrivato dal pianeta Fell, e insiste sull’urgenza della sua questione. L’ho avvertito che eri in riunione, ma mi ha impressionato con l’importanza del suo scopo. È sembrato certo che l’avresti ricevuto.»

Il Patriarca disse con petulanza: «Chi è questo Gardius?»

«Ricordi Arman?» chiese l’Alto Ricognitore con voce assente.

«Non pronunciare quel nome.»

«Gardius l’ha ucciso. Un sordido assassinio sulla nave di Arman. È stato rilasciato su dimostrazione di legittima difesa.»

«E che cosa vuole adesso?»

«Non ne ho idea. È arrivato da Fell, e Fell è il pianeta da cui provengono gli Otro. Sono gli Otro, ti ricorderai, che sembrano avere promulgato questo nuovo culto.»

Il Patriarca fece un cenno al servo. «Perquisiscilo bene, che non abbia armi, poi fallo entrare. Raddoppia le guardie alla porta.»


Gardius entrò. Rivolse un cenno del capo all’Alto Ricognitore, salutò il Patriarca. Indossava un ricco mantello di tessuto blu, ricamato a viti e foglie. Si muoveva con una sicurezza e una mancanza di rispetto che irritarono l’Alto Ricognitore.

«Ebbene, Gardius? Pensavo di averti visto per l’ultima volta.»

«Il vostro momento è giunto.»

I due uomini in veste scarlatta lo guardarono a bocca aperta. «Cosa intendi dire?»

«Ci sono quattrocento milioni di schiavi su questo pianeta. Voi Sommi siete quaranta milioni. Gli schiavi vi circondano, vi premono addosso come l’acqua attorno ai pesci.»

Il Patriarca aprì e richiuse la bocca senza emettere alcun suono. L’Alto Ricognitore avanzò lentamente, fino a fissare Gardius negli occhi. Disse: «Non ti presenti certo con una scoperta nuova.»

«Che cosa vuole?» gracchiò il Patriarca. «Se è un assassino…»

Gardius spostò lo sguardo sul Patriarca, sorrise debolmente. «Voi vivete in un’atmosfera di paura. Non preferireste un mondo felice, senza l’abisso tra padrone e schiavo, senza i circuiti penali, senza la sferza, senza la degradazione di entrambe le parti? Non preferireste un mondo di gente che goda di pari condizioni, e che cooperi al beneficio di tutti?»

L’Alto Ricognitore disse: «Non è affatto una questione di preferenza. Questa è la società in cui viviamo. Solo un cataclisma potrebbe cambiarla.»

«Allora ci sarà un cataclisma.»

L’Alto Ricognitore socchiuse gli occhi. «Ci stai minacciando?»

«Sì,» disse Gardius. «Vi sto minacciando.»

Ci fu una pausa.

«E quando avverrebbe questo cataclisma?»

«In questo stesso momento.»

Il Patriarca era scivolato verso l’arazzo color senape, e nascondeva una mano dietro la schiena. «Aspetta!» lo fermò Gardius. «Aspettare vi conviene.»

La guardia, chiamata dal segnale del Patriarca, entrò. «Portalo fuori,» ansimò gutturalmente il Patriarca. «Uccidilo.»

L’Alto Ricognitore alzò una mano. «Aspetta, Magnificat, aspetta. Forse quest’uomo ha qualcosa da dirci.»

Gardius sembrò ascoltare qualcosa nell’aria. Girò improvvisamente la testa, disse: «Sì, infatti. Vi informo che circa un milione di Sommi è morto negli ultimi trenta secondi.»

«Cosa?»

«C’è una finestra vicina che dà sulla via?»

L’Alto Ricognitore si voltò, lanciò un’occhiata calcolatrice al Patriarca, che irrigidito lo fissava con occhi scuri e sbarrati nel volto pallido. Con fare deciso, l’Alto Ricognitore disse: «Da questa parte.»

Attraversò a lunghi passi rapidi la porta che si apriva su un salone buio dal soffitto a botte, scostò i tendaggi di velluto davanti a un’alta finestra, guardò fuori e verso il basso, e vide una brulicante confusione, un intrico di meccanismi rotti, grumi di corpi morti.

Le spalle dell’Alto Ricognitore si curvarono in avanti. Le mani strinsero convulsamente i tendaggi. Con voce rauca, il Patriarca disse: «Che succede? Fammi vedere.» Si avvicinò alla finestra con una spinta, abbassò la testa. «Oh!»

«Avremmo preferito una dimostrazione meno sanguinosa,» disse Gardius, «ma questo è uno spettacolo che i Sommi capiscono. Ad Alambar, a Crevecoar, a Beloat, a Murabas, in ogni città di Maxus, ogni veicolo guidato da schiavi che trasportasse Sommi Signori è un rottame contorto e schiacciato. Le vie sono piene di rottami.»

L’Alto Ricognitore girò la testa, con occhi fiammeggianti. «Ci saranno punizioni terribili per questo delitto. Scorreranno fiumi di sangue, ci saranno distese di bianche ossa di Orth.»

Gardius scosse la testa. «Voi non capite il nostro potere. Vi circondiamo, vi teniamo in pugno come una manciata di acini d’uva. Adesso il pugno ha nerbo, disciplina. Quando viene dato l’ordine di stringere, il pugno si stringe e un altro milione di Sommi muore.»

L’Alto Ricognitore si portò le mani ai capelli. Un riflesso condizionato lo fece fermare di scatto prima di scompigliare i riccioli impastati. Riabbassò le mani.

Gardius disse: «Dobbiamo raggiungere un accordo, adesso, entro un’ora. Altrimenti, quando sarà passata un’ora, non ci saranno più Sommi Signori su questo pianeta. Il cataclisma di cui parlavate è venuto. Ebbene, cosa dite?»

L’Alto Ricognitore guardò il Patriarca. In un sussurro rauco, il Patriarca disse: «È un pazzo.»

Gardius rise. «Fate gli indifferenti. Allora ascoltate… ma no, non potete udire.» Inclinò la testa come se stesse udendo un suono molto debole ma molto significativo. Sollevò lo sguardo.

«Nella Diga di Glauris è stata aperta una falla. Sul Fondo di Glauris è notte. I Sommi Signori dormono nelle capanne di piacere, nelle grandi locande, sulle chiatte lungo il Petalo Giallo. È la notte del solstizio d’estate, la notte della Convocazione dei Sommi.» Fece una pausa.

«Il Mare Pheresan adesso scorre sul Fondo di Glauris, a una profondità di cento piedi, e un altro milione di Sommi è morto, inclusi ventimila dei Lord.»

«L’Alto Ricognitore andò alla parete, parlò in un telefono. «Dammi il Rolite Nauton Hotel… svelto… Non risponde? La Stazione di Manutenzione di Glauris… svelto… Sì, sì, adesso ascolta, guarda verso il Fondo. Cosa vedi?… Non strillare!» La voce stessa dell’Alto Ricognitore era uno strillo. «Acqua?»

Alla cieca riattaccò il telefono alla parete, si rivolse al Patriarca. «Ci stanno dissanguando a morte, Magnificat… dissanguando completamente… i primi uomini della galassia!»

«Bene, qual è la vostra parola?» disse Gardius.

«Non abbiamo parole.»

«Allora ci saranno altri morti.»

Lo fissarono. Sembrava più alto, incombente, il suo volto era autoritario. Essi erano rimpiccioliti, rinsecchiti, deboli come mummie nelle loro vesti scarlatte.

«Cos’altro potete fare?»

«Possiamo ridurre in macerie questo palazzo e tutta Alambar per un raggio di miglia. E ogni vita sarà distrutta. Tu morirai, Ricognitore, e tu morirai, Patriarca.»

«E tu morirai,» osservò l’Alto Ricognitore. Nella sua voce non c’era più rabbia, né arroganza. Adesso stava mercanteggiando, cercando di ottenere un vantaggio, cedevole come un’anguilla.


Gardius sorrise. «Morire? Io non ho paura di morire. Migliaia e migliaia di schiavi sono appena morti uccidendo i Sommi. Morire non è nulla, è immateriale. Adesso siamo tutto Otro.»

«Vedi, vedi,» piagnucolò il Patriarca. «Sapevo che avremmo dovuto fermarli.»

«Cosa vuoi che facciamo?» chiese l’Alto Patriarca.

«Il Patriarca deve andare al telefono e ordinare a tutte le guardie in uniforme, alla milizia e ai poliziotti di ritirarsi nelle loro baracche. Devono lasciare tutte le armi alla porta. Il pannello centrale del Controllo Penale deve essere abbandonato. Poi deve richiedere il collegamento per una comunicazione planetaria, e annunciare che su Maxus non ci sono più schiavi né Sommi, che tutti sono uomini liberi, e che verrà formato un governo rappresentativo.»

«No!» gemette il Patriarca.

Gardius attese in silenzio. L’Alto Ricognitore disse: «Come distruggerete il palazzo?»

«Faremo esplodere le centrali elettriche — tutte e tre, Ricognitore — che supportano la stazione fortificata. Viene a mancare la corrente nei gravitoni, la stazione cade: un quarto di milione di tonnellate dall’altezza di dieci miglia. Cadrà come il giorno del giudizio. Alambar sarà un vaso rotto. Il palazzo sarà una scheggia.»

Il Patriarca barcollò, si sostenne afferrandosi ai tendaggi di velluto. L’Alto Ricognitore si girò verso di lui, pieno di autorità. «Ha vinto. Il nostro giorno si è concluso. Obbediscigli.»

L’ombra di vecchie abitudini lottò sul volto del Patriarca. Si artigliò ai tendaggi di velluto e tentò di mantenere il lungo corpo eretto e minaccioso. «Obbediscigli!» disse aspramente l’Alto Ricognitore.

«No,» gridò il Patriarca. «Non posso. Non voglio. È impensabile.»

L’Alto Ricognitore estrasse una piccola pistola, bruciò il Patriarca dalla testa ai piedi. L’alto corpo crepitò come uno spaventapasseri in fiamme.

«Farò io l’annuncio,» disse l’Alto Ricognitore. Andò al telefono sulla parete.

«Non ci sono più schiavi su Maxus…»


FINE

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