Jarvis scese lungo Riverview Way dal magazzino della stazione, dove aveva passato una notte scomoda. All’angolo di Sion Novack Way inserì la sua penultima monetina di rame nel distributore di Pegasus, il bollettino dell’industria agricola e mineraria; prese l’involucro di tessuto rosa e continuò il cammino attraverso la sporcizia della strada verso l’Original Blue Man Café. Scelse un tavolo con precisione e accuratezza, in modo da volgere la schiena a un angolo e avere sottocchio tutta la via.
Apparve il cameriere, guardò Jarvis dall’alto in basso, e Jarvis rispose fissandolo con durezza. «Un anice caldo e un visore.»
Il cameriere si allontanò. Jarvis si rilassò, massaggiandosi l’anca dolorante e osservando la sagoma scura che di quando in quando si profilava frettolosa contro la foschia. Le strade erano ancora buie; era sorto solo uno dei soli Procrusteani, e non poteva certo contrastare le nebbie dell’Idle River.
Il cameriere ritornò con un boccale di metallo opaco e il visore. Jarvis si separò dall’ultima moneta, scaldò le mani sul boccale, introdusse la pellicola, e sorseggiò la bevanda dedicando la propria attenzione al giornale. Una pagina dopo l’altra gli scattarono davanti le bazzecole delle notizie dalla Terra, le notizie dagli agglomerati, le notizie locali, discussioni di attualità, meccanica pratica. Trovò le inserzioni suddivise per categoria, le opportunità di impiego, e scorse gli annunci, questi erano piuttosto scarsi: scavatore di pozzi cercasi, rimestatori di vetro, raccoglitori di bacche, diserbatori. Si chinò in avanti; eccone uno che lo interessava di più:
Selezione: quattro viaggiatori massima efficienza. Enormi profitti per lavoratori capaci; fini ben determinati in vista. Solo uomini di ingegno e disponibilità; presentarsi alle ore 10.00 meridiane alla Old Solar Inn e chiedere di Belisario.
Jarvis lesse di nuovo il paragrafo, traducendo le frasi ambigue in significati più precisi. Guardò l’orologio: ancora tre ore. Lanciò un’occhiata alla via, al cameriere, bevve un sorso dal boccale, e si dispose a studiare il giornale dell’industria agricola e mineraria.
Due ore più tardi il secondo sole, una sfera bianca azzurrognola, sorse in fondo a Riverview Way, brillando di luce incerta attraverso la foschia; e la popolazione della città cominciò ad apparire. Jarvis lasciò silenziosamente il Café e si avviò lungo Riverview Way, al sole. Il caldo e il moto sciolsero il pulsare all’anca; quando raggiunse la passeggiata sul fiume camminava senza difficoltà. Girò a destra, oltre la Memorial Fountain, ed ecco la Old Solar Inn, che si affacciava sull’acqua verso le rive scoscese di marmo grigio.
Jarvis la esaminò con cura. Aveva un aspetto dispendioso ma non elaborato, emanante dignità piuttosto che eleganza. Si sentì meno scettico; gli annunci del bollettino talvolta promettevano più di quanto mantenessero; non poteva essere troppo prudente.
Si avvicinò alla locanda. L’entrata era una porta di legno massiccio con un vetro dipinto, dove il Vecchio Sole ridente scoccava un raggio dorato su una Terra verde e azzurra. La porta si aprì; Jarvis entrò e si chinò allo sportello.
«Sì, signore?» chiese l’impiegato.
«Il signor Belisario,» disse Jarvis.
L’impiegato esaminò Jarvis con un’espressione molto simile a quella del cameriere al Café. Con un’impercettibile alzata di spalle, disse: «Suite B, in fondo al corridoio.»
Jarvis attraversò l’atrio. Come avanzò nel corridoio udì aprirsi la porta d’ingresso; un uomo biondo, grande e grosso, vestito di pelle scamosciata verde, entrò nella locanda e si soffermò come Jarvis allo sportello. Jarvis proseguì per il corridoio. La porta della Suite B era socchiusa; Jarvis l’aprì ed entrò.
Si trovò in un’ampia stanza rivestita di pannelli scuri verde alga, arredata con semplicità: un tappetino di un colore bruno, sedie e divani lungo le pareti, un lampadario a bracci adorno di piccoli oggetti scintillanti, tanto elaborato che Jarvis sospettò un sistema di cellule spia. Fatto che in sé non significava nulla: in effetti poteva essere spiegato come una lodevole cautela.
Altri cinque stavano già aspettando: uomini di diversa età, taglia, colore. In comune avevano una sola caratteristica, un modo di guardare apparentemente da tutte le parti nello stesso momento. Jarvis prese posto e si appoggiò allo schienale; un attimo dopo entrò il biondo grande e grosso in pelle scamosciata verde. Girò lo sguardo per la stanza, fissò il lampadario e si sedette. Un uomo trasandato, con i capelli grigi, la pelle scura e rugosa, e un sorriso scaltro e sprezzante, disse: «Omar Gildig! Perché sei qui, Gildig?»
Gli occhi dell’uomo grande e grosso divennero vacui per un istante; poi rispose: «Per motivi simili ai tuoi, Tixon!».
Il vecchio tirò indietro la testa di scatto e sbatté le palpebre. «Mi confondi con qualcun altro; il mio nome è Pardee, Capitano Pardee.»
«Come dici tu, Capitano.»
Nella stanza si fece silenzio; poi Tixon, o Pardee, si diresse nervosamente dov’era seduto Gildig e gli parlò a bassa voce. Gildig annuì come un placido leone.
Entrarono altri uomini. Ognuno di loro girò lo sguardo per la stanza, fissò il lampadario e si sedette. Ormai la stanza ne. conteneva forse più di venti.
Ci furono altre conversazioni. Jarvis era vicino a un uomo basso e robusto, con una faccia rotonda da luna piena, una piccola pancia bulbosa, un piccolo naso a uncino e occhi scuri da gufo. Sembrava incline a parlare, e Jarvis fece i commenti che ritenne opportuni. «Una notte fredda, la notte scorsa, per chi di noi ha visto tramontare il sole rosso.»
Jarvis assentì.
«Questo pianeta porta fortuna a chi riesce a liberarsene,» continuò l’uomo dalla faccia rotonda. «Sono tre settimane che guardo il bollettino; se non mi metto con Belisario, ebbene, per il succo di Jonah, accetterò qualsiasi lavoro, basta che paghino un sacco di soldi.»
«Chi è questo Belisario?» chiese Jarvis.
L’uomo dalla faccia rotonda spalancò gli occhi. «Belisario? È conosciutissimo… è Belson!»
«Belson?» Jarvis non poté trattenere una nota di sorpresa; la contusione all’anca si mise a pulsargli dolorosamente. «Belson?»
L’uomo dalla faccia rotonda aveva voltato la testa, ma lo stava fissando oltre il dorso del piccolo naso a becco. «Belson è un vero viaggiatore, molto rispettato.»
«Così ho sentito dire,» disse Jarvis.
«Gira voce che abbia subito dei rovesci, uno in particolare due mesi fa, nelle paludi di Fenn.»
«E cosa dice la voce?» chiese Jarvis.
«Molte parole, pochi fatti,» replicò gentilmente l’uomo dalla faccia rotonda. «E hai mai riflettuto sulla concentrazione di talento in una stanza così piccola? Ci sei tu, e i miei umili talenti; Omar Gildig, muscoloso come un toro di Beshauer, con un cervello insidioso. Laggiù c’è il giovane Hancock McManus, un vero lavoratore, e là quello che si fa chiamare Lachesi, una metafora. E scommetto che in tutte le nostre tasche messe assieme non ci sono venti corone Juillard!»
«Certo non nelle mie,» ammise Jarvis.
«Questa è la nostra vita,» disse l’uomo dalla faccia rotonda. «Viviamo senza riserve, ogni minuto è un’entità da spremere al massimo; il denaro, le corone, i crediti, ci permettono di comprare grandi dolcezze, ma finiscono presto. Poi Belisario accenna a fini temerari, ed eccoci qua, come falene intorno a una fiamma!»
«Mi meraviglia,» meditò Jarvis.
«Cosa ti meraviglia?»
«Di certo Belisario ha dei luogotenenti fidati… quando ricerca dei viaggiatori tramite il bollettino agricolo, c’è sempre la possibilità che le Autorità vi prendano parte.»
«Forse non conoscono la convenzione, il codice.»
«È più probabile il contrario.»
L’uomo dalla faccia rotonda scosse la testa, sospirò. «Un agente temerario verrebbe alla Old Solar Inn, un tal giorno!»
«Ci sono uomini temerari.»
«Ma non verranno alle selezioni, e sai perché?»
«No, perché?»
«Supponi che lo facciano, supponi che intrappolino sei uomini, una dozzina.»
«Dodici in meno a cui tenere testa.»
«Ma la prossima volta che verrà indetta una selezione, i viaggiatori dimostreranno la loro identità con la Prova Suprema.»
«E cioè?» domandò Jarvis disinvolto, pur sapendolo benissimo.
L’uomo dalla faccia rotonda spiegò con entusiasmo: «Ogni individuo uccide alla presenza di un arbitro. Le Autorità non vogliono rischiare la riesumazione di simili prove; e così consentono ai viaggiatori di incontrarsi e adunarsi in pace.» Poi sbirciò Jarvis. «Questa non è certo un’informazione nuova.»
«Ne ho sentito parlare,» disse Jarvis.
«La cautela è ammirevole quando non viene portata all’eccesso,» disse l’uomo dalla faccia rotonda.
Jarvis rise, mostrando i denti lunghi e appuntiti. «Perché non usare una cautela eccessiva, quando non costa nulla?»
«Già, perché no?» assentì l’uomo dalla faccia rotonda, e non disse più una parola.
Pochi minuti più tardi la porta interna si aprì; un vecchio smilzo, gobbo come un uncinetto, in un completo nero attillato, giacca e pantaloni, si affacciò. Aveva gli occhi miti, la faccia lunga, cerea, malinconica; la voce era adeguatamente grave. «La vostra attenzione, se non vi dispiace.»
«Per Crokus,» borbottò l’uomo dalla faccia rotonda, «Belson ha assoldato dei becchini per condurre i suoi abboccamenti!»
Il vecchio in nero continuò a parlare. «Vi chiamerò uno alla volta, nell’ordine del vostro arrivo. Vi saranno proposte alcune prove, vi sottoporrete ad alcuni interrogatori… Chiunque ritenga la prospettiva troppo pericolosa può andarsene adesso.»
Attese. Nessuno si alzò per uscire, ma molti si scurirono in volto, e Omar Gildig disse: «Nessuno si risente per richieste ragionevoli. Se mi sembrerà che l’interrogatorio sia troppo inquisitorio, allora protesterò.»
Il vecchio annuì. «Molto bene, come desiderate. Avanti il primo, allora, tu, Paul Pulliam.»
Un uomo snello ed elegante con un giubbotto color vino e pantaloni aderenti si alzò in piedi, ed entrò nella stanza interna.
«E così quello è Paul Pulliam,» sussurrò l’uomo dalla faccia rotonda. «Sono sei anni che mi chiedo chi sia, dai tempi della faccenda di Myknosis.»
«Chi è quel vecchio, il becchino?» chiese Jarvis.
«Non ne ho idea.»
«In effetti,» chiese Jarvis, «chi è Belson? Qual è l’aspetto di Belson?»
«In verità,» disse l’uomo dalla faccia rotonda, «ne so ancora meno, a questo riguardo.»
Venne chiamato il secondo uomo, poi il terzo, il quarto, e infine: «Gilbert Jarvis!»
Jarvis si alzò in piedi, chiedendosi, per mille saette, come facessero a conoscere il suo nome proprio.
Attraversò la soglia e si trovò in un’anticamera il cui unico mobilio era una bilancia. Il vecchio in nero disse: «Se non ti dispiace, vorrei conoscere il tuo peso.»
Jarvis salì sulla bilancia; sul quadrante si illuminò la cifra 163, che il vecchio registrò su un libro. «Molto bene, ora ti pungo l’orecchio» Jarvis afferrò lo strumento, il vecchio strillò: «Calma, calma, calma!»
Jarvis esaminò lo strumento di vetro e metallo, poi lo restituì con un ghigno da lupo. «Io sono un uomo prudente; non intendo farmi sparare droghe nell’orecchio.»
«No, no,» protestò il vecchio, «mi serve solo una goccia per determinare le caratteristiche del sangue.»
«Perché è importante?» chiese Jarvis cinicamente. «Secondo la mia esperienza, se un uomo sanguina, ebbene tanto peggio, e che sanguini fin quando non smette, oppure resta a secco.»
«Belisario è un padrone sollecito.»
«Non voglio padroni» disse Jarvis.
«Un mentore allora, un mentore sollecito.»
«Io penso da solo,» disse Jarvis.
«Che il diavolo mi trascini alla morte!» esclamò il vecchio. «Sei un uomo difficile da accontentare.» Mise la goccia prelevata dall’orecchio di Jarvis in un analizzatore, scrutò il quadrante. «Tipo 0… Indice 96… Granuli B… Molto bene, Gilbert Jarvis, molto bene davvero!»
«Bah,» disse Jarvis, «sono queste tutte le prove a cui Belisario sottopone un uomo, il peso e il sangue?»
«No, no,» disse il vecchio con serietà. «Questi sono solo i preliminari; ma permettimi di farti le mie congratulazioni, per ora sei assolutamente adatto. Adesso vieni con me e aspetta; tra un’ora andremo a pranzo e discuteremo il resto del problema.»
Dei candidati originari ne rimanevano solo otto dopo l’eliminazione preliminare. Jarvis notò che tutti e otto erano approssimativamente del suo stesso peso, con l’eccezione di Omar Gildig che pesava duecentocinquanta o forse più.
Il vecchio in nero li convocò per il pranzo; in otto sfilarono in un salone verde e rotondo e presero posto a un tavolo ugualmente verde e rotondo. Il vecchio diede un segnale e nelle fessure di servizio apparvero vino e stuzzichini. Assunsero un’aria di cordialità. «Dimentichiamo il motivo della nostra presenza qui,» disse. «Godiamoci il buon cibo e quanto cameratismo possiamo arrecare a questa occasione.»
Omar Gildig sbuffò, un’ampia smorfia che gli fece abbassare il naso sulla bocca. «E a chi interessa il cameratismo? Vogliamo conoscere quello che ci riguarda. Cos’è questa faccenda che Belson ha in programma?»
Il vecchio scosse serenamente la testa. «Siete ancora in otto… e a Belisario ne servono solo quattro.»
«Allora vai avanti con le prove; ci sono cose migliori da fare invece di saltare attraverso questi cerchi da bellimbusti.»
«Fino a ora non ci sono stati cerchi,» disse il vecchio gentilmente. «Sopportate insieme a me un’ora ancora; nessuno di voi otto se ne andrà senza ricompensa, in un modo o nell’altro.»
Jarvis girò lo sguardo di volto in volto. Gildig; il vecchio Tixon, scaltro e sprezzante, o Capitano Pardee, come si faceva chiamare; l’uomo dalla faccia rotonda e gli occhi da gufo; un giovane biondo e sorridente, come una ragazza in abiti maschili; due anonimi silenziosi; un negro alto e sottile come una matita, che per quanto parlava avrebbe potuto essere muto.
Venne servito il cibo: bistecchine di selvaggina locale, un piccolo vassoio di baccelli tostati con salsa di erbe e mitili tritati. Effettivamente le porzioni erano così piccole che stimolarono appena l’appetito di Jarvis. Poi fu la volta di bicchieri di ponce rosso ghiacciato e di mezzelune di carne bianca brasata, ognuna con una protuberanza color rosso acceso a entrambe le estremità, che nuotavano in una salsa piccante.
Jarvis sorrise tra sé e diede un’occhiata attorno al tavolo. Gildig ci si era buttato con gusto, così come il sottile uomo di colore; uno o due degli altri stavano mangiando con maggiore diffidenza. Jarvis pensò che non si sarebbe lasciato cogliere di sorpresa altrettanto facilmente, e giocherellò col cibo; e vide con la coda dell’occhio che Tixon, il giovane biondo e l’uomo dalla faccia rotonda si astenevano come lui.
Il loro ospite li guardò con espressione addolorata. «Vedo che questo piatto non è popolare.»
L’uomo dalla faccia rotonda disse con voce lamentosa: «Certo sono delle insolite cattive maniere, avvelenarci con i granchiolini di palude di Fenn.»
Gildig sputò il boccone. «Veleno!»
«Tranquillo, Conrad, tranquillo,» disse il vecchio sogghignando. «Questi non sono ciò che pensi.» Allungò una forchetta, ne infilzò uno sul piatto di Conrad, l’uomo dalla faccia rotonda, e lo mangiò. «Vedi, ti sbagli. Forse questi somigliano ai granchiolini di palude di Fenn, ma non lo sono.»
Gildig fissò sospettoso il piatto. «E cosa pensavi che fossero?» chiese a Conrad.
Conrad prese un boccone e lo esaminò minuziosamente. «Su Fenn, quando un uomo vuole averne un altro in proprio potere per un giorno o una settimana si procura questi — o granchiolini come questi — nelle paludi. Il principio tossico è in queste sacche rosse.» Allontanò il piatto. «Granchiolini di palude oppure no, mi tolgono comunque l’appetito.»
«Eliminiamoli, allora,» disse il vecchio. «Alla prossima portata, ad ogni modo… un’infornata di capponi, se ben ricordo.»
Il pasto proseguì; il vecchio non fece servire altro vino. «Perché,» spiegò, «ci attende una prova di abilità; è indispensabile che siate in possesso di tutte le vostre facoltà.»
«Un sistema complicato per riempire un ruolo di ingaggio,» borbottò Gildig.
Il vecchio si strinse nelle spalle. «Io agisco per conto di Belisario.»
«Belson, vuoi dire.»
«Chiamatelo col nome che vi pare.»
Conrad, l’uomo dalla faccia rotonda, disse pensosamente: «Belson non è un padrone facile.»
Il vecchio parve sorpreso. «Forse Belson — come lo chiamate voi — non vi frutta grossi profitti?»
«Belson non accetta l’interferenza di nessuno, e Belson non dimentica mai un torto.»
Il vecchio rise di un risolino lugubre. «Questo fa di lui un uomo facile da servire. Obbeditegli, non fategli torti, e non temerete mai la sua collera.»
Conrad alzò le spalle, Gildig sorrise. Jarvis teneva gli occhi ben aperti. In quella faccenda c’era molto più di un ruolo da riempire, più di un profitto da ottenere.
«Ora,» disse il vecchio, «se non vi dispiace uno alla volta, per questa porta. Omar Gildig, tu sarai il primo.»
Gli altri sette restarono a tavola, fissandosi a disagio con la coda dell’occhio. Conrad e Tixon — o Capitano Pardee — parlavano con leggerezza; il giovane biondo si unì alla conversazione; poi un tonfo fece sollevare a tutti lo sguardo, e la conversazione si interruppe bruscamente, per riprendere dopo una pausa, alquanto zoppicante.
Apparve il vecchio. «Adesso tu, Capitano Pardee.»
Il Capitano Pardee — o Tixon — lasciò la stanza. I sei rimasti restarono in ascolto; non ci fu più alcun suono.
Il vecchio convocò poi il giovane biondo, poi Conrad, poi uno degli anonimi, il negro alto, l’altro anonimo, e finalmente ritornò dove Jarvis sedeva da solo.
«Le mie scuse, Gilbert Jarvis, ma credo che stiamo effettuando un’eliminazione soddisfacente. Se vuoi seguirmi…»
Jarvis entrò in una stanza lunga e buia.
Il vecchio disse: «Questa, come ho anticipato, è una prova di abilità, agilità, ingegno. Presumo che tu abbia con te le tue armi preferite.»
Jarvis sorrise. «Naturalmente.»
«Osserva,» disse il vecchio, «lo schermo in fondo a questa stanza. Immagina che dietro ci siano due uomini armati e all’erta che sono tuoi nemici, e che non sono ancora consapevoli della tua presenza.» Fece una pausa; fissò Jarvis che manteneva il suo sorriso privo di umorismo.
«Allora, ti stai immaginando la situazione?»
Jarvis ascoltava; aveva sentito respirare? Nella stanza c’era una sensazione di segretezza, di tensione crescente, di aspettativa.
«Te la stai immaginando?» chiese il vecchio. «Ti uccideranno se ti trovano… Ti uccideranno…»
Un rumore, un trambusto, non dal fondo della stanza, ma di lato, una sfrecciante sagoma scura. Il vecchio si abbassò di scatto; Jarvis saltò indietro, tirò fuori rapidamente la sua arma, uno sputaschegge Parnassiano… La sagoma scura cadde con un tonfo e tre esplosioni interne.
«Eccellente,» disse il vecchio. «Hai buoni riflessi, Gilbert Jarvis, e con uno sputaschegge per di più. Non sono armi difficili?»
«Non per un uomo che sappia usarli; nel qual caso sono molto efficaci.»
«Un’interessante diversità di opinioni,» disse il vecchio. «Gildig, per esempio, ha usato una mazza pieghevole. Dove l’avesse nascosta non ne ho idea; un miracolo di velocità. Conrad è un esperto con la spada a getto, quasi quanto te con lo sputaschegge, e Noel, il giovincello biondo, ha preferito un raggio dammel.»
«Ingombrante,» disse Jarvis. «Ingombrante e delicato, con capacità limitata.»
«Sono d’accordo,» disse il vecchio. «Ma a ogni uomo i suoi metodi.»
«Sono perplesso,» disse Jarvis. «Dove tiene l’arma? Non ho notato nessun rigonfiamento voluminoso quanto un raggio dammel, sulla sua persona.»
«L’aveva sistemato bene,» disse il vecchio con un’espressione enigmatica. «Da questa parte, se non ti dispiace.»
Ritornarono all’originaria sala d’attesa. Invece dei venti uomini iniziali, ce n’erano soltanto quattro: Gildig, il vecchio Tixon, il giovane biondo Noel, e Conrad, l’uomo dalla faccia rotonda e gli occhi da gufo. Jarvis osservò Noel con aria critica per capire dove tenesse la sua arma, ma non ne vide alcuna traccia, nonostante i suoi abiti a disegni rosa, gialli, e neri, fossero attillatissimi.
Il vecchio sembrava al massimo del morale; le mascelle funeree vibravano e si contraevano. «Ora, signori, ora siamo al termine dell’eliminatoria. Cinque uomini quando ne servono solo quattro. Dobbiamo fare a meno di uno di voi; nessuno è in grado di proporre un mezzo a questo fine?»
I cinque uomini si irrigidirono, si guardarono attorno di traverso con prudente circospezione, mentre la stessa idea si affacciava alla mente di ognuno.
«Beh,» disse il vecchio, «sarebbe stato un modo per uscire dal vicolo ceco, ma potrebbero risultarne diverse eliminazioni simultanee, e ciò metterebbe Belisario in una situazione di considerevole disturbo.»
Nessuno parlò.
Il vecchio rifletté. «Credo di poter risolvere il dilemma. Ammettiamo che siamo tutti assoldati da Belisario.»
«Io non ammetto niente,» ringhiò Gildig. «O sono assoldato, oppure non lo sono! E se sono assoldato voglio un onorario.»
«Molto bene,» disse il vecchio. «Allora siete tutti assoldati da Belisario.»
«Da Belson.»
«Sì, da Belson. Ecco…» distribuì cinque buste. «Ecco qui una caparra. Mille corone. Ora, ognuno di voi è un uomo di Belson. Capite questo cosa implica?»
«Implica lealtà,» intonò Tixon guardando soddisfatto nella busta.
«Una lealtà assoluta, ceca, incrollabile,» echeggiò il vecchio. «Cosa c’è?» chiese sentendo il brontolio di Gildig.
«Non permette che un uomo abbia una propria mente,» disse Gildig.
«Quando è al servizio di Belson, un uomo ha bisogno della sua mente solo per servirlo. Prima, e dopo, è libero come l’aria. Durante il suo impiego, deve essere un uomo di Belson, un’estensione della mente di Belson. Le ricompense sono grandi, ma le punizioni sono certe.»
Gildig emise un grugnito di rassegnazione. «E allora, adesso?»
«Adesso… cerchiamo di eliminare l’unico uomo superfluo. Credo che adesso possiamo farlo.» Guardò i volti ad uno ad uno. «Gildig… Tixon…»
«Capitano Pardee, mi chiamo. Questo è il mio nome!»
«…Conrad… Noel… e Gilbert Jarvis.»
«Bene,» disse Conrad brevemente, «andiamo avanti.»
«Il concetto della situazione,» disse il vecchio in tono didattico, «è che ora siamo tutti leali seguaci di Belson. Supponiamo di trovare un traditore, un nemico di Belson. Cosa facciamo allora?»
«Lo uccidiamo!» disse Tixon.
«Esattamente.»
Gildig si sporse in avanti, e i muscoli voluminosi mossero piani di luce tenue sul giubbotto di pelle scamosciata verde. «Come possono esserci dei traditori se siamo appena stati assoldati?»
Il vecchio si guardò con aria lugubre le dita pallide. «In realtà, signori, la situazione è assai più complessa di quanto possiate immaginare. Capita che questo superfluo quinto uomo — l’uomo da liquidare — abbia violato la fiducia di Belson. L’eliminazione di quest’uomo,» disse severamente, «costituirà una dimostrazione pratica per i restanti quattro.»
«Bene,» disse Noel con disinvoltura, «vogliamo procedere? Chi è il traditore?»
«Ah,» disse il vecchio, «ci siamo riuniti qui oggi per apprendere appunto questo.»
«Vuoi dire,» scattò Conrad, «che tutto questa tiritera non è a nostro beneficio, ma esclusivamente a beneficio vostro?»
«No, no!» protestò il vecchio. «I quattro selezionati avranno un impiego, per così dire un impiego immediato. Ma lasciatemi spiegare; gli antefatti sono questi: in un campo isolato, nelle paludi di Fenn, Belson aveva depositato un tesoro, un tesoro raro! Al campo lasciò tre uomini di guardia. Due già li conosceva, il terzo era una nuova recluta, uno sconosciuto proveniente da qualche parte dell’universo.
«Allo spuntare dell’alba questa nuova recluta si alzò, uccise i due uomini, e portò il tesoro attraverso l’acquitrino fino alla città portuale di Momart, dove lo vendette. Il leale luogotenente di Belson — io stesso — era sul pianeta. Mi affrettai a investigare. Trovai delle tracce nell’acquitrino. Stabilii che il tesoro era stato venduto. Appresi per quale pianeta era stato acquistato un passaggio e lo seguii. Ora, signori,» il vecchio si appoggiò allo schienale, «siamo tutte persone dotate di buon senso. Viviamo per il piacere del momento. Guadagniamo denaro, e spendiamo denaro a un ritmo abbastanza prevedibile. Conoscendo il valore del tesoro di Belson, sono stato in grado di determinare esattamente quando il traditore avrebbe sentito la stretta della povertà. E allora ho piazzato l’esca nella trappola; ho pubblicato l’annuncio: la trappola è scattata. Non è ingegnoso? Ammettetelo!» E li guardò uno dopo l’altro.
Jarvis si mosse con cautela sulla sedia per garantirsi maggiore possibilità di movimento, e per sollevare l’anca, che ora gli pulsava dolorosamente.
«Vai avanti,» disse Gildig, passando come lui lo sguardo da faccia a faccia.
«Misi all’opera la mia abilità. Tagliai delle zolle della palude, quelle che conservavano le tracce, i giunchi spezzati, il muschio schiacciato. In laboratorio trovai che una pressione di 170 libbre, più o meno, produceva simili tracce. Il peso…» si sporse in avanti come per fare una confidenza «formò la base della prima eliminazione. Ognuno di voi è stato pesato, come ricorderete, e chi si trova qui — a eccezione di Omar Gildig — soddisfa tale esigenza.»
Noel domandò con tono leggero: «Perché Gildig è stato incluso?»
«Non è chiaro?» chiese il vecchio. «Non può essere il traditore, ma è ottimo come funzionario addetto alla cerimonia.»
«In altre parole,» disse seccamente Conrad, «il traditore può essere solo Tixon — cioè il Capitano Pardee — Noel, Jarvis, oppure io.»
«Esatto,» disse lugubremente il vecchio. «Il nostro problema è ridurre i quattro a uno, e poi ridurre l’uno a niente. A questo scopo abbiamo qui il nostro zelante cerimoniere, Omar Gildig.»
«Sono lieto di farvi cosa grata,» disse Gildig ormai rilassato, quasi apatico.
Il vecchio fece scorrere un pannello, e scrisse col gesso su una lavagna. «Facciamo una tabella… così:
Peso
Cibo
Sangue
Arma
Cap. Pardee
Noel
Conrad
Jarvis
e parlando segnò le cifre accanto ad ogni nome: «Capitano Pardee: 162; Noel: 155; Conrad: 166; Jarvis: 163. Poi… tutti e quattro conoscevate bene i granchiolini di palude di Fenn, e ciò indica familiarità con le paludi di Fenn. Quindi… un asterisco accanto ai vostri nomi.»
Fece un passo per guardarsi attorno. «Stai seguendo, Gildig?»
«Al tuo servizio.»
«Dunque,» disse il vecchio, «c’era del sangue sul terreno, e ciò indica una ferita. Il sangue non apparteneva ai due uomini uccisi, e non proveniva dal tesoro. Di conseguenza deve essere il sangue del traditore; e oggi ho prelevato del sangue da ognuno di voi. Lascio questa colonna in bianco. Passiamo alle armi. Gli uomini sono stati uccisi in modo rapido e preciso, con una scheggia Parnassiana. Tixon usa una pistola tipo JAR; Noel un raggio dammel; Conrad una lama perforante, e Jarvis uno sputaschegge. Quindi, una X vicino al nome di Jarvis!»
Jarvis fece per alzarsi. «Stai comodo,» disse Gildig. «Ti tengo d’occhio, Jarvis.»
Jarvis si rilassò sorridendo come un lupo. Il vecchio, guardandolo con la coda dell’occhio, disse: «Questo ovviamente non è affatto conclusivo. Veniamo al sangue. Nel sangue ci sono delle cellule. Le cellule contengono un nucleo e dei geni, e i geni di ogni uomo sono diversi. Perciò, riguardo al sangue…»
Jarvis parlò, continuando a sorridere: «Hai scoperto che è il mio?»
«Esatto.»
«Vecchio, tu menti. Io non ho ferite sul mio corpo.»
«Le ferite guariscono in fretta, Jarvis.»
«Vecchio, tu hai fallito come fidato servitore di Belson.»
«Eh? E come?»
«Per stupidità, forse peggio.»
«Sì? E precisamente?»
«Le tracce… In laboratorio hai compresso zolle della palude. Hai scoperto che ci voleva un peso di 160 libbre per ottenere l’effetto delle impronte su Fenn.»
«Sì. Esattamente.»
«La gravità di Fenn è sei decimi della media terrestre. La compressione di 160 libbre su Fenn è più facilmente ottenuta da un uomo di 240 o 250 libbre, come Gildig.»
Gildig si sollevò a metà. «Osi accusare me?»
«Sei colpevole?»
«No.»
«Non puoi provarlo.»
«Non ho bisogno di provarlo! Quelle tracce potrebbero essere state lasciate da un uomo più leggero carico del tesoro. Quanto pesava?»
«Un tesoro leggero come la seta,» disse il vecchio. «Non più di cento libbre.»
Tixon indietreggiò in un angolo. «Jarvis è colpevole!»
Noel spalancò la giacca sgargiante, rivelando uno stupefacente congegno: la bocca di una pistola gli sporgeva dal petto, un’arma sorprendentemente adatta al suo corpo. Adesso Jarvis sapeva dove Noel teneva il suo raggio dammel. Noel rise. «Jarvis… il traditore!»
«No,» disse Jarvis, «ti sbagli. Io sono l’unico servitore leale di Belson in questa stanza. Se Belson fosse qui, glielo direi.»
Il vecchio parlò in fretta: «Ne abbiamo avuto abbastanza di queste risposte evasive. Uccidilo, Gildig.»
Gildig distese il braccio; da sotto il polso, fuori dalla manica, spuntò un tubo di metallo lungo tre piedi, che già oscillava alla trazione del polso di Gildig. Jarvis balzò all’indietro, il tubo lo colpì sull’anca contusa; lo sputaschegge sparò. La mano di Gildig era sparita, esplosa.
«Uccidi, uccidi,» cantilenava il vecchio ritirandosi.
La porta si aprì; entrò un uomo pacato, di bell’aspetto.
«Io sono Belson.»
«Il traditore, Belson,» gridò il vecchio. «Jarvis, il traditore!»
«No, no,» disse Jarvis. «Posso spiegarvi.»
«Parla, Jarvis. È il tuo ultimo momento.»
«Ero su Fenn, sì! Ero la nuova recluta, sì! Era il mio sangue, sì! Ma traditore no! Io ero l’uomo che è stato creduto morto quando il traditore se n’è andato.»
«E chi è questo traditore?»
«Chi era su Fenn? Chi è stato svelto a levare la voce contro Jarvis? Chi sapeva del tesoro?»
«Bah!» disse il vecchio, mentre lo sguardo mite di Belson si spostava su di lui.
«Chi ha parlato poco fa del levare del sole all’ora del misfatto?»
«Un errore!»
«Un errore, davvero!»
«Sì, Finch,» disse Belson rivolto al vecchio, «come mai conoscevi con tanta precisione l’ora del furto?»
«Una stima, un’ipotesi, un’intelligente deduzione.»
Belson si girò verso Gildig, che era rimasto fermo stringendosi stupidamente il moncone del braccio. «Vai, Gildig; fatti mettere una mano nuova alla clinica. Dai loro il nome di Belisario.»
«Sì, signore.» Gildig uscì barcollando.
«Tu, Noel,» disse Belson. «Prenota un passaggio per Achernar; vai a Pasatiempo, e aspetta istruzioni all’Auberge Bacchanal.»
«Sì, Belson.» Noel se ne andò.
«Tixon…»
«Il mio nome è Capitano Pardee, Belson.»
«…Non ho bisogno di te, adesso, ma terrò a mente le tue rinomate capacità.»
«Grazie, signore, buona giornata.» Anche Tixon se ne andò.
«Conrad, ho un pacco da portare alla città di Sudanapolis, sulla Terra; aspettami nella Suite RS, di sopra.»
«Va bene, Belson.» Conrad si voltò e uscì a passo di marcia dalla porta.
«Jarvis.»
«Sì, Belson.»
«Intendo parlarti ancora, oggi. Aspettami nell’atrio.»
«Va bene.» Jarvis si girò e uscì dalla stanza. Udì Belson dire quietamente al vecchio: «E adesso, Finch, in quanto a te…» e poi altre parole e suoni, interrotti dal chiudersi della porta.