IL TEMPIO DI HAN

Troppo impegnato nell’equa lotta per restare vivo, Briar Kelly non era ancora riuscito a disfarsi del travestimento. L’avventura era risultata alquanto più scabrosa di quanto fosse parsa all’inizio. Non si era aspettato un tale pandemonio.

Fino al momento in cui era entrato nel bizzarro tempio buio a North City, il travestimento gli era stato utile. Si era confuso perfettamente con gli Han; nessuno gli aveva rivolto una seconda occhiata. Poi, una volta entrato nel tempio, si era trovato da solo, e il travestimento non era più stato necessario.

Era un luogo insolitamente impressionante. Una capriata gotica sosteneva il soffitto; le alcove lungo le pareti erano stipate di cianfrusaglie. Lampade rosse e verdi gettavano una luce che veniva soffocata e assorbita dai tendaggi neri.

Percorrendo lentamente la navata centrale, con i nervi a fior di pelle, Kelly si era avvicinato all’alto specchio nero all’estremità opposta, fissando il proprio indistinto riflesso con fascino ipnotico. Al di là c’erano profondità limpide, e Kelly avrebbe guardato più da vicino, se non avesse visto il gioiello.

Era una sfera di freddo fuoco verde, posata su un cuscino di velluto nero. Meravigliato Kelly l’aveva sollevata con le dita, rigirata più volte, e poi era scoppiato il putiferio. Le luci rosse e verdi tremolavano, un corno d’allarme squillava come un toro impazzito. Sacerdoti vendicativi apparivano nelle alcove come per magia, e il travestimento costituiva uno svantaggio. Il mantello tubolare nero gli costringeva le gambe mentre correva indietro lungo la navata, giù per i gradini sconnessi, attraverso i vicoli sudici fino alla sua aeromobile. Adesso che si chinava basso sui comandi, il sudore formava piccole gocce sotto il cerone bianco, e la pelle gli prudeva e si accapponava.

Dieci piedi più sotto, le pianure fangose incrostate di sale si allontanavano rapide a poppa. Giunchi giallo sporco sferzavano lo scafo. Premendosi il gomito contro il fianco, Kelly sentì la forma dura del gioiello. La sensazione sollevò emozioni diverse, tra le quali dominava l’apprensione. Abbassò l’aeromobile ancora più vicino al suolo. «Cinque minuti così, e sarò fuori dal raggio dei radar,» pensò Kelly. «Quando sarò tornato a Bucktown, sarò soltanto uno qualunque in mezzo a cinquantamila altri. Non possono certo individuarmi, a meno che Herli parli, o forse Mapes…»

Arrischiò un’occhiata alla placca retrovisiva. North City era ancora visibile, un esagerato Mont St. Michel che spuntava dalle tetre paludi di sale. Esalazioni nebbiose sfocavano i dettagli; la città si confuse nel cielo, e infine cadde sotto la linea dell’orizzonte. Kelly alzò con cautela il muso dell’aeromobile, e si levò tangenzialmente alla superficie, dirigendosi verso Magra Taratempos, il caldo sole bianco.

L’atmosfera si rarefece, il cielo divenne nero intenso, comparvero le stelle. C’era anche il vecchio Sole, una stella gialla sospesa tra Sadal Suud e Sadal Melik nell’Acquario, solo trenta anni luce per arrivare a casa.

Kelly udì un debole suono sibilante. La luce cambiò, da bianca a rossa. Sbatté gli occhi, si guardò attorno stupefatto.

Magra Taratempos era sparita. In basso a sinistra un gigantesco sole rosso opprimeva l’orizzonte; sotto, le paludi di sale fluttuavano in una nuova luce di colore rosso violetto.

Stupito, Kelly passò lo sguardo dal sole rosso al pianeta, e di nuovo in cielo dove solo un momento prima c’era Magra Taratempos.

«Sono diventato pazzo,» disse Kelly. «A meno che…»


Due o tre mesi prima, a Bucktown circolava una strana voce. In mancanza di un divertimento migliore, i raffinati della città ne avevano fatto una barzelletta, e infine anche quella storia era diventata rancida e non se n’era più parlato.

Kelly, che lavorava come scambista informatico alla stazione di astronavigazione, era bene al corrente di quella voce. Diceva all’incirca che un sacerdote Han, arcigno e tutto compreso sotto il nero mantello, era stato scaraventato nella palude da un raccoglitore di polline ubriaco. Come una tartaruga il sacerdote aveva sporto la faccia bianca da sotto il cappuccio del mantello, e nella parlata impura del pianeta aveva gracchiato: «Voi abusate dei sacerdoti di Han; voi vi beffate di noi e del nome del Grande Dio. Il tempo è breve. Il Settimo Anno è vicino, e voi atee creature terrestri cercherete di fuggire, ma non avrete un posto dove andare.»

Questa era stata la storia. Kelly ricordava il lieto eccitamento che svolazzava di bocca in bocca. Fece una smorfia, osservando il cielo con nuova apprensione.

I fatti erano davanti ai suoi occhi, innegabili. Magra Taratempos era svanito. In un altro quarto del cielo era apparso un nuovo sole.

Incurante del raggio dei radar, alzò il muso e si liberò del tutto dell’atmosfera. Gli schemi stellari erano cambiati. Il buio avvolgeva metà del cielo, con qua e là il solitario scintillio di una stella, o il filo sottile di una lontana galassia. Nell’altro quarto una vasta chiazza di luce attraversava il cielo, una luminosità allungata e stretta con un rigonfiamento centrale, il tutto cosparso di un milione di minuscoli punti di luce.

Kelly tolse energia al motore; l’aeromobile andò alla deriva. Indubbiamente la chiazza luminosa era una galassia vista da una delle sue frange esterne. In preda a uno stupore crescente, Kelly guardò di nuovo il pianeta sottostante. Verso sud vedeva l’altopiano triangolare sollevarsi con fatica e vigoria dall’acquitrino, e il Lago Lenore vicino a Bucktown. Proprio sotto di lui c’era la palude salata, e lontano a nord il mucchio di rovine dove gli Han avevano la loro città.

«Guardiamo in faccia la situazione,» disse Kelly. «A meno che io sia uscito di mente — e non lo credo — l’intero pianeta è stato preso e portato in un nuovo sistema solare… ho sentito parlare di strane cose qui e là, ma questa le supera tutte…»

Sentì il peso del gioiello in tasca, e con esso un nuovo brivido di apprensione. Per quanto ne sapeva i sacerdoti Han non potevano identificarlo. A Bucktown erano stati Herli e Mapes a spingerlo a quella bravata, ma avrebbero tenuto a freno la lingua. In apparenza se n’era andato nella sua capanna sulla sponda del lago, e nessuno poteva sapere dei suoi andirivieni… Girò l’aeromobile verso Bucktown, e mezz’ora più tardi atterrò alla sua capanna sul Lago Lenore. Si era grattato via il cerone dalla faccia; il mantello l’aveva scaricato in volo sopra la palude; e il gioiello gli pesava in tasca.

La capanna, una costruzione bassa dal tetto piatto con pareti di alluminio e facciata di vetro, aveva un aspetto strano e poco familiare nella nuova luce. Kelly si diresse guardingo alla porta. Guardò a destra e a sinistra. Nessuno, niente in vista. Appoggiò l’orecchio al pannello della porta. Nessun rumore.

Fece scorrere il pannello, entrò, percorse l’interno con una rapida occhiata. Ogni cosa sembrava come l’aveva lasciata.

Andò verso il videofono, poi si fermò.

Il gioiello.

Lo tolse di tasca, lo esaminò per la prima volta. Era una sfera delle dimensioni di una pallina da golf. Il centro splendeva di un fuoco verde che scemava avvicinandosi alla superficie esterna. Lo soppesò. Era innaturalmente pesante. Affascinante in un modo strano, incantevole nell’insieme. Pensarlo attorno al collo di Lynette Mason…

Non adesso. Kelly lo avvolse nella carta, lo infilò in un vaso vuoto. Dietro la capanna, un vecchio noce bianco si levava in pendenza dall’humus nero, e sovrastava il tetto come un ombrellone da spiaggia grigio e sbrindellato. Kelly scavò un buco sotto una delle radici arcuate e seppellì il gioiello.

Ritornò nella capanna, andò al videofono, allungò la mano per chiamare la stazione. Mentre la mano era ancora distante dai bottoni, il cicalino suonò… Kelly ritrasse la mano.

Meglio non rispondere.

Il cicalino suonò più volte. Kelly rimase immobile, trattenendo il fiato, fissando il volto inespressivo dello schermo.

Silenzio.

Lavò via i resti del cerone, si cambiò d’abito, corse fuori, saltò nell’aeromobile e partì per Bucktown.


Atterrò sul tetto della stazione, notando che l’aeromobile di Herli era parcheggiata al solito posto. Improvvisamente si sentì meno perplesso e disperato. La stazione, con i suoi macchinari, i solidi regolamenti in stile terrestre, emanava sicurezza, un senso di normalità. In qualche modo l’ingegnosità e l’aggressività che avevano portato gli uomini sulle stelle avrebbero risolto quell’enigma.

O forse no. Forse l’ingegnosità poteva portare gli uomini attraverso lo spazio, ma l’ingegnosità si sarebbe sforzata inutilmente di localizzare un pianetucolo a centomila anni luce in una direzione sconosciuta. E Kelly aveva ancora il suo problema personale: il gioiello. Nella sua mente si formò un’immagine: la capanna sul lago, il decrepito parasole grigio del noce bianco, e, sotto la radice, il luccicante occhio verde del gioiello sacro. Nella visione vide la figura ammantata di nero di un sacerdote Han che si muoveva per lo spiazzo davanti alla capanna, e vide il lampo della faccia, bianca come la pasta del pane prima di essere messa in forno…

Kelly rivolse uno sguardo inquieto al grande sole rosso, ed entrò nella stazione.

La sezione amministrativa era vuota; Kelly salì le scale diretto al dipartimento operativo.

Si fermò sulla soglia, ispezionò la stanza che copriva l’intera superficie del piano superiore. Banchi di lavoro facevano il giro della stanza, illuminati dalle finestre. Un cilindro lustro, il cosmoscopio, scendeva attraverso il soffitto, e sotto di esso c’era lo schermo per intercettare la proiezione.

Quattro uomini erano in piedi vicino all’indice stellare, e stavano facendo scorrere un nastro. Herli alzò brevemente lo sguardo, ritornò al meccanismo di scatto.

Strano. Herli avrebbe dovuto essere interessato, avrebbe almeno dovuto salutarlo.

Kelly attraversò la stanza impacciato. Si schiarì la voce. «Ebbene… ce l’ho fatta. Sono tornato.»

«Vedo,» disse Herli.

Kelly tacque. Diede un’occhiata dalla finestra al sole rosso. «Cosa ne pensate?»

«Non ne abbiamo la minima idea. Stiamo facendo passare i nastri stellari, nel caso improbabile che sia registrato… Una sorta di ultima speranza.»

Di nuovo si fece silenzio. Prima che lui entrasse stavano parlando, e Kelly se ne accorse dal loro atteggiamento.

Finalmente, con una forzata casualità, Mapes disse: «Sentito le novità?»

«No,» disse Kelly, «No, non le ho sentite.» C’era dell’altro nella voce di Mapes, qualcosa di più personale dello spostamento del pianeta. Dopo un attimo di esitazione andò al videofono, digitò il codice per le notizie.

Lo schermo si accese, mostrò un panorama dell’acquitrino. Kelly si sporse in avanti. Seppelliti fino al collo c’erano dodici ragazze e ragazzi della scuola secondaria di Bucktown. Su di essi strisciavano avidi i piccoli granchi a tre zampe; altri ancora sbucavano fuori dalla fanghiglia, o si avvicinavano scavando dei tunnel sotto i corpi che si contorcevano.

Kelly non poteva sopportare le urla. Allungò una mano…

«Lascia acceso!» disse bruscamente Herli, con un tono duro che Kelly non gli aveva mai sentito. «L’annuncio è tra poco.»

L’annuncio venne, nella parlata impura e gracchiante dei sacerdoti Han.

«Tra i forestieri c’è un ladro malvagio. Ci ha spogliati dell’Occhio del Settimo Anno. Che venga a pagare il suo debito. Fino a quando il ladro non avrà portato di sua propria mano l’Occhio del Settimo Anno al sacro tempio di Han, ogni ora un forestiero verrà seppellito nel recinto dei granchi. Se il ladro non si presenta, noi continueremo allo stesso modo, e metteremo fine alle creature terrestri.»

Mapes disse, con voce tirata: «Hai preso tu il loro Occhio del Settimo Anno?»

Kelly annuì intontito. «Sì.»

Herli emise un suono aspro di gola, si allontanò.

Miseramente, Kelly disse: «Non so cosa mi ha preso. Era lì… lucente come una piccola luna verde… e l’ho messo in tasca.»

«Non startene lì impalato,» disse Herli con voce roca.

Kelly andò al videofono, spinse i bottoni. Lo schermò cambiò, un sacerdote Han fissò il volto di Kelly.

Kelly disse: «Ho rubato io il vostro gioiello… Non uccidete altra gente. Ve lo riporto.»

Il sacerdote rispose: «Ogni ora, fino a quando non arriverai, una creatura terrestre morirà di una brutta morte.»

Kelly si sporse in avanti, spense lo schermo con un colpo improvviso e furioso della mano. Si voltò, incollerito.

«Non statevene lì a fissarmi in quel modo! Tu, Herli, tu mi hai detto che non sarei nemmeno riuscito ad arrivare fino al tempio! E chiunque di voi fosse stato al mio posto, e avesse visto quel gioiello come l’ho visto io, l’avrebbe preso.»

Mapes ringhiò sottovoce. Le spalle di Herli sembrarono accasciarsi; distolse lo sguardo. «Forse hai ragione, Briar.»

«Siamo così impotenti?» chiese Kelly. «Perché non abbiamo combattuto quando hanno preso quei dodici ragazzi? Ci saranno anche un milione di Han, ma noi siamo in cinquantamila, e loro non hanno armi, per quanto ne so.»

«Hanno preso la centrale elettrica,» disse Herli. «Senza elettricità non possiamo distillare l’acqua, non possiamo irradiare le nostre colture idroponiche. Siamo in un vicolo cieco.»

Kelly si allontanò. «Ci vediamo, ragazzi.»

Nessuno gli rispose. Scese le scale, attraversò il parcheggiò fino alla sua aeromobile. Sentiva i loro occhi che lo guardavano dalla finestra.

Salì, decollò, e via. Prima alla capanna sul lago, sotto il noce bianco a prendere l’Occhio del Settimo Anno, poi l’arco sul pianeta, da sud a nord. E infine la grigia fortezza dell’Insediamento Nord, e in mezzo il tempio buio.


Kelly atterrò con l’aeromobile proprio davanti al tempio. Ormai la segretezza non aveva senso.

Scese, e si guardò attorno nello strano crepuscolo purpureo che era giunto sulla città cadente. Alcuni Han gli passarono accanto, e Kelly vide il pallore delle loro facce.

Salì lentamente i gradini del tempio, si soffermò indeciso sulla soglia. Non c’era motivo di aggiungere ulteriore provocazione alle sue offese. Senza dubbio avevano in mente di ucciderlo; poteva anche facilitare loro il compito, per quanto possibile.

«Salve,» chiamò nell’interno buio, con una voce che cercò di mantenere ferma. «Non ci sono sacerdoti qui dentro? Ho riportato il gioiello…»

Non ebbe risposta. Ascoltando con attenzione, udì un lontano mormorio. Avanzò di pochi passi nel tempio, scrutò lungo la navata. L’illuminazione soffusa rossa e verde confondeva piuttosto che aiutare la sua vista. Notò una curiosa irregolarità nel pavimento. Fece un passo, un altro, un altro ancora, calpestò qualcosa di soffice. Sotto i suoi piedi lampeggiò un biancore. Il pavimento era coperto di sacerdoti vestiti di nero, sdraiati a faccia in giù.

Il sacerdote sul quale aveva camminato non emise alcun suono. Kelly esitò. Il tempo stava passando… Lasciò da parte tutti i suoi dubbi, le sue paure, le titubanze in un angolo della mente, avanzò a grandi passi, incurante di dove passava.

Camminò in mezzo alla navata, tenendo in mano il gioiello. Più avanti vedeva la lucentezza dell’alto specchio nero, e lì sul cuscino nero c’era un secondo gioiello, identico a quello che riportava. Un sacerdote Han, come un fantasma nella veste nera, senza il minimo movimento osservava Kelly che si avvicinava. Kelly posò il gioiello sul cuscino accanto al suo gemello.

«Eccolo. L’ho riportato. Mi dispiace di averlo preso. Io… ebbene, ho agito per un impulso irrazionale.»

Il sacerdote prese il gioiello, lo tenne sotto il mento come sentendo il calore del fuoco verde.

«Il tuo impulso è costato quindici vite terrestri.»

«Quindici?» balbettò Kelly. «Ce n’erano solo dodici…»

«Due ore di ritardo ne hanno mandate altre due nel recinto dei granchi,» disse l’Han. «E poi ci sei tu. Quindici.»

Con tremolante spavalderia, Kelly disse: «Vi assumete un bel carico di responsabilità… questi assassinii…»

«Non conosco la tua lingua,» disse il sacerdote, «ma sembra che tu stia trasmettendo una stupida nota di minaccia. Cosa potete fare voi poche creature terrestri contro il Grande Dio Han, che proprio adesso ha spostato il nostro pianeta attraverso la galassia?»

«Il vostro dio Han… ha mosso il pianeta?» disse scioccamente Kelly.

«Certamente. Ci ha portati lontano, e per sempre distanti dalla Terra fino a questo sole pieno e caldo; tale è la gratitudine per le nostre preghiere e per il tributo dell’Occhio.»

Con studiata noncuranza, Kelly disse: «Avete riavuto il vostro gioiello; non capisco perché siate così indignati…»

«Guarda,» disse il sacerdote. Kelly seguì il suo gesto, vide un buco nero quadrato, circondato da una cimasa di pietra levigata. «Questo pozzo è profondo diciotto miglia. Ogni sacerdote di Han discende fino in fondo una volta alla settimana, e riporta alla superficie un cesto di cobalto cristallizzato. In rare occasioni trova la matrice dell’Occhio, e allora c’è allegria nella città… Questo è il gioiello che hai rubato.»

Kelly distolse gli occhi dal pozzo. Diciotto miglia… «Naturalmente non ero consapevole del…»

«Non importa; ciò che è fatto è fatto. E adesso il pianeta è stato spostato, e il potere della Terra è incapace di prevenire le punizioni che noi desideriamo infliggervi.»

Kelly tentò di mantenere ferma la voce. «Punizioni? Cosa vuoi dire?»

Dietro di sé udì un fruscio, un movimento strascicato. Si guardò alle spalle. I neri mantelli si fondevano con i tendaggi del tempio, e le facce Han fluttuavano a mezz’aria.

«Sarete uccisi,» disse il sacerdote. Kelly fissò la faccia bianca. «Se il modo in cui ve ne andrete ti è di qualche interesse…» Il sacerdote espose dettagli che gli gelarono la pelle, gli inacidirono la saliva in bocca. «La vostra morte scoraggerà altre creature terrestri dal compiere analoghi delitti.»

Kelly protestò suo malgrado. «Avete il vostro gioiello; eccolo… Se volete insistere a uccidermi, uccidetemi, ma…»

«Strano,» disse il sacerdote Han. «Voi creature terrestri temete il dolore più di ogni altra cosa che possiate concepire. Tale paura è il vostro nemico più mortale. Noi Han, invece, non temiamo nulla…» alzò gli occhi verso l’alto specchio nero, si inchinò leggermente «…nulla eccetto il nostro Grande Dio Han.»

Kelly fissò la scintillante superficie nera. «Cosa ha a che fare lo specchio con il vostro dio Han?»

«Quello non è uno specchio; quello è il portale che conduce al luogo degli Dei, e ogni sette anni un sacerdote lo attraversa per consegnare l’Occhio ad Han.»

Kelly tentò di sondare le buie profondità dello specchio. «Cosa c’è oltre? Che genere di terra?»

Il sacerdote non rispose.

Kelly rise con una voce acuta che non si riconobbe. Si buttò in avanti, levò il pugno in un colpo carico di tutta la sua forza e di tutto il suo peso. Il pugno si abbatté nel punto in cui avrebbe dovuto esserci la mascella del sacerdote, e Kelly sentì uno scricchiolio. Il prete girò su se stesso e cadde nell’intrico del mantello.

Kelly si voltò verso i sacerdoti nella navata, che sibilavano furiosi. Kelly ormai era disperato, senza paura. Rise ancora, abbassò la mano, raccolse i due gioielli dal cuscino. «Il Grande Dio Han vive dietro lo specchio, e muove i pianeti in cambio di gioielli. Io ho due gioielli; forse Han muoverà un pianeta per me…»

Si avvicinò con un balzo allo specchio nero. Tese la mano e sentì una superficie soffice come una cortina d’aria. Si fermò in subitanea trepidazione. Là c’era l’ignoto…

La prima fila degli aggressivi sacerdoti Han era su di lui. E quello era il noto.

Kelly non poteva rimandare. La morte era la morte. Se moriva attraversando la cortina nera, se soffocava nello spazio senz’aria… era una morte pulita e veloce.

Si sporse in avanti, chiuse gli occhi, trattenne il respiro, e fece un passo oltre la cortina.


Kelly aveva percorso un’enorme distanza. Era una distanza che non poteva essere calcolata in miglia oppure ore, ma in quantità che erano idee astratte e irrazionali.

Aprì gli occhi. Funzionavano; poteva vedere. Non era morto… Oppure sì? Avanzò di un passo, sentì una sostanza solida sotto i piedi. Guardò giù, e vide un pavimento nero, simile al vetro, dove piccole scintille esplodevano, tremolavano e si spegnevano. Costellazioni? Universi? Oppure semplicemente… scintille?

Avanzò di un altro passo. Avrebbe potuto essere una iarda, un miglio, un anno luce; si muoveva con il fluttuante agio di un uomo che cammina in un sogno.

Si trovò sul bordo di un anfiteatro, un’arena simile a un cratere lunare. Fece un altro passo; e si trovò in mezzo all’arena. Si fermò, lottò per convincersi del proprio stato di coscienza. Il sangue gli scorreva nelle vene con un suono impetuoso. Ondeggiò, avrebbe potuto cadere se fosse esistita la gravità per tirarlo verso terra. Ma non c’era gravità. I suoi piedi restavano attaccati alla superficie in virtù di una misteriosa adesione che andava oltre la sua esperienza. Il rumore del sangue si levò e arrivò alle sue orecchie. Il sangue significava vita. Era vivo.

Si girò a guardare dietro di sé, ma nella confusione dei propri occhi non poté distinguere ciò che vedeva. Si girò di nuovo, e avanzò di un altro passo…

Stava commettendo un’intrusione. Sentì l’improvvisa, irritata attenzione di personalità gigantesche.

Guardò il pavimento simile al vetro, e la più vaga delle luci grigie e acquose scese dall’alto a raccogliersi nella concavità in cui si trovava. Lo spazio era immenso, interminabile, privo di prospettiva.

Kelly vide gli esseri che aveva disturbato, o meglio li sentì, più che vederli: dodici forme gigantesche incombevano su di lui.

Una di queste forme espresse un pensiero, e un impeto di significato permeò lo spazio e si intromise nella mente di Kelly, traducendosi, che lui lo volesse o no, in parole:

«Cos’è questa creatura? Da quale mondo è venuta?»

«Dal mio.» Quello doveva essere Han. Kelly guardò da una forma all’altra, per determinare quale potesse essere il dio.

«Sopprimila alla svelta…» e nella mente di Kelly arrivò un insieme di impressioni che non aveva parole per esprimere. «Dobbiamo provvedere alla faccenda di…» Di nuovo un rapido elenco di idee che si rifiutarono di tradursi nella mente di Kelly. Sentì l’attenzione di Han focalizzarsi sudi lui. Rimase inchiodato, in attesa della distruzione che sapeva essere imminente.

Ma possedeva i gioielli, e il loro verde bagliore gli splendette tra le dita. Gridò: «Aspettate, sono venuto qui con uno scopo; voglio che un pianeta sia rimesso al posto che gli appartiene, e ho dei gioielli per pagare…»

Sentì la funesta pressione della volontà di Han sulla mente… forte, sempre più forte; gemette per un’angoscia impotente.

«Aspetta,» giunse un pensiero calmo, chiaro e sereno di trascendenza.

«Devo distruggerla,» protestò Han. «È nemica di chi mi manda i gioielli.»

«Aspetta,» venne una voce da un’altra forma, e Kelly colse una sfumatura di antagonismo nei confronti di Han. «Dobbiamo agire imparzialmente.»

«Perché sei qui?» fu il quesito del Leader.

Kelly rispose: «I sacerdoti Han stanno assassinando la gente della mia razza, da quando il pianeta su cui eravamo è stato spostato. Non è giusto.»

«Ah!» Dall’Antagonista giunse un pensiero, come un’esclamazione. «Quelli che mandano i gioielli a Han compiono atti malvagi e contro natura.»

«Una faccenda minore, una faccenda minore,» fu l’irrequieto pensiero di ancora un’altra forma. «Han deve proteggere chi gli manda i gioielli.»

E Kelly colse l’implicazione che i gioielli erano di massima importanza; che i gioielli erano vitali per gli dei.

L’Antagonista decise di fare della faccenda un problema. «La condizione di ingiustizia che Han ha determinato deve cessare.»

Il Leader meditò. E allora nella mente di Kelly si insinuò un pensiero sornione, che sentiva essere stato diretto alla sua mente soltanto. Veniva dall’Antagonista. «Sfida Han a un…» Il pensiero poteva venire tradotto solo come «duello». «Io ti aiuterò. Rilassa la tua mente.» Kelly, pronto ad afferrarsi a ogni pagliuzza, allentò le sue fibre mentali, e sentì qualcosa come un’ombra umida entrare nel suo cervello, assorbire, registrare… Tutto in un istante. Il contatto svanì.


Kelly sentì la mente del Leader vacillare a favore di Han. In fretta, improvvisando meglio che poté, disse: «Leader, in una leggenda della Terra, un uomo si ritrovò a viaggiare nella terra dei giganti. Quando fecero per ucciderlo, quest’uomo sfidò il maggiore a un duello con in palio la sua vita.» «In tre prove,» si insinuò un pensiero. «In tre prove,» aggiunse Kelly. «Nella storia, l’uomo vinse e gli fu permesso di ritornare nella sua terra natia. Allo stesso modo lasciatemi duellare in tre prove con Han.»

L’impeto dei pensieri addensò l’aria: acrimonioso disprezzo da parte di Han, un velato incoraggiamento dall’Antagonista, divertimento dal Leader.

«Tu invochi un principio barbarico,» disse il Leader. «Ma per una logica semplice quanto rigorosa, è una giusta trovata, e le verrà reso onore. Sfiderai Han in tre prove.»

«Perché perdere tempo?» interloquì Han. «Posso polverizzarlo in particelle più piccole degli atomi degli atomi.»

«No,» disse il Leader. «Le prove non possono basarsi sulla pura potenza. Tu e quest’uomo siete in disaccordo su un problema che non ha in sé il giusto e lo sbagliato. Si tratta del benessere del suo popolo contrapposto al benessere di quelli che ti mandano i gioielli. Poiché i punti in discussione sono equi, non ci sarebbe giustizia in un duello iniquo. Le prove devono svolgersi su una base che non metta anomalamente in svantaggio nessuna delle due parti.»

«Stabiliamo un problema,» suggerì l’Antagonista. «Chi prima arriva alla soluzione vince la prova.»

Han era immerso in un silenzioso disprezzo. Così il Leader formulò un problema, una terrificante esposizione i cui termini erano dimensioni e approssimazioni di tempo e una dozzina di concetti che il cervello di Kelly non poteva in alcun modo afferrare. Ma l’Antagonista intervenne.

«Questo non è affatto un problema equo, poiché si trova interamente al di fuori dell’esperienza dell’uomo. Lasciate che formuli io un problema.» Ed enunciò una situazione che dapprima sorprese Kelly, e poi gli ridonò la speranza.

Era un problema in cui si era imbattuto un anno prima alla stazione. Era stato preso in considerazione un sistema per integrare venticinque differenti bande di comunicazione in un unico canale, ed era necessario forzare un raggio di protoni oltre una serie di venticinque magneti reciprocamente interagenti e colpire un filtro grande come una punta di spillo dalla parte opposta del contenitore. La soluzione era abbastanza semplice — una esposizione del vettore iniziale in termini di un’equazione coordinata e un potenziale di voltaggio — e tuttavia aveva tenuto occupato il calcolatore della stazione per due mesi. Kelly conosceva quella soluzione come conosceva il proprio nome.

«Svelto!» fu il pensiero segreto dell’Antagonista.

Kelly diede la risposta senza riflettere.

Il gruppo venne percorso da un’ondata di stupore, e Kelly sentì il loro sospettoso esame.

«Sei veloce davvero,» disse il Leader, perplesso.

«Un altro problema,» esclamò l’Antagonista. Ancora una volta prese un problema dall’esperienza di Kelly, questo concernente il comportamento dei positroni nello strato secondario di una stella in un ammasso di sei, tutte a temperatura e massa specificate. E questa volta la mente di Kelly lavorò più in fretta. Enunciò immediatamente la risposta. E tuttavia anticipò Han solo per pochi secondi.

Han protestò. «Come ha potuto questo piccolo cervello rosa pensare più in fretta della mia coscienza cosmica?»

«Sì, come ha potuto?» chiese il Leader. «Come fai a calcolare così rapidamente?»

Kelly annaspò in cerca di idee, e infine raffazzonò una spiegazione zoppicante: «Io non calcolo. Nel mio cervello c’è una massa di cellule le cui molecole prendono la forma di modelli del problema. Queste si muovono in un istante, il problema viene risolto, ed ecco la soluzione.»

Attese con ansia, ma la risposta sembrava soddisfare il gruppo. Quelle creature — o dei, se tali erano — erano così ingenue? Solo l’Antagonista lasciava supporre di avere motivazioni più complesse. Han, percepì Kelly, era vecchio, di grande forza, di una natura dura e inflessibile. Il Leader era venerabile al di là di ogni pensiero, calmo e imperturbato come lo spazio stesso.

«Allora?» disse l’Antagonista. «Dobbiamo porre un altro problema? Oppure vogliamo dichiarare vincitore l’uomo?»

Kelly sarebbe stato ben contento di lasciare le cose così come stavano, ma evidentemente questo non si adattava ai propositi dell’Antagonista; perciò il tono pacato e beffardo.

«No!» I pensieri di Han ruggirono quasi come un suono. «A causa di una ridicola deformità nel cervello di questa creatura, io devo ammettere che mi è superiore? Io posso scagliarlo attraverso mille dimensioni con un pensiero, eliminarlo con un colpo secco dall’esistenza, dalla memoria…»

«Forse perché tu sei un dio,» lo provocò l’Antagonista, «e sei di puro…» un altro concetto sconcertante, un misto di energia, divinità, forza, intelligenza. «L’uomo è solo una combinazione di atomi, e si muove attraverso l’ossidazione di carbonio e idrogeno. Forse se tu fossi come lui, potrebbe affrontarti corpo a corpo e sconfiggerti.»

Una curiosa tensione irrigidì l’atmosfera mentale. I pensieri di Han si espressero con lentezza, tinti per la prima volta dal dubbio.

«Che questa sia la terza prova,» disse il Leader compostamente. Han alzò mentalmente le spalle. Una delle torreggianti ombre si ritirò, si condensò, turbinò assumendo una forma simile a un uomo, si solidificò maggiormente, e alla fine affrontò Kelly, una creatura umana, risplendente di una fosforescenza dello stesso verde del cuore dell’Occhio del Settimo Anno.

Il pensiero segreto dell’Antagonista raggiunse Kelly: «Prendi il gioiello alla base del collo.»


Kelly studiò attentamente la figura che avanzava piano. Era esattamente della sua stessa altezza e peso, nudo, ma irradiante una sicurezza non umana. Il volto era indistinto, sfocato, e Kelly non poté mai in seguito descriverne l’espressione. Distolse lo sguardo.

«Come combattiamo?» domandò, e il suo corpo gocciolava sudore. «Stabiliamo delle regole… oppure senza esclusione di colpi?»

«Con le unghie e coi denti,» furono i calmi pensieri del Leader. «Han adesso possiede sensibilità organiche come le tue. Se uccidi questo corpo, o gli fai perdere conoscenza, vinci. Se perdi questa prova, allora decideremo.

«E se mi uccide?» obiettò Kelly, ma nessuno parve prestare attenzione alla sua protesta.

Han gli si avvicinò con occhi infuocati. Kelly indietreggiò di un passo, tentò di sferrare un colpo col pugno sinistro. Han si precipitò in avanti. Kelly lo tempestò di colpi, diede una ginocchiata al corpo che gli si avventava addosso, lo udì grugnire e cadere, e rimettersi prontamente in posizione eretta. Un brivido di gioia percorse la spina dorsale di Kelly, e più fiduciosamente avanzò attaccando con destri e sinistri. Han gli si appressò con un balzo, e allacciò le braccia attorno al corpo di Kelly. Poi cominciò a stringere, e Kelly sentì in quelle braccia lucenti di verde un potere più grande di quello di qualunque uomo.

«Il gioiello,» gli giunse furtivo un pensiero. Scintille stavano esplodendo negli occhi di Kelly; le costole scricchiolavano. Agitò freneticamente una mano, artigliando il collo di Han. Sentì una protuberanza dura, ci infilò sotto le unghie, liberò il gioiello con uno strattone.

Un grido acuto di dolore e di orrore assoluti, e l’uomo dio svanì in uno sbuffo di fumo nero che farfugliò delirante avanti e indietro nell’oscurità. Si levò attorno a Kelly, e piccole spirali di fumo sembrarono tentare di strappargli il gioiello che teneva stretto in mano. Ma non avevano una grande forza, e Kelly scoprì di poter respingere i fili di fumo con l’energia della propria mente.

Improvvisamente comprese la funzione del gioiello. Era il punto focale del dio, accentrava miriadi di forze. Senza il gioiello, il dio era un tumulto di volontà conflittuali, di impulsi errabondi.

Kelly sentì i pensieri trionfanti dell’Antagonista. E lui stesso sentì un’esultanza mai conosciuta prima. Il freddo commento del Leader lo riportò in sé.

«Sembra che tu abbia vinto la contesa.» Ci fu una pausa. «In assenza di opposizione esaudiremo ogni tua richiesta.» Nei suoi pensieri non c’era interesse alcuno per il decentralizzato Han. Il fumo nero si stava dissipando, Han non era altro che un ricordo. «Già ci hai provocato un grande ritardo. Abbiamo il problema di…» l’ormai familiare confusione di idee, che però questa volta Kelly vagamente comprese. Sembrava esserci un vortice di universi in possesso di una coscienza, potente quanto o forse più degli dei, che stava procedendo su una rotta che avrebbe potuto rivelarsi scomoda. C’erano capacità, e un mucchio di fattori contributivi.

«Ebbene,» disse Kelly, «vorrei che spostaste il pianeta da dove sono venuto nella sua vecchia orbita attorno a Magra Taratempos. Se sapete di quale pianeta e di quale stella sto parlando.»

«Sì.» Il Leader fece un piccolo sforzo. «Il mondo che hai menzionato si muove nella sua orbita precedente.»

«E se i sacerdoti Han riattraversano il portale e vogliono che venga spostato ancora?»

«Il portale non esiste più. Era tenuto aperto da Han; quando Han si è dissolto, il portale si è chiuso… Sono questi tutti i tuoi desideri?»

La mente di Kelly girò a vuoto, si trasformò in un caos. Questa era la sua occasione. Ricchezza, longevità, potere, conoscenza… Ma i pensieri non volevano formarsi, e c’erano maledizioni legate ai doni non naturali.

«Vorrei tornare a Bucktown sano e salvo…»

Kelly si ritrovò nel bagliore del mondo esterno. Era sulla collina sopra a Bucktown, e respirava l’aria salmastra delle paludi. Su di lui splendeva un caldo sole bianco: Magra Taratempos.

Si accorse di un oggetto che teneva stretto in mano. Era il gioiello che aveva strappato dalla nuca di Han. E in tasca ce n’erano altri due.

Dall’altra parte della città vide la costruzione azzurra di acciaio inossidabile. Cosa avrebbe dovuto dire a Herli e Mapes? Avrebbero creduto la verità? Guardò i tre gioielli. Uno era per il giovane collo abbronzato di Lynette Mason. Gli altri due avrebbe potuto venderli sulla Terra… Meglio parlarne con Lynette. Lei gli avrebbe creduto. Lei l’avrebbe ascoltato rapita raccontare come aveva combattuto il Grande Dio Han…

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