IL FATO DEL PHALID

Dopo due mesi di incoscienza, Ryan Wratch aprì gli occhi. O più precisamente, avvolse in strette pieghe duecento minuscoli diaframmi di spesso tessuto marrone purpureo, e subito capì che stava guardando un mondo nuovo.

Per venti secondi, Wratch fissò il delirio reso tangibile, la follia oltre ogni espressione. Udì un acuto staccato che sentiva in qualche modo di dover riconoscere. Poi il suo cervello si rilassò, si lasciò andare. Wratch perse di nuovo conoscenza.


Il dottor Plogetz, basso e tarchiato, con una faccia rosea e liscia e i capelli bianchi, si raddrizzò dalla creatura sul tavolo e appoggiò il platiscopio munito di lenti.

Si rivolse all’uomo in uniforme grigioverde, che portava appena sopra al gomito i tre soli d’oro raggiati di Comandante di Settore. Il Comandante era un uomo sottile, dalla carnagione scura e l’aspetto duro, con un’espressione piuttosto rigorosa e priva di senso dell’umorismo.

«Organicamente, ogni cosa è in eccellente forma,» disse il dottore. «Le connessioni nervose si sono cicatrizzate, gli adattatori sanguigni funzionano splendidamente…»

Si interruppe quando la nera forma aliena sul tavolo imbottito — una creatura con una grossa testa simile a quella di un insetto, un lungo carapace nero che le copriva il dorso come un mantello, e zampe insolitamente articolate — mosse uno degli arti che dovevano fungere da braccia, tentacoli gommosi con le parti inferiori chiazzate di grigio e lembi di pelle grigiastra che dovevano essere le dita.

Il dottor Plogetz riprese il platiscopio, ispezionò gli organi all’interno del torace chitinoso.

«Riflesso,» mormorò. «Come stavo dicendo, non c’è dubbio che organicamente sia una creatura sana e robusta. Psicologicamente,» strinse le labbra, «naturalmente è troppo presto per azzardare delle ipotesi.»

Il Comandante di Settore Sandion fece un cenno di assenso con la testa.

«E quando la creatura, o l’uomo dovrei dire, riprenderà conoscenza?»

Il dottor Plogetz premette un bottone sul cinturino. Una voce risuonò dal minuscolo altoparlante.

«Sì, dottore?»

«Portami una mascherina di sonfrano… vediamo… numero ventisei, all’incirca.» Poi disse a Sandion: «Gli darò uno stimolante, per fargli riprendere subito i sensi. Ma prima…»

Entrò un’infermiera — un’infermiera coi capelli scuri e gli occhi azzurri, molto bella — portando una mascherina.

«Adesso, signorina Elder,» disse il dottor Plogetz, «la sistemi completamente intorno alla fessura ottica. Stia attenta a non stringere quelle piccole branchie sul lato della testa.»


Plogetz trasse un profondo respiro prima di continuare con la sua spiegazione.

«Voglio minimizzare il trauma sul cervello,» disse il dottore. «Le immagini visive saranno senza dubbio confuse, come minimo. Lo spettro ottico di un Phalid, ricordati, è due volte più lungo, il campo visivo tre o quattro volte più ampio di quello dell’essere umano medio. Ha duecento occhi, e le impressioni di duecento unità ottiche separate devono essere coordinate e amalgamate. Un cervello umano concilia due immagini, ma è dubbio se sia in grado di fare lo stesso con duecento. Ecco perché abbiamo lasciato intatta una piccola parte del cervello precedente della creatura, il nodulo che coordina le varie immagini.» A questo punto Plogetz fece una pausa lunga abbastanza da rivolgere un’occhiata di apprezzamento alla complessa testa nera.

«Pur con questo aiuto, la vista di Wratch sarà un’esperienza nuova e fantastica,» rifletté. «Il risultato di tutte le immagini viste attraverso gli occhi di un Phalid e amalgamate da quella piccola parte di cervello di Phalid sarà qualcosa di mai concepito dalla mente umana.»

«Senza dubbio costituirà una tremenda tensione per i suoi nervi,» osservò Sandion.

Il dottore annuì, controllò la benda che copriva gli occhi.

«Due centimetri cubici di artrodina al tre percento,» disse all’infermiera. Poi di nuovo a Sandion: «Abbiamo lasciato intatto un altro nodulo del cervello precedente, la formazione del linguaggio e il centro di identità, una questione probabilmente essenziale quanto l’organizzazione visiva. È stato necessario recidere il resto del cervello, un peccato sotto certi aspetti. I ricordi e le associazioni sarebbero inestimabili per il nostro giovanotto, e i Phalid hanno certamente sensi speciali sui quali mi interesserebbe avere un rapporto di prima mano.»

«Ah, sì,» disse ancora il dottore mentre l’infermiera gli porgeva un’ipodermica. «Una faccenda peculiare,» continuò usando l’ipodermica. «Posso trapiantare un cervello umano in questa… questa creatura; se invece trasferissi un cervello in un altro corpo umano, ucciderei quel cervello.» Restituì l’ipodermica vuota all’infermiera, e si pulì le mani. «Viviamo in uno strano mondo, non credi, Comandante?»

Il Comandante Sandion gli rivolse un rapido sguardo sardonico e un cenno di assenso.

«Uno strano mondo davvero, dottore.»


La personalità, il senso del proprio ego distintivo, vennero risucchiati da un limbo di tenebra. Per la seconda volta, Ryan Wratch ripiegò i duecento piccoli schermi sulle fessure oculari attorno a più di metà di quella che adesso era la sua testa. Non vide altro che oscurità, e davanti all’organo visivo sentì un’oppressione.

Giacque tranquillo, ricordando il pazzesco tumulto di luci e forme e colori sconosciuti visto la prima volta, e fu temporaneamente contento di essere sdraiato al buio.

Gradatamente divenne consapevole di nuove sensazioni nel funzionamento del proprio corpo. Non respirava più. Invece, una continua corrente d’aria soffiava lungo condotti pulsanti, e fuoriusciva dalle branchie sulla testa. Non poteva determinare da dove la inalasse.

Divenne conscio di una peculiare sensibilità tattile, un’esatta percezione strutturale. Le aree sensibili erano la parte inferiore e la punta degli arti superiori, mentre il resto del corpo era meno sensibile. In questo modo conobbe l’esatta qualità del tessuto sotto di sé, percepì la trama, la disposizione dei fili, l’essenziale, assolutamente intrinseca natura della fibra.

Udì suoni aspri e stridenti. Improvvisamente, e traumaticamente, si rese conto che erano voci umane. Stavano chiamando il suo nome.

«Wratch! Mi senti? Muovi il braccio destro per confermare.»

Wratch mosse l’arto superiore destro.

«Sento benissimo,» disse. «Perché non posso vedere?» Parlò istintivamente, senza pensare, senza ascoltare la propria voce. Qualcosa di strano lo costrinse a fermarsi e riflettere. Le parole erano fluite dolcemente dal cervello all’osso del diaframma risonante nel petto. Quando parlava la voce risuonava naturale sulle vibrisse sotto il carapace, sul dorso, che erano gli organi uditivi. Ma dopo un istante a tentoni, il cervello di Wratch realizzò che la voce non era stata umana. Era stata una serie di ronzii e brusii, molto differente da quella che gli aveva fatto la domanda.


Allora tentò di pronunciare parole umane, e trovò l’impresa impossibile. Il suo organo del linguaggio era inadatto a sibilanti, nasali, dentali, fricative, esplosive, sebbene potesse indicare le vocali intonando la voce. Dopo lo sforzo di un momento si rese conto della propria inintelligibilità.

«Stai cercando di parlare in Inglese?» giunse la domanda. «Muovi il braccio destro se sì, il sinistro se no.»

Wratch mosse il tentacolo destro. Poi, decidendo che desiderava vedere, lo portò alla fessura oculare per sentire cosa gli ostacolasse la vista. La sensazione di un impedimento lo trattenne.

«È meglio che lasci la mascherina così com’è per il momento, fino a quando prenderai maggiore confidenza con il corpo del Phalid.»

Wratch, rammentando l’abbaglio che l’aveva colto la prima volta, lasciò cadere il tentacolo.

«Non capisco come riesca a padroneggiare così rapidamente l’uso degli arti,» disse Sandion.

«Il sistema nervoso di un Phalid è essenzialmente simile a quello umano,» spiegò il dottor Plogetz. «Wratch forma un pensiero nel suo cervello, lo fa passare attraverso gli adattatori fino alla spina dorsale, e i riflessi si occupano del resto. Perciò, quando cercherà di camminare, se tenterà di dirigere il movimento di ogni zampa sarà goffo e sgraziato. Se invece dirà semplicemente al suo corpo di camminare, esso camminerà naturalmente, automaticamente.»

Plogetz guardò di nuovo la creatura sul tavolo.

«Sei comodo? I tuoi sensi sono lucidi?»

Wratch mosse con uno scatto il tentacolo destro.

«Senti qualche influenza della volontà del Phalid? Intendo dire, ci sono conflitti sul cervello da parte del corpo?»

Wratch pensò. Apparentemente non ce n’erano. Si sentiva Ryan Wratch, tanto quanto si era sempre sentito, nonostante la sensazione di essere costretto in un imprigionamento innaturale.

Tentò di parlare ancora una volta. Strano, pensò, come gli veniva facilmente il linguaggio dei Phalid, una lingua che non aveva mai sentito. Come prima non riuscì a raggiungere nemmeno un’approssimazione del linguaggio umano.

«Qui c’è una matita, e della carta per scrivere,» disse la voce. «Scrivere a occhi bendati forse sarà difficoltoso, ma provaci.»

Wratch afferrò la matita e, lottando contro un impulso di scribacchiare una linea ad angoli acuti, scrisse:

«Riesce a leggere?»

«Sì,» disse la voce.

«Chi è lei? Il dottor Plogetz?»

«Sì.»

«L’operazione è riuscita?»

«Sì.»

«Sembra che io conosca il linguaggio dei Phalid. Lo parlo automaticamente. Voglio dire, il mio cervello pensa e la voce viene fuori nel linguaggio dei Phalid.»

«Non c’è nulla di cui meravigliarsi.» Com’era stridula la voce del dottor Plogetz! Wratch si ricordava che suono aveva prima del trasferimento: un baritono piuttosto profondo, normale, gradevole. «Abbiamo lasciato un segmento del cervello del Phalid nella scatola cranica, il nodulo della produzione e della comprensione del linguaggio. L’ignoranza della lingua dei Phalid sarebbe un vero inconveniente per te. Abbiamo lasciato anche il nodulo che coordina le immagini dei duecento occhi, altrimenti ci sarebbe solo una visione indistinta. Persino così com’è, credo noterai una considerevole distorsione.»

Considerevole distorsione! pensò Wratch. Ha! Se solo il dottor Plogetz avesse potuto vedere una fotografia a colori di cosa aveva visto.

Un’altra voce si indirizzò a Wratch, una voce ancora più acuta, con uno stridore monotono che irritava i nuovi nervi di Wratch.

«Salve, Wratch. Sono Sandion… il Comandante Sandion.»

Wratch se lo ricordava abbastanza bene, un uomo scuro e sottile, molto rigido e veemente, che aveva parecchie responsabilità nella campagna contro i misteriosi Phalid. Era Sandion che l’aveva interrogato dopo la strana schermaglia su Kordecker Tre Quattro Tre nel Sagittario, dove i Phalid avevano ucciso i due fratelli di Wratch e avevano lasciato Wratch morente.

«Salve, Comandante,» scrisse Wratch. «Per quanto tempo sono stato privo di sensi?»

«Quasi due mesi.»

Wratch emise un brusio di sorpresa.

«Cosa è successo in questo tempo?»

«Hanno attaccato altre quindici navi, quindici come minimo, in tutto il cielo. Navi distrutte dalle fiamme, equipaggi e passeggeri morti o dispersi. Hanno teso un agguato a tre incrociatori da battaglia, in tempi diversi, naturalmente; uno in Ercole, uno in Andromeda, e un altro a nemmeno tre anni luce da Procione.»

«Stanno diventando sfacciati!» scrisse Wratch.

«Possono permetterselo,» disse Sandion amaramente. «Hanno già ridotto di un terzo la nostra flotta da guerra. Sono dotate di una maledettissima mobilità. Siamo come un cieco che cerca di battere venti moscerini con dei lunghi coltelli. E non conoscendo la posizione del loro pianeta madre, siamo impotenti.»

«Questo è lavoro mio,» scrisse Wratch. «Non dimenticare che con loro ho un debito personale. I miei due fratelli.»

«Uhmm,» grugnì Sandion, e disse arcigno: «Il tuo lavoro… e il tuo suicidio.»

Wratch annuì con un movimento del corpo. La testa, montata sul collare corneo che sormontava il carapace nero, non poteva annuire.

«Quando arrivai da Plogetz stavo morendo, ero morto al novantanove percento. Cosa posso perdere?»

Sandion grugnì ancora. «Bene, devo andare. Stai tranquillo e riposa.» Sorrise sarcasticamente alla signorina Elder. «Sei un uomo fortunato, con una bella infermiera e tutto il resto.»

Per quello che mi serve, pensò Ryan Wratch.

Il Comandante di Settore Sandion si recò al portello, il cui cristallo leggermente brunito lasciava trasparire la vista di dodici torri scintillanti disposte tra parchi e laghi, reti di esili rotte aeree, e un traffico aereo brulicante. Il veicolo aereo di Sandion, attaccato magneticamente alla barriera di parcheggio, era sospeso fuori dall’ufficio del dottor Plogetz. Vi salì, e il veicolo sfrecciò via verso la Torre di Controllo Spaziale, verso il suo ufficio e l’interminabile studio delle carte spaziali.

Il dottor Plogetz si rivolse a Wratch.

«Adesso,» disse, «ti toglierò la mascherina. Non preoccuparti, e non meravigliarti per la confusione. Pensa a rilassarti e guardati in giro.»


Due settimane più tardi Wratch era in grado di muoversi per le sue stanze senza cadere addosso al mobilio. Questo non significava che vedeva le cose come prima. Era come imparare da capo a vedere in un mondo quattro volte più complesso. Tuttavia, se il futuro di Wratch avesse avuto in serbo la minima speranza di qualcos’altro che non fosse una lotta disperata e senza amici, e alla fine una triste morte, l’esperienza avrebbe potuto essere piacevole.

Malgrado tutto, era costantemente stupito e affascinato dai colori, dai toni e dalle sfumature, ardenti, fresche, malinconiche, focose, mistiche, che impartivano a ogni cosa una sembianza nuova e meravigliosa.

L’occhio umano vede rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, viola. Wratch aveva sette altri colori, tre sotto il rosso, tre sopra il viola. Poi c’era un’altra lunghezza d’onda alla quale erano sensibili i suoi duecento occhi, un colore proprio in cima allo spettro, un colore glorioso e nebuloso. Riuscì a determinare tutto ciò con l’aiuto di un piccolo spettroscopio datogli dal dottor Plogetz. Descrisse la singola banda di colore al dottor Plogetz, che era molto interessato a tutte le osservazioni di Wratch, e che gli suggerì di chiamare quel colore «callicromo», una parola che secondo il dottor Plogetz derivava dal greco. Wratch era d’accordo, dal momento che la parola dei Phalid per il colore era foneticamente «zz-za-mmm», più o meno, un termine piuttosto inelegante da scrivere sulla lavagna che il dottor Plogetz gli aveva portato. Gli altri colori vennero chiamati sub-rosso 1, sub-rosso 2, sub-rosso 3, super-viola 1, super-viola 2, super-viola 3.

Wratch restava incantato semplicemente guardando fuori la città, osservando i colori cangianti del cielo, che non era più azzurro, ma una gradazione di azzurro e super-viola 1 e 2. Le torri non erano più torri. Distorte dal nodulo visivo del Phalid, apparivano a Wratch come brutte cose sottili, e i piccoli veicoli aerei affusolati che prima aveva ritenuto belli e slanciati sembravano tozzi e deformi. Niente, in effetti, pareva come prima. Gli occhi e il segmento cerebrale del Phalid alteravano l’aspetto di ogni cosa.

Uomini e donne avevano grottescamente cessato di essere creature umane. Erano divenuti creaturine frettolose e lebbrose, con la faccia appiattita e lineamenti estremamente sgradevoli.

Ma per compensare la perdita delle facoltà umane, Wratch scoprì dentro di sé un potere che forse, in precedenza, avrebbe potuto essere stato latente nel suo cervello.

Senza la normale percezione della gente che lo circondava, incapace di interpretare le espressioni facciali, il tono di voce, i cento piccoli atteggiamenti, Wratch scoprì gradatamente di essere in ogni momento consapevole delle loro emozioni interne. Forse era una facoltà universale, forse un attributo del Phalid racchiuso nei due noduli cerebrali.

Non lo seppe mai con esattezza, ma in questo modo Wratch apprese che la bella signorina Elder era nauseata e spaventata quando le sue mansioni la portavano vicino a lui; che il dottor Plogetz, uno scienziato freddo e preciso, lo considerava con poco sentimento al di là di un intenso interesse.

Riguardo alla signorina Elder, Wratch si ritrovò perplesso scoprendo che non gli sembrava più bella. Se la ricordava, una creatura magnifica con lucenti capelli scuri, grandi occhi teneri, un corpo flessuoso come un salice piangente. Adesso, ai suoi duecento occhi, la signorina Elder era un bipede pallido con una faccia che sembrava un pesce palla dei mari profondi, e una pelle non più piacevole di una grossa fetta di fegato crudo.

E quando si rimirava allo specchio… ah! Che creatura infinitamente superiore, dicevano i suoi occhi, alta, maestosa, aggraziata! Che carapace lucente, che tentacoli flessuosi! Un nobile contegno, occhi acuti che scrutavano l’orizzonte, becco vigile, e com’erano simmetriche le nere spugne baffute! Un aspetto quasi regale.

E Ryan Wratch si sentì alquanto a disagio trovandosi costretto ad accettare così completamente la versione dei fatti esterni propria del Phalid, e si teneva costantemente in guardia contro la sottile influenza dei suoi sensi alieni.

Il Comandante di Settore Sandion un giorno tornò. Gravemente strinse uno dei tentacoli di Wratch.

«Ho sentito che ti stai adattando molto bene,» disse Sandion.

Per Wratch era ancora impossibile parlare il linguaggio degli uomini. Andò alla lavagna.

«Quando comincio?» scrisse.

Sandion gli sembrava una creatura alterata color fango, nervosamente agile come una lucertola.

«Puoi cominciare domani, se sei pronto,» disse Sandion.

«!!!» scrisse Wratch; poi: «Fammi un riassunto.»

«Nell’ultima settimana, due corvette di pattuglia e due navi di linea Transpaziali sono state distrutte, vicino a Canopus,» disse Sandion. «Equipaggi e passeggeri, quelli che non sono stati uccisi, sono stati tutti portati via. Apparentemente i Phalid stanno mantenendo una forza consistente qui vicino. Hanno perlustratori ovunque, nella zona. Abbiamo avvistato e distrutto tre o quattro navicelle a due posti, non più grandi di un veicolo aereo. Dunque, domani parti per Canopus su un’altra corvetta. Pattuglierete lentamente fino a quando verrete attaccati. Poi l’equipaggio fuggirà sulle navicelle di salvataggio, cercando di raggiungere Lojuk, presso la Stella di Fitzsimmon, dove abbiamo una stazione astroscopica.

«Da quel momento seguirai la procedura che abbiamo già discusso.»

«Sono pronto,» scrisse Ryan Wratch.


«Beh, dannazione,» disse il Capitano Dick Humber, e lanciò l’elmetto sul sedile ribaltabile. «Non ci resta altro che mandare un invito scritto. Nove maledetti giorni e non abbiamo individuato nemmeno una maledetta traccia.»

«Forse non vedremo niente,» disse Cabron, il pessimista ufficiale di rotta. «Forse ci sarà solo un lampo e saremo tutti morti.»

Humber gettò un’occhiata alla lunga forma nera che guardava fuori dal portello.

«Comunque hai una prospettiva maggiore di Wratch,» disse mitemente. «Wratch comincia dove tu finisci.»

Un tentacolo nero si contorse.

«Finora Wratch ha badato fin troppo bene a se stesso,» borbottò Cabron. «Non so in quante direzioni può guardare con quei maledetti occhi, ma so che vince ottocento muniti a poker.»

Wratch sorrise fra sé. Era così facile leggere gioia, dubbio, sgomento, nella mente dei suoi avversari, e poiché non aveva alcuna intenzione di riscuotere, vincere gli pareva un innocuo passatempo, specialmente contro il malinconico ma enfatico Cabron.

Un allarme rauco fischiò. Ci fu un secondo di paralizzata inattività.

«Tutti alle navicelle!» gridò il Capitano Dick Humber. «Ci siamo!»

Una corsa ben disciplinata, i portelli si aprirono, sbatterono, si richiusero.

«Arrivederci, Wratch! Buona fortuna!» Il Capitano Humber strinse il tentacolo nero. Si arrampicò nell’apertura, lo sbocco che portava dalla cattura a opera dei furtivi Phalid alla salvezza su Lojuk. Wratch dominò il breve impulso di seguirli, vide chiudersi il portello della navicella di salvataggio un istante prima del portello dello scafo.

Il sibilo come di cartucce ad aria compressa, quattro colpi, e le quattro navicelle vennero espulse dalla loro culla. Silenzio.

Adesso ci siamo, pensò Wratch. Fino a quel momento, era stata solo speculazione, procedura sperimentale. Se i Phalid li avessero incrociati, se gli uomini fossero riusciti a scappare, se…

Secondo il piano, Wratch fece scivolare gli arti superiori in un paio di manette, le chiuse con uno scatto, e si dispose ad attendere che i suoi compatrioti lo liberassero. Oppure che sopraggiungesse una morte maledetta e rapida, se non si fossero sentiti rassicurati a sufficienza dalla fuga delle quattro navicelle.

Ma i minuti passavano e ancora non vedeva l’immensa e silenziosa fiammata improvvisa del raggio d’azione dell’arma usata dai Phalid, che neutralizzava i legami molecolari dissolvendo la materia in atomi sciolti e impazziti.

Una grande forma fluttuò nello spazio davanti ai portelli, una massa enorme, vasta come le più grandi navi di linea terrestri.

Poco dopo un urto violento contro lo scafo, e il raspare della nave appoggio che si affiancava.

Il portello si spalancò. Wratch vide il luccichio di corpi scuri… proprio come già una volta, su Kordecker 343 nel Sagittario, dove avevano ucciso i suoi due fratelli, e ripartendo su un incrociatore terrestre si erano lasciati alle spalle un esemplare della loro razza, il cui corpo adesso Wratch aveva indosso.

Entrarono tre Phalid, con i tentacoli che stringevano fucili esplosivi dalla strana forma: misteriose creature aliene, che solo un uomo — Ryan Wratch — aveva visto ed era sopravvissuto per raccontarlo.

E Ryan Wratch adesso non aveva certo molto da vivere, e non l’avrebbe mai, pensò, potuto raccontare.

Lo videro, i loro passi si fecero esitanti. Che nobili figure, agli occhi da Phalid di Ryan Wratch, che andatura maestosa! Wratch cercò di sentire con la propria mente le emozioni che era stato in grado di individuare negli uomini, ma sentì solo il vuoto. Allora le emozioni erano un attributo umano? O forse la facoltà telepatica di Wratch si esplicava solo su cervelli terrestri?


Incerto se i Phalid possedessero oppure no tale facoltà, Wratch tentò di predisporsi in uno stato di piacere e di benvenuto.

Ma i Phalid parvero subito considerarlo con indifferenza. Fecero un giro di ricognizione della nave e, senza avere trovato nulla, ritornarono. Allora, con grande sorpresa di Wratch, lo ignorarono di nuovo e iniziarono a lasciare la nave.

«Un momento,» chiamò nel linguaggio ronzante dei Phalid. «Liberate il vostro fratello da questi maledetti vincoli di metallo.»

Si fermarono, e lo scrutarono come presi alla sprovvista, o così parve a Wratch.

«Impossibile,» disse una. «Conosci bene Bza,» la parola usata era intraducibile, ma significava «costume, ordine, regolamento, procedura», «che rende necessario fare il primo rapporto a Zau-amuz.» Così il nome, o titolo, suonò all’organo uditivo di Wratch.

«Sono stanco, debole,» si lamentò Wratch.

«Pazienza!» ronzò bruscamente il Phalid; e con una punta di dubbio: «Dov’è la sopportazione del Phalid, il suo stoicismo?»

Wratch si rese conto che la sua condotta era in contrasto con il codice prestabilito, e subito scivolò nella passività.

Dieci minuti dopo i tre Phalid ritornarono, presero il giornale di bordo, e uno o due strumenti che attirarono il loro interesse. Quasi per un ripensamento, uno si avvicinò a Wratch.

«La chiave è su quello scaffale,» ronzò Wratch.

Venne liberato, e costrinse nella propria mente una sensazione di sollievo e di gratitudine. Le seguì nella navicella a forma di scatola, meravigliandosi per l’indifferenza con la quale lo accettavano.

Rimase in silenzio in un angolo della navicella mentre volavano verso il grande scafo che galleggiava a dieci miglia di distanza, e i Phalid restarono ugualmente in silenzio. Non avevano la minima curiosità?

Com’era bella la loro grande nave agli occhi da Phalid di Wratch, così sospesa nell’opaco lucore del nero spazio, così aggraziata e potente rispetto ai vascelli tozzi e schiacciati dei piccoli Terrestri frettolosi!

Questo era il messaggio degli occhi di Wratch. Ma la sua mente era tesa e circospetta. Aveva anche paura, ma la paura era così poco importante ormai da tanto tempo che non ne era più consapevole. Wratch si era riconciliato con la morte. La tortura sarebbe stata spiacevole. Represse l’impulso umano di scrollare le spalle. Il suo stesso corpo era morto, bruciato e ridotto a un pugno di cenere, e sapeva che mai più avrebbe rivisto il pianeta dov’era nato. Ma se per una fantastica possibilità avesse portato a termine quella missione, migliaia, forse milioni — forse anche bilioni — di vite sarebbero state salvate.

Wratch osservò con attenzione per imparare i comandi della navicella, in caso avesse avuto bisogno di tale conoscenza. Scoprì che erano relativamente semplici, disposti secondo un sistema che sembrava universale e usuale ovunque creature intelligenti costruissero astronavi. Essenzialmente una leva guida era montata su un cardine universale per il governo del timone, e una ruota su una forcella consentiva il controllo della velocità.

Si avvicinarono alla nave dei Phalid, un cilindro scuro piatto alle due estremità, con bande longitudinali di metallo sub-rosso.

La navicella d’appoggio a forma di scatola rallentò, si fermò, si incastrò nel recesso apposito sul fianco della nave, e i portelli si aprirono con uno scatto.

Wratch seguì i Phalid nel passaggio. Lì, con suo grande stupore, lo abbandonarono, allontanandosi in differenti direzioni, e lasciandolo sconcertato in mezzo al corridoio, senza seguirlo, senza interrogarlo, apparentemente libero di agire secondo il suo volere.

Com’era diversa dalla disciplina di una nave terrestre! L’uomo tratto in salvo sarebbe stato sballottato in un trambusto di eccitazione fino all’ufficio del Comandante. Sarebbe stato investito di domande, la sua memoria sarebbe stata frugata alla ricerca di qualunque dettaglio dei dispositivi nemici che avesse potuto concepibilmente notare.

Wratch era fermo, perplesso, in mezzo al corridoio, e i Phalid della nave, intente ai loro compiti, passavano oltre. Cercò di ragionare sulla situazione. Forse era stato scoperto, e gli davano corda per saggiare le sue intenzioni? In qualche modo non poteva convincersene. L’atteggiamento di quelli che l’avevano portato a bordo era troppo casuale per essere finto. Se avessero avuto in mente di ingannarlo, così pensava Wratch, l’avrebbero indubbiamente interrogato in modo sommario, e apparentemente soddisfatte l’avrebbero rilasciato sotto stretta sorveglianza.

Ma forse non c’era nessun inganno. Wratch si rammentò che una razza aliena non poteva essere giudicata secondo valori umani.

Su nessuno dei Phalid poté notare distintivi o evidenze di rango. Ognuna sembrava avere un compito specifico, come formiche estremamente intelligenti, pensò Wratch.

In quel caso, quando era stato portato a bordo, non ci sarebbe stato bisogno di interrogarlo; avrebbero supposto che il suo istinto e l’addestramento l’avrebbero guidato automaticamente ai suoi doveri. Questa ipotesi poteva spiegare il ritardo nel liberarlo dalle manette fissate al puntello nella corvetta. Una razza di individui — come i Terrestri — sarebbe stata indotta dalla sorpresa, dalla curiosità, dalla simpatia, a liberare un compagno prigioniero prima di compiere qualunque altra azione.

Wratch vagabondò lungo il corridoio, sbirciando mentre procedeva nelle camere che si aprivano su ogni lato. Vedeva e si meravigliava, e tuttavia non poteva essere certo di quello che vedeva a causa dell’ingannevole vista da Phalid.

All’estremità opposta trovò delle macchine, e comprese che dovevano trattarsi di motori a propulsione. Percorse un passaggio trasversale alla nave, e riprese a camminare nella direzione opposta.


A giudicare dalle apparenze, lo schema della nave era costituito da due corridoi longitudinali paralleli lungo i due lati opposti della nave, e, come sulle navi terrestri, i comandi erano davanti e i motori a propulsione dietro. Progetto, ingegneria, meccanica, erano tutti concetti universali, pensò Wratch, e consentivano di risolvere un dato problema con sviluppi estremamente efficienti all’incirca nello stesso modo. Com’era con i Terrestri, così era anche con i Phalid. In questo caso il problema era il modo migliore di attraversare lo spazio. La soluzione era una nave spaziale meccanicamente non tanto diversa dalle navi terrestri.

Malgrado l’apparente libertà, Wratch era perplesso e imbarazzato. Si era aspettato sospetti, esami minuziosi e profondi, forse un rapido smascheramento della sua vera identità. Non gli sembrava naturale che tutti lo ignorassero.

In quel momento la sua incertezza venne dissipata. Una forte voce ronzante si diffuse per la nave.

«Dov’è colui che è stato trovato sulla nave degli uomini insetti? Non è ancora venuto al cospetto di Zau-amuz.» La voce denotava stupore piuttosto che sospetto.

Dove, chi è Zau-amuz? si chiese Wratch. Dove sarebbe andato a trovarlo? Se la situazione era simile a quella di una nave terrestre, allora sarebbe stato avanti e in alto sopra la prua. Affrettò il passo in quella direzione, guardando in ogni portello in cerca di un indizio, un segno.

Dietro una porta sbarrata scorse fugacemente due o tre dozzine di esseri umani, se fossero uomini o donne la sua vista di Phalid non avrebbe saputo dirlo. Esitò, si fermò un istante a guardare. Ma potevano aspettare. Adesso era impaziente di trovare Zau-amuz prima che venisse fatta una ricerca, un’indagine, prima che lui e la sua menzogna venissero scoperti.

In una camera sotto la cabina di pilotaggio Wratch fu certo di vedere il padrone della nave. La camera era decorata in uno stile che affascinava i suoi sensi di Phalid: un soffice tappeto di due toni sopra il viola, pareti tinte di azzurro ricoperte di trafori fantasticamente ricchi, mobili bassi di plastica rosa e bianca, con inseriti dei medaglioni di quel colore alto nello spettro che il dottor Plogetz aveva chiamato «callicromo».

Zau-amuz era un Phalid gigantesco, grosso due volte Wratch, con un cervello supersviluppato e un addome più grande del normale. Il suo carapace era smaltato di una sfumatura sopra il viola. Le zampe posteriori sembravano invece sottosviluppate, troppo deboli per sopportare tanto peso anche per breve tempo. Se ne stava steso su un lungo giaciglio, e gli occhi di Wratch pensarono a quanta gloria e maestà erano incarnate lì in Zau-amuz.

Ignorando assolutamente la procedura corretta, ma sperando che la cortesia formale e le rigide norme cerimoniali fossero abitudini non praticate dai Phalid, Wratch avanzò lentamente.

«Riverito, io sono colui che è stato prelevato dalla nave degli uomini insetti,» disse Wratch.

«Sei in ritardo,» disse il grande Phalid. «E dov’è il tuo senso di Bza?», l’intraducibile parola che significava «costume, regolamento, antiche maniere.»

«Chiedo perdono, essere intelligente. Come prigioniero degli uomini insetto, ho visto cose talmente sgradevoli che, aggiunte alla gioia di riunirmi ai miei compagni, hanno temporaneamente tolto ai miei sensi la loro piena efficienza.»

«Ah, sì,» ammise il Signore dei Phalid. «Eventi simili non sono una novità. Come ti è successo di cadere nelle mani delle creature insetto?»

Wratch fece il resoconto degli avvenimenti che avevano portato alla cattura del Phalid di cui ora aveva indosso il corpo.

«Comprendo la situazione,» disse Zau-amuz. Non erano evidenti né la rudezza, né la asprezza che Wratch associava alla disciplina terrestre. Invece il Phalid sembrava dare per scontato la lealtà e l’industriosità dei suoi simili. «Hai nessuna osservazione significativa da riferire?»

«Nessuna, grandiosità, tranne che gli uomini insetto erano così terrorizzati dall’approssimarsi di questa nave che sono fuggiti in preda al panico più completo.»

«Questo l’abbiamo già notato,» disse Zau-amuz con un vago accenno di fastidio. «Vai. Esegui qualche compito utile. Se i tuoi sensi non si sistemano, gettati nello spazio.»

«Vado, magnificenza.»

Wratch si ritirò, compiaciuto per come si era svolto il colloquio. Adesso era un membro riconosciuto dell’equipaggio della nave. L’interrogatorio era stato più semplice di quanto avrebbe potuto immaginare. Adesso se solo la nave si fosse diretta al pianeta madre dei Phalid, se gli fossero stati concessi pochi minuti da solo, a terra, tutto sarebbe andato bene.


Vagabondò per la nave, e dopo poco giunse a una sala buia, evidentemente destinata all’assorbimento di cibo. Vide venti o trenta Phalid che con un mestolo si versavano una pappa marrone nel sacco gastrico all’altezza del torace, masticavano rumorosamente gambi di un vegetale che sembrava sedano, staccavano segmenti da mazzi come grappoli d’uva, e li infilavano nel sacco gastrico. Quei grappoli sembravano essere il cibo più appetitoso. Infatti Wratch divenne consapevole che il suo corpo aveva un gran desiderio di quei grappoli, un bisogno come un assetato che anela all’acqua.

Entrò, e cercando per quanto possibile di passare inosservato, prese un grappolo da una tinozza e lasciò che il suo corpo si nutrisse. Con sua sorpresa, scoprì che i grappoli erano vivi, e si contorcevano e dimenavano tra le sue dita, e pulsavano freneticamente nel sacco gastrico. Ma erano deliziosi; e lo colmarono di una sensazione di meraviglioso benessere. Voleva intensamente prendere un secondo grappolo, ma forse, pensò, non era un comportamento corretto. Così attese finché vide un Phalid prendere un secondo grappolo, e allora fece altrettanto.

Dopo il pasto si recò alla prigione dei Terrestri. Nella porta, sbarrata con una semplice barra esterna, era inserita una spessa lastra trasparente. All’interno notò due Phalid che si muovevano tra i Terrestri, li tastavano, esaminavano la pelle e gli occhi, come veterinari che ispezionano una mandria di bestiame.

Wratch provò un leggero senso di nausea. Poveri diavoli, pensò, e li commiserò come non faceva mai con se stesso. Lui, almeno, aveva un dovere da compiere che lo spronava, e poi i Phalid avevano ucciso i suoi fratelli. Lui le odiava. Ma quei prigionieri erano bestiame condotto al macello, erano confusi, spaventati, innocenti.

Un piano gli si formò all’improvviso nella mente. Forse, senza rischiare nulla, poteva riuscirci.

Andò in ricognizione lungo il corridoio, contò circa trenta passi dalla prigione fino al portello d’entrata della navicella d’appoggio. La navicella era grande abbastanza, pensò Wratch, per contenere, con un minimo di affollamento, i venti o trenta prigionieri terrestri. Aveva notato delle bombole d’acqua di emergenza nella navicella, e presumibilmente c’era del cibo. Ad ogni modo, era una prospettiva migliore che essere portati come prigionieri sul pianeta madre dei Phalid.

Il corridoio era temporaneamente sgombro. Wratch si assicurò velocemente che il portello fosse aperto, e ritornò alla prigione.

I due Phalid all’interno erano sul punto di andarsene, conducendo in mezzo a loro uno dei prigionieri che tentava di divincolarsi e gridava per il terrore. Ma lo portarono fuori dalla prigione, nel corridoio, e Wratch attese che si fossero allontanati sulle nere gambe articolate, fino a sparire alla vista; poi sollevò la barra, ed entrò nella cella.

I prigionieri lo guardarono apatici, e Wratch, notando particolari come capelli più lunghi, statura più bassa, si accorse che circa metà dei prigionieri erano donne, evidentemente provenienti da una nave passeggeri distrutta dai Phalid.

Una matita sporgeva dal taschino di un uomo. Wratch gli si avvicinò, la prese, e, raccogliendo un foglio di carta dalla scrivania, si ritirò in un angolo poco appariscente e scrisse:

«Non sono un vero Phalid. Vi aiuterò a fuggire. Dillo ai tuoi compagni. Potete parlarmi in Inglese. Capisco.»

Tese il messaggio all’uomo più vicino.

L’uomo lesse, e fissò Wratch stordito per lo stupore.

«Ehi, Wright, Chapman, guardate qui!» gridò, e passò il foglio agli altri due. In un momento il foglio era stato letto da tutti.

Stavano mostrando troppa eccitazione. Wratch temeva che un Phalid di passaggio gettasse un’occhiata all’interno, e venisse messo sull’avviso dall’insolita attività. Scrisse un altro biglietto.

«Comportatevi più naturalmente. Io rimarrò fuori dalla porta. Quando vi faccio cenno, uscite alla svelta, girate a destra, entrate nel secondo portello alla vostra sinistra, a circa trenta iarde lungo il passaggio. Lì dentro c’è una navicella di salvataggio, con comandi molto semplici. Tutto deve essere fatto velocemente.» Sottolineò la parola «velocemente». Quando sarete sulla navicella, allora dovrete badare a voi stessi. Il regolatore della propulsione è la ruota sulla forcella. La navicella viene liberata sganciando i due morsetti appena dentro il portello.»

Lessero il biglietto.

«Come facciamo a sapere che non è un trucco?» disse una voce.

«Trucco o no, è un’occasione,» disse il primo uomo. «Procedi pure,» disse a Wratch. «Aspettiamo il tuo segnale.»


Wratch agitò il tentacolo in quello che sperava essere un cenno rassicurante, poi uscì dalla prigione lasciando la barra alzata. Il passaggio era vuoto. Per quanto ascoltasse, non udiva alcun suono di passi in avvicinamento, il lento schiocco secco che produceva il bordo corneo attorno al centro spugnoso del piede di un Phalid battendo contro il lucido materiale del ponte.

Spalancò la porta, chiamò con un cenno i Terrestri che aspettavano in uno stato di tensione; poi rapidamente percorse a lunghi passi il corridoio nella direzione opposta, per essere quanto possibile distante dal luogo della fuga.

Ma dietro il primo angolo incontrò i due Phalid che erano usciti dalla prigione, e ora stavano riportando il prigioniero che avevano preso, e che Wratch vide essere una donna. Doveva trattenerli, anche se la sua ultima risorsa era sempre nella cassettina di emergenza, che portava fissata sotto il carapace, alta e invisibile.

Ma l’avrebbe usata solo come ultima risorsa. Si fermò in mezzo al passaggio.

«Quali sono le vostre conclusioni sull’intelligenza di questa razza?» chiese.

I due Phalid si fermarono, lo esaminarono attentamente.

«Hanno un senso dei valori insolito e capriccioso,» disse uno dei Phalid. «Le loro azioni non sono governate da Bza, l’ordine costituito, ma piuttosto dalla volontà individuale.»

«Che strano manicomio dev’essere il loro mondo!» esclamò Wratch.

«Indubbiamente,» disse il secondo Phalid. Stavano mostrando impazienza. Ma Wratch, oltre al desiderio di farli tardare, cercava davvero informazioni. Voleva sapere perché venivano presi dei prigionieri, e perché venivano portati sul pianeta dei Phalid. Ma era comunque conscio che una domanda diretta avrebbe sollevato dei sospetti. Tentò una via traversa.

«Ma saranno sufficientemente adatti ai nostri propositi?»

«È probabile,» fu la risposta. «Il furto è un compito peculiarmente consono alla loro natura imprevedibilmente scaltra.»

Furto? Forse i Terrestri venivano fatti prigionieri e trasportati attraverso anni luce di spazio da un gigantesco sindacato del crimine? Ma i due Phalid, senza ulteriori indugi, lo oltrepassarono. Preoccupato si affrettò dietro a loro, temendo di trovare i Terrestri ancora nel passaggio. Se fossero stati veloci, sarebbero già stati sulla navicella, e lontani dalla nave. E con dieci o quindici minuti di vantaggio, sarebbe stata un’impresa difficoltosa ritrovarli.

I Phalid raggiunsero la prigione, aprirono la porta, e spinsero dentro l’unica prigioniera. Poi rimasero paralizzati per la sorpresa. La prigione era vuota.

Ronzando aspramente uscirono dalla cella, e si immersero in un dialogo molto serio. Wratch, soddisfatto, ritornò sui suoi passi non visto.

Poco dopo la nave vibrò e rallentò, mentre i Phalid perlustravano il vuoto in cerca della navicella rubata. Ma se i Terrestri avevano agito con astuzia, costeggiando tranquillamente dopo il primo breve scatto al massimo della potenza, solo un caso avrebbe potuto farli scoprire.

In pochi minuti la nave dei Phalid riprese la velocità consueta, e non rallentò più, e Wratch dedusse che la fuga dei prigionieri era stata un successo.

Senza altro di meglio da fare, e sentendosi come uno strano passeggero in un’ancora più strana crociera di piacere, Wratch vagabondava per la nave, osservando e ascoltando, ma apprendendo ben poche informazioni importanti. I Phalid comunicavano raramente tra di loro, probabilmente perché erano tutte dello stesso stampo. La personalità sembrava essere un concetto incomprensibile per la loro mente.

Wratch trovò solo un portello trasparente in tutta la nave, nella cupola del pilota sulla prua, proprio sopra la camera di Zau-amuz. Si arrischiò ad andarci, aspettandosi quasi di venire interrogato oppure cacciato, ma nessuno dei due Phalid ai comandi gli prestò la minima attenzione.

Wratch osservò il cielo cercando schemi stellari conosciuti, e per la prima volta gli rincrebbero i sette nuovi colori del suo spettro. Perché le stelle erano completamente diverse per aspetto, qualcuna splendente dei colori sopra al viola, qualcun’altra dei colori sotto al rosso.

Wratch si sentì completamente perduto.

Cercò furtivamente delle mappe stellari, ma non ne vide nessuna, e non osò chiederne.

Si ritrovò a vagabondare di nuovo verso la prigione, come un criminale che si dice ritorni sulla scena del delitto. Per la verità, Wratch era preoccupato per l’unica disgraziata prigioniera rimasta. Quanto grande doveva essere la sua infelicità, pensava, aggravata dalla solitudine!

Sbirciò attraverso il pannello. La vide, seduta col mento posato tra le mani. Wratch sapeva che era una donna per la lunghezza dei capelli; altrimenti i suoi occhi di Phalid non gli fornivano alcun indizio sul suo aspetto.


Senza pensare Wratch tolse la barra alla porta ed entrò nella cella, anche se in seguito si maledisse per avere esposto tutto il piano a un simile rischio. E se il suo interesse per la prigioniera avesse sollevato dei sospetti? Se fosse stato portato al cospetto di Zau-amuz, e questa volta interrogato a fondo?

Al suo avvicinarsi la donna alzò lo sguardo, e Wratch percepì che nel suo cervello avveniva un cambiamento dall’apatia al sordo orrore e all’odio. Tuttavia alla radice di tutto c’era una vitalità strana e cocciuta, che non poté non guadagnarsi la sua ammirazione, anche se ai suoi occhi aveva l’aspetto di una creatura sgradevole e umida, con una testa sormontata da una massa fibrosa e arruffata di capelli.

«Gli altri sono scappati, e credo che siano in salvo,» scrisse. «Io li ho aiutati. Mi dispiace che in quel momento tu non fossi in cella. Tieni alta la testa. Hai un amico a bordo.»

La sorpresa le si fece strada nel cervello, seguita da piccoli, dubbiosi barlumi di speranza.

«Chi sei?» La sua voce era perplessa, esitante. «Scrivi quasi come scriverebbe un uomo.»

«Sono un uomo, per così dire,» scrisse Wratch. «C’è il cervello di un uomo in questa brutta scatola cranica.»

La donna lo guardò, e Wratch sentì l’improvviso, caldo ardore della sua ammirazione.

«Sei molto coraggioso,» gli disse.

«Anche tu,» le scrisse; poi d’impulso: «Non sentirti troppo disperata. Farò del mio meglio per aiutarti!»

«Non mi importa più adesso,» gli disse. «Mi basta sapere che c’è qualcuno vicino. Odiavo essere da sola.»

«Devo andare,» scrisse Wratch. «Non sarebbe bene che venissi scoperto qui. Tornerò appena sarà sicuro.»

Mentre usciva dalla porta, la sua mente colse meraviglia e gratitudine, e un barlume di piacevole, calorosa amicizia.

Parlare con la donna rallegrò Wratch. Alieno e dissociato dall’umanità com’era divenuto, il suo cervello si era gradatamente mutato in un congegno pensante, freddo e meccanico. E, pensò Wratch con un’improvvisa fitta di amarezza, in realtà non era altro che quello, un meccanismo con una certa funzione da adempiere prima di sottomettersi alla distruzione.

Una volta acceso l’interruttore che avrebbe reso completa la sua missione, se mai fosse giunto tanto lontano, la sua vita non sarebbe valsa più di un corpuscolo di polvere astrale.

In qualche modo vedere la donna prigioniera, la cui situazione era per alcuni versi peggiore della sua, ma che non aveva nemmeno la soddisfazione di compiere un dovere, vedere quella donna, sentire il calore della sua mente, aveva creato in lui un impulso a vivere di nuovo come un essere umano. Il che, tanto per cominciare, era impossibile. Il suo corpo era morto, e secondo il dottor Plogetz il suo cervello non poteva sopravvivere in un altro corpo umano.

Il tempo passò. Giorni? Settimane? Wratch non riusciva a rendersene conto. Due o tre volte fece fugaci visite alla prigioniera. Era una donna giovane, decise, piuttosto che di mezza età, prendendo come dimostrazione il contorno nitido del mento e della mascella e una certa vivacità del passo.

Le visite lo mettevano sempre di buon umore, e perversamente lo lasciavano con un senso di insoddisfazione per ciò che la vita gli aveva dato. Molto era mancato a Ryan Wratch, sebbene viceversa avesse sperimentato molto che a uomini più prudenti e legati alla Terra non era dato provare: la solennità di tuffarsi da solo nel nero vuoto infinito, il brivido di eccitazione nell’atterrare su un pianeta sconosciuto, il cameratismo dei suoi due fratelli nei rudi piaceri degli avamposti spaziali, l’incanto di avvistare un pianeta non segnato sulle carte, al confine tra noto e ignoto, un mondo che poteva mostrargli bellezze nuove e meravigliose o una civiltà fiorente, nuovi metalli rari o gioielli, rovine di antichità cosmiche.

C’era veramente un fascino meraviglioso nell’esplorazione dello spazio e nel commercio indipendente, e Wratch sapeva che se anche gli fosse stata data una nuova prospettiva di vita, non avrebbe comunque mai potuto riconciliarsi a un’esistenza tranquilla sulla Terra.

E tuttavia Wratch pensava a tutto quello che la vita gli aveva negato. Il colore, la vivace gaiezza delle cosmopolite città terrestri nei periodi più spettacolari e prosperosi della storia del mondo; la musica, la televisione, gli spettacoli, le città di villeggiatura, quasi febbrili al ritmo dei loro piaceri; la società delle donne civilizzate, con le loro risate, la bellezza e la giovinezza.

Wratch allontanò con rabbia tali pensieri dalla sua mente. Era un — come si era definito? — un meccanismo con una determinata funzione da compiere prima di abbandonarsi alla distruzione.

Così il tempo passava, e gli anni luce scemavano dietro il vascello spaziale dei Phalid. Ma se si stessero allontanando dal Sole, se vi si stessero avvicinando, o se stessero procedendo paralleli a esso, Wratch non lo sapeva. Camminava per i corridoi, riposava nella stanza buia dal pavimento soffice disposta a quello scopo, si nutriva. Aveva mangiato i grappoli solo una volta, e poiché da quella volta se ne era sentito sazio, si riempiva il sacco gastrico soltanto di pappa marrone, e del sedano rosso scuro.

Nessuno degli altri Phalid lo infastidiva, nessuno gli faceva domande, nessuno sembrava notare che non aveva alcuna occupazione. Ogni Phalid aveva un lavoro da fare, e lo eseguiva al massimo dell’efficienza. Wratch aveva comunque la sensazione che in una situazione di emergenza un Phalid avrebbe saputo agire, e avrebbe agito, con prontezza e iniziativa; ma costituzionalmente era fatta per seguire la consuetudine — Bza — ciecamente, per lasciare che la responsabilità pesasse sulle nere spalle cornee di quelli come Zau-amuz.

Poi, un giorno, girovagando senza meta per la sala motori, Wratch notò un’insolita vivacità e sveltezza. Si affrettò alla cupola di pilotaggio, e dal portello che dava sullo spazio vide un grande mondo grigio sotto la nave. Da un lato era sospesa una fioca stella verdastra.

Quello era il mondo natio dei Phalid, la cui posizione era un segreto avvolto nel mistero per quelli della Flotta Spaziale Terrestre. Quella era la meta di Wratch.

Wratch scrutò il cielo, ma per quanto tentasse non era in grado di riconoscere nessuno dei punti di riferimento che nelle situazioni di emergenza nello spazio rendevano possibile la stima della posizione. Le Pleiadi, la costellazione di Orione, il Sacco di carbone, Corona, quelli e venti altri il cui aspetto da ogni angolazione veniva martellato nella testa di tutti gli studenti di navigazione spaziale.

Wratch guardò avvicinarsi la superficie del pianeta, vide continenti nebbiosi, mari apparentemente salmastri.

Si accorse che i piloti lo stavano osservando con stupita attenzione dalle ampie fessure ottiche.

«Stiamo per atterrare, fratello,» disse uno dei piloti. «Come mai non sei a fare il tuo dovere?»

«Il mio dovere è qui,» disse Wratch, pensando in fretta, sperando di non avere scelto la risposta sbagliata. «Osservo la forma delle nubi mentre atterriamo.»

«È questa la volontà di Zau-amuz?» insisté il Phalid. «È strano, perché non è Bza. C’è qualche errore. Chiederò al Nominato.» Prese un’asta sensoria e la premette contro il diaframma toracico.

«Dov’è il dovere di colui che deve osservare la forma delle nubi?» ronzò. E la risposta venne da una barra vibrante sporgente sopra i controlli.

«Non c’è niente di simile. È un errore. Mandatelo da me.»

«Attraverso quel passaggio,» disse il Phalid, passivo e indifferente adesso che aveva scaricato la faccenda. «Zau-amuz correggerà i tuoi ordini.»

Wratch non poteva fare altro che obbedire. Non c’erano mezzi di evasione possibili. Il passaggio conduceva soltanto a un luogo: la camera di Zau-amuz.

Wratch allungò un tentacolo nella cassetta di emergenza fissata sotto il carapace, e tirò fuori un piccolo oggetto di metallo. Era un peccato venire scoperto adesso che la sua meta era così vicina.

Avanzò, e trovò Zau-amuz che lo fissava in un esame intenso e interessato.

«Strane cose sono successe a bordo,» ronzò il Nominato. «Prigionieri terrestri fuggono, senza lasciarsi alle spalle alcun indizio di come siano fuggiti. Un fratello Phalid perde molto tempo vagando per i corridoi e nella cupola di pilotaggio, osservando le stelle, quando Bza richiede che compia il suo dovere sulla nave. Un altro fratello — o forse lo stesso — esegue ordini inesistenti di studiare la conformazione delle nubi mentre ci avviciniamo al pianeta Madre. E questi fenomeni accadono solo dopo che un fratello viene tratto in salvo da un vascello del popolo insetto, che in questo caso non oppone la solita frenetica resistenza, ma fugge con un’insolita codardia. Ora…» e i toni di Zau-amuz si fecero taglienti e acuti «questi eventi puntano a un’inevitabile conclusione.»

«Proprio così,» disse Wratch, inconsapevolmente drammatico. «La morte!»

Spianò l’arma manuale sul mostruoso Phalid. Uno scoppio, un rimbombo staccato, e la grossa testa del Nominato si contorse e si raggomitolò in una minuscola palla nera carbonizzata. Puzza e fetore riempirono la stanza.

Zau-amuz si accasciò, rabbrividì, ed era già morto.


Lungo il passaggio arrivò correndo uno dei piloti. Vide il corpo prono, lasciò cadere il proprio alto corpo nero in una posizione contorta, e diede libero sfogo a un urlo di un’angoscia talmente spaventosa che il cervello di Wratch ne rintronò. Il racconto di migliaia di orrori, l’oltraggio che supera l’umana comprensione, il massacro, la tortura, la perversione, tradire la fiducia di un mondo intero, tutto ciò era una banalità in confronto al delitto che aveva commesso.

Wratch prontamente uccise il pilota. Poi tornò correndo nella cupola. Si fermò sulla soglia.

Coraggio, coraggio, coraggio/ disse a se stesso. Non devo rinunciare adesso!

Entrò lentamente nella stanza, osservando il pilota Phalid con disperata intensità, cercando di leggere la mente nascosta. Tentò un trucco fuori dall’ordinario.

A quanto sapeva, i Phalid erano uno esattamente uguale all’altro. Almeno ai suoi sensi terrestri non era evidente alcuna differenziazione fisica.

Scivolò nella poltroncina occupata poco prima dal pilota morto.

Quello ancora rimasto era concentrato sui comandi, e rivolse a Wratch solo un rapido sguardo.

«Cos’era quella confusione?»

«Zau-amuz ha dato nuove istruzioni,» disse Wratch. «Dobbiamo atterrare con la nave in un luogo desolato.»

Il pilota emise un brusco ronzio.

«Una strana contraddizione rispetto ai suoi recenti ordini. Ha specificato esattamente quali coordinate?»

«Ci dà l’autorità di usare il nostro proprio giudizio,» disse Wratch, con la sensazione di essere protagonista di un evento senza precedenti. «Dobbiamo semplicemente scegliere un’area disabitata e isolata, e atterrare.»

«Strano, strano,» ronzò il pilota. «Quanti eventi singolari in così poco tempo! Forse faremmo meglio a verificare con Zau-amuz.»

«No!» disse Wratch in tono imperativo. «È molto impegnato in questo momento.»

Il pilota apportò alcuni cambiamenti ai quadranti. Wratch, ignorando assolutamente in cosa consistessero le proprie mansioni, si appoggiò allo schienale e osservò attentamente il paesaggio.

«Attento al tuo lavoro!» latrò improvvisamente il pilota. «Compensa la torsione radiale!»

«Sto male,» disse Wratch. «La vista mi si offusca. Compensa tu la torsione.»

«Che fantasia è mai questa?» esclamò il pilota con furibonda impazienza. «Da quando gli occhi di un Phalid si offuscano davanti al suo dovere? Non è Bza!»

«Tuttavia è così che deve essere,» disse Wratch. «Dovrai far atterrare la nave da solo.»

E in mancanza di un’alternativa, il pilota, ronzando sommessamente per l’eccitazione nervosa e la stupefatta indignazione, si dispose al suo compito.

Il pianeta si ingrandì. Wratch si sedette comodamente, e scoprì in se stesso un’ombra di divertimento ai frenetici sforzi del pilota per fare il lavoro di entrambi.


Nel campo visivo apparve una città, un luogo bellissimo agli occhi di Phalid di Wratch, con bassi edifici a cupola di un materiale scuro e luccicante, molte piazze pentagonali, color marrone scuro e intarsiate con vasti mosaici convenzionali di due sfumature sotto al rosso, un’alta torre a forma di pilone terminante in una sfera dalla quale sporgevano due coni opposti, sottili e tronchi, il tutto ruotante piano contro il cielo verde oliva.

La città era rannicchiata su un terreno scuro e pianeggiante. Un fiume indolente scorreva a breve distanza, e poi una palude, e, sebbene ormai abituato alle sfumature e ai valori dei tredici colori dei Phalid, Wratch non poté non stupirsi dei bizzarri effetti che il fioco sole verde modellava sul paesaggio buio.

Passarono sopra la città, e subito dopo su quella che sembrava essere la zona industriale. Wratch vide enormi pozzi fiammeggianti, sparute strutture nere nel cielo, distese di scorie, gru sorprendentemente simili a quelle terrestri.

La città svanì oltre l’orizzonte. Sotto di loro la desolazione.

«Atterra vicino a quell’alta collina,» disse Wratch. «Vicino al limitare della foresta.»

«Avevo capito che i tuoi occhi si offuscavano,» disse il pilota, senza rabbia né sospetto — tali emozioni sembravano estranee alla loro natura — ma semplicemente sorpreso.

«Vedono bene in lontananza,» spiegò Wratch.

«Uno strano viaggio, strano davvero!» ronzò il Phalid.

Fare atterrare la grande nave in perfetto equilibrio era un compito arduo per un solo pilota, e Wratch fu costretto ad ammirare la destrezza con la quale il Phalid affrontò il problema. Una razza a un alto livello di adattabilità, pensò, quando il problema era chiaro davanti ai loro occhi. Ingenui e innocenti, addirittura, quando una situazione poteva venire affrontata con Bza.

La nave scese verso il terreno erboso soffice e scuro, esitò, toccò terra, stabilizzò il grande peso, rimase immobile.

«Adesso gli ordini di Zau-amuz sono che tu aspetti qui la sua chiamata, mentre io vado altrove,» disse Wratch.

Si alzò in posizione eretta, un’alta creatura nera, cornea nel corpo e nel carapace, con gambe articolate, braccia tentacolari chiazzate, un complessa testa da insetto. Ma dentro quella testa pulsava un cervello terrestre, e il cervello urlava: «Ora! Ora! Ora!»

Teso per l’eccitazione percorse il passaggio a lunghi passi. Corse alla prigione, tolse la barra alla porta, fece un cenno veloce alla donna.

La donna esitò, non riconoscendolo, e Wratch sentì la sua paura. E tuttavia lo affrontava arditamente. Le fece un altro cenno, con maggiore urgenza. Non c’era tempo per scrivere. Indicò se stesso, poi la donna, che d’un tratto comprese, corse avanti. Le fece segno di essere prudente, e la scortò fuori nel corridoio.

Si udì un urlo agonizzante. I Phalid avevano trovato Zau-amuz. Affrettandosi ormai apertamente, Wratch condusse la donna verso il portello di uscita. La voce dell’orrendo assassinio viaggiava veloce, e ogni Phalid sembrava paralizzato, svuotato di ragione e volontà.

Il portello di uscita era un congegno dall’intricata struttura.

«Aprite il portello,» disse Wratch a due Phalid lì vicino. «È stato l’ultimo ordine di Zau-amuz.»

I Phalid, storditi, obbedirono.

Wratch e la donna si precipitarono sulla strana distesa erbosa del mondo dei Phalid. Mentre così facevano, dall’interno giunse l’enorme ronzio del sistema di altoparlanti della nave.

«Terribile tradimento! Atti inconcepibili! Catturare i due che hanno lasciato la nave!»

Wratch si buttò in una corsa dinoccolata, annaspando contemporaneamente sotto il carapace nella cassetta di emergenza per trovare il fulcro di tutta l’avventura. Nella cassetta c’era un dispositivo composto di tre parti: un minuscolo accumulatore a energia atomica, un commutatore molto resistente, abilmente costruito, e una griglia di trasmissione smontabile. Mentre correva Wratch tirò fuori le tre componenti, ma il tempo di fermarsi a metterle insieme purtroppo mancava. Già i Phalid uscivano a fiumi dalla nave, e rimbalzavano sull’erba scura in salti sgraziati.

La donna non era d’intralcio. Teneva facilmente il passo con la rapida corsa del corpo del Phalid. A Wratch venne in mente che doveva essere giovane e forte per correre così bene. Illogicamente desiderò poterla vedere com’era veramente, cioè come l’avrebbero vista occhi terrestri. Ai suoi occhi di Phalid era pallida, umida, e simile a un rettile.


Una collina rocciosa e spoglia era alla loro sinistra, mentre di fronte e a destra si stendeva una foresta ricca di una vegetazione che, sebbene i suoi occhi di Phalid trovassero familiare in modo intimo e terribile, il suo cervello terrestre percepì come la vegetazione più strana mai vista in tutta la vita.

Gli alberi erano enormi, col tronco grosso come quello dei funghi mangerecci, con un fogliame lanuginoso e viticcioso, foggiato e tessuto in giganteschi anemoni di mare, splendenti di tutti i colori della Terra, dei sei colori contigui dei Phalid, e di ogni tono, combinazione e gradazione concepibili. Il cuore cavo sulla sommità di ogni albero scintillava di un bellissimo callicromo.

I colori erano vivaci e luminosi come la luce del sole attraverso vetri dipinti, e la foresta era sgargiante per quanto la luce del fioco sole verde le permettesse. Sembrava particolarmente magnifica accanto alle scure colline ondulate e alle paludi verdi e umide coperte di bassi giunchi. E, sebbene gli alberi, se di alberi si trattava, possedessero una bellezza impetuosa, i tronchi e i rami avevano un aspetto paffuto e carnoso che inquietava.

Wratch aveva bisogno solo di tre minuti per fare quello che doveva, e la foresta sembrava essere l’unico rifugio, la sola possibilità per un temporaneo nascondiglio.

Fugacemente si domandò il motivo della soffocante familiarità della foresta. Era forse una suggestione, un’aura degli stessi Phalid? Eppure, com’era possibile? I lunghi passi di Wratch esitarono, vacillarono un momento. La foresta era davanti, e i Phalid erano dietro, perciò la foresta era la minore delle due minacce.

Si guardò attorno disperato, ma non vide nessun’altra possibilità di fuga, e obbligò il corpo dinoccolato a dirigersi verso le navate ombreggiate di porpora. Improvvisamente scoprì che era il corpo del Phalid, e non la sua mente, che temeva la foresta colorata. Ogni cellula fremeva di una paura profondamente radicata, un istinto che faceva rabbrividire le fibre del grande corpo nero. La vegetazione così gaiamente striata sembrava una compagine di mostri grotteschi, e le profondità ombrose erano ostili come la morte.

Un colpo sparato da un’arma dei Phalid passò sopra la sua testa. La foresta era vicina. Wratch non esitò. Con i nervi tremanti, vi si tuffò.

Corse e corse, cambiando direzione per confondere gli inseguitori. La ragazza cominciava a essere stanca, e i suoi passi stavano ovviamente rallentando. Wratch si guardò indietro e non vide altro che i grossi tronchi di cento fantastici colori.

Era una foresta di morte. Vide molti involucri opachi di Phalid morti da tempo, carapaci neri, secchi come elitre abbandonate da scarafaggi giganteschi, e con un moto di orrore vide uno scheletro umano, bianco, miserabile, e indicibilmente perduto in quella giungla aliena.

Allora si fermò, si mise in ascolto, ogni vibrissa uditiva tesa nella camera di risonanza sotto il carapace.

Silenzio. Nessun rumore di passi. Si erano forse liberati degli inseguitori?

Il terrore avvertito dal corpo lentamente iniziò a pervadergli il cervello. Guardò in alto, guardò in basso, non vide altro che stormire di foglie, tronchi grassocci, rosso, verde, giallo, arancione, azzurro, i sette colori dei Phalid, combinazioni infinite. Ciò nondimeno Wratch percepiva un’intelligenza vicina, udiva voci malevole parlargli sopra la testa, sogghignare maligne in spaventosa anticipazione.

Dal tronco di un albero cresceva un grappolo di quel frutto delizioso che aveva mangiato sulla nave. Era stanco, aveva bisogno di cibo. Stava quasi allungando un tentacolo per raccoglierlo, ma pensò che non aveva tempo per il cibo. O forse una sorta di istinto l’aveva messo in guardia? Ritirò il tentacolo, si allontanò. La sua prima preoccupazione era di montare il trasmettitore di segnale.

Posò le tre parti sul terreno umido e freddo, e si mise al lavoro. Tre navicelle spaziali dei Phalid fischiarono basse nel cielo verde scuro, alla ricerca, pensò Wratch, dei due che erano fuggiti dalla nave. Osservò il fogliame spugnoso. Si era infittito, si era forse abbassato, avvicinato? Questo pensiero mandò spasmi incontrollati attraverso il corpo.

Risolutamente ignorò il terrore riflesso, montò i tre pezzi del dispositivo il cui buon funzionamento era atteso da un pianeta intero.

Aveva quasi finito. Doveva stringere la connessione, far scattare l’interruttore, e scagliare nello spazio un raggio permanente che avrebbe eccitato, entro cinque minuti, cento relè in altrettante navi della flotta spaziale terrestre.


Ma Ryan Wratch venne interrotto. Udì un urlo acuto e stridente. Si girò di scatto e vide la ragazza lottare contro tre o quattro gambi luccicanti che erano spuntati dal terreno. Erano germogli all’apparenza fragili, ma incredibilmente mobili e resistenti, che cercavano di crescere attorno a lei, e di imprigionarla in un fitto intreccio.

Wratch sentì una cosa liscia e fresca tastargli il dorso. A quel tocco il nero corpo lucente si afflosciò, si rilassò in un fluire di pace cantilenante, immerso nella beata conclusione della vita.

Il cervello umano di Wratch protestò, lottò freneticamente, inviò ordini a nervi riluttanti. Scalciò, e le fiacche membra spezzarono il fragile gambo. La vita ritornò lentamente nel corpo. Corse a strappare le radici avvinghiate alla ragazza. Una le si avvolse intorno al ginocchio. La ragazza gridò ancora, e la sua agonia colpì come un maglio il cervello di Wratch.

Batté, colpì, schiacciò, liberò la ragazza. Perdeva sangue dal ginocchio. La ragazza rabbrividì, gli si strinse vicino, e Wratch sentì nel suo cervello un sollievo soffocato per essere libera, per essergli accanto. E Wratch, ricordando stranamente in quell’attimo il disgusto e la nausea della signorina Elder, fu grandemente sorpreso e anche un po’ imbarazzato.

Tutto ciò accadde nei tre secondi che Wratch impiegò per estrarre la sua arma e ridurre il terreno circostante in un deserto fumante. Adesso, pensò, sapeva perché i Phalid avevano abbandonato la caccia sul limitare della foresta, sapeva perché i suoi istinti di Phalid si erano ribellati al pensiero di quelle navate dagli strani colori. A quanto pareva la foresta era un luogo maledetto. E a quanto pareva i Phalid confidavano che la foresta provvedesse a fare giustizia.

Le radici spuntarono di nuovo, questa volta insolitamente esitanti, come se dirette da una vasta intelligenza offesa. Una forte voce ronzante risuonò dal fogliame sopra la loro testa. Wratch balzò per la radura, con l’arma pronta a sparare.

«Fratello, fratellino, sei forse anormale di mente?» disse la voce in toni gentili e sorpresi. «Tu bruci le braccia che ti avvolgono per l’eternità? Non è Bza che ti ha condotto al Padre?»

Wratch si guardò attorno in cerca del Phalid che aveva parlato, ma non vide nessuno.

«No,» rispose. «Sono venuto qui per altri motivi. Vieni fuori, dovunque tu sia, o rado al suolo ogni albero in vista.»

Una pausa. Wratch percepì un’intelligenza, una mostruosa intelligenza aliena, toccargli il cervello, e subito ritrarsi.

«Ah, non mi meraviglio che tu uccida le braccia del Padre. Il tuo corpo è quello dei figli, il tuo cervello è una cosa orrenda, un’energia insidiosa e volubile, e non sai nulla di Bza.»

«È vero,» disse Wratch, tenendo pronta l’arma. «Io sono del pianeta Terra, attaccato dalle creature di questo pianeta. E tu chi sei? Dove sei?»

«Io sono tutt’attorno a te,» disse la voce. «Io sono la foresta… il Padre.»

Per un attimo, la mente di Wratch fu presa alla sprovvista. Poi riacquistò il proprio equilibrio. Era molto interessante, ma il tempo stava passando. Ritornò lentamente dove aveva lasciato il trasmettitore.

Era scomparso.


Irrigidito per l’ansia, Wratch si voltò di scatto. Vide il trasmettitore su in alto, stretto da un germoglio bianco e spiraleggiante.

«Lascialo,» ronzò incalzante. «Lascialo, ti dico!»

«Calma, fratello, calma e silenzio nella foresta Padre. Questo è Bza.»

Wratch colpì la base del gambo, che si spezzò e cadde. In un istante aveva liberato il trasmettitore. Uno stelo rapidamente lo avvolse da dietro e lo immobilizzò. Il trasmettitore cadde. Spuntò un altro stelo, e Wratch si ritrovò impotente. La ragazza gli corse accanto, tirò lo stelo, ma era più duro del primo, e rivestito di una pelle coriacea e flessibile.

Wratch ronzò freneticamente rivolgendosi alla ragazza. Se solo avesse potuto parlare, se solo lei avesse capito!

Con un calcio fece rotolare il trasmettitore in uno spazio aperto, e sempre con un calcio cercò di farla andare vicino al trasmettitore. La ragazza lo raccolse.

«È questo che vuoi?»

«Zz — zz — zz!» ronzò Wratch.

«Una volta per no, due per sì,» gli disse, indietreggiando per evitare un braccio bianco che si avvicinava strisciando. «Vuoi che faccia qualcosa?»

«Zz! Zz!» e Wratch tentò di annuire col collo rigido.

La ragazza mise la mano sull’interruttore. «Devo girare questo?»

«Zz! Zz!»

L’interruttore scattò, il trasmettitore emise un brusio, un sibilo, una vibrazione. La griglia divenne bianca, fluttuò di cento colori, e lanciò un segnale potentissimo attraverso tutto il subspazio, un richiamo che convocava tutte le navi da guerra terrestri nella foresta Padre, sul pianeta del Phalid. In cinque minuti ogni pannello di allarme della flotta spaziale avrebbe risuonato di un folle ululato. Sarebbero stati seguiti cento vettori, e dove i vettori convergevano, lì si sarebbero diretti cento enormi vascelli armati.

Ryan Wratch si rilassò. Adesso potevano anche ucciderlo. La sua missione era compiuta. Aveva tenuto fede al ricordo dei suoi fratelli. E la foresta Padre stava per ucciderlo. Lo sapeva, sentiva la certezza della propria morte, e il motivo quasi benevolo che la stava provocando. I bianchi steli si strinsero, cominciarono a buttare piccoli viticci avidi e curiosi per sondare le fessure e gli interstizi nella chitina.

Wratch guardò la ragazza. Sentì la sua paura. Non era paura per se stessa! Era paura, e impulsiva compassione, per lui!

Ryan Wratch voleva vivere.

«Liberami!» gridò alla foresta. «Parlerò con te!»

«Perché dovresti cercare di sfuggire a Bza?» chiese la voce gentile. «Il tuo cervello è una cosa aliena. Se obbediamo, potresti bruciare altre piccole braccia bianche.»

«No, se non tenteranno di imprigionarmi ancora. Liberami! Se non lo fai dirò alla mia compagna di bruciare un grande cerchio nella foresta.»

Le braccia subitaneamente si allentarono.

Wratch in fretta se ne allontanò. La ragazza corse verso di lui, si fermò di colpo, non sapendo cosa fare. Wratch le accarezzò una spalla con un arto superiore. Poi si guardò attentamente attorno per controllare la presenza di furtive radici bianche, ma non ne vide. Percepiva un senso grandioso di guardinga cautela nella foresta, ma anche un lento ritirarsi della sua minaccia.

Abbassò di nuovo lo sguardo sulla ragazza, sentendosi stranamente protettivo.

Scrisse sul terreno erboso: «Grazie. Abbiamo vinto!»

«Ma i Phalid non verranno a cercarci, e non ci uccideranno?» chiese la ragazza.

«I Phalid hanno paura della foresta. Forse possiamo resistere fino all’arrivo delle navi terrestri,» scrisse Wratch nella scura terra argillosa. E nella mente di lei sentì una speranza, una calda felicità.

«Torneremo mai sulla Terra?»

Qualcosa dentro di lui si irrigidì. I pensieri in rapida sequenza furono come una doccia di acqua gelata. La desolazione gli offuscò la mente di grigiore. La Terra? Cosa c’era per lui sulla Terra? Il suo corpo era morto. Il suo cervello, trapiantato in un altro corpo, sarebbe morto. Non si era aspettato, nessuno si era aspettato che sopravvivesse alla sua missione.

«Non lo so,» scrisse.


Poi gettò un’occhiata alla griglia, che stava ancora gridando il suo messaggio attraverso il subspazio, e la depressione venne mitigata dalla cupa soddisfazione di avere portato a termine il suo lavoro.

Di nuovo si guardò attorno. Non c’era alcun segno di vita, solo la sensazione della foresta, pensierosa, vigile, metà petulante e metà selvaggia.

Un’intuizione della tremenda verità lo folgorò. Con improvvisa curiosità levò nell’aria il ronzante segnale di attenzione dei Phalid.

«Qual è il tuo desiderio?» giunse la risposta dall’alto del fogliame multicolore.

«Dimmi in che modo la foresta è il Padre.»

«Dalla foresta viene il Frutto della Vita,» disse la voce. «Colui che se ne nutre viene impregnato di una seconda vita, e darà alla luce del sole verde un altro Figlio.»

Debolezza. Nausea. Wratch fu percorso da un brivido ricordando l’avidità con cui aveva mangiato quel frutto a bordo della nave.


Wratch sdraiò goffamente il nero corpo lucente nel salone della nave ammiraglia della flotta, la Canadian Might. Il mobilio terrestre mal si adattava alla sua struttura. Nemmeno la poltrona speciale costruita per lui nel reparto macchine della nave era del tutto confortevole.

Accanto a lui sedeva la ragazza liberata dalla nave dei Phalid. Wratch aveva scoperto che il suo nome era Constance Averill. Il Comandante Sandion aveva appena lasciato il salone diretto al suo ufficio sul ponte di comando, e a parte Constance Averill, seduta in silenzio su una soffice poltrona poco lontano, la stanza era vuota.

Era una stanza magnifica. Le pareti erano rivestite di cuoio, inciso e sbalzato di nero, rosso e azzurro fumo. Lunghi portelli, simili più a finestre che a portelli veri e propri, si aprivano sui neri panorami dello spazio, con stelle splendenti in alto, e altre stelle splendenti in basso.

Sulle altre pareti erano appesi vistosi acquerelli dipinti da un secondo ufficiale con velleità d’artista: una vista delle Olympic Mountains di Coralangan, nel deserto di Songingk; nativi di Bao che pestavano la polpa di sanguisughe d’acqua; un paesaggio marziano, le rovine di Amth-Mogot.

L’arredamento era color verde pastello e rosso mattone, le luci erano ambrate. C’erano molti scaffali e libri, e un apparecchio che univa televisione e cinema.

Wratch sospirò mentalmente fra sé. Il suo corpo, infatti, non poteva sospirare. L’aria veniva pompata attraverso migliaia di condotti all’interno del guscio, automaticamente come il battito del cuore umano.

Wratch si guardò attorno per la stanza senza muovere la testa. Tale era la virtù della fessura ottica e dei duecento occhi. Sapeva che era piacevole, che i Terrestri avevano progettato quella stanza perché fosse calda e vivibile, là fuori nel vuoto freddo e nero. Ma per Wratch era dura, spoglia, ed estranea.

La Terra era a una settimana di volo. Due settimane indietro, un puntino insignificante nella Lira, ruotava il pianeta scuro e tenebroso dei Phalid, ora occupato da una guarnigione terrestre, e sorvegliato da due imprendibili fortezze terrestri ferme in orbita a mille miglia sopra l’equatore.

La porta si aprì. L’antropologo militare entrò, si sedette, sistemò la piega dei pantaloni, e iniziò a parlare meticolosamente. Era un ometto innocuo, con una testa a cupola, alta e calva, un paio di baffi rossicci, e svelti occhi marroni.

Da due settimane, giorno e notte, tormentava Wratch con continue domande. Wratch, che era immerso nei propri pensieri oscuri, non desiderava parlare con nessuno. Esclusa Constance Averill, che ormai parlava molto poco di qualunque cosa.

«Da quello che mi ha detto,» disse l’antropologo, «e dalle osservazioni che ho potuto fare personalmente, sono giunto a una teoria sperimentale. Implica una peculiare serie di condizioni, a nostro parere, ma probabilmente non più strane di quanto circostanze analoghe apparirebbero ai Phalid.

«Sono una razza divisa. Invece di differenziare il maschio dalla femmina, esse differenziano, rozzamente, pianta e animale. Il frutto della pianta fertilizza l’animale. L’animale, spinto dalla fame per il frutto, o forse da Bza, va a rubarlo. La pianta lo intrappola, lo divora, ed è così stimolata a produrre nuovi frutti.»

L’antropologo li guardò con un’espressione di prudente trionfo.

«E il piano era di addestrare i Terrestri al furto del frutto?» chiese Constance Averill.

«Apparentemente la sostanza stimolante è presente nel corpo umano come nel corpo del Phalid,» disse l’antropologo. «Il clan dominante dei Phalid, i Nominati, erano preoccupati per il costante calo della popolazione. I governanti avevano raggiunto un alto livello tecnologico. Decisero di esplorare lo spazio per trovare una specie di creatura che potesse servire da mandatario per i Phalid nei pericolosi pellegrinaggi alla foresta Padre.

«E così alla fine hanno incontrato i Terrestri nello spazio, e hanno preso alcuni prigionieri per fare l’esperimento. Questi, trattati psicologicamente in modo appropriato, si sono dimostrati quasi ideali per il lavoro. Si stavano preparando a partire con piani su grande scala per importare i Terrestri, far loro rubare il frutto dalla foresta, e portarlo in città. E se i Terrestri restavano intrappolati nella foresta Padre, ebbene, niente di male. Avrebbe dato come risultato una maggiore produzione di frutti.»


Un assistente dell’antropologo entrò, e si chinò con deferenza verso l’antropologo. «I dettagli del trattato sono appena arrivati attraverso il permafono.»

«Sì?» L’antropologo si drizzò a sedere, sbatté gli occhi. «Quali sono i termini?»

«I Phalid pagano un’indennità, l’equivalente di cento milioni di muniti in metalli preziosi e merci rare. Noi stabiliamo un laboratorio, facciamo sbarcare un corpo di scienziati ricercatori, identifichiamo la sostanza che stimola la crescita dei frutti sugli alberi. Abbiamo contrattato un accordo per una quantità fissa di frutti all’anno. In altre parole coltiviamo la foresta.»

L’antropologo era chiaramente interessato e piuttosto compiaciuto. «Mi chiedo quali effetti sociali avrà il trattato sui Phalid,» disse. «Cosa ne sarà della loro Bza, la loro omogeneità, i loro schemi culturali? Scusatemi,» disse a Wratch e a Constance Averill. «Devo proprio applicare i Teoremi di McDougall alla situazione.»

E trotterellò via. Wratch e Constance Averill rimasero da soli.

Wratch si guardò stancamente attorno per la stanza con i duecento occhi. Era bassa, sproporzionata; i colori erano aspri e discordanti. Gli uomini dell’equipaggio, gli antropologi, Constance Averill, erano tutti brutte creature aliene. Le loro voci gli irritavano le vibrisse auditive, i loro movimenti offendevano il senso estetico del Phalid.

Divenne consapevole del fluire dei pensieri di Constance Averill. La risoluzione e la cocciuta vitalità che aveva subito notato e ammirato in lei erano andate lontano, fuori dalla sua percezione, sotto il tenore generale della sua mente, e al loro posto c’erano calore e premura, e buon umore. E anche un’insolita malinconia.

Proprio in quel momento era malinconica, e stranamente timida.

«Non sei felice, vero?» gli chiese.

Wratch scrisse: «Sono riuscito a fare il mio lavoro. Ne sono contento. Ma oltre a questo… sono un pezzo da museo. Un fenomeno da baraccone.»

«Non parlare così!» Wratch percepì un’immensa pietà. «Sei l’uomo più coraggioso del mondo!»

«Non sono un uomo. Il mio corpo è morto. Non posso tornare nel corpo di un altro uomo. Sono prigioniero. Non mi piace particolarmente. Niente sembra giusto, né umano, attraverso questi occhi di Phalid.»

«Che aspetto ho?» gli chiese con interesse.

«Orribile. Mezza lucertola, mezza strega.»

Wratch sentì la mente di lei scattare rapida, femminilmente allarmata.

«Davvero non ho un brutto aspetto,» lo rassicurò.

Ci fu una pausa.

«Hai bisogno di qualcuno che si prenda cura di te,» gli disse. «E quel qualcuno sarò io.»

Wratch era sinceramente sorpreso. Le sue dita tremavano mentre scriveva: «No! Mi prenderò una navicella spaziale, e vivrò fuori nello spazio per il resto della mia vita. Non ho bisogno di nessuno.»

«Vengo anch’io.»

«Non puoi. Cosa ne sarà della tua reputazione?»

«Oh, credo di essere al sicuro con te,» disse ridendo. «E comunque non m’importa.»

«Legalmente,» scrisse Wratch con sarcastica enfasi, «io sono una donna. Ho mangiato il Frutto della Vita. Alla fine questo corpo diverrà madre. Spero di non sviluppare un istinto materno.»

La giovane si alzò. Stava piangendo.

«No! Non parlare in quel modo! È orribile quello che ti hanno fatto!» Si asciugò furiosamente gli occhi con il dorso della mano.

«D’accordo!» disse con rabbia. «Sono pazza. Sono malata di mente. Ebbene, è un anno bisestile. Io penso che tu sia l’uomo più meraviglioso che conosco. Ti amo. Non mi importa il tuo aspetto. Amo quello che ti fa agire, dentro. Così sono tua… e ho intenzione di assicurarmi che…»

Wratch crollò nella poltrona.

Il terzo ufficiale della nave entrò.

«Un messaggio per lei, signor Wratch. È appena arrivato attraverso il permafono.»

Wratch aprì la busta. Il biglietto diceva:

«Caro Wratch; buone notizie per te, e te lo meriti. Abbiamo rattoppato il tuo corpo, e ti sta aspettando. È stata una dura battaglia. Abbiamo trapiantato un fegato nuovo, diciotto piedi di intestino tenue, una nuova gamba sinistra dal ginocchio in giù.

«Non te l’ho detto prima perché non volevo creare false speranze, ed era tutto molto incerto. Non appena il cervello ha lasciato il corpo, i dottori e i chirurghi migliori del mondo ci hanno lavorato giorno e notte.

«So che ti sentirai più allegro, adesso, e tra una settimana ti vedrò con piacere.»

Wratch tese il permagramma a Constance Averill. Quando la guardò, piangeva ancora. I duecento occhi di Phalid non sapevano piangere.


Nella sala d’aspetto dell’Atlantic-Space Combine Hospital erano seduti in una cinquantina, tutti in attesa di amici e parenti dimessi dai reparti nella torre sovrastante; questi uscivano dall’elevatore a cinque o dieci per volta, perché il Combine era l’ospedale più grande del mondo.

Una ragazza sottile con lucenti capelli rosso scuro, un volto delicato e incantevole come un fiore, ma con una forza intrinseca chiara e sicura, sedeva nella sala d’aspetto. Fissava l’elevatore, osservando intensamente gli uomini — specialmente i giovani abbronzati — che ne uscivano e si mettevano a cercare le facce familiari nella sala d’aspetto. Una o due volte guardò più attentamente, poi si rilassò al suo posto.

I minuti trascorsero. L’elevatore scese ancora una volta. La porta scorrevole si aprì, i pazienti dimessi uscirono.

Uno di questi era un giovane, piuttosto magro ma muscoloso. Aveva una bocca grande che denotava il buon umore, il mento lungo con una cicatrice che gli attraversava la guancia, una pelle scura quasi quanto i capelli, l’abbronzatura dello spazio che non viene più via.

La ragazza guardò, guardò ancora, si alzò lentamente, fece pochi passi esitanti. Il giovane si era fermato, stava osservando tra la folla. La ragazza restò immobile. Ci sarebbe stato qualcuno? Si era sbagliata? No, non poteva averlo confuso. Fece un passo avanti. Il giovane la vide, la guardò. Improvvisamente sorrise, tese le braccia, le prese entrambe le mani.

«Constance.» Era un’affermazione, non una domanda. Per quasi un minuto si fissarono, ricordando.

Lasciarono l’ospedale stringendosi l’uno all’altra.

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