ICABEM

Durante un periodo di sette mesi, James Keith aveva subito una serie di sottili e complesse operazioni chirurgiche, e il suo corpo già normalmente efficiente era stato alterato in molti modi: «migliorato», per usare il gergo del Ramo Speciale della CIA.

Guardando nello specchio, vide una faccia familiare solo per le fotografie che aveva studiato, scura, ferina, e rigorosa: letteralmente la faccia di un selvaggio. I capelli, che aveva lasciato crescere, erano stati oliati e attorcigliati in una treccia con fili di lamé dorati; i denti erano stati sostituiti con una dentiera di acciaio inossidabile; dalle orecchie pendeva una coppia di amuleti d’avorio. In ognuno dei casi, la funzione estetica era secondaria. I fili di lamé dell’acconciatura erano accumulatori multilaminati, la cui carica era mantenuta per azione termoelettrica. La dentiera codificava, condensava, trasmetteva, riceveva, espandeva e decodificava onde radio di energia quasi troppo bassa per essere intercettata. Gli amuleti apparentemente d’avorio erano unità radar stereofoniche, che non solo potevano guidare Keith nel buio, ma provvedevano anche ad avvertirlo in una frazione di secondo dell’arrivo di un proiettile, una freccia, un randello. Le unghie erano in una lega di rame e argento, connesse internamente agli accumulatori tra i capelli. Un altro circuito serviva da terra, per proteggerlo contro l’elettrocuzione, una delle potenti armi a sua disposizione. Questi erano gli innesti più evidenti; altri più sottili erano stati costruiti sotto la pelle.

Mentre se ne stava davanti allo specchio due tecnici taciturni gli avvolgevano uno stretto turbante darshba attorno alla testa, e gli drappeggiavano addosso una veste bianca. Keith non era più in grado di riconoscere se stesso nell’immagine allo specchio. Si girò verso Carl Sebastiani, che era rimasto a osservare dall’altra parte della stanza, un uomo di bassa statura, pallido come una pergamena, con zigomi austeri e un teschio dall’aspetto fragile. Il grado di Sebastiani, Assistente al Vicedirettore, sottovalutava la sua autorità, così come l’aria delicata travisava la durezza interiore.

«Tra poco diventerai Tamba Ngasi quasi quanto sei James Keith,» disse Sebastiani. «Possibilmente di più. Nel qual caso la tua utilità avrà fine, e verrai riportato a casa.»

Keith non fece commenti. Sollevò le braccia, sentendo la tensione delle nuove connessioni e condutture. Strinse il pugno destro, guardò i tre pungiglioni metallici apparire sopra le nocche. Alzò la mano sinistra, e con il palmo sentì le radiazioni infrarosse emesse dalla faccia di Sebastiani. «Io sono James Keith. Reciterò la parte di Tamba Ngasi, ma non diventerò mai lui.»

Sebastiani ridacchiò freddamente. «Un volto è un simbolo quasi irresistibile. In qualsiasi caso avrai poco tempo per l’introspezione… Vieni su nel mio ufficio.»

Gli assistenti gli sfilarono la veste bianca; Keith seguì Sebastiani nella sua suite ufficiale, tre stanze calme, fredde ed eleganti quanto lo stesso Sebastiani. Keith sprofondò tra i cuscini di una poltrona, Sebastiani scivolò dietro la sua scrivania, dove premette una fila di bottoni. Su uno schermo apparve una cartina su grande scala dell’Africa. «Sembra che si stia aprendo una nuova fase, e noi intendiamo sfruttarla.» Toccò un altro bottone, e un piccolo rettangolo nella parte inferiore della grande protuberanza mauritana si illuminò di verde. «Questa è Lakhadi. Fejo è quel punto luminoso vicino a Tabacoundi Bay.» Lanciò un’occhiata obliqua a Keith. «Ricordi i tubi di lancio galleggianti degli ICBM?»

«Vagamente. Hanno fatto notizia una ventina di anni fa. Ricordo i lanci.»

Sebastiani annuì. «Nel 1963. Un prodotto artigianale. Gli ICBM — i Titans — erano già obsoleti, i tubi troppo costosi, la manutenzione un rompicapo. Un mese fa sono andati per eccedenza a una ditta di recupero giapponese, naturalmente escluse le testate. La settimana scorsa il Premier di Lakhadi, Adoui Shgawe, li ha comprati, apparentemente senza il consiglio, il consenso, o l’approvazione né dei Russi né dei Cinesi.»

Sebastiani digitò altri quattro numeri; lo schermo tremolò e si offuscò. «Ancora un nuovo processo,» disse Sebastiani criticamente. «Immagini registrate grazie alla sedimentazione di atomi su un cristallo fotosensibile. La cinepresa è camuffata, efficacemente anche se in modo stravagante, da comune mosca domestica.» Un bagliore rosso e oro esplose sullo schermo. «Impurità; i tecnici le chiamano molecole trasgressive.» L’immagine si stabilizzò mostrando una camera del consiglio sormontata da un’alta cupola, splendidamente illuminata dalla luce soffusa del sole. «Il nuovo stile architettonico,» disse Sebastiani con sarcasmo. «Zimbabwe, dottor Caligari, e Bolshoi Ballet in parti uguali.»

«Ha un certo fascino selvaggio,» disse Keith.

«Fejo è il teatro di tutta l’Africa; nessuna obiezione, basta che si tratti di una dimostrazione spettacolare.» Sebastiani sfiorò un bottone e bloccò la scena nella camera del consiglio. «Shgawe è a capotavola, in verde e oro. Sono certo che lo riconosci.»

Keith annuì. Il corpo grande e grosso di Shgawe e la faccia rotonda e muscolosa gli erano diventati familiari quasi quanto i propri.

«Alla sua destra c’è Leonida Pashenko, l’ambasciatore russo. Dall’altra parte l’ambasciatore cinese, Hsia Lu-Minh. Gli altri sono assistenti.» Rimise in moto l’immagine. «Non siamo riusciti a registrare il sonoro; il laboratorio per la lettura sulle labbra ci ha dato una traduzione approssimativa… Adesso Shgawe sta annunciando il suo acquisto. È mite e affabile, ma osserva Pashenko e Hsia come un falco. Sono sbigottiti e seccati, forse d’accordo per la prima volta da anni… Pashenko si informa sulla necessità di armi tanto grandiose… Shgawe replica che erano a buon mercato, e contribuiranno sia alla difesa che al prestigio di Lakhadi. Pashenko dice che l’URSS ha assicurato l’indipendenza di Lakhadi, e che preoccupazioni simili sono superflue. Hsia è pensieroso. Pashenko è più instabile. Sottolinea che i Titani sono non soltanto obsoleti e non armati, ma esigono un vasto complesso tecnico di supporto.

«Shgawe ride. «Me ne rendo conto e in questa sede richiedo tale aiuto all’URSS. Se l’URSS non sarà disponibile, farò la stessa richiesta alla Democrazia Popolare Cinese. Se di nuovo non avrò successo, mi rivolgerò altrove.»

«Pashenko e Hsia si chiudono come morse. Tra di loro non scorre buon sangue; non si fidano uno dell’altro. Pashenko riesce ad annunciare che consulterà il suo governo, e per oggi è tutto.»


L’immagine si dissolse. Sebastiani si appoggiò allo schienale della poltrona. «Tra due giorni Tamba Ngasi lascerà la sua circoscrizione elettorale Kotoba sul fiume Dasa, per la riunione del Grande Parlamento a Fejo.» Proiettò sullo schermo una mappa dettagliata, indicò Kotoba e Fejo con un puntino luminoso. «Scenderà il fiume Dasa su una lancia fino a Dasai, e continuerà in treno fino a Fejo. Suggerisco che tu lo intercetti a Dasai. Tamba Ngasi è un Uomo Leopardo, e ha preso parte allo Sterminio Rodesiano. Per conquistare il posto nel Grande Parlamento ha ucciso suo zio, un fratello, quattro cugini. Misure estreme non dovrebbero causarti rimorsi.» Con fare meticoloso Sebastiani coprì lo schermo. «Il programma successivo l’abbiamo già discusso a lungo.» Aprì uno stipo e tirò fuori una malconcia valigia di fibra. «Ecco il tuo equipaggiamento. Sei a conoscenza di tutto ciò che contiene, tranne… queste.» Gli mostrò tre fiale, contenenti rispettivamente delle pastiglie bianche, gialle, e marroni. «Vitamine, secondo l’etichetta.» Considerò Keith con sguardo da gufo. «Le chiamiamo Pillole dell’Impopolarità. Non ingerirle, a meno che tu non voglia essere impopolare.»

«Interessante,» disse Keith. «Come funzionano?»

«Inducono un odore corporeo di natura estremamente sgradevole. Non tutti reagiscono in modo identico allo stesso odore; è coinvolto un alto grado di formazione sociale, ecco perché i tre colori.» Ridacchiò vedendo l’espressione scettica di Keith. «Non sottovalutare queste pillole. Gli odori creano uno sfondo subconscio alle nostre impressioni; un odore offensivo induce irritazione, avversione, diffidenza; osserva il colore delle pillole: indica i gruppi razziali più fortemente influenzati. Bianco per i Caucasici, giallo per i Cinesi, marrone per i Negri.»

«Avrei pensato che la puzza è puzza,» disse Keith.

Sebastiani strinse le labbra in un atteggiamento didattico. «Queste naturalmente non sono formule infallibili. I Cinesi del nord e i Cinesi del sud reagiscono in modo diverso, e così i Lapponi, i Francesi, i Russi e i Marocchini. I Negri americani sono culturalmente Caucasici. Ma non serve che dica altro; sono certo che il funzionamento delle pillole ti è chiaro. Una dose dura due o tre giorni, e la persona colpita è ignara del proprio stato.» Rimise le fiale nella valigia, e ripensandoci tirò fuori una torcia ammaccata. «E questa naturalmente è top-secret. Mi stupisco che ti permettano di usarla. Quando premi questo bottone, una torcia. Togli la sicura, premi di nuovo il bottone,» ributtò la torcia nella valigia «un raggio mortale. O se preferisci un laser che proietta raggi rossi e infrarossi ad alta intensità. Se cerchi di aprirla l’esplosione ti stacca il braccio. Si ricarica infilandola in una qualsiasi presa di corrente alternata. L’era dei proiettili è alla fine.» Chiuse la valigia con uno scatto, si alzò in piedi, fece un cenno brusco con la mano. «Aspetta Parrish nell’ufficio esterno; ti accompagnerà al tuo aeroplano. Conosci i tuoi obiettivi. Questo è un affare disperato, un affare sconsiderato. Deve piacerti, o finirai a lavorare all’ufficio postale.»


A 6°34ʺ di Latitudine Nord, e 13°30ʺ di Longitudine Ovest, l’aereo si incontrò all’alba con un rollante sottomarino nero. Keith scese su un aggeggio composto da un sedile, un piccolo motore, e quattro eliche rotanti. Il sottomarino si inabissò con Keith a bordo, e riemerse ventitré ore dopo per lasciarlo a galla in una canoa a vela; poi si inabissò di nuovo.

Keith era da solo nell’Atlantico Meridionale. L’alba cingeva l’orizzonte, e a Est si stendeva la massa scura dell’Africa. Keith orientò la vela al vento e la scia spumeggiò a poppa.

Il sorgere del sole illuminò una costa arida e sabbiosa, sulla quale si vedevano poche capanne di pescatori. A Nord, sotto batuffoli di fogliame verde e nero, scintillavano i bianchi edifici di Dasai. Keith guidò la canoa sulla spiaggia, e arrancò in mezzo alle dune sabbiose fino alla strada costiera.

C’era già un traffico considerevole: donne che camminavano faticosamente a fianco degli asini, giovani in bicicletta, di tanto in tanto una piccola automobile d’epoca, una volta un costoso idroscivolante Amphitrite, nuovo, con un soffice sibilo sussurrato.

Alle nove, attraversando il fiume Dasa, marrone e lento, Keith entrò a Dasai, un piccolo porto costiero abbagliato dal sole, ancora intoccato dai cambiamenti che avevano trasformato Fejo. Edifici a due e tre piani di stucco bianco, sostenuti da arcate, si affacciavano sulla via principale, divisa in due da una striscia di palme, rododendri e oleandri. C’erano due hotel, una banca, un’autorimessa, negozi eterogenei e palazzi di uffici. Un depresso funzionario di polizia con un elmetto bianco dirigeva il traffico, che in quel momento consisteva in due cammelli condotti da un Beduino lacero. Un tozzo piedistallo sosteneva quattro enormi fotografie di Adoui Shgawe, il «Beneamato Premier della nostra Nazione, il Grande Faro dell’Africa». Sotto, vistosamente più piccole, c’erano le fotografie di Marx, Lenin e Mao Tse-Tung.

Keith svoltò in una via laterale, camminò fino all’argine del fiume. Vide moli decrepiti, una mezza dozzina di ristoranti, birrerie giardino e cabaret costruiti sull’acqua, su piattaforme ombreggiate da tettoie ricoperte di foglie di palma. Chiamò con un cenno un ragazzo poco lontano, che gli si avvicinò con cautela. «Quando arriva la lancia che scende il fiume da Kotoba, e dove attracca?»

Il ragazzo puntò un dito magro e storto. «Quello è il molo, signore, appena passato l’Hollywood Café.»

«E quando deve arrivare, la lancia?»

«Questo non lo so, signore.»

Keith gli lanciò una moneta, e si diresse al molo, dove apprese che in verità la lancia sarebbe arrivata di sicuro alle due del pomeriggio, certamente non più tardi delle tre, e senza alcun dubbio prima delle quattro.

Keith rifletté. Se Tamba fosse arrivato alle due, o anche alle tre, probabilmente avrebbe proseguito per Fejo, a sessanta miglia lungo la costa. Se l’imbarcazione avesse tardato avrebbe invece potuto decidere di fermarsi a Dasai per la notte, lì all’Hotel Grand Plaisir, distante solo pochi passi.

Il Problema era: dove intercettare Tamba Ngasi? Lì a Dasai? All’Hotel Grand Plaisir? In viaggio verso Fejo?


Nessuna di quelle possibilità allettava Keith. Ritornò sulla via principale. Un tabaccaio gli assicurò che non si potevano noleggiare altre automobili all’infuori dei tre antichi tassì cittadini. Gli indicò in fondo alla via una vecchia Citroen nera ferma all’ombra di un’enorme sapotiglia. L’autista, un vecchio sottile in calzoncini bianchi, maglietta azzurra sbiadita e scarpe di tela, poltriva accanto a una bancarella che vendeva ghiaccio tritato e sciroppo. La proprietaria, una donna enorme con un vestito sgargiante nero, oro e arancione, lo sollecitò con lo scacciamosche a rivolgere l’attenzione a Keith. L’uomo si mosse riluttante lungo il marciapiede. «Il signore desidera essere condotto a destinazione?»

Keith, nella parte del barbaro proveniente da una terra di confine, si sfregò dubitoso il lungo mento. «Proverei il tuo veicolo, a patto che tu non provi a imbrogliarmi.»

«I prezzi sono fissi,» disse l’autista senza entusiasmo. «Tre rupie per il primo giro di tassametro, una rupia per ogni giro successivo. Dove desideri andare?»

Keith salì sul tassì. «Segui la strada lungo il fiume.»

Uscirono sferragliando dalla città, per una strada in terra battuta che correva per lo più parallela al fiume. La campagna era arida e polverosa, infestata di rovi, con qua e là un massiccio baobab. Passarono le miglia, e l’autista divenne nervoso. «Dove intendi andare, signore,?»

«Fermati qui,» disse Keith. Incerto, l’autista rallentò. Keith prese del denaro dalla borsa che portava alla cintura. «Desidero guidare il tassì. Da solo. Tu puoi aspettarmi sotto quell’albero.» L’autista protestò con veemenza. Keith lo costrinse ad accettare cento rupie. «Non discutere. Posso stare via parecchie ore, ma riavrai il tuo tassì sano e salvo e altre cento rupie se aspetti qui.»

L’autista scese e zoppicò nella polvere fino all’ombra di un albero della gomma, alto e giallo, e Keith ripartì lungo la strada.

La campagna diventava sempre più piacevole. I palmizi fiancheggiavano l’argine del fiume; di tanto in tanto c’erano delle macchie fertili, e attraversò tre villaggi di capanne rotonde con le pareti di fango e tetti conici ricoperti di paglia. Canoe occasionali si spostavano sulla torbida acqua marrone; vide una chiatta carica di una catasta di legna, rimorchiata da una barca a remi ridicolmente inadeguata con un motore fuoribordo. Proseguì per altre dieci miglia e di nuovo la campagna divenne inospitale. Il fiume, velato dal caldo, si snodava tra gli argini fangosi dove piccoli coccodrilli si crogiolavano al sole; le rive erano soffocate dai papiri e da boschetti di larici. Keith fermò l’auto e consultò una cartina. La prima città di qualche importanza dove l’imbarcazione avrebbe potuto scaricare passeggeri era Mbakouesse, altre venticinque miglia, troppo lontano. Rimise la cartina in valigia e ne trasse un vasetto di brillantina, o almeno così sosteneva l’etichetta. Lo considerò per un momento, e stabilì un piano d’azione.


Adesso guidava lentamente, e in poco tempo trovò un punto dove il canale faceva un’ansa proprio sotto l’argine. Keith parcheggiò vicino a un grosso mucchio di bambù dalle giunture rosse, e fece i preparativi necessari. Tamponò poche once della supposta brillantina simile a cera attorno a una losanga stranamente pesante, che aveva preso da una confezione di pasticche per la tosse, e fissò il blocco a un legno asciutto con del nastro adesivo. Trovò una spoletta di corda sottile, legò un sasso a una estremità. Poi, facendo attenzione alle vipere palustri, ai coccodrilli, e alle enormi vespe che, rintanate lungo l’argine, sbattevano le ali con un crepitio secco si fece strada attraverso i larici fino alla riva del fiume. Srotolò cento piedi di corda, e lanciò legno e pietra quanto più possibile lontano in mezzo al fiume. La pietra andò a fondo, ormeggiando il bastone che adesso galleggi ava dalla parte opposta del canale, esattamente dove Keith voleva.

Passò un’ora, due ore. Keith si sedette all’ombra dei larici, circondato dall’odore resinoso delle foglie, dalle esalazioni palustri del fiume. Finalmente: il pulsare di un pesante motore diesel. Lungo il fiume scendeva un’imbarcazione tipica dei fiumi africani, lunga circa settanta piedi, con cabine di prima classe sul ponte superiore, e cubicoli di seconda classe sul ponte principale; i restanti passeggeri erano seduti, in piedi, accucciati o pigiati dovunque ci fosse un po’ si spazio.

L’imbarcazione si avvicinò, sbuffando in mezzo al canale. Keith raccolse la corda allentata, tirando il legno verso di sé. Sul ponte superiore era ritto un uomo alto, emaciato, dal volto scuro, ferino e intelligente sotto un turbante darshba: Tamba Ngasi? Keith non ne era sicuro. Quell’uomo camminava con la testa china in avanti, i gomiti sporgenti ad angolo acuto. Keith aveva studiato le fotografie di Tamba Ngasi, ma di fronte all’individuo vivo e reale… Non c’era tempo per le speculazioni. L’imbarcazione gli era quasi a fianco, la prua sollevava un’ondata gialla trasparente. Keith tirò a sé la corda, portando il bastone sotto la prua. Sollevò il palmo della mano destra, nel quale era stata arrotolata un’antenna direzionale. Allargò le dita, e un impulso andò a colpire il detonatore nella piccola losanga nera. Ci fu un’esplosione sorda e roboante, uno zampillo di spuma, scrosci di acqua marrone, grida stridule di sorpresa e paura. La prua dell’imbarcazione si abbassò nell’acqua, sbandò capricciosamente.

Keith diede uno strattone alla corda e riavvolse ciò che ne restava.

L’imbarcazione, già sovraccarica, stava per affondare. Virò verso riva, e si incagliò cinquanta iarde più a valle.

Keith guidò il tassì a marcia indietro fuori dai larici, proseguì per mezzo miglio di strada, e attese guardando con il binocolo.

Un gruppo di uomini e donne vestiti di bianco attraversò i folti di larici alla spicciolata, e poco dopo un uomo alto con un turbante darshba uscì a lunghi passi rabbiosi sulla strada. Keith mise a fuoco il binocolo e vide le fattezze che adesso erano le sue. Il portamento, la camminata, sembravano più spigolosi, più nervosi; doveva ricordarsi di duplicare quelle pose… E adesso, al lavoro. Tirò in avanti il cappuccio del mantello per nascondere il viso, inserì la marcia. Il tassì si avvicinò al capannello di gente ferma sul bordo della strada. Un uomo corpulento dalla carnagione olivastra in abiti europei balzò avanti e gli segnalò di fermarsi. Keith lo fissò fingendosi sorpreso e scrollò le spalle.

«Ho già un cliente; sto andando adesso a prenderlo.»


Tamba Ngasi gli si accostò a grandi passi. Spalancò la portiera. «Il cliente può aspettare. Io sono un funzionario governativo. Portami a Dasai.» L’Indù piccolo e corpulento fece il gesto di volere salire anche lui in tassì. Keith lo fermò. «Ho posto solo per uno.» Tamba Ngasi gettò la valigia sul sedile e saltò in auto. Keith ripartì, lasciando che il gruppo restasse a seguirlo sconsolato con lo sguardo.

«Un incidente senza senso,» si lamentò Tamba Ngasi stizzito. «Stavamo viaggiando tranquillamente; l’imbarcazione urta uno scoglio; sembra che ci sia un’esplosione, e affondiamo! Chi l’avrebbe mai immaginato? E a bordo c’ero io, un importante membro del governo! Perché ti fermi?»

«Devo badare all’altro mio cliente.» Keith deviò dalla strada, e prese un sentiero appena visibile che conduceva nella boscaglia.

«Non mi importa del tuo cliente, non voglio ritardi. Prosegui.»

«Devo anche caricare un barile di benzina, altrimenti rimarremo senza.»

«Benzina qui, in mezzo ai rovi?»

«Un nascondiglio conosciuto solo ai tassisti.» Keith si fermò, scese e aprì la portiera posteriore. «Tamba Ngasi, fatti avanti.»

Tamba Ngasi fissò il proprio volto sotto il cappuccio di Keith. Sbottò in un’appassionata bestemmia, e scattò verso lo stiletto che portava alla vita. Keith fece un movimento rapido in avanti, e lo colpì alla fronte con le unghie di rame e argento. L’elettricità esplose in una scarica mortale attraverso il cervello di Ngasi, che si accasciò vacillando su un fianco e cadde sulla strada.

Keith trascinò via il cadavere dal sentiero verso la boscaglia. Le gambe di Tamba Ngasi erano grosse e pesanti, sproporzionate rispetto al torace muscoloso. Questo era un particolare del quale Keith non era stato messo al corrente. Ma non importava; chi avrebbe mai saputo che le gambe di Keith erano lunghe e snelle?

Gli sciacalli e gli avvoltoi avrebbero presto eliminato il cadavere.

Keith trasferì il contenuto della borsa nella propria, cercò senza risultato una cintura porta denaro. Ritornò al tassì e guidò a ritroso fino all’alto albero della gomma. L’autista si era appisolato; Keith lo svegliò con un colpo di clacson. «Sbrigati, adesso, riportami a Dasai, devo essere a Fejo prima del calare della notte.»


In tutta l’Africa, antica, medievale, e moderna, non c’era mai stata una città come Fejo. Sorgeva su un promontorio brullo a nord di Tabacoundi Bay, dove vent’anni prima nemmeno i pescatori si degnavano di vivere. Fejo era una città audace, sorprendente nelle forme, nelle strutture e nei colori. Gli Africani determinati a esprimere l’unicità del loro retaggio avevano progettato la città, rifiutando recisamente le tradizioni architettoniche dell’Europa e dell’America, sia classiche che contemporanee.

La costruzione era stata finanziata grazie a un gigantesco prestito dell’URSS, e gli ingegneri sovietici avevano tradottogli schizzi dei ferventi studiosi di Lakhadi in spazio e solidità.

Fejo era perciò una città notevole. Certi critici europei la liquidavano come uno scenario teatrale; alcuni ne erano affascinati, altri respinti.

Nessuno negava che Fejo fosse irresistibilmente drammatica. «A confronto dell’impatto con Fejo, Brasilia sembra sterile, eclettica, affettata,» scriveva un critico inglese. «Fantasie di una mente malata, davanti alle quali stupirebbe lo stesso Gaudi,» sbottava uno Spagnolo. «Fejo è l’ardita provocazione del genio africano, e i suoi eccessi sono quelli della passione, piuttosto che dello stile,» dichiarava un Italiano. «Fejo,» scriveva un Francese, «è abominevole, sbalorditiva, involuta, pretenziosa, ignorante, oppressiva, e degna di nota solo per le forme torturate alle quali è stato destinato del buon materiale da costruzione.»

Fejo aveva il suo centro nella guglia di cinquanta piani dell’Istituto Africano, accanto al quale il Grande Parlamento sorgeva su arcate di rame, con finestre ovali e un tetto smaltato di azzurro come una bombetta a tesa larga. Sei alti guerrieri di basalto levigato, rappresentanti le sei principali tribù di Lakhadi, fronteggiavano la piazza; più oltre c’era l’Hotel des Tropiques, il più sontuoso di tutta l’Africa, e in grado di competere con qualunque altro al mondo. L’Hotel des Tropiques era forse l’edificio più convenzionale del complesso centrale, ma anche lì gli architetti avevano insistito su un puro stile africano. La vegetazione scendeva dal giardino pensile lungo i muri bianchi e azzurri; l’atrio era arredato in padank, tek ed ebano; colonne di vetrocemento per costruzioni si levavano da tappeti azzurri e argento e da passatoie rosso porpora a sostenere un soffitto di acciaio inossidabile e smalto nero.

Dall’altra parte della piazza c’era il palazzo ufficiale, e dietro i primi tre dei dodici condomini progettati a uso degli alti ufficiali. Di tutte le costruzioni di Fejo, erano state quelle accolte più favorevolmente dai critici stranieri, probabilmente in virtù della loro semplicità. Ogni pavimento consisteva di un unico disco alto dodici piedi, mantenuto separato dal pavimento sopra e da quello sotto da quattro puntelli che li attraversavano. Ogni disco serviva anche come ponte di volo, e il ponte alla sommità veniva utilizzato come eliporto.


Sull’altro lato dell’Hotel des Tropiques si apriva un’altra piazza per soddisfare l’esigenza africana di un bazar. Lì c’erano bancarelle, venditori ambulanti e intrattenitori di ogni sorta che vendevano orologi da polso autocroni, potenziati e sincronizzati da un impulso a sessanta cicli avente origine in Greenwich, così come feticci, elisir, pozioni e talismani.

Per la piazza si muoveva un allegro e volubile miscuglio di gente: donne di colore con abiti di cotone, seta e mussolina stampati a magnifiche tinte, Maomettani in bianche djellabas, Tuareg e Uomini Azzurri della Mauritania, Cinesi in antiquati abiti neri, onnipresenti negozianti indù, talvolta un Russo arcigno e isolato dalla folla. Oltre questa piazza c’era un quartiere di spogli cubicoli a tre piani suddivisi in appartamenti. Le persone affacciate alle finestre sembravano irresolute e incerte, come se il cambiamento dal fango e dalla paglia al vetro, alle piastrelle e all’aria condizionata fosse troppo grande per poter essere racchiuso nello spazio di una vita.

A Fejo, alle cinque del pomeriggio, arrivò James Keith, con un biglietto di prima classe sul treno proveniente da Dasai. Dalla stazione attraversò il bazar fino all’Hotel des Tropiques, si diresse a grandi passi al banco, ignorò le numerose persone in attesa e batté il pugno sul tavolo per richiamare l’impiegato, un pallido Eurasiatico che si girò a guardarlo seccato.

«Svelto!» scattò Keith. «È forse conveniente che un Parlamentare aspetti i comodi di quelli come te! Conducimi alla mia suite.»

I modi dell’impiegato mutarono all’istante. «Il tuo nome, signore?»

«Sono Tamba Ngasi.»

«Non c’è la prenotazione, Compagno Ngasi. Non hai…»

Keith fissò l’uomo con uno sguardo offeso. «Io sono un Parlamentare dello Stato. Non ho bisogno di prenotazioni.»

«Ma tutte le suite sono occupate!»

«Butta fuori qualcuno, e alla svelta.»

«Si, Compagno Ngasi. Subito.»

Keith si ritrovò in una sontuosa serie di stanze arredate con legni intagliati, vetri verdi, folti tappeti. Non aveva mangiato da quel mattino presto; una leggera pressione su un bottone fece illuminare il menù del ristorante su uno schermo. Non c’era nessuna ragione per cui un capo tribù non potesse gradire la cucina europea, pensò Keith e ordinò di conseguenza. Mentre aspettava il pranzo ispezionò pareti, pavimento, tendaggi, soffitto, mobili. Le cellule spia potevano anche fare normalmente parte dell’arredamento a Fejo, dominata com’era dagli intrighi. Ma non erano visibili, Né Keith si aspettava che lo fossero. Le migliori apparecchiature moderne non erano certamente individuabili. Uscì sul terrazzo, spinse la lingua contro un dente, parlò in un sussurro per diversi minuti. Riportò l’interruttore nella sua posizione precedente, e il suo messaggio venne trasmesso in una scarica codificata di un centesimo di secondo indistinguibile dai disturbi di origine elettrostatica. A mille miglia sopra la sua testa era sospeso un satellite che ruotava assieme alla Terra, il satellite intercettò il segnale, lo amplificò e lo ritrasmise a Washington.


Keith attese, e i minuti passarono, tanti quanti erano necessari ad ascoltare il suo messaggio e formulare una risposta. Poi ci fu lo scatto quasi impercettibile che indicava l’arrivo del messaggio di ritorno, che gli si comunicò con la voce di Sebastiani attraverso la mandibola direttamente al nervo uditivo, senza il minimo suono ma con tutte le inflessioni caratteristiche di Sebastiani.

«Fino a questo momento va tutto bene,» disse Sebastiani. «Ma ho cattive notizie. Non cercare di metterti in contatto con Corty. A quanto pare è stato scoperto, e i Cinesi gli hanno fatto il lavaggio del cervello. Così devi arrangiarti da solo.»

Keith si lasciò sfuggire un grugnito di depressione, poi ritornò in salotto. Gli venne servito il pranzo; mangiò, poi aprì la valigia che aveva preso a Tamba Ngasi. Era simile alla sua, persino nel contenuto: biancheria pulita, articoli da toeletta, effetti personali, un raccoglitore di documenti. I documenti, stampati nei fioriti caratteri neo africani, non erano di particolare interesse: una lista elettorale, varie notifiche ufficiali. Keith trovò una direttiva che diceva: «Quando arriverai a Fejo prenderai alloggio in Rue Arsabatte 453, dove è stata allestita una suite conveniente. Quanto prima possibile informerai della tua presenza il Capoufficio del Parlamento.»

Keith sorrise debolmente. Avrebbe semplicemente dichiarato di preferire l’Hotel des Tropiques. E chi avrebbe discusso il capriccio del capo di una terra di confine, noto per il cattivo carattere?

Mentre riponeva il contenuto della valigia di Tamba Ngasi, Keith si accorse di qualcosa di molto particolare. Gli oggetti gli davano un’impressione… strana. Quella scatola del feticcio, per esempio, pesava mezza oncia di troppo. La mente di Keith sfrecciò attraverso tutta una rete di speculazioni. Quella penna a sfera un po’ ammaccata… La esaminò attentamente, l’allontanò da sé, premette il pulsante estensore. Uno scatto, un sibilo, uno spruzzo di gas nebuloso. Keith balzò indietro, si spostò dall’altra parte della stanza.

Era una pistola a gas in miniatura, progettata per soffiare del narcotico dentro e attraverso i pori della pelle. Una conferma ai suoi sospetti… e in quale strana direzione portavano!

Keith rimise a posto la penna, chiuse la valigia. Passeggiò nervosamente avanti e indietro per alcuni minuti, poi chiuse a chiave la propria valigia e lasciò la stanza.

Scese nell’atrio su uno scintillante ascensore di cristallo rosa e verde, e si fermò un momento a osservare la scena. Non si era aspettato nulla di così splendido; si chiese come Tamba Ngasi avrebbe guardato quella sala luccicante e i suoi ipersofisticati occupanti. Certo non con approvazione, decise Keith. Si diresse all’entrata contorcendo il volto in una smorfia di disgusto. Anche secondo i suoi gusti personali, l’Hotel des Tropiques era eccessivamente ricco, un po’ troppo fantasioso.

Attraversò la piazza, percorse il Viale dei Sei Guerrieri Neri fino al grottesco ma insolitamente impressionante Grande Parlamento di Lakhadi. Una coppia di appariscenti guardie nere, con sandali di metallo e gambali, e tuniche di pelle bianca a pieghe, scattarono in avanti e incrociarono le lance di fronte a lui.

Keith li esaminò altezzosamente. «Io sono Tamba Ngasi, Grande Parlamentare dalla Provincia di Kotoba.»

Le guardie non contrassero un muscolo; avrebbero potuto essere scolpite nell’ebano. Da un cubicolo laterale uscì un uomo bianco, basso e grasso, in pantaloni e camicia flosci color marrone. Abbaiò: «Tamba Ngasi, guardie, fate passare

Le guardie con un singolo movimento scattarono indietro. Il piccolo uomo grasso si inchinò cortesemente, ma sembrava non distogliere mai lo sguardo da Keith. «Sei venuto a iscriverti, Grande Parlamentare?»

«Precisamente. Dal Capoufficio.»

L’uomo basso chinò di nuovo la testa. «Io sono Vasif Doutoufsky, Capoufficio. Vuoi passare nel mio ufficio?»


L’ufficio di Doutoufsky era caldo e soffocante, l’aria era dolciastra di incenso alla rosa. Doutoufsky offrì a Keith una tassa di tè. Keith rispose con una brusca scrollata di capo, caratteristica di Tamba Ngasi, e Doutoufsky apparve vagamente sorpreso. Parlò in russo.

«Perché non sei andato in Rue Arsabatte? Ti ho aspettato là fino a dieci minuti fa.»

La mente di Keith vorticò come sui cuscinetti a sfere. In un russo non certo troppo disinvolto disse cupamente: «Ho avuto i miei motivi… C’è stato un incidente all’imbarcazione sul fiume, forse un’esplosione. Ho preso un tassì e sono arrivato a Dasai.»

«Ah,» disse Doutoufsky con voce sommessa. «Sospetti un’interferenza?»

«Se è così,» disse Keith, «può venire solo da una fonte.»

«Ah,» disse di nuovo Doutoufsky, con voce ancora più sommessa. «Vuoi dire…»

«I Cinesi.»

Doutoufsky studiò pensosamente Keith. «La trasformazione è stata eseguita bene,» disse. «La pelle è stata corretta con precisione, con toni e sfumature convincenti. Parli in modo un po’ strano.»

«Come parleresti anche tu, se avessi la testa imbottita come la mia.»

Doutoufsky arricciò le labbra come a una battuta riservata a loro due. «Ti trasferirai in Rue Arsabatte?»

Keith esitò, tentando di percepire quale rapporto intercorresse tra sé e Doutoufsky: inferiore o superiore? Inferiore, probabilmente, con i poteri e le prerogative del contatto, dal quale venivano le istruzioni e attraverso il quale le valutazioni raggiungevano il Cremlino. Un pensiero lo raggelò: Doutoufsky, e lui che era entrato nel gioco sotto le spoglie di Tamba Ngasi, potevano essere entrambi rinnegati russi, entrambi agenti cinesi nella più fantastica guerra mai combattuta. Nel qual caso la vita di Keith era in una posizione addirittura più precaria rispetto a solo mezz’ora prima… Ma questa era un’ipotesi di minore probabilità. Con voce autoritaria, Keith disse: «È stata messa un’automobile a mia disposizione?»

Doutoufsky sbatté le palpebre. «No, che io sappia.»

«Avrò bisogno di un’automobile,» disse Keith. «Dov’è la tua auto?»

«Di certo non è appropriato, signore…»

«Spetta a me giudicare.»

Doutoufsky sollevò il petto in un sospiro. «Farò venire una delle limousine parlamentari.»

«Che senza dubbio è efficacemente monitorizzata.»

«Naturalmente.»

«Preferisco un veicolo dove poter compiere le necessarie transazioni senza timore di testimoni.»

Doutoufsky annuì bruscamente. «Molto bene.» Gettò una chiave sul piano della scrivania. «Questa è la mia piattaforma aerea personale. Ti prego di usarla con discrezione.»

«Non è monitorizzata?»

«Sono certo di no.»

«La controllerò comunque a fondo.» Keith parlò con un tono di pacata minaccia. «Spero di trovarla corrispondente alla tua descrizione.»

Doutoufsky sbatté gli occhi, e con voce sottomessa gli spiegò dove avrebbe potuto trovare l’auto. «Domani a mezzogiorno il Parlamento si riunisce. Naturalmente ne sei al corrente.»

«Naturalmente. Ci sono istruzioni supplementari?»

Doutoufsky rivolse a Keith una fredda occhiata obliqua. «Mi domandavo quando le avresti chieste, dato che questa era specificamente l’unica ragione del nostro contatto. Non per fare lo spaccone, non per pretendere auto da diporto.»

«Contieni la tua arroganza, Vasif Doutoufsky. «Io devo operare senza interferenze. Esistono già lievi dubbi riguardanti le tue capacità; risparmiami la necessità di corroborarli.»

«Ah,» disse piano Doutoufsky. Aprì un cassetto e gettò sulla scrivania un piccolo chiodo di ferro. «Ecco le tue istruzioni. Hai la chiave della mia auto, hai rifiutato di usare l’alloggio a te destinato. Hai altre richieste?»

«Sì,» disse Keith con il suo sorriso da lupo. «Fondi.»

Doutoufsky gettò sulla scrivania un pacchetto di banconote. «Questi dovrebbero bastarti fino al nostro prossimo contatto.»

Keith si alzò lentamente in piedi. Sarebbero sorte delle difficoltà se fosse mancato ai contatti prestabiliti con Doutoufsky. «Certe circostanze possono rendere indispensabile un cambiamento di programma.»

«Davvero? E quali?»

«Ho saputo — da una fonte che non sono autorizzato a rilevare — che i Cinesi hanno scoperto un agente occidentale e gli hanno fatto il lavaggio del cervello. È stato individuato a causa della periodicità delle sue azioni. È meglio non fare piani precisi.»

Doutoufsky annuì gravemente. «C’è qualcosa di vero nelle tue parole.»


Al chiaro di luna la strada costiera da Fejo a Dasai era bella oltre ogni immaginazione. A sinistra si allargava l’infinita estensione del mare, la spuma delle onde e la pallida sabbia desolata; a destra crescevano cespugli di rovi, baobab, cactus spinosi, che si componevano in schemi angolari su ogni tono di argento, grigio e nero.

Keith aveva la sensazione ragionevolmente certa di non essere stato seguito. Aveva immerso con cura l’auto nelle radiazioni della sua torcia, per distruggere i delicati circuiti di una cellula spia con la corrente indotta. A metà strada per Dasai si fermò, spense le luci, e perlustrò il cielo con il radar nascosto negli amuleti che portava alle orecchie. Non riuscì a scoprire nulla; l’aria era limpida e deserta, e dietro a sé non sentiva nessuna auto. Colse l’occasione per inviare un messaggio al satellite. Dopo un’attesa di cinque minuti, udì lo scatto del collegamento di risposta. La voce di Sebastiani gli penetrò chiara e distinta nel cervello: «La coincidenza, tutto considerato non è stupefacente. I Russi hanno scelto Tamba Ngasi per la nostra stessa ragione: la sua reputazione di aggressività e indipendenza, la sua presumibile popolarità tra i militari, in opposizione al loro sospetto riguardo a Shgawe.

«Per l’alloggio in Rue Arsabatte, credo che tu abbia preso la decisione giusta. All’Hotel sarai meno esposto. Su Doutoufsky non abbiamo niente di definito. Apparentemente è un emigrante polacco, ora cittadino di Lakhadi. Puoi avere esagerato nell’assumere un atteggiamento di forza. Se ti coglie in flagrante, mostra una certa dose di contrizione e fagli presente che hai ricevuto istruzioni di cooperare maggiormente con lui.»

Keith perlustrò ancora una volta il cielo, ma ricevette solo il segnale di un gufo che volava a bassa quota. Fiduciosamente proseguì lungo la strada irreale, e in breve giunse a Dasai.

La città era tranquilla, con pochi lampioni, un tintinnio di musica e risate dai cabaret. Keith svoltò sulla strada che costeggiava il fiume, e procedette verso l’interno.

La regione divenne selvaggia e trascurata. Keith proseguì per venti miglia, poi rallentò. Ecco l’albero giallo della gomma dove aveva scaricato l’autista del tassì. Ecco dove aveva affondato il battello fluviale. Fece inversione di marcia, e ritornò lungo la strada. Ecco dove aveva deviato dalla strada con l’uomo che credeva essere Tamba Ngasi. Svoltò, avanzò per un tratto, poi si fermò e scese dall’auto. Nella boscaglia sei paia di occhi gialli rifletterono la luce dei fari, poi si allontanarono rapidamente.


Gli sciacalli si erano dati da fare. Tre di loro giacevano a terra morti, cumuli di pellicce rancide, e Keith si trovò nell’imbarazzo di dover giustificare il loro stato. Diresse il raggio della torcia sul cadavere, esaminò la carne che gli sciacalli avevano lacerato. Si chinò più vicino, aggrottando la fronte perplesso. Una speciale imbottitura di tessuto differenziato era disposta lungo l’esterno delle cosce, spessa quasi un pollice. Era organizzata in fasce regolari, e copiosamente alimentata da grandi arterie; qua e là Keith scorse il luccichio del metallo. Improvvisamente indovinò la natura del tessuto, e seppe perché gli sciacalli erano morti. Si raddrizzò, si guardò attorno per la foresta di cactus e di rovi bagnata dalla luce lunare, e rabbrividì. La sola presenza della morte era spaventosa, tanto più per quella specie d’uomo che giaceva così lontano da casa sua, così stranamente alterato e migliorato. Quelle imbottiture di carne grigia dovevano essere un tessuto elettroorganico, simile a quello della murena, in qualche modo adattato alla carne umana dai biologi russi. Keith provò una sensazione di oppressione. I Russi li superavano di gran lunga: l’origine della sua energia era chimica, organica; l’energia di quell’uomo era controllata dal funzionamento del suo corpo, e restava a un potenziale talmente elevato che tre sciacalli erano rimasti fulminati nel tentativo di sbranarlo.

Stringendo i denti si chinò sul cadavere, e si accinse a eseguire la sua ispezione.

Mezz’ora dopo aveva finito, e se ne stava in posizione eretta con due pellicole metalloidi tolte dall’interno delle guance del cadavere: circuiti di comunicazione sicuramente sofisticati quanto i suoi.

Sfregò le mani nella sabbia, ritornò all’auto e guidò a ritroso alla luce della luna ormai al tramonto. Arrivò nella buia città di Dasai, girò a sud verso la strada costiera, e un’ora più tardi era a Fejo.

L’atrio dell’Hotel des Tropiques era illuminato soltanto da grandi sfere pallide, verdi e azzurre. Pochi gruppi di persone erano seduti a parlare e sorseggiare un drink; accompagnato dal sommesso mormorio delle loro conversazioni Keith si diresse all’ascensore che lo portò alla sua stanza.

Entrò con cautela. Tutto sembrava in ordine. Le due valige non erano state manomesse; sul letto le coperte erano state ripiegate all’indietro, e un pigiama di seta purpurea era stato preparato per lui.

Prima di dormire, Keith sfiorò un altro interruttore nella dentiera, e il radar montò la guardia. Qualunque movimento all’interno della stanza l’avrebbe destato. Sentendosi temporaneamente al sicuro si addormentò.


Mancava un’ora alla prima seduta del Grande Parlamento, quando Keith fece visita a Vasif Doutoufsky che strinse le labbra a rosetta. «Prego. Non è conveniente che sembriamo amici intimi.»

Keith sfoggiò lo sgradevole ghigno da lupo. «Niente paura.» Mostrò i congegni che aveva preso dal corpo del presunto Tamba Ngasi.

Doutoufsky guardò incuriosito.

«Questi sono circuiti di comunicazione.» Keith li gettò sulla scrivania. «Si sono guastati, e non posso presentare rapporto. Devi farlo tu per me, e fornirmi le istruzioni.»

Doutoufsky scosse la testa. «Questo non doveva essere il mio compito. Non posso compromettermi, i Cinesi sospettano già dei miei rapporti.»

E così, pensò Keith, Doutoufsky faceva il doppio gioco. I Russi sembravano fidarsi di lui, cosa che Keith riteneva alquanto ingenua. Meditò un momento, e poi infilò una mano nella borsa e ne trasse una scatoletta piatta. L’aprì e tirò fuori un piccolo oggetto di legno che somigliava a uno spicchio d’aglio. Lo lasciò cadere davanti a Doutoufsky. «Ingoialo.»

Doutoufsky sollevò lentamente gli occhi, corrugando la fronte in una lamentosa protesta. «Ti comporti in modo molto strano. Ovviamente non ingoierò questo oggetto. Che cos’è?»

«È un legame che unisce le nostre vite,» disse Keith. «Se vengo ucciso, uno dei miei organi emetterà un impulso che farà detonare questo oggetto.»

«Tu sei pazzo,» borbottò Doutoufsky. «Farò rapporto in questo senso.»

Keith si mosse in avanti, posò la mano sulla spalla di Doutoufsky, gli toccò il collo. «Sai che posso far smettere il battito del tuo cuore?» Inviò una scarica elettrica nelle unghie di rame e argento.

Doutoufsky parve più perplesso che allarmato. Keith emise una corrente più forte, abbastanza da far trasalire qualunque uomo. Doutoufsky si limitò a liberarsi dalla stretta di Keith. Le sue dita afferrarono il polso di Keith. Erano fredde, e potenti come tenaglie di acciaio. E nel bracco di Keith si propagò un doloroso colpo di corrente.

«Sei un idiota,» disse Doutoufsky disgustato. «Porto armi di cui non sai nulla. Vattene subito, o te ne pentirai.»

Keith se ne andò in preda a una costernazione prossima al malessere. Doutoufsky era stato migliorato. La sua rotondità celava senza dubbio grandi fasce di tessuto elettrogenerativo. Aveva commesso un errore grossolano, e aveva fatto la figura dello sciocco.


Suonò un gong; altri Parlamentari gli sfilarono accanto. Keith tirò un profondo respiro, ed entrò con sussiego nell’echeggiante sala a pannelli rossi, oro, e neri. Un usciere lo salutò. «Il tuo nome, signore?»

«Tamba Ngasi, Provincia di Kotoba.»

«Il tuo posto, Eccellenza, è il numero ventisette.»

Keith si sedette, ascoltando senza interesse l’invocazione. Che cosa fare con Doutoufsky?

Le sue riflessioni vennero interrotte dall’apparizione in tribuna di un uomo pesante, dalla faccia a luna piena, in una semplice veste bianca. La pelle era quasi nero azzurra, le palpebre scendevano pigramente sulle orbite sporgenti, la bocca era grande e carnosa. Keith riconobbe Adoui Shgawe, Premier di Lakhadi, benefattore dell’Africa.

Parlò con voce risonante di banalità e considerazioni di carattere generale, facendo molti riferimenti alla Solidarietà Socialista. «Il futuro di Lakhadi è il futuro dell’Africa Nera! Mentre osserviamo questo salone magnifico, e notiamo i colori della raffinata decorazione, possiamo forse evitare di restare impressionati dall’esattezza del simbolismo? Rosso è il colore del sangue, che è lo stesso per tutti gli uomini, ed è anche il colore del Socialismo Internazionale. Nero è il colore della nostra pelle, ed è nostro orgoglioso dovere assicurare che la forza e il genio della nostra razza siano rispettati su tutto il globo. Oro è il colore del successo, della gloria, e del progresso; e dorato è il futuro di Lakhadi!»

Il salone risuonò di applausi.

Shgawe passò a problemi più immediati. «Seppure spiritualmente ricchi, siamo in un certo senso impoveriti. Il Compagno Nambey Faranah,» fece un cenno col capo verso un uomo tozzo dalla faccia quadrata in completo nero, «ha presentato un programma interessante. Suggerisce che un programma di immigrazione attentamente pianificato potrebbe garantirci un nuovo e prezioso assetto nazionale. D’altro canto…»

Il Compagno Nambey Faranah balzò in piedi e si girò a fronteggiare l’assemblea. Shgawe levò una mano per trattenerlo, ma Faranah lo ignorò. «Ho conferito con l’Ambasciatore Hsia Lu-Minh della nazione amica, la Democrazia Popolare Cinese. Ha fornito la più valida rassicurazioni, e userà tutta la sua influenza per aiutarci. È del parere che un certo numero di abili tecnici agricoli possano essere di incommensurabile beneficio per il nostro popolo, e possano accelerare l’orientamento politico delle apolitiche regioni arretrate. Avanti verso il progresso!» Mugghiò Faranah. «Ben venga la possente avanzata delle razze di colore unite abbracciate sotto il rosso stendardo del Socialismo Internazionale!» Guardò per il salone in attesa dell’applauso, che fu però scarso e svogliato. Si sedette bruscamente. Keith lo osservò con nuova, cupa speculazione. Il Compagno Faranah era forse un Cinese migliorato?

Adoui Shgawe aveva pacatamente ripreso la sua arringa. «…qualcuno ha messo in dubbio la praticità di questa mossa,» stava dicendo. «Amici e compagni, vi assicuro che per quanto leali e amichevoli siano le nazioni nostre sorelle, non possono offrirci il prestigio! Più ci affidiamo a loro per una guida, più diminuisce la nostra statura tra le nazione africane.»

Nambey Faranah levò un dito vibrante. «Non è del tutto corretto, Compagno Shgawe!»

Shgawe lo ignorò «Per questa ragione ho acquistato diciotto armi americane. Ammetto che sono ingombranti e sorpassate. Ma sono tuttora strumenti terribili, ed esigono rispetto. Con diciotto missili intercontinentali pronti contro qualsiasi attacco, noi consolidiamo la nostra posizione di leader dell’Africa Nera.»

Ci fu un altro scroscio di applausi. Adoui Shgawe si sporse in avanti e fissò mitemente l’assemblea. «E questo conclude il mio discorso. Risponderò alle domande della platea… Ah, Compagno Bouassede.»


Il Compagno Bouassede, un vecchio fragile con una vaporosa barba bianca, si levò in piedi. «Molto bene, queste grandi armi, ma contro chi desideriamo usarle? Di che utilità possono essere a noi che non conosciamo queste cose?»

Shgawe annuì con enorme benevolenza. «Una domanda saggia, Compagno. Posso soltanto rispondere che non si può mai sapere da che direzione può colpire un insano militarismo.»

Faranah scattò in piedi. «Posso rispondere io alla domanda, Compagno Shgawe?»

«L’assemblea ascolterà le tue opinioni con rispetto,» dichiarò Shgawe cortesemente.

Faranah si girò verso il vecchio Bouassede. «Gli imperialisti sono con le spalle al muro, si nascondono nelle loro fatiscenti roccaforti, ma possono ancora radunare le forze per un ultimo balzo febbrile, se dovessero vedere un’occasione di profitto.»

Shgawe riprese la parola. «Il Compagno Faranah si è espresso con il suo abitudinale, instancabile entusiasmo.»

«Ma non va completamente oltre le nostre capacità mantenere questi congegni?» Domandò Bouassede.

Sghawe annuì. «Viviamo in un ambiente in continuo mutamento. In questo momento è così. Ma fino a quando non saremo in grado di agire da soli, i nostri alleati russi ci hanno offerto molti validi servizi. Ci porteranno grandi draghe aspiranti e collocheranno i tubi di lancio nella sabbia delle nostre coste soggette alla marea. Si sono anche impegnati a fornirci una nave appositamente progettata per le provviste di ossigeno liquido e carburante.»

«Queste sono tutte sciocchezze,» ringhiò Bouassede. «Dobbiamo pagare per questa nave; non è un regalo. Lo stesso denaro potrebbe essere speso meglio per costruire strade e comprare bestiame.»

«Il Compagno Bouassede non ha considerato i fattori immateriali coinvolti,» dichiarò Sghawe con serenità. «Ah, Compagno Maguemi. La tua domanda, prego.»

Il Compagno Maguemi era un giovane serio e occhialuto in abito nero. «Esattamente, quanti immigranti cinesi sono previsti?»

Sghawe guardò verso Faranah con la coda dell’occhio. «La proposta è fino a ora puramente teorica, e probabilmente…»

Faranah saltò in piedi. «È un programma di grande urgenza. Qualunque sia il numero di Cinesi necessari, daremo loro il benvenuto.»

«Questo non risponde alla mia domanda,» insistette freddamente Maguemi. «Cento tecnici capaci potrebbero infatti essere utili. Centomila contadini, una colonia di alieni in mezzo a noi, potrebbero solo arrecarci danno.»

Shgawe annuì gravemente. «Il Compagno Maguemi ha messo in luce una difficoltà molto importante.»

«Niente affatto,» esclamò Faranah. «I presupposti del Compagno Maguemi sono scorretti. Cento, centomila, un milione, dieci milioni, qual è la differenza? Siamo tutti Comunisti, e stiamo lottando per lo stesso scopo!»

«Non sono d’accordo,» gridò Maguemi. «Dobbiamo evitare soluzioni dottrinali ai nostri problemi.» Se veniamo sommersi dalla marea asiatica, la nostra voce sarà soffocata.»

Un altro giovane, magro come un uccello affamato, con il volto sottile e il naso affilato, si alzò. «Il Compagno Maguemi non ha il senso della proiezione storica. Ignora gli insegnamenti di Marx, Lenin, e Mao. Un vero Comunista non bada alla razza e alla geografia.»

«Io non sono un vero Comunista,» dichiarò Maguemi freddamente. «Non ho mai fatto un’ammissione tanto umiliante. Considero gli insegnamenti di Marx, Lenin, e Mao, ancora più obsoleti delle armi americane delle quali il Compagno Shgawe ci ha poco saggiamente gravati.»

Adoui Shgawe sorrise. «Possiamo tranquillamente procedere oltre l’argomento dell’immigrazione cinese, poiché con ogni probabilità non avverrà mai. Poche centinaia di tecnici, come suggerisce il Compagno Maguemi, naturalmente saranno benvenute. Un programma più esteso creerebbe certamente delle difficoltà.»

Nambey Faranah guardò torvo il pavimento.

Shgawe continuò a parlare con voce suadente, e di lì a poco rinviò il Parlamento a due giorni dopo.

Keith ritornò nella sua stanza al des Tropiques, si mise comodo sul divano e rifletté sulla sua posizione. Non poteva essere soddisfatto delle sue prestazioni fino a quel momento. Aveva commesso un grave errore con Doutoufsky, un errore che poteva benissimo avere destato i suoi sospetti. Di certo aveva poche ragioni per essere ottimista.


Due giorni dopo Adoui Shgawe riapparve nella Grande Camera, per parlare di una faccenda ordinaria connessa all’industria di conserve alimentari amministrata dallo Stato. Nambey Faranah non poté trattenere un’allusione maligna: «Finalmente vediamo un utilizzo per gli impianti missilistici smessi dagli Americani: possono facilmente venire convertiti in impianti per la lavorazione del pesce, e possiamo sparare gli scarti nello spazio.»

Shgawe levò le mani contro il mormorio delle risate di apprezzamento. «Questa non è altro che stupidità; ho spiegato l’importanza delle armi. Chi non ha esperienza in tali faccende non dovrebbe criticarle.»

Faranah non era disposto a farsi sottomettere così facilmente. «Come possiamo non essere inesperti? Non conosciamo nulla di questi rifiuti americani, se ne stanno non visti a galleggiare nell’oceano. Non sappiamo nemmeno se esistono.»

Shgawe scosse la testa con compassionevole disgusto. «Non ci sono estremi ai quali non arriveresti? Gli impianti sono a portata di chiunque voglia esaminarli. Domani farò uscire il Lumumba, e richiedo ora che l’insieme di tutti i membri faccia un viaggio di ispezione. Non ci saranno ulteriori giustificazioni per lo scetticismo, sempre che ora ce ne siano.»

Faranah era stato ridotto al silenzio. Diede una petulante scrollata di spalle e si accomodò al suo posto.

Quasi due terzi della Camera risposero all’invito di Shgawe, e il mattino seguente si imbarcarono sull’unica nave da guerra della marina di Lakhadi, un vecchio cacciatorpediniere francese. Suonarono le campane, sibilarono i fischietti. L’acqua ribollì a poppa e il Lumumba uscì da Tabacoundi Bay, per dirigersi a sud su lunghe onde azzurre.

Il cacciatorpediniere percorse venti miglia restando parallelo alla costa battuta dal vento; poi all’orizzonte apparvero diciassette gobbe pallide, i tubi di lancio galleggianti. Ma il Lumumba virò verso la costa, dove il diciottesimo impianto era stato innalzato su cisterne galleggianti, spinto verso la spiaggia e calato sulla sabbia sotto il livello della marea. A fianco era ormeggiata una draga russa che pompava getti d’acqua sotto il tubo di lancio, spostando la sabbia e permettendo all’impianto di assestarsi.

I Parlamentari erano in piedi sul ponte di prua del Lumumba, e fissavano l’indiscutibilmente impressionante cilindro. Tutti furono costretti ad ammettere che gli impianti esistevano. Il Premier Shgawe uscì sull’ala del ponte, con accanto il Grande Maresciallo dell’Esercito, Achille Hashembe, un uomo di sessant’anni duramente temprato, con i capelli grigi tagliati molto corti.

Mentre Shgawe si rivolgeva ai Parlamentari, Hashembe li studiava con attenzione, un volto dopo l’altro.


«L’elicottero assegnato a questo particolare impianto, è in riparazione,» disse Shgawe. «Visitare il missile stesso sarebbe scomoda impresa. Ma non importa; la nostra immaginazione ci sarà d’aiuto. Figuratevi diciotto di questi grandi armi disposte a intervalli regolari lungo le coste della nostra madrepatria; possiamo forse concepire una difesa più impressionante?»

Keith, in piedi vicino a Faranah, lo udì mormorare qualcosa a quelli più vicini. Lo osservò con grande attenzione. Due ore prima i camerieri di bordo avevano servito tazze di caffè nero, e Keith, fermandosi quattro posti prima di Faranah, aveva lasciato cadere una Pillola dell’Impopolarità nella quarta coppa. Il cameriere aveva proseguito lungo la fila; ogni Parlamentare presente aveva preso una tazza, e Faranah aveva ricevuto la tazza con la pillola. Adesso il pubblico di Faranah lo guardava con infastidito disgusto e si allontanava. Una zaffata di odore raggiunse lo stesso Keith: i biochimici americani avevano fatto un lavoro efficace, pensò. Faranah puzzava davvero miseramente. E si guardava intorno sbalordito e perplesso.

Il Lumumba circumnavigò lentamente l’impianto, che ormai aveva raggiunto una collocazione permanente nella sabbia. A bordo della draga gli ingegneri russi stavano sbloccando le pompe, prima di effettuare la stessa operazione sul secondo impianto.

Un cameriere si avvicinò a Keith. «Adoui Shgawe desidera parlarti.»

Keith seguì il cameriere al circolo ufficiali, e mentre entrava incontrò uno dei suoi colleghi sul punto di uscire.

Adoui Shgawe si alzò in piedi e si inchinò gravemente. «Tamba Ngasi, siediti, prego. Gradisci un bicchiere di brandy?»

Keith scosse bruscamente la testa per una frequente idiosincrasia di Ngasi.

«Conosci il Grande Maresciallo Hashembe?» chiese Shgawe educatamente.

Keith era stato istruito esaurientemente per quanto possibile, ma su quel punto non aveva alcuna informazione. Eluse la domanda. «Ho un’alta stima delle capacità del Grande Maresciallo.»

Hashembe gli rispose con un breve cenno del capo, ma non disse nulla.

«Colgo l’occasione,» disse Shgawe, «per sapere se sei solidale con il mio programma, ora che hai avuto l’opportunità di osservarlo più da vicino.»

Keith si prese un momento per riflettere. Nelle parole di Shgawe si nascondeva l’implicazione di un precedente disaccordo. Si immedesimò nella parte di Tamba Ngasi, e parlò esprimendo le opinioni che ci si sarebbe aspettati da lui. «C’è troppo spreco, troppa influenza straniera. Abbiamo bisogno di acqua per le terre aride, abbiamo bisogno di medicine per il bestiame. Queste cose mancano, e interi tesori vengono sperperati per le costruzioni idiote di Fejo.» Con la coda dell’occhio vide Hashembe stringere appena gli occhi. Approvazione?

Shgawe rispose, con studiata affabilità. «Rispetto la tua argomentazione, ma c’è altro da considerare: i Russi ci hanno prestato il denaro per costruire Fejo come simbolo di progresso. Non avrebbero permesso che il denaro venisse usato a scopi meno drammatici. Abbiamo accettato, e sento che ne abbiamo beneficiato. Oggi giorno il prestigio è altamente importante.»

«Importante, per chi? A quale fine?» Borbottò Keith. «Perché dobbiamo aspirare a una gloria che non è nostra?»

«Dichiari la sconfitta prima che la battaglia cominci,» disse Shgawe con maggior vigore. «Sfortunatamente questo è il nostro retaggio africano, e deve essere superato.»

Keith, sempre recitando la parte di Ngasi, disse: «La mia patria è Kotoba, sulle acque stagnanti del Dasa, e la mia gente vive in capanne di fango. Non è ridicola l’idea della gloria per il popolo di Kotoba? Dateci acqua, bestiame e medicine.»

La voce di Shgawe calò di tono. «Per il popolo di Kotoba, anch’io voglio acqua, bestiame e medicine. Ma voglio più di questo, e gloria forse è una ben misera parola da usare.»


Hashembe si alzò in piedi, si inchinò rigidamente a Shgawe e a Keith, e lasciò la stanza. Shgawe scosse la testa rotonda. «Hashembe non può capire la mia visione. Lui vuole che scacci gli stranieri: i Russi, i Francesi, gli Indù, soprattutto i Cinesi.»

Keith si alzò. «Io non sono del tutto contrario ai tuoi punti di vista. Forse hai dei documenti che posso leggere?» Mosse con disinvoltura un passo all’interno della stanza. Shgawe scrollò le spalle e guardò tra le sue carte. Keith sembrò inciampare, e con le nocche sfiorò la parte posteriore del collo grassoccio di Shgawe. «Ti chiedo perdono, Eccellenza,» disse Keith. «Sono maldestro.»

«Non importa,» disse Shgawe. «Ecco: questo e questo, carte che spiegano le mie idee per lo sviluppo di Lakhadi e della Nuova Africa.»

Sbatté le palpebre. Keith prese le carte, le esaminò. Gli occhi di Shgawe si chiusero pesantemente mentre la droga iniettatagli sottopelle da Keith si diffondeva nel suo corpo.

Keith si mosse in fretta. Shgawe portava i capelli cosparsi di olio a ricci grossi e corti; alla base di uno dei ricci Keith fissò una pallottolina nera non più grande di un granello di riso, poi si tirò indietro e si rimise a leggere le carte.

Hashembe rientrò nella stanza. Si fermò, spostò lo sguardo da Shgawe a Keith. «Sembra che si sia appisolato,» disse Keith e continuò a leggere.

«Adoui Shgawe!» lo chiamò Hashembe. «Stai dormendo?»

Le palpebre di Shgawe vibrarono; tirò un profondo sospiro, alzò gli occhi. «Hashembe… Devo avere sonnecchiato. Ah, Tamba Ngasi. Quelle carte, puoi tenerle, e spero che in Parlamento ti comporterai in modo solidale riguardo alle mie proposte. Sei un uomo influente, e dipendo dal tuo supporto.»

«Terrò a cuore le tue parole, Eccellenza.» Lasciando il circolo ufficiale Keith salì rapidamente sul ponte volante. Il Lumumba adesso stava risalendo la costa verso Fejo. Keith toccò uno degli interruttori interni, e la voce di Shgawe attraversò il suo canale uditivo: «…è cambiato, e in complesso è diventato un uomo più ragionevole. Non ho prove al riguardo, oltre a ciò che percepisco in lui.»

La voce di Hashembe gli giunse più debolmente: «Sembra che non si ricordi di me, ma molti anni fa, quando apparteneva alla Società degli Uomini Leopardo, ho catturato lui e una dozzina dei suoi compagni a Engassa. Ha ucciso due dei miei uomini ed è scappato, ma non gli porto rancore.»

«Ngasi è un uomo che merita un’attenta considerazione,» disse Shgawe. «È più acuto di quanto sembri, e non ha molto del capotribù di una terra di confine, come vorrebbe farci credere.»

«Forse no,» disse Hashembe.

Keith interruppe la connessione, parlò per il codificatore: «Sono a bordo del Lumumba, siamo appena andati a dare un’occhiata agli impianti missilistici. Ho attaccato la mia trasmittente numero uno alla persona di Adoui Shgawe; adesso state intercettando le conversazioni di Shgawe. Io non mi azzardo ad ascoltare; potrebbero scoprirmi a causa della risonanza. Se capita qualcosa di interessante, fatemelo sapere.»

Fece scattare l’interruttore; l’impulso dell’informazione sfrecciò fino al satellite e rimbalzò giù a Washington.


Il Lumumba entrò a Tabacoundi Bay e attraccò. Keith ritornò all’Hotel des Tropiques, si fece portare al secondo piano dall’ascensore scintillante, percorse a lunghi passi il corridoio di seta e marmo e arrivò alla porta della sua stanza. Due circostanze gli salvarono la vita: l’abitudine inveterata di non oltrepassare mai incautamente una porta, e il radar negli amuleti alle orecchie. La prima lo mise in guardia; la seconda lo scagliò di lato e indietro, mentre il punto occupato prima dalla sua faccia veniva attraversato da una pioggia di piccoli aghi di vetro che colpirono tintinnando la parete opposta e caddero a terra in frammenti.

Keith si rimise in piedi, guardò attentamente nella stanza. Era vuota. Entrò e chiuse la porta. Una catapulta aveva lanciato gli aghi, un meccanismo piuttosto semplice. Qualcuno nell’Hotel sarebbe stato nei paraggi per controllare l’accaduto e per rimuovere la catapulta, necessariamente in brevissimo tempo.

Keith corse alla porta, l’aprì piano, guardò nel corridoio. Vuoto, ma già si sentiva rumore di passi. Lasciò la porta aperta e si appiattì contro la parete.

I passi si fermarono. Keith udì respirare. Sulla soglia apparve la punta di un naso; si mosse interrogativamente a destra e a sinistra. Poi ecco tutto il volto che si girò e guardò in faccia a Keith. La bocca si aprì in un sussulto, poi si contrasse in una smorfia quando le mani di Keith si alzarono a stringere il collo. La bocca aperta non emise alcun suono.

Keith tirò l’uomo nella stanza e chiuse la porta. Era un mulatto, di circa quarant’anni. Le guance grasse erano gonfie e cadenti, il naso un becco pieno di protuberanze. Keith lo riconobbe: Corty, il suo contatto originario a Fejo. Lo guardò profondamente negli occhi; erano arrossati e le pupille erano punte di spillo; lo sguardo sembrava velato.

Keith trasmise una scarica di elettricità nel corpo simile a gomma. Corty aprì la bocca in agonia, ma non gridò. Keith fece per parlare, ma Corty lo indusse al silenzio con un gesto disperato. Prese la matita dalla tasca di Keith e scribacchiò in inglese: «Cinesi, mi hanno messo un circuito nella testa, mi fanno impazzire.»

Keith lo fissò. Corty improvvisamente spalancò gli occhi. Lanciando un urlo afono portò le mani ad artiglio alla gola di Keith, tentando di stringerla.

Keith lo uccise con una scarica elettrica e rimase a guardare il corpo afflosciato a terra.

Che il cielo aiuti gli agenti americani che cadono in mano ai Cinesi, pensò Keith. Gli avevano fatto passare dei fili nel cervello, nella sede dei processi connessi al dolore; poi impartendo ordini e ascoltando attraverso dei transistor, potevano punzecchiare, punire, o condurre alla frenesia furiosa secondo la loro volontà. Quell’uomo era più felice da morto.

I Cinesi avevano scoperto la sua identità. Forse qualcuno lo aveva visto piazzare l’intercettatore su Shgawe? O Doutoufsky aveva fatto un’allusione esplicita? Oppure — ma era la cosa meno probabile — i Cinesi desideravano semplicemente toglierlo di mezzo, come Africano isolazionista?

Keith guardò nel corridoio, e vide che era deserto. Fece rotolare fuori il cadavere, e ispirato da un macabro capriccio lo trascinò per i piedi fino all’ascensore e lo spedì giù nell’atrio.


Ritornò nella sua stanza in preda alla depressione. Nord contro Est contro Sud contro Ovest: una guerra a quattro poli. Il pensiero gli corse a tutte le battaglie, le campagne, le tragedie: sofferenze superiori a ogni calcolo. E a quale scopo? La finale pacificazione della Terra? Improbabile, considerando in milioni di anni ancora a venire. E allora perché lui, James Keith, cittadino americano, era mascherato da Tamba Ngasi, e correva il rischio di perdere la vita e di ritrovarsi i centri del dolore del cervello attraversati da fili elettrici? Le riflessioni riportarono Keith a una risposta evidente: tutta la storia umana è condensata nello spazio vitale di ogni individuo. Ogni uomo può godere dei trionfi o patire le sconfitte di tutta la razza umana. Carlo Magno era morto da grande eroe, anche se il suo impero si era immediatamente diviso in frammenti. Ogni uomo deve vincere la sua vittoria personale, conquistare la sua meta unica ed egoistica.

Altrimenti, la speranza non poteva esistere.

Il cielo sopra il fantastico profilo di Fejo si tinse di un porpora fumoso. Luci colorate ammiccavano nella piazza. Keith andò alla finestra, guardò fuori il fantastico cielo al crepuscolo. Non voleva avere più niente a che fare con quella faccenda; se fosse volato subito a casa, avrebbe potuto salvarsi la vita. Altrimenti… pensò a Corty. Nella sua mente scattò un collegamento. La voce di Carl Sebastiani parlò senza emettere il minimo suono ma aspra e pressante: «Adoui Shgawe è morto… assassinato due minuti fa. La notizia ci è giunta grazie alla tua trasmittente numero uno. Vai a palazzo, agisci con decisione. Questo è un evento critico.»


Keith si alzò, provò gli accumulatori. Fece scorrere indietro la porta, guardò nel corridoio. Due uomini nella tunica bianca della Milizia di Lakhadi erano vicino all’ascensore. Keith uscì e si diresse verso di loro. I due uomini tacquero e lo osservarono avvicinarsi. Keith fece un cenno con austera cortesia; si dispose a scendere ma lo fermarono. «Signore, hai avuto una visita questa sera? Un mulatto di mezza età?»

«No. Cosa significa tutto questo?»

«Stiamo cercando di identificare quest’uomo. È morto in strane circostanze.»

«Non so niente di lui. Fatemi passare; sono il Parlamentare Tamba Ngasi.»

Gli uomini della Milizia si inchinarono educatamente; Keith scese nell’atrio con l’ascensore.

Attraversò di corsa la piazza, passò davanti ai sei guerrieri di basalto, si avvicinò alla facciata del palazzo. Salì i bassi gradini, entrò nel vestibolo. Un usciere in uniforme rossa e argento, con un copricapo piumato munito di nasale d’argento, gli si fece incontro. «Buona sera, signore.»

«Sono Tamba Ngasi, Parlamentare. Devo vedere Sua Eccellenza, immediatamente.»

«Spiacente, signore, il Premier Shgawe ha dato ordine di non essere disturbato questa sera.»

Keith puntò un dito verso l’atrio. «E allora chi è quello?»

L’usciere guardò, Keith gli batté le nocche contro la gola, gli premette le giunture nervose sotto le orecchie fino a che smise di lottare, poi lo trascinò nel suo cubicolo. Sbirciò nell’atrio. Alla scrivania della reception era seduta una giovane donna attraente in un lava-lava polinesiano. Aveva la pelle dorata, e i capelli erano raccolti in una soffice piramide nera.

Keith entrò, e la giovane gli sorrise cortesemente.

«Il Premier Shgawe mi sta aspettando,» disse Keith. «Dove posso trovarlo?»

«Spiacente, signore, ha appena dato ordine che non vuole essere disturbato.»

«Appena dato ordine?»

«Sì, signore.»

Keith annuì assennatamente, poi indicò il telefono sulla scrivania. «Sii così gentile da chiamare il Grande Maresciallo Achille Hashembe, per una questione urgente.»

«Il tuo nome, signore?»

«Sono il Parlamentare Tamba Ngasi. Fai in fretta.»

La ragazza si chinò sul telefono.

«Chiedigli di raggiungere subito me e il Premier Shgawe,» ordinò Keith brevemente.

«Ma, signore…»

«Il Premier Shgawe mi sta aspettando. Chiama subito il Maresciallo Hashembe.»

«Sì, signore.» La ragazza premette un bottone. «Il Grande Maresciallo Hashembe dal Palazzo di Stato.»

«Dove posso trovare il Premier?» chiese Keith avviandosi.

«È nel salotto del secondo piano, con i suoi amici. Un fattorino ti accompagnerà.» Keith attese; meglio pochi secondi di ritardo che un’addetta alla reception isterica.


Arrivò il fattorino, un ragazzo di sedici anni con una lunga tunica di velluto nero. Keith lo seguì su per una rampa di scale fino a due battenti di legno intagliato. Il fattorino fece per aprire la porta, ma Keith lo fermò. «Ritorna ad aspettare il Grande Maresciallo Hashembe e portalo subito qui.»

Il fattorino si ritirò esitante, guardando da sopra la spalla. Keith non gli fece più attenzione. Spinse piano il saliscendi. La porta era chiusa a chiave. Keith premette una minima quantità di esplosivo plastico sullo stipite della porta, vi attaccò un detonatore e si appiattì contro la parete.

Simultaneamente all’esplosione, Keith si gettò tra le schegge di legno, spalancò la porta con una spinta, ed entrò. Tre uomini sbigottiti lo guardarono. Uni di essi era Adoui Shgawe. Gli altri due erano Hsia Lu-Minh, l’Ambasciatore cinese, e Vasif Doutoufsky, Capoufficio del Grande Parlamento di Lakhadi.

Doutoufsky era fermo con il pugno destro chiuso, leggermente sporto in avanti. Sul dito medio scintillava la pietra di un grosso anello.

Dei passi risuonarono per il corridoio: l’usciere e un guerriero nell’uniforme di cuoio nero della Guardia Eletta Corvina.

Shgawe chiese mitemente: «Che cosa significa tutto questo?»

L’usciere esclamò con ardore: «Quest’uomo mi ha aggredito; è venuto con propositi malvagi!»

«No,» protestò Keith confuso. «Temevo che Tua Eccellenza fosse in pericolo; adesso vedo che ero stato male informato.»

«Gravemente male informato,» disse Shgawe. Fece un cenno con le dita. «Ora vattene, ti prego.»

Doutoufsky si chinò a sussurrare qualcosa all’orecchio di Shgawe. Lo sguardo di Keith si soffermò sulla mano del Premier, anch’essa adorna di un pesante anello. «Tamba Ngasi, rimani se vuoi; desidero conferire con te.» Congedò l’usciere e il guerriero. «Quest’uomo è degno di fiducia. Potete andare.»

I due uomini si inchinarono e scomparvero. La confusione nella mente di Keith era svanita. Shgawe fece per alzarsi in piedi, Doutoufsky avanzò furtivamente in atteggiamento pensoso. Keith si gettò sul tappeto; il raggio laser della sua torcia attraversò la faccia di Doutoufsky e proseguì contro la tempia di Shgawe. Con un urlo gracchiante Doutoufsky si premette le mani contro gli occhi devastati; il raggio del suo stesso anello gli bruciò un solco sulla faccia. Shgawe era caduto sulla schiena. Il corpo grasso tremava, si contraeva e fremeva. Keith li colpì di nuovo col raggio della torcia, e morirono entrambi. Hsia Lu-Minh, schiacciato contro la parete, se ne stava immobile, con gli occhi sgranati per l’orrore. Keith balzò in piedi, corse avanti. Hsia Lu-Minh non oppose resistenza quando Keith gli iniettò dell’anestetico nel collo.

Keith si ritrasse ansimando, e ancora una volta il radar incorporato gli salvò la vita. Un impulso, nemmeno registrato dal suo cervello, gli fece contrarre i muscoli e lo scagliò di lato. Il proiettile gli attraversò la veste scalfendogli la pelle. Un altro proiettile gli passò accanto fischiando. Keith vide Hashembe in piedi sulla soglia, e dietro di lui il fattorino sconvolto.

Hashembe prese con comodo la mira.

«Aspetta,» gridò Keith. «Non sono stato io!»


Hashembe sorrise debolmente, e il dito premette il grilletto. Keith si buttò a terra e diresse il raggio laser sul polso di Hashembe. La pistola cadde e Hashembe rimase fermo, eretto, un po’ stordito. Keith corse avanti e lo gettò sul pavimento; afferrò il fattorino e gli iniettò del gas anestetico nella nuca, poi lo tirò nella stanza e chiuse la porta con un colpo.

Si girò e vide Hashembe che tentava di raggiungere la pistola con la mano sinistra. «Fermo!» gridò Keith con voce rauca. «Ti ho detto che non sono stato io.»

«Hai ucciso Shgawe.»

«Questo non è Shgawe.» Raccolse la pistola. «È un agente cinese, a cui hanno plasmato la faccia in modo che avesse lo stesso aspetto di Shgawe.»

Hashembe era scettico. «È difficile da credere.» Abbassò gli occhi sul cadavere. «Adoui Shgawe non era grasso come quest’uomo.» Si piegò, sollevò le dita grassocce del morto, poi si raddrizzò. «Questo non è Adoui Shgawe!» Esaminò Doutoufsky. «Il Capoufficio, un rinnegato polacco.»

«Pensavo che lavorasse per i Russi. Un errore che mi è quasi costato la vita.»

«Dov’è Shgawe?»

Keith girò lo sguardo per la stanza. «Dev’essere qui vicino.»

Nel bagno trovarono il cadavere di Shgawe. Un foglio di plastica al fluorosilicio rivestiva la vasca, nella quale era stato versato acido fluoridrico da due grandi damigiane per liquidi corrosivi. Il corpo di Shgawe giaceva supino nella vasca, ormai liquefatto, irriconoscibile.

Soffocati dalle esalazioni, Hashembe e Keith uscirono barcollando e sbatterono la porta.

La compostezza di Hashembe era svanita. Vacillò verso una sedia, e stringendosi il braccio ferito mormorò: «Io non capisco nulla di questi delitti.»

Keith diresse lo sguardo sulla forma accasciata dell’Ambasciatore cinese. «Shgawe era troppo forte per loro. O forse era venuto a sapere del grande piano.»

Hashembe scosse la testa intontito.

«I Cinesi vogliono l’Africa,» disse Keith. «È molto semplice. L’Africa ha spazio sufficiente per un bilione di Cinesi. Tra cinquant’anni potrebbe starcene comodamente un altro bilione.»

«Se è vero,» disse Hashembe, «è mostruoso. E Shgawe, che non avrebbe tollerato nulla di tutto ciò, è morto.»

«Di conseguenza,» disse Keith, «dobbiamo sostituire Shgawe con un leader che intenda perseguire gli stessi scopi.»

«E dove lo troviamo un leader così?»

«Qui. Io sono quel leader. Tu controlli l’esercito; non può esserci opposizione.»

Hashembe restò seduto due minuti a fissare nel vuoto. Poi si alzò in piedi. «Va bene. Tu sei il nuovo Premier. Se sarà necessario scioglieremo il Parlamento. Ad ogni modo non è altro che un recinto per galline starnazzanti.»


L’assassinio di Adoui Shgawe sconvolse la nazione e l’Africa intera. Quando il Grande Maresciallo Achille Hashembe comparve davanti al Parlamento, e annunciò che i suoi membri potevano scegliere se eleggere Tamba Ngasi Premier di Lakhadi, oppure sottomettersi allo scioglimento e alla legge marziale, Tamba Ngasi venne eletto senza esitazione.

Keith, indossando l’uniforme nera e oro dei Leoni Eletti, si rivolse alla Camera.

«In generale, la mia politica è identica a quella di Adoui Shgawe. Egli sperava in una forte Africa Unita; questa è anche la mia speranza. Egli tentava di evitare la dipendenza dalle potenze straniere, accettando in compenso l’aiuto sincero che gli veniva offerto. Questa è anche la mia politica. Adoui Shgawe amava la sua terra natia, e cercava di fare di Lakhadi un lume ispiratore di tutta l’Africa. Io spero di fare altrettanto. Gli impianti missilistici verranno piazzati esattamente come Adoui Shgawe aveva progettato, e i nostri tecnici di Lakhadi continueranno a imparare come funzionano quei congegni.»

Le settimane passarono. Keith rinnovò il personale del palazzo, e fece passare ogni pollice quadrato di pavimenti, pareti, soffitti, mobili e impianto eliminando tutte le cellule spia. Sebastiani gli aveva mandato tre nuovi operativi che funzionassero come collegamenti e provvedessero alla consulenza tecnica. Keith non comunicava più direttamente con Sebastiani; senza la diretta connessione con il suo superiore, la distinzione tra James Keith e Tamba Ngasi talvolta sembrava sfocare.

Keith era consapevole di questa tendenza, e faceva esercizi pratici contro la confusione. «Ho assunto il nome di quest’uomo, la sua faccia, la sua personalità. Devo pensare come lui, devo agire come lui. Ma non posso essere quell’uomo!» Ma qualche volta, quand’era particolarmente stanco, l’incertezza lo angustiava. Tamba Ngasi? James Keith? Quale era la vera personalità?


Due mesi trascorsero tranquillamente, e anche un terzo. La calma nell’occhio del ciclone, pensò Keith. Di tanto in tanto il protocollo esigeva che si incontrasse e conferisse con Hsia Lu-Minh, l’Ambasciatore cinese. Nel corso di tali occasioni, prevalevano il decoro e la formalità; l’assassinio di Adoui Shgawe non sembrava altro che il residuo di un sogno spiacevole.

«Un sogno,» pensava Keith, e la parola gli riecheggiava nella mente. «Sto vivendo in un sogno.» In un subitaneo spasmo di terrore chiamò Sebastiani. «Mi sto esaurendo, sto perdendo me stesso.»

La voce di Sebastiani era fredda e ragionevole. «Sembra che tu stia facendo un bel lavoro.»

«Uno di questi giorni,» disse Keith cupamente, «mi parlerai in Inglese e io risponderò in Swahili. E allora…»

«E allora?» ribatté Sebastiani.

«Niente di importante,» disse Keith. E allora saprai che quando James Keith e Tomba Ngasi si sono incontrati tra i cespugli di rovi sulla sponda del fiume Dasa, Tamba Ngasi se ne è andato vivo, e gli sciacalli hanno divorato il corpo di James Keith.

Sebastiani diede a Keith un suggerimento lievemente inopportuno: «Trovati una di quelle belle ragazze di Fejo, e consuma un po’ della tua energia nervosa.»

Keith respinse cupamente l’idea. «Sentirebbe i collegamenti scattare e ronzare, e si chiederebbe che cosa l’ha corteggiata.»


Arrivò il giorno in cui finalmente gli impianti missilistici furono piazzati. Diciotto grandi cilindri di cemento, lambiti dalle lunghe onde dell’Atlantico, erano allineati lungo la costa di Lakhadi. Keith istituì un giorno di festa nazionale per celebrare l’installazione, e presiedette a un banchetto all’aperto nella piazza davanti alla Casa del Parlamento. I discorsi si susseguirono per ore, inneggiando alla nuova grandezza di Lakhadi. «Una nazione un tempo soggetta al crudele giogo imperialistico, e ora in possesso di una cultura superiore a qualunque altra a occidente della Cina!» furono le parole di Hsia Lu-Minh, accompagnate da un’occhiataccia a Leon Pashenko, l’Ambasciatore russo.

Pashenko, a sua volta, si espresse con parole altrettanto mordaci. «Con l’aiuto dell’Unione Sovietica, Lakhadi si trova assolutamente al sicuro dalle manovre offensive dell’Occidente. Raccomandiamo ora che tutti i tecnici, eccettuati quelli attualmente impegnati nei programmi di addestramento, vengano ritirati. La manodopera africana deve foggiare il futuro dell’Africa!»

James Keith ascoltava le loro voci solo parzialmente, e, senza che ne avesse l’intenzione, nella sua mente si formò uno schema dalla prospettiva così magnifica da sorprenderlo. Era una questione politica; poteva gire senza prima consultare Sebastiani? Ma era Tamba Ngasi almeno quanto era James Keith. E quando si alzò per rivolgersi all’assemblea, fu Tamba Ngasi a parlare.

«I Compagni Pashenko e Hsia hanno parlato, e io ho ascoltato con interesse. Soprattutto mi sono graditi i sentimenti espressi dal Compagno Pashenko. I cittadini di Lakhadi devono operare in maniera eccellente in ogni campo, senza ulteriori controlli dall’estero. Tranne per quanto riguarda una faccenda critica. Non siamo ancora in grado di fabbricare le testate per il nostro nuovo sistema di difesa. Colgo quindi questa felice occasione per richiedere ufficialmente all’Unione Sovietica i materiali esplosivi necessari.»

Gli applausi si levarono alti, e mentre Hsia Lu-Minh batteva le mani con zelo, Leon Pashenko mostrava molto meno entusiasmo. Dopo il banchetto fece visita a Keith, e si espresse con molta schiettezza.

«Mi rincresce, ma la politica stabilita dall’Unione Sovietica è di mantenere il controllo su tutti i suoi congegni nucleari. Non possiamo aderire alla tua richiesta.»

«Peccato,» disse Keith.

Leon Pashenko parve sorpreso, essendosi aspettato proteste e discussioni.

«Peccato, perché adesso sono costretto a rivolgere la stessa richiesta ai Cinesi.»

Leon Pashenko sottolineò i pericoli contingenti. «I Cinesi sono padroni duri!»

Keith congedò con un inchino il perplesso Russo. Inviò immediatamente un messaggio all’Ambasciata cinese, e mezz’ora dopo apparve Hsia Lu-Minh.

«Le idee espresse questa sera dal Compagno Pashenko mi sembravano valide,» disse Keith. «Suppongo che tu sia d’accordo.»

«Di tutto cuore,» dichiarò Hsia Lu-Minh. «Naturalmente però il programma per la riforma agricola di cui abbiamo discusso a lungo non verrebbe sottoposto a tali restrizioni.»

«Assolutamente sì,» disse Keith. «Comunque potrebbe venire iniziato un limitatissimo programma sperimentale a condizione che la Democrazia Popolare Cinese fornisca le testate, immediatamente e rapidamente, per i nostri diciotto missili.»

«Devo comunicare con il mio governo,» disse Hsia Lu-Minh.

«Sei pregato di fare presto,» disse Keith, «sono impaziente.»


Hsia Lu-Minh ritornò il giorno seguente. «Il mio governo è d’accordo di armare i missili, a condizione che il programma sperimentale previsto consista di almeno duecentomila tecnici agricoli.»

«Impossibile! Come possiamo sopportare un’incursione tanto numerosa?»

La cifra fu infine stabilita a centomila, con solo sei missili forniti delle testate nucleari.

«Questo accordo segnerà un’epoca,» dichiarò Hsia Lu-Minh. «È l’inizio di un processo rivoluzionario,» confermò Keith.

Ci furono ulteriori dispute per concordare la consegna delle testate contemporaneamente all’arrivo dei tecnici, e le negoziazioni quasi saltarono. Hsia Lu-Minh si mostrò afflitto di scoprire che Keith esigeva un’effettiva e immediata consegna delle testate, e non si accontentava di una dichiarazione meramente simbolica dell’intento. Keith, a sua volta, espresse un moto di sorpresa quando Hsia Lu-Minh sollevò delle obiezioni alla clausola condizionale che concedeva ai «tecnici» che sarebbero arrivati un visto di soli sei mesi, contrassegnato TEMPORANEO, con opzione di rinnovo a discrezione del governo di Lakhadi. «Come possono i tecnici identificarsi con i problemi? Come possono imparare ad amare il suolo che devono coltivare?»

Le difficoltà furono infine appianate; Hsia Lu-Minh si accomiatò. Quasi subito Keith ricevette una chiamata da Sebastiani, che aveva soltanto allora appreso della trattativa in corso tra Cina e Lakhadi. La voce di Sebastiani era prudente, titubante, indagatrice. «Non capisco bene i risvolti razionali di questo progetto.»

Quando Keith era stanco, l’elemento Tamba Ngasi della sua personalità esercitava un’influenza maggiore. La voce che rispose a Sebastiani risuonò impaziente, aspra e rude alle orecchie dello stesso Keith.

«Non ho dato il via a questo progetto con razionalità, ma con intuito.»

La voce di Sebastiani si fece ancora più prudente. «Non riesco a vedere i vantaggi di questo affare.»

Keith, o Tamba Ngasi, qualunque fosse la personalità dominante, rise. «I Russi stanno lasciando Lakhadi.»

«Mai Cinesi mantengono il controllo. In confronto ai Cinesi, i Russi sono garbati conservatori.»

«Ti sbagli. Io ho il controllo!»

«Benissimo, Keith,» disse Sebastiani meditabondo. «Capisco che dobbiamo avere fiducia nel tuo giudizio.»

Keith — o Tamba Ngasi — diede una risposta brusca, e se ne andò a letto. Lì la tensione lo abbandonò, e James Keith restò sdraiato a fissare nel buio.


Passò un mese. I Cinesi consegnarono due testate, trasportandole via aria dagli impianti di produzione di Ulan Bator. Elicotteri da carico le misero in posizione, e Keith rivolse un discorso trionfante a Lakhadi, all’Africa, e al mondo. «Da questo giorno in poi, Lakhadi, il timone dell’Africa, avrà diritto a un posto tra i consigli del mondo. Abbiamo ricercato il potere, non soltanto per il desiderio di potere, ma per assicurare all’Africa la rappresentanza di cui il nostro popolo godeva solo nominalmente. Il Sud non deve più sottomettersi all’Ovest, al Nord, o all’Est!»

Il primo contingente di «tecnici» cinesi arrivò tre giorni dopo: mille giovani uomini e donne, uniformemente vestiti in tuta blu e scarpe di tela bianca. Marciarono in plotoni disciplinati fino agli autobus, e vennero convogliati a una tendopoli vicina alle terre dove si sarebbero dovuti insediare.

Quel giorno Leon Pashenko fece visita a Keith per consegnare una comunicazione confidenziale da parte del Presidente dell’URSS. Pashenko attese che Keith scorresse rapidamente lo scritto.

«È necessario sottolineare,» diceva la comunicazione, «che il governo dell’URSS non vede positivamente l’espansione dell’influenza cinese a Lakhadi, e si ritiene libero di prendere le misure indispensabili a proteggere gli interessi dell’URSS.»

Keith annuì lentamente. Levò gli occhi su Pashenko, che lo osservava con le labbra tirate in un sorriso inespressivo. Keith premette un bottone e parlò attraverso una griglia. «Fate entrare le telecamere della televisione, sto per trasmettere un comunicato importante.»

Una squadra arrivò in fretta con tutto l’equipaggiamento. Il sorriso di Pashenko si fece ancora più immobile, la pelle parve rammollirsi.

Il regista fece un segnale a Keith. «Siamo in onda.»

Keith guardò dentro l’obiettivo. «Cittadini di Lakhadi, e Africani. Seduto accanto a me c’è Leon Pashenko, Ambasciatore dell’URSS. Mi ha appena omaggiato di una comunicazione ufficiale che tenta di interferire con la politica interna di Lakhadi. Colgo l’occasione per esprimere un pubblico rimprovero all’Unione Sovietica. Dichiaro che il governo di Lakhadi verrà influenzato solo da provvedimenti tesi a beneficiare i suoi cittadini, e che ogni ulteriore interferenza da parte dell’Unione Sovietica può condurre alla rottura delle relazioni diplomatiche.»

Keith si inchinò cortesemente a Leon Pashenko, che per tutto il tempo in cui era stato inquadrato dalla telecamera aveva mantenuto una smorfia congelata sulla faccia. «Prego, accetta quest’annuncio come risposta ufficiale alla comunicazione di questa mattina.»

Senza dire una parola, Pashenko si alzò in piedi e lasciò la stanza.


Alcuni minuti più tardi Keith ricevette una comunicazione da Sebastiani. La voce silenziosa era più pungente di quanto Keith l’avesse mai sentita. «Cosa diavolo hai intenzione di fare? Pubblicità? Hai umiliato i Russi, forse hai messo fine alla loro presenza in Africa, ma hai considerato i rischi? Non per te stesso, non per Lakhadi, nemmeno per l’Africa, ma per il mondo intero?»

«Non ho considerato tali rischi. Essi non concernono Lakhadi.»

La voce di Sebastiani si incrinò per la rabbia. «Lakhadi non è il centro dell’universo solo perché tu vi sei stato assegnato! Da adesso in poi — questi sono ordini, bada — non muoverti senza prima consultare me!»

«Ho sentito tutto quello che mi interessava,» disse Tamba Ngasi. «Non chiamarmi di nuovo, non cercare di interferire con i miei piani.» Staccò il ricevitore, sospirò, e si lasciò cadere nella poltrona. Poi sbatté gli occhi, e si drizzò a sedere mentre il ricordo della conversazione gli echeggiava nel cervello.

Per un momento pensò di richiamare per cercare di spiegarsi, poi rinunciò all’idea. Di certo Sebastiani avrebbe pensato che era impazzito, quando invece era semplicemente troppo stanco, troppo teso. Così Keith si rassicurò.

Il giorno seguente ricevette un rapporto da un gruppo di tecnici svizzeri, e fu preso dalla collera, sebbene le scoperte non facessero che confermare quello che si era aspettato.

L’Ambasciatore cinese sfortunatamente scelse proprio quel momento per fargli visita, e venne fatto accomodare nell’ufficio del Premier. Con la faccia rotonda, cerimonioso, traboccante di affabilità, Hsia Lu-Minh si fece avanti.

Mi prende per il capotribù di una terra sperduta, pensò l’uomo che ormai era interamente Tamba Ngasi, un uomo spietato come un caimano, astuto come uno sciacallo, oscuro come la giungla.

Hsia Lu-Minh era pieno di complimenti benevoli. «Con quanta chiarezza hai compreso il corso del futuro! Non è solo un truismo affermare che le razze di colore di tutto il mondo condividono un comune destino.»

«Davvero?»

«Davvero! E io reco l’autorizzazione del mio governo a permettere il trasferimento a Lakhadi di un altro gruppo di lavoratori capaci e altamente addestrati!»

«E cosa mi dici delle altre testate per i missili?»

«Verranno sicuramente consegnate e imballate secondo il previsto.»

«Ho cambiato idea,» disse Tamba Ngasi. «Non voglio più immigranti cinesi. Parlo a nome di tutta l’Africa. Coloro che si trovano già in questo paese devono andarsene, e così anche le missioni cinesi di Mali, Ghana, Sudan, Angola, della Federazione Congolese, praticamente di tutta l’Africa. I Cinesi devono lasciare l’Africa, completamente e irrevocabilmente. Questo è un ultimatum. Avete una settimana per acconsentire. Altrimenti Lakhadi dichiarerà guerra alla Repubblica Popolare Cinese.»

Hsia Lu-Minh lo ascoltò esterrefatto, con la bocca spalancata a forma di ciambella per lo stupore. «Stai scherzando?» chiese con voce tremolante.

«Credi che stia scherzando? Ascolta!» Di nuovo Tamba Ngasi fece chiamare la squadra televisiva, e di nuovo fece una dichiarazione pubblica.


«Ieri ho ripulito il mio paese dai Russi; oggi caccio i Cinesi. Ci hanno aiutato a uscire dal caos post-coloniale, ma perché? Per perseguire i loro vantaggi. Non siamo gli sciocchi che credono.» Tamba Ngasi puntò un dito contro Hsia Lu-Minh. «Parlando a nome del suo governo, Hsia Lu-Minh ha graziosamente acconsentito. Partiranno subito. Lakhadi ora ha una robusta difesa, e non ha più bisogno della protezione di nessuno. Se qualcuno dovesse cercare di opporsi all’epurazione dell’influenza straniera, queste armi verranno usate all’istante, senza remore. Non posso parlare più chiaramente.» Si rivolse all’inerte Ambasciatore cinese. «Compagno Hsia, a nome dell’Africa ti ringrazio per la promessa di cooperazione, e mi impegno a fartela rispettare.»

Hsia Lu-Minh uscì barcollando dalla stanza. Ritornò all’Ambasciata cinese e si sparò un colpo in testa.

Otto ore dopo un aereo cinese arrivò a Fejo, carico di ministri, generali e assistenti. Tamba Ngasi li ricevette immediatamente. Ting Sieuh-Ma, principale teorico cinese, parlò con veemenza. «Ci mettete in una posizione intollerabile. Dovete revocare la vostra decisione!»

Tamba Ngasi rise. «Avete solo una strada da percorrere. Dovete obbedire. Credete che i Cinesi trarrebbero vantaggio da una guerra con Lakhadi? Tutta l’Africa insorgerebbe contro di voi; vi trovereste di fronte a un disastro. E non dimenticate le nostre nuove armi. In questo momento sono puntate sulle zone più nevralgiche della Cina.»

La risata di Ting Sieuh-Ma era beffarda. «È l’ultima delle nostre preoccupazioni. Credete che ci saremmo fidati a darvi delle testate attivate? Le vostre ridicole armi sono innocue come topolini.»

Tamba Ngasi mostrò il rapporto svizzero. «Lo so. I detonatori: novantasei per cento piombo, quattro per cento scorie radioattive. L’idruro di litio, comunissimo idrogeno. Ci avete ingannato. Per questo intendiamo cacciarvi dall’Africa. In quanto alle testate, ho trattato con una potenza europea; proprio in questo momento stanno installando il materiale attivo in quei missili che voi sostenete di disprezzare. Non avete scelta. Andatevene dall’Africa entro una settimana, o preparatevi al disastro.»

«È un disastro comunque,» disse Ting Sieuh-Ma. «Ma rifletti. Tu sei un uomo solo, noi siamo l’Est. Puoi davvero sperare di batterci?»

Tamba Ngasi scoprì i denti di acciaio inossidabile in un ghigno da lupo. «Questo è ciò che spero.»


Keith si appoggiò allo schienale della poltrona. La delegazione se n’era andata, e lui era seduto da solo nella sala delle conferenze. Si sentiva svuotato di ogni energia, fiacco e svogliato. Tamba Ngasi, almeno temporaneamente, era stato escluso.

Keith pensò agli ultimi giorni, e sentì una fitta di terrore per la propria sconsideratezza. Era stata la sconsideratezza, piuttosto che Tamba Ngasi, ad avere umiliato e confuso due delle grandi potenze mondiali. Non l’avrebbero perdonato. Adoui Shgawe, un avversario relativamente mite, era stato dissolto in acido. Tamba Ngasi, fautore di una politica assolutamente intollerabile, difficilmente poteva aspettarsi di sopravvivere.

Keith si accarezzò il mento, lungo e ruvido, e tentò di formulare un piano di sopravvivenza. Forse per una settimana poteva considerarsi al sicuro, mentre i suoi nemici decidevano un piano di attacco…

Keith balzò in piedi. Perché avrebbe dovuto esserci una qualunque dilazione? Adesso i minuti erano preziosi, sia per i Russi che per i Cinesi; dovevano avere provveduto a ogni possibile eventualità.

Lo schermo di comunicazione ronzò, e comparve il volto aggrottato del Grande Maresciallo Achille Hashembe, che parlò brevemente. «Non capisco i tuoi ordini. Perché dovremmo esitare adesso? Sbarazziamoci dei parassiti, rimandiamoli nella loro terra…»

«Di che ordini stai parlando?» chiese Keith.

«Di quelli che hai impartito cinque minuti fa davanti al palazzo, relativi agli immigrati cinesi.»

«Capisco,» disse Keith. «Hai ragione. C’è stato un equivoco. Ignora quegli ordini, procedi come d’accordo.»

Hashembe annuì con brusca soddisfazione; lo schermo si oscurò. Non ci sarebbe stata alcuna dilazione, pensò Keith. I Cinesi stavano già attaccando. Girò una manopola sullo schermo, e l’impiegata della reception alzò lo sguardo. Sembrava sorpresa.

«Qualcuno è entrato nel palazzo negli ultimi cinque minuti?»

«Solo tu stesso, signore… come hai fatto a salire così in fretta?»

Keith interruppe la comunicazione. Andò alla porta, rimase in ascolto, e sentì il ronzio dell’ascensore in salita. Corse nella sua camera privata, aprì in fretta un cassetto. Le sue armi… sparite. Tradito da uno dei suoi servitori.

Keith andò alla porta che dava sul giardino pensile. Dal giardino poteva arrivare fino alla piazza e fuggire, se avesse deciso così. Alle sue orecchie giunse il sommesso fluttuare di un suono. Keith uscì nel buio, scrutò il cielo. La notte era nuvolosa; si vedeva solo la tenebra. Ma il suo radar lo avvertì di un oggetto che stava scendendo, e il rilevatore di raggi infrarossi nella mano ne sentì il calore.

Da dietro di lui, nella camera da letto, venne un altro rumore sommesso. Si girò, e vide se stesso attraversare prudentemente la soglia e guardarsi attorno nella stanza. Avevano fatto un buon lavoro, pensò Keith, considerato il breve tempo a disposizione. Quella versione di Tamba Ngasi era forse mezzo pollice più bassa di lui, la faccia era più piena, la pelle un’ombra più scura e non troppo abilmente sfumata. Si muoveva senza il naturale dondolio africano, su gambe più grosse e più corte di quelle di Keith. Illogicamente Keith pensò che per simulare un Negro, era meglio partire da un Negro. A quel riguardo, almeno, gli Stati Uniti avevano un vantaggio.

Il nuovo Tamba lasciò la sua camera da letto. Keith scivolò vicino alla porta con l’intenzione di seguirlo e di attaccarlo a mani nude, ma proprio in quel momento scese dal cielo l’oggetto che aveva percepito con il radar: un mini-aereo, poco più di un seggiolino, oscillava sospeso a quattro aviolamine di metallo rotanti. L’oggetto atterrò delicatamente nel giardino buio; Keith si appiattì contro il muro, e sporse la testa da dietro un’anfora di coccio.


L’uomo sceso dal cielo si avvicinò alla porta scorrevole, scivolò furtivo nella camera da letto. Keith osservava stupito. Ancora Tamba Ngasi, più snello e spigoloso del primo intruso. Questo Tamba sceso dal cielo girò rapidamente lo sguardo per la stanza, sbirciò dalla porta nel corridoio, e l’attraversò fiduciosamente.

Keith lo seguì con cautela. Il Tamba sceso dal cielo avanzò a scatti lungo il corridoio, si fermò all’arcata che dava nello studio disposto su tre livelli. Keith non poté trattenere una silenziosa risata al pensiero della farsa di mortali equivoci che di lì a poco sarebbe necessariamente seguita.

Tamba dal cielo balzò nello studio come un gatto. Istantaneamente ci fu un’esclamazione frenetica, il crepitio di un rumore mortale. Poi silenzio.

Keith corse alla porta, e restando nell’ombra sbirciò nello studio. Tamba dal cielo teneva una specie di pistola o proiettore in una mano e un disco luccicante nell’altra, e procedeva rasente alla parete. Tamba gambe corte si era nascosto dietro una libreria, dove Keith poteva udirlo mormorare sottovoce. Tamba dal cielo fece un rapido balzo in avanti; da dietro la libreria uscì una scintillante linea di luce e ioni. Tamba dal cielo deviò il raggio con lo scudo e lanciò una granata che Tamba gambe corte gettò contro la libreria; la libreria esplose in avanti, e Tamba dal cielo balzò indietro per evitarla. Inciampò e cadde goffamente. Tamba gambe corte gli fu addosso, colpendolo con un’accetta che faceva scaturire fumo e scintille dovunque affondasse.

Tamba dal cielo giaceva morto, la sua missione era stata un fallimento, la sua vita conclusa. Tamba gambe corte si alzò trionfante. Vide Keith e si lasciò sfuggire una gutturale imprecazione di sorpresa. Scese al secondo pianerottolo rimbalzando come una palla di gomma, con l’intenzione di aggirarlo.

Keith corse fino al corpo di Tamba dal cielo, diede uno strattone alla sua arma, ma era intrappolata sotto il pesante corpo. Una linea di luce ionizzante gli passò sfrigolando davanti al viso. Si buttò a terra. Tamba gambe corte salì correndo gli scalini; Keith tirò furiosamente l’arma, ma non avrebbe fatto in tempo: la sua fine era giunta.

Tamba gambe corte si arrestò di colpo. Sulla porta di fronte c’era un uomo snello dall’aspetto duro, in veste bianca: ancora un altro Tamba. Questo era uguale a Keith, pelle, fattezze e peso, identico tranne che per un’indefinibile differenza di espressione. Tutti e tre si fissarono reciprocamente stupefatti; Tamba gambe corte puntò il raggio elettrico. Il nuovo Tamba scivolò di lato come un’ombra, fendendo l’aria con il laser. Tamba gambe corte si gettò a terra, rotolò su se stesso, avanzò accovacciato. Il nuovo Tamba lo aspettò e ingaggiarono un corpo a corpo. Le scintille scoccavano dai piedi, mentre ognuno cercava di fulminare l’altro; entrambi erano stati equipaggiati di circuiti a massa, e l’elettricità si dissipava senza fare danni.

Tamba gambe corte si divincolò, roteò l’accetta. Il nuovo Tamba la schivò, puntò il laser. Tamba gambe corte lanciò l’accetta e colpì il rotante del laser. I due uomini scattarono assieme. Keith raccolse accetta e laser e si preparò ad affrontare il superstite. «Un genere di assassinio davvero peculiare,» rifletté. «Tutti vengono uccisi, tranne la vittima.»

Tamba gambe corte e il nuovo Tamba erano avvinghiati in un intrico fremente. Si udì il rumore di uno scatto, un rantolo. Uno dei due uomini si raddrizzò, si voltò verso Keith: il nuovo Tamba.

Keith puntò il laser. Il nuovo Tamba alzò le mani, indietreggiò. Gridò: «Non colpirmi, James Keith. Io sono il tuo sostituto.»

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