IL FIGLIO DELL’ALBERO

Uno scampanio vivace e penetrante suonò in duecento menti, ruppe duecento bolle di sonno ipnotico.

Joe Smith si svegliò senza sonnolenza. Era costretto, avvolto come un bozzolo. Si irrigidì, lottò, poi lo spasmo di allarme si acquietò. Si rilassò, scrutò intensamente nell’oscurità.

L’aria era muschiosa e umida di corpi caldi, corpi di molti uomini, sopra, sotto, a destra e a sinistra, che si contorcevano, tiravano, lottavano con la rete elastica.

Joe giacque supino. La sua mente riprese una sequenza di pensiero lasciata in sospeso tre settimane prima. Ballenkarch? No… non ancora. Ballenkarch era ancora lontano, lontano sulle frange. Quello doveva essere Kyril, il mondo dei Druidi.

Un suono sottile e lacerante. L’amaca si aprì lungo una cucitura magnetica. Joe si lasciò scivolare sulla passerella. Aveva le gambe flosce e molli. I suoi muscoli avevano ben poco tono dopo tre settimane passate sotto ipnosi.

Percorse la passerella fino alla scala a pioli, scese sul ponte principale, uscì dal portello. A una scrivania era seduto un giovane di sedici anni dalla carnagione scura e gli occhi grandi e intelligenti, che indossava un camiciotto da marinaio di pliofano tanè e azzurro. «Nome, prego?»

«Joe Smith.»

Il giovane fece un visto su un elenco, indicò il corridoio con un cenno. «Prima porta per le misure igieniche.»

Joe fece scorrere la porta, entrò in una stanzetta densa di vapore acqueo e antisettico. «Via i vestiti,» strillò una donna dalla voce metallica in calzoncini da bagno aderenti. Era magra come un lupo, e la pelle azzurro cupo era striata da rivoli di sudore. Gettò via con un gesto violento l’ampio indumento che Joe aveva ricevuto in dotazione dai magazzini della nave, poi si tirò indietro e spinse un bottone. «Occhi chiusi.»


Getti di soluzione detergente gli sferzarono il corpo. Diverse pressioni, diverse temperature, e i suoi muscoli cominciarono a risvegliarsi. Una raffica di aria calda lo asciugò, e la donna, con una pacca noncurante, lo diresse verso una camera adiacente, dove poté radersi la barba ispida, aggiustarsi i capelli e infine indossare il camiciotto e i sandali che apparvero in una tramoggia.

Quando lasciò la stanza un cameriere di bordo lo fermò, gli puntò un ugello contro la coscia e gli soffiò sotto la pelle un assortimento di vaccini, antitossine, tonificanti e stimolanti muscolari. Così fortificato, Joe lasciò la nave, uscì su una piattaforma, scese una rampa fino al suolo di Kyril.

Trasse un profondo respiro di fresca aria planetaria e si guardò attorno. Il cielo era coperto di nubi perlacee. Un paesaggio lungo e dolcemente ondulato, quadrettato da minuscole fattorie, si perdeva in lontananza fino all’orizzonte, e là, come un tremendo pennacchio di fumo, si levava l’Albero. I contorni erano sfocati dalla distanza e il fogliame superiore si confondeva con le nubi, ma non ci si poteva sbagliare. L’Albero della Vita.

Attese un’ora che il suo passaporto e i vari documenti di identificazione venissero controllati e controfirmati in un piccolo ufficio a vetrate sotto la piattaforma di imbarco. Poi poté sdoganare e attraversare il campo fino al terminale, una struttura rococò di massiccia pietra bianca, riccamente scolpita e ornata di intricati intagli.

Al cancelletto girevole che consentiva di superare la parete di vetro c’era un Druido che assisteva oziosamente allo sbarco. Era alto, un magro nervoso, con una pelle pallida e fine come l’avorio. Il viso era controllato, aristocratico, i capelli nero giaietto, gli occhi neri e severi. Indossava una scintillante corazza di metallo smaltato, una veste sontuosa che cadeva in pieghe elaborate fin quasi a terra, orlata di fregi ricamati con un filo d’oro. Sul suo capo era posato un elaborato elmo, composto da cuspidi e piani di metalli diversi abilmente incastrati.

Joe consegnò l’autorizzazione di passaggio all’impiegato seduto alla scrivania del cancelletto.

«Nome prego.»

«È sull’autorizzazione.»

L’impiegato corrugò la fronte, scribacchiò qualcosa. «Affari su Kyril?»

«In visita temporanea,» disse Joe brevemente. Aveva discusso a lungo di se stesso, dei suoi antecedenti, e dei suoi affari con l’impiegato dell’ufficio di sbarco. Quel nuovo interrogatorio gli sembrava un’inutile seccatura. Il Druido girò la testa, lo guardò dall’alto in basso. «Spie, nient’altro che spie!» Emise un suono sibilante sottovoce, e si allontanò.

Ma qualcosa nel contegno di Joe l’aveva colpito. Tornò indietro. «Ehi tu,» disse in tono di petulante irritazione.

Joe si voltò. «Sì?»

«Chi è il tuo garante? Chi servi?»

«Nessuno. Sono qui per motivi personali.»

«Non essere ipocrita. Tutti spiano. Perché fingere altrimenti? Tu mi fai andare in collera. Ebbene, chi servi?»

«La verità della faccenda è che io non sono una spia,» disse Joe mantenendo un tono di leggera cortesia nella voce. L’orgoglio era il primo lusso che un vagabondo doveva abbandonare.

Il Druido sorrise con un esagerato cinismo nelle labbra sottili. «Perché mai allora saresti venuto su Kyril?»

«Ragioni personali.»

«Hai l’aspetto di un Thubano. Qual è il tuo mondo natio, allora?»

«La Terra.»

Il Druido piegò la testa, lo guardò obliquamente, fece per parlare, si fermò, strinse gli occhi e finalmente parlò. «Allora tu ti beffi di me con un mito infantile, il paradiso degli sciocchi?»

Joe scrollò le spalle. «Mi hai fatto una domanda. Io ho risposto.»

«Con un’insolente inosservanza della mia dignità e del mio rango.»

Un uomo basso e grassottello, con una pelle color giallo limone, si avvicinò incedendo con andatura tronfia e solenne. Aveva grandi occhi innocenti, un paio di mascelle ben sviluppate, e indossava un ampio mantello di pesante velluto azzurro.

«Un Terrestre qui?» Guardò Joe. «Tu, signore?»

«Esatto.»

«Allora la Terra esiste.»

«Certamente.»

L’uomo dalla pelle gialla si rivolse al Druido. «Questo è il secondo Terrestre che vedo, Eminenza. Evidentemente…»

«Il secondo?» chiese Joe. «Chi era l’altro?»

L’uomo dalla pelle gialla alzò gli occhi al cielo. «Ho scordato il suo nome. Perry… Larry… Barry…»

«Harry? Harry Creath?»

«Proprio quello, ne sono sicuro. Ho scambiato due parole con lui su Giunzione, un anno o due fa. Un tipo davvero simpatico.»

Il Druido girò sui tacchi e se ne andò. L’uomo grassottello lo seguì con volto impassibile, poi si girò verso Joe. «Sembra che tu sia uno straniero, qui.»

«Sono appena arrivato.»

«Lascia che ti dia un consiglio su questi Druidi. Sono una razza emotiva, pronta alla collera, inquieta, usa agli eccessi. E sono assolutamente provinciali, assolutamente convinti che Kyril sia il centro di tutto lo spazio e di tutto il tempo. È saggio parlare sommessamente in loro presenza. Posso chiedere per curiosità cosa ci fai qui?»

«Non potevo permettermi di acquistare un passaggio più lontano.»

«E allora?»

Joe scrollò le spalle. «Andrò a lavorare, guadagnerò un po’ di soldi.»

L’uomo grassottello aggrottò la fronte pensieroso. «Esattamente quali talenti e quali abilità userai a questo scopo?»

«Sono un buon meccanico, macchinista, dinamista, elettricista. So fare rilevamenti, analisi delle sollecitazioni, e altri strani lavori. Dico di essere un ingegnere.»

La sua nuova conoscenza parve riflettere. Finalmente, con voce dubbiosa, disse: «C’è una copiosa offerta di manodopera a basso prezzo tra i Laici.»

Joe volse lo sguardo per il terminale. «Dall’aspetto di quella travatura reticolare direi che sono piuttosto traballanti nell’uso del regolo calcolatore.»

L’altro contrasse le labbra in dubbioso accordo. «E ovviamente i Druidi sono xenofobi a un altissimo livello. Una faccia nuova rappresenta una spia.»

Joe annuì, sogghignò. «L’ho notato. Il primo Druido che ho visto mi ha inveito contro aspramente. Mi ha chiamato spia Mang, qualunque cosa sia.»

L’uomo grassottello annuì. «È quello che sono io.»

«Un Mang… oppure una spia?»

«Entrambi. Ci sono ben pochi tentativi di segretezza. È dichiarato. Ogni Mang su Kyril è una spia. E la stessa cosa vale per i Druidi su Mangtse. I due mondi stanno lottando per la supremazia, economica al momento, e c’è grande rancore tra di noi.» Si sfregò il mento. «Vuoi un impiego, allora, con una remunerazione?»

«Corretto,» disse Joe. «Ma escluso lo spionaggio. Non intendo immischiarmi nella politica. Niente da fare. La vita è già troppo breve.»

Il Mang fece un gesto rassicurante. «Naturalmente. Ora come dicevo i Druidi sono una razza emotiva. Tortuosa. Forse possiamo giocare su queste qualità. Supponi di venire con me a Divinai. Ho un appuntamento con il Tearca del Distretto, e se mi vanto con lui del tecnico efficiente che ho preso al mio servizio…» Lasciò il resto della frase in sospeso, e ammiccò a Joe con occhi da gufo. «Da questa parte, allora.»

Joe lo seguì attraverso il terminale, lungo un’arcata fiancheggiata da botteghe fino all’area di parcheggio. Joe guardò la fila di aeromobili. Antichi modelli, pensò, costruzione imprecisa.

Il Mang gli fece cenno di salire sull’aeromobile più grande. «A Divinai,» disse all’autista che aspettava.

L’aeromobile si sollevò, inclinandosi sul paesaggio grigioverde. Nonostante l’apparente produttività della terra, la regione aveva su Joe un effetto sgradevole. I villaggi erano piccoli e rattrappiti, e strade e vicoli luccicavano di acqua stagnante. Nei campi si vedevano squadre di uomini — sei, dieci, venti — che tiravano l’aratro. Un paesaggio tetro e prosaico.

«Cinque bilioni di contadini,» disse il Mang, «i Laici. Due milioni di Druidi. E un Albero.»

Joe emise un suono non compromettente. Il Mang tacque. Sotto di loro le fattorie, caseggiati interminabili, quadrati, rettangoli, ognuno di un diverso tono di verde, di marrone o di grigio. Miriadi di capanne coniche dalle quali saliva un filo di fumo erano acquattate negli angoli dei campi. E più avanti l’Albero si levava grande e importante, sempre più alto, più nero, più massiccio.

Poi apparvero palazzi di pietra bianca riccamente decorati, annidati tra le radici sostenute da pilastri, e l’aeromobile scese sui tetti robusti. Joe scorse una foresta di balaustre traforate, intricati pannelli, lucernari a più luci con colonnine divisorie, grondoni, colonne, stipiti infiorati.

L’aeromobile atterrò su un piccolo appezzamento di terreno davanti a una struttura lunga e alta che ricordò vagamente a Joe il Palazzo di Versailles. Su ogni lato c’erano giardini ben curati, sentieri decorati a mosaico, fontane, statue. E dietro si levava l’Albero, con il fogliame che si apriva a un’altezza di diverse miglia.

Il Mang scese, si girò verso Joe. «Se togli il pannello laterale che racchiude il generatore di questo velivolo, e ti comporti come se stessi eseguendo una riparazione minore, credo che presto riceverai l’offerta per un impiego lucrativo.»

Joe disse, a disagio: «Ti stai prendendo un gran disturbo per uno straniero. Sei forse un… filantropo?»

Il Mang rispose allegramente: «Oh no. No, no! Agisco come se fossi spinto dal capriccio, ma non sono completamente disinteressato nelle mie azioni. Lascia che mi esprima così: se fossi chiamato a effettuare una riparazione non specificata, mi porterei appresso una varietà di attrezzi più ampia possibile.

«Perciò, nella mia… ah… missione trovo che molte persone hanno talenti speciali o conoscenze che si rivelano inestimabili. Ecco perché coltivo amicizie quanto mai vaste e cordiali.»

Joe sorrise a labbra strette. «È un’attività che ripaga?»

«Oh, certamente. E poi,» disse blandamente l’uomo grassottello, «la cortesia è di per sé una ricompensa. C’è una soddisfazione incalcolabile in una condotta servizievole. Ti prego di non considerarti vittima di obbligo alcuno.»

Senza esprimersi ad alta voce, Joe pensò: «Non mancherò.»

L’uomo grassottello si allontanò, e attraversò lo spiazzo fino a una grande porta di bronzo scolpito.

Joe esitò un momento. Poi, decidendo che non aveva nulla da perdere a seguire le istruzioni, smontò il pannello laterale. Una fascia di piombo lo fissava come un sigillo. Joe esitò un altro istante, poi spezzò la fascia e sollevò il pannello.

Si ritrovò a guardare in un meccanismo sorprendente. Era stato messo insieme con pezzi di recupero, fissato con viti isolanti su blocchi di legno, legato alla struttura con pezzi di corda. I fili elettrici erano esposti e non isolati. L’aggiustaggio del campo di forza era stato fatto con un cuneo di legno. Joe scosse la testa, stupito. Poi ripensando al volo dal terminale, sudò freddo.

L’uomo grassottello dalla pelle gialla gli aveva detto di comportarsi come se stesse riparando il motore. Joe vide che la finzione non sarebbe stata necessaria. La scatola elettrica era connessa alla metadina tramite una tubazione frettolosa e confusionaria. Joe sbrogliò il pasticcio, riorientò i poli, e unì i due gruppi con un collegamento corto e diretto.


Dall’altra parte dello spiazzo atterrò un’altra aeromobile, e ne scese una ragazza di diciotto o diciannove anni. Quando guardò verso di lui, Joe colse il lampo degli occhi in un volto sottile e vitale. Poi la ragazza lasciò subito il terreno.

Joe si fermò a guardare il figurino sottile come un alberello. Si rilassò e tornò al motore. Molto carina, le ragazze erano cosucce molto carine. Strinse le labbra, pensando a Margaret. Margaret era un tipo di ragazza completamente diverso. Bionda, innanzitutto, compiacente, flessibile, ma intimamente… Joe si distrasse un attimo dal suo lavoro. Cos’era, nel profondo del suo cuore, dove lui non era mai penetrato?

Quando le aveva detto dei suoi piani aveva riso, e gli aveva detto che era nato migliaia di anni troppo tardi. Erano ormai passati due anni, chissà se Margaret lo stava ancora aspettando? Pensava di stare via in tutto tre mesi, e poi era stato trascinato sempre più avanti, di pianeta in pianeta, fuori dallo spazio terrestre, attraverso il Golfo dell’Unicorno, lungo un turbine rado di stelle, arrancando da un mondo all’altro.

Su Jamivetta aveva coltivato muschio in una tundra brulla, e anche un passaggio di terza classe per Kyril gli era parso buono. Margaret, pensò Joe, spero che tu valga tutto questo peregrinare. Fissò il punto in cui la giovane Druida dai capelli scuri era corsa dentro il palazzo.

Una voce aspra disse: «Cosa stai facendo, stai smontando l’aeromobile? Verrai ucciso per un delitto simile.»

Era l’autista dell’aeromobile da cui era scesa la ragazza. Era un uomo dalla faccia volgare e dal corpo grosso, con naso e mascella animaleschi. Joe, in virtù della lunga e amara esperienza sui mondi esterni, tenne a freno la lingua, e si voltò a esaminare ulteriormente il meccanismo. Si chinò in avanti incredulo. Tre condensatori, agganciati assieme in successione, pendevano e ondeggiavano dai loro connettori. Infilò la mano, strappò via la coppia in eccesso, incuneò il condensatore restante in un incavo, e lo ricollegò.

«Attento! Bada a te!» mugghiò l’autista. «Togli le tue mani distruttive da quel delicato meccanismo!»

Era troppo. Joe alzò la testa. «Delicato meccanismo! È già un miracolo che quel miserevole groviglio di rottami riesca a volare.»

La faccia dell’autista si contorse in un’espressione furiosa. Avanzò di un passo pesante, poi si fermò mentre un Druido usciva impetuoso sullo spiazzo, un uomo grande e grosso con una faccia rossa e piatta, e sopracciglia impressionanti. Aveva un naso piccolo a becco d’aquila che gli sporgeva come un’aggiunta in mezzo alle guance, e una bocca sostenuta da forcelle di muscoli cocciuti e increspati.

Indossava una lunga veste vermiglia, con un cappuccio di folta pelliccia nera, e un bordo di pelliccia uguale girava intorno alla veste. Sopra il cappuccio portava un elmo di metallo nero e verde, con un sole raggiante di smalto rosso e giallo proprio su una tempia.

«Borandino!»

L’autista si fece piccolo in atteggiamento ossequiente. «Eminenza.»

«Vai. Metti via la Celta.»

«Sì, Eminenza.»

Il Druido si fermò davanti a Joe. Vide il mucchio di rottami scartati, e la faccia si fece congestionata. «Cosa stai facendo al mio velivolo più bello?»

«Sto eliminando un po’ di impedimenti.»

«Il miglior meccanico di Kyril si occupa di quel macchinario!»

Joe alzò le spalle. «Ha parecchio da imparare. Se vuoi rimetto dentro tutta quella roba. L’aeromobile non è mia.»

Il Druido lo guardò fisso. «Intendi dire che l’aeromobile volerà, dopo che hai tirato fuori tutto quel metallo?»

«Dovrebbe volare meglio.»

Il Druido guardò Joe da capo a piedi. Joe decise che quello doveva essere il Tearca del Distretto. Il Druido, con il più vago accenno di segretezza nei modi, si guardò alle spalle verso il palazzo, poi si rivolse di nuovo a Joe.

«Mi pare di capire che sei al servizio di Hableyat.»

«Il Mang? Ebbene… sì.»

«Tu non sei un Mang. Cosa sei?»

Joe si rammentò dell’incidente con il Druido al terminale. «Sono un Thubano.»

«Ah! Quanto ti paga Hableyat?»

Joe desiderò di sapere qualcosa della moneta locale e del suo valore. «Un bel po’,» disse.

«Trenta stipule alla settimana? Quaranta?»

«Cinquanta,» disse Joe.

«Te ne darò ottanta,» disse il Tearca. «Sarai il mio capo meccanico.»

Joe annuì. «Benissimo.»

«Verrai con me immediatamente. Informerò io Hableyat del cambiamento. Non avrai più alcun contatto con quel Mang assassino. Adesso sei un servitore del Tearca del Distretto.»

«Al tuo servizio, Eminenza,» disse Joe.


Il cicalino ronzò. Joe premette il tasto, disse: «Garage.»

Dalla piastra uscì la voce di una ragazza, la voce perentoria e ostinata della Sacerdotessa Elfane, la terza figlia del Tearca, squillante ora di una sfumatura che Joe non seppe identificare.

«Autista, ascolta molto attentamente. Fai esattamente come ti ordino.»

«Sì, Eminenza.»

«Porta fuori la Celta nera, sali al terzo livello, poi atterra sul mio appartamento. Sii discreto e ne trarrai vantaggio. Hai capito?»

«Sì, Eminenza,» disse Joe con voce di piombo.

«Muoviti.»

Joe infilò la livrea. Fretta… discrezione… segretezza? Un amante di Elfane? Era giovane, ma non troppo giovane. Joe aveva già eseguito commissioni simili per le sue sorelle, Esane e Phedran. Si strinse nelle spalle. Poteva sperare di guadagnarci. Cento stipule, forse di più.

Sogghignò mestamente facendo retrocedere la Celta da sotto il tettuccio. Una mancia da una ragazza di diciotto anni, ed era ben contento di riceverla. Un giorno, quando fosse ritornato sulla Terra e da Margaret, avrebbe rispolverato le sue pretese di orgoglio e dignità. Adesso erano inutili, erano un ostacolo per lui.

Il denaro era denaro. Il denaro l’aveva portato attraverso la galassia, e finalmente Ballenkarch era a portata di mano. Di notte, quando i riflettori del tempio abbandonavano il cielo, poteva vedere il sole Ballen, una stella luminosa in una costellazione che i Druidi chiamavano «Porfirite». Il passaggio più a buon mercato, ipnotizzato e imbarcato come un cadavere, costava duemila stipule.

Da un salario di ottanta stipule alla settimana riusciva a risparmiarne settantacinque. Tre settimane erano passate; altre ventiquattro gli avrebbero permesso di acquistare un passaggio per Ballenkarch. Troppo tempo, con la bionda, gaia, incantevole Margaret che lo aspettava sulla Terra. Il denaro era denaro. Le mance sarebbero state accettate con molti ringraziamenti.

Joe sollevò l’aeromobile fino all’alzata del palazzo, fluttuando lungo l’Albero, su verso il terzo livello. L’Albero incombeva su di lui come se non si fosse mai staccato dal suolo, e Joe sentì lo sgomento e la meraviglia che tre settimane all’ombra stessa dell’Albero non erano riuscite a diminuire.

Una massa enorme e respirante, ricca di linfa, un tronco di cinque miglia di diametro, dodici miglia dalle grandi radici nodose all’ultima gemma: la «Vitale Omniprescienza» nel canto dei Druidi. Il fogliame si apriva e digradava in ramoscelli flessibili, ognuno col diametro grosso quanto il palazzo del Tearca, sospeso come la copertura di paglia su un antiquato covone.

Le foglie erano rozzamente triangolari, lunghe tre piedi, gialle luminose nella parte superiore, e scurentisi in giallo limone, verde, rosa, scarlatto, nero notte, verso terra. L’Albero dominava gli orizzonti, allontanava le nubi con una spallata, portava tuoni e lampi come una ghirlanda di lamé. Era l’anima della vita, la vita nuda e cruda, che calpestava e soggiogava gli inerti. E Joe capiva bene come i primi stupiti coloni di Kyril si fossero messi ad adorarlo.

Il terzo livello. Giù di nuovo, con la Celta nera, fino al terreno accanto agli appartamenti della Sacerdotessa Elfane. Joe atterrò, saltò fuori dall’aeromobile, percorse gli intarsi d’oro e avorio. Elfane in persona aprì la porta scorrevole, una creatura vivida, col volto sottile, la carnagione scura, vitale come un uccello. Indossava un abito semplice di tessuto bianchissimo, senza alcun ornamento, ed era a piedi nudi. Joe, che l’aveva vista solo nell’abbigliamento ufficiale, sbatté le palpebre e la guardò di nuovo con interesse.

La ragazza gli fece un cenno. «Da questa parte. Svelto.» Tenne aperto il pannello e Joe entrò in una camera alta, elegante ma poco calda. Strisce di marmo bianco e dumortierite blu rivestivano due pareti, strisce intarsiate con tavolozze di rame sulle quali erano scolpiti uccelli esotici. La terza parete era coperta da un arazzo raffigurante un gruppo di giovanette che correvano su un pendio erboso, e lungo questa parete c’era un basso divano imbottito.

Sul divano era seduto un giovane con la veste di Suttearca, una veste azzurra ricamata con i fregi rossi e grigi del suo rango. Un elmo intarsiato di foglie d’oro era accanto a lui sul divano, e un bastone tornito dal Sacro Legno — un onore concesso solo agli Ecclesiarchi — gli pendeva alla cintura. Aveva i fianchi sottili, le spalle larghe e quadrate, e la faccia più sconvolgente di cui Joe avesse mai fatto esperienza.


Era una faccia letteralmente passionale, larga all’altezza degli zigomi, con guance piatte che scendevano oblique fino alla punta del mento. Il naso era lungo e diritto, la fronte ampia. Gli occhi erano neri dischi piatti in orbite strette e inespressive, le sopracciglia nere come l’inchiostro, i capelli dello stesso colore, acconciati ad arte in minuscoli anelli. Era una faccia furba e crudele, piena di fascinazione, troppo ricca, troppo matura, senza senso dell’umorismo né simpatia, la faccia di un animale feroce solo incidentalmente umana.

Joe si fermò nel mezzo di un passo, fissò quella faccia con immediata avversione, quindi guardò il cadavere ai piedi dell’Ecclesiarca, una forma rigida scomposta in modo grottesco, dalla quale il sangue giallo acceso stillava a macchiare il mantello cremisi.

Elfane disse a Joe: «Questo è il corpo di un ambasciatore di Mangtse. Una spia, ma ciò nondimeno un ambasciatore d’alto rango. Qualcuno l’ha ammazzato qui, oppure ci ha portato il suo corpo. Non deve essere scoperto. Non deve esserci scalpore. Mi fido di te come di un servitore leale. Sono in corso negoziati molto delicati con il Governo Mang. Un incidente come questo può rovinare tutto. Mi segui?»

Gli intrighi di palazzo non erano cosa che riguardasse Joe. «Qualunque ordine tu possa impartirmi, Eminenza, io lo seguirò, subordinatamente al permesso del Tearca.»

Elfane gli rispose con impazienza. «Il Tearca è troppo occupato per essere consultato. L’Ecclesiarca Manaolo ti assisterà nel caricare il cadavere sulla Celta. Poi ci porterai fuori sull’oceano, e ce ne sbarazzeremo.»

«Porterò l’aeromobile più vicino possibile,» disse Joe con voce legnosa.

Manaolo si alzò in piedi, lo seguì fino alla porta. Joe lo udì borbottare da sopra la spalla: «Staremo stretti in quella piccola cabina.»

«È l’unica che so guidare,» rispose Elfane impaziente.

Joe si prese tutto il tempo per sistemare l’aeromobile contro la porta, corrucciato in profondi pensieri. L’unico velivolo che sapesse guidare… Percorse con lo sguardo cinquanta piedi di spazio fino al terreno adiacente lungo il lato del palazzo. Un uomo basso con un mantello azzurro se ne stava con le mani intrecciate dietro la schiena a osservare benignamente Joe.

Joe rientrò nella stanza. «C’è un Mang sulla balconata qui a fianco.»

«Hableyat!» esclamò Manaolo. Andò alla porta, guardò fuori senza mostrarsi. «Soprattutto lui non deve scoprirlo!»

«Hableyat sa tutto,» disse Elfane cupamente. «Talvolta credo che possegga una seconda vista.»

Joe si inginocchiò accanto al cadavere. La bocca era aperta, e mostrava una lingua color ruggine. Una borsa gonfia gli pendeva al fianco, seminascosta dal mantello. Joe la aprì. Alle sue spalle sentì una parola rabbiosa. Elfane disse: «No, lascia che si soddisfi.»

Il suo tono, e la sua accondiscendenza sprezzante, colpirono Joe. Ma il denaro era denaro. Con le orecchie che gli bruciavano infilò una mano nella borsa, tirò fuori un rotolo di banconote da cento stipule, almeno una dozzina. Rimise la mano nella borsa, e trovò una piccola arma manuale che non conosceva. La nascose nella blusa. Poi avvolse il cadavere in una veste scarlatta, e alzandosi lo prese sotto le ascelle.

Manaolo prese le caviglie. Elfane andò alla porta. «È andato via! Svelti!»

Dopo cinque secondi il cadavere era a posto dietro l’aeromobile. Elfane disse a Joe: «Vieni con me.»

Joe la seguì, usando molta cautela nel volgere le spalle a Manaolo. Elfane lo condusse in uno spogliatoio, indicò un paio di valige. «Prendile, e caricale dietro la Celta.»

Bagaglio, pensò Joe, e obbedì. Con la code dell’occhio vide che Hableyat era ritornato fuori sulla balconata, e sorrideva blandamente nella sua direzione. Joe rientrò.

Elfane stava indossando dei sandali e una veste blu come una ragazza Laica. L’abbigliamento accentuava l’aspetto pieno di spirito, l’aroma e la fragranza che sembravano una parte essenziale di lei. Joe distolse gli occhi. Margaret non avrebbe trattato un cadavere con tanta indifferenza.

«La Celta è pronta a partire, Eminenza,» disse.

«Guiderai tu,» disse Elfane. «La nostra rotta sarà in alto fino al quinto livello, a sud oltre Divinai, attraverso la baia e fuori in mare.»

Joe scosse la testa. «Io non guiderò. A dire il vero io non vengo.»


Il senso delle sue parole non fu subito chiaro. Poi Elfane e Manaolo girarono assieme la testa. Elfane era sorpresa, e il suo volto denotava più mancanza di comprensione che rabbia. Manaolo era inespressivo, gli occhi ottusi, opachi.

Con voce più acuta, come se Joe non avesse capito, Elfane disse: «Avanti, esci; guiderai tu.»

Joe fece scivolare casualmente la mano all’interno della blusa, dove riposava la piccola arma. Gli occhi di Manaolo tremolarono, l’unico movimento del volto, ma Joe sapeva che la sua mente era agile e sprezzante.

«Non ho intenzione di guidare,» disse Joe. «Potete facilmente buttare a mare quel cadavere senza di me. Io non so dove state andando, né perché. So solo che non verrò con voi.»

«Te lo ordino!» esclamò Elfane. Era irreale, pazzesco, contrario agli assiomi della sua esistenza.

Joe scosse la testa, fissandoli con prudenza. «Spiacente.»

Elfane scacciò il paradosso dalla propria mente. Si rivolse a Manaolo. «Uccidilo qui, allora. Il suo cadavere, almeno, non provocherà congetture.»

Manaolo espresse con un ghigno il suo rammarico. «Temo che quell’arraffone ci stia puntando contro una pistola. Si rifiuterà di lasciarsi uccidere.»

Elfane strinse le labbra. «Questo è ridicolo.» Si girò di scatto. Joe estrasse la pistola. Elfane si fermò, paralizzata, e le mancarono le parole.

«Bene,» disse con voce sommessa. «Ti darò del denaro per il tuo silenzio. Sei soddisfatto?»

«Moltissimo,» disse Joe con un sorriso storto. Orgoglio? Cos’era l’orgoglio? Se non fosse stato per Margaret gli sarebbe piaciuto… Ma no, era chiaro che stava scappando con il brillante e pericoloso Manaolo. Chi avrebbe voluto una donna dopo che lui le aveva messo le mani addosso?

«Quanto?» chiese indolente Manaolo.

Joe fece un rapido calcolo. Aveva quattrocento stipule nella sua stanza, circa un migliaio le aveva prese dal cadavere. Mise da parte i suoi calcoli. Meglio esagerare. «Cinquemila stipule e ho dimenticato tutto quello che visto oggi.»

La cifra apparentemente non sembrava esorbitante a nessuno dei due. Manaolo frugò in una tasca, poi in un’altra, trovò un rotolo di denaro, sfogliò un po’ di banconote, e le gettò sul pavimento.

«Ecco il tuo denaro.»

Senza guardarsi indietro, Elfane corse fuori, saltò nella Celta. Manaolo si avviò dietro a lei.

La Celta si alzò con uno scatto, scomparve nell’aria tersa di Kyril. Joe si ritrovò da solo nella stanza alta.

Raccolse i biglietti. Cinquemila stipule. Andò alla finestra, riuscì ancora a vedere l’aeromobile ridursi a un puntino.

Aveva come un fremito in gola, una fitta. Elfane era una creatura meravigliosa. Sulla Terra, se non fosse stato per Margaret, sarebbe andato in estasi. Ma quello era Kyril, dove la Terra era una favola. E Margaret, docile, morbida, bionda come un campo di giunchiglie, stava aspettando che lui ritornasse. O almeno sapeva che lui sperava che lo aspettasse. Con Margaret, pensò Joe mestamente, l’idea poteva non significare la stessa cosa. Dannato Harry Creath!

Divenne spiacevolmente consapevole dell’ambiente in cui si trovava. Una qualunque di una dozzina di persone poteva entrare e trovarlo lì. Avrebbe avuto qualche difficoltà a spiegare la sua presenza. Doveva ritornare ai suoi quartieri. Si immobilizzò a metà dei pensieri. Il rumore di una porta che scorreva gli fece istantaneamente accelerare le pulsazioni, e scendere un rivolo di sudore. Indietreggiò contro l’arazzo. Dei passi, lenti, senza fretta, stavano arrivando per il corridoio.

La porta si aprì. Un uomo entrò nella stanza, un uomo basso dalla pelle gialla, con un mantello di velluto azzurro: Hableyat.


Hableyat gettò una breve occhiata alla stanza, scosse la testa tristemente. «Un brutto affare. Rischioso, per tutti quelli che vi sono implicati.»

Joe, irrigidito contro la parete, si trovò prontamente d’accordo. Hableyat fece un paio di passi avanti, esaminò il pavimento. «Negligenti. C’è ancora molto sangue.»

Alzò gli occhi, si rese conto dell’atteggiamento di Joe. «Ma ad ogni modo stai tranquillo. Davvero, stai tranquillo.» Per un momento osservò Joe con fare distaccato. «Senza dubbio la tua bocca è stata riempita di soldi. Ha del meraviglioso che tu sia ancora vivo.»

Joe disse seccamente: «Sono stato chiamato qui dalla Sacerdotessa Elfane, che se n’è andata sulla Celta. Per il resto io mi dissocio da tutta la faccenda.»

Hableyat scosse la testa meditabondo. «Se vieni trovato qui con il sangue sul pavimento sarai interrogato. E poiché verrà fatto ogni sforzo per nascondere l’assassinio di Empoing, tu sarai indubbiamente ucciso per essere certi del tuo silenzio.»

Joe si umettò le labbra. «Ma non è a te che vogliono nascondere l’uccisione?»

Hableyat annuì. «Certo. Io rappresento il Potere e l’Estensione del Dail di Mangtse, cioè la fazione Acque Azzurre. Empoing fa parte delle Correnti Rosse, che seguono una diversa scuola di pensiero. Credono in un rapida successione degli eventi.»

Una strana idea si formò nella mente di Joe, e si rifiutò di essere accantonata. Hableyat notò il cambiamento di espressione. La sua bocca, una breve fessura carnosa in mezzo alle guance gialle, si ritirò agli angoli.

«Proprio così. L’ho ucciso io. Era necessario, credimi. Altrimenti avrebbe ammazzato Manaolo, che è impegnato in una missione molto importante. Se Manaolo venisse fermato, da un certo punto di vista sarebbe una tragedia.»

Le idee si accavallavano, passavano fuggenti nella mente di Joe come un branco di pesci in fuga da una rete. Era come se Hableyat stesse mostrando un vassoio colmo di splendide ceramiche, in attesa di vedere quale Joe avrebbe scelto.

«Perché mi stai dicendo tutto questo?» disse Joe diffidente.

Hableyat scrollò le spalle grassocce. «Chiunque tu sia, non sei un semplice autista.»

«Ah, ma lo sono!»

«Chi o cosa tu sia non è ancora stato stabilito. Questi sono tempi complessi, nei quali molte persone e molti mondi vogliono cose inconciliabili, e l’origine e le intenzioni di ogni uomo devono essere analizzate. Le mie informazioni ti fanno risalire a Tuban Nove, dove hai lavorato come istruttore di ingegneria civile all’Istituto Tecnico. Da Thuban sei andato ad Ardemizian, poi a Panapol, poi a Rosalinda, poi a Jamivetta, e infine a Kyril.

«Su ogni pianeta sei rimasto solo il tempo sufficiente per guadagnare il passaggio seguente. Qui c’è uno schema, e dove c’è uno schema c’è un piano. Dove c’è un piano c’è un’intenzione, e dove c’è un’intenzione ci sono delle mete da raggiungere. E quando le mete sono state raggiunte, qualcuno perde. Ma vedo che sei a disagio. Evidentemente temi di essere scoperto. Ho ragione?»

«Non mi va di essere ucciso.»

«Suggerisco che ripariamo nel mio appartamento, che è qui accanto, e lì forse faremo due chiacchiere. Io sono sempre ansioso di imparare, e sarò quanto mai grato di poter uscire sano e salvo da questo appartamento…»

Uno scampanio lo interruppe. Trasalì, andò rapidamente alla finestra, guardò in su, poi in giù. Dalla finestra corse alla porta, rimase in ascolto. Fece un cenno a Joe. «Mettiti da parte.»

La campanella suonò ancora, una nocca pesante batté alla porta. Hableyat sibilò sottovoce. Un grattare, un raspare. La porta scivolò di lato.

Un uomo alto con un’ampia faccia rossa e un piccolo naso a becco avanzò nella stanza. Indossava una veste bianca e fluente con un cappuccio, e un elmo verde scuro e oro in cima al cappuccio. Hableyat gli andò furtivamente alle spalle, eseguì un complesso movimento che comprendeva un calcio dietro le ginocchia dell’uomo, una presa sull’avambraccio, una torsione del polso… e il Druido cadde a faccia in giù sul pavimento.

«È il Tearca in persona!» boccheggiò Joe. «Verremo spellati vivi…»

«Vieni,» disse Hableyat, ritornando a essere il benevolente uomo d’affari. Percorsero in fretta il corridoio. Hableyat fece scorrere la sua porta. «Dentro!»

L’appartamento di Hableyat era più grande delle stanze della Sacerdotessa Elfane. Il salotto era dominato da un lungo tavolo rettangolare, la cui superficie era stata tagliata da un’unica asse di legno scuro e lucente intarsiato con foglie di rame arabescate.

Due guerrieri Mang erano seduti rigidamente a entrambi i lati della porta, uomini bassi e tarchiati, dai lineamenti scoscesi. Hableyat non prestò loro alcuna attenzione, li oltrepassò come se fossero inanimati. Notando lo sguardo interrogativo di Joe, parve osservarli per la prima volta.

«Ipnotizzati,» disse con disinvoltura. «Finché io sono nella stanza, o la stanza è vuota, non si muovono.»


Joe avanzò guardingo nella stanza dopo di lui, riflettendo che poteva essere sospettato lì come nell’appartamento della Sacerdotessa.

Hableyat si sedette con un grugnito, indicò una sedia a Joe. Piuttosto che avventurarsi in un labirinto di corridoi sconosciuti, Joe obbedì. Hableyat posò i palmi delle mani grassocce sul tavolo, e fissò Joe con occhi innocenti.

«Sembra che tu sia stato coinvolto in una situazione spiacevole, Joe Smith.»

«Non necessariamente,» disse Joe nel disperato tentativo di fare dello spirito. «Potrei andare dal Tearca e raccontargli la mia storia, e tutto sarebbe finito lì.»

La faccia di Hableyat tremolò mentre ridacchiava, aprendo la bocca come uno scoiattolo. «E poi?»

Joe non disse nulla.

Hableyat batté vigorosamente la mano sul tavolo. «Ragazzo mio, non hai ancora familiarità con la psicologia dei Druidi. Per loro uccidere è la risposta a quasi tutte le circostanze, un atto casuale come spegnere la luce uscendo da una stanza. Così, quando tu avessi raccontato la tua storia, saresti ucciso. Per nessun’altra ragione particolare oltre al fatto che è più semplice uccidere che non uccidere.» Hableyat tracciò pigramente il disegno di un viticcio con l’unghia gialla, e parlò come se stesse meditando a voce alta.

«Talvolta gli organismi più strani sono i più efficienti. Kyril opera in una maniera notevole per la sua assoluta semplicità. Cinque bilioni di vite dedicate a nutrire e vezzeggiare due milioni di Druidi e un Albero. Ma il sistema funziona, si perpetua, e questa è la prova della vitalità economica.

«Kyril è il grottesco apice della devozione religiosa. Laici, Druidi, Albero. I Laici lavorano, i Druidi officiano i rituali, l’Albero è… è immanente. Stupefacente! L’umanità crea dallo stesso protoplasma i corpi dei Laici e dei Druidi di nobile indole.»

Joe si agitò sulla sedia, inquieto. «Cosa significa per me tutto questo?»

«Mi limito a sottolineare,» disse Hableyat gentilmente, «che la tua vita non vale il punto umido dove sputo, per nessuno che non sia tu stesso. Cosa significa la vita per un Druido? Vedi questa lavorazione? Le vite di dieci uomini sono state spese su questo tavolo. Le lastre di marmo alle pareti sono state levigate e tagliate a mano. Costo? I Druidi non conoscono il concetto. Il lavoro è gratuito, la manodopera illimitata.

«Persino l’elettricità che dà energia e luce al palazzo è generata manualmente nelle cantine, nel nome dell’Albero della Vita, dove le povere anime cieche sperano alla fine di risiedere, serene al vento e alla luce del sole. I Druidi giustificano con ciò il sistema davanti alla loro coscienza, e davanti agli altri mondi.

«I Laici non conoscono nulla di meglio. Un’oncia di carne, un pesce, una ciotola di verdure; così sopravvivono. Non conoscono il rito del matrimonio, la famiglia, la tradizione, nemmeno il folclore. Sono bestiame al pascolo libero. Figliano senza passione né grazia.

«Controversie? La formula dei Druidi è semplice. Uccidono entrambe le parti e così la controversia è spenta. Inattaccabile… e l’Albero della Vita incombe sul pianeta, la più possente promessa di vita eterna che la galassia abbia mai conosciuto. Vitalità pura e massiccia!»

Joe si spostò in avanti sull’orlo della sedia, guardò alla sua destra i guerrieri Mang, immobili, e alla sua sinistra, dall’altra parte del tappeto arancione, fuori dalla finestra. Hableyat seguì il suo sguardo increspando le labbra in un’espressione curiosa.

Con voce concisa, Joe disse: «Perché mi stai tenendo qui? Cosa stai aspettando?»

Hableyat sbatté rapidamente gli occhi, con un’espressione di rimprovero. «Non sono consapevole di alcuna intenzione di trattenerti. Sei libero di andartene in qualsiasi momento tu desideri.»

«Perché mi hai portato qui, prima di tutto?» domandò Joe.

Hableyat si strinse nelle spalle. «Forse per puro altruismo. Se ritorni ai tuoi quartieri adesso sei buono solo morto. Specialmente dopo la riprovevole intrusione del Tearca.»

Joe si rilassò sulla sedia. «Questo non è per forza vero.»

Hableyat annuì vigorosamente. «Temo invece che lo sia. Considera un momento: si sa, oppure si saprà, che hai portato su la Celta nera, la quale è stata poi condotta via dalla Sacerdotessa Elfane e dall’Ecclesiarca Manaolo. Il Tearca, recatosi negli appartamenti di sua figlia, forse per indagare, o forse in risposta a una sua chiamata, viene aggredito. Subito dopo l’autista ritorna ai suoi quartieri.» Fece una pausa, allargò le mani grassocce in un gesto significativo.

«D’accordo, allora,» disse Joe. «Cos’hai in mente?»

Hableyat picchiettò sul tavolo con l’unghia. «Questi sono tempi difficili, tempi difficili. Vedi,» aggiunse in tono confidenziale, «Kyril si sta sovrappopolando di Druidi.»

Joe corrugò la fronte. «Sovrappopolando? Con due milioni di Druidi?»


Hableyat rise. «Cinque bilioni di Laici non sono in grado di provvedere a un’esistenza dignitosa per un numero maggiore. Devi capire che quei poveri disgraziati non hanno alcun interesse a produrre. La loro unica aspirazione è passare attraverso la vita il più rapidamente possibile per poter prendere il loro posto come foglie sull’Albero.

«I Druidi sono alle prese con un dilemma. Per aumentare la produzione devono o istruire e industrializzare — ammettendo quindi di fronte ai Laici che la vita offre altri piaceri oltre alla contemplazione — oppure devono trovare altre fonti di ricchezza e di produzione. A questo scopo i Druidi hanno deciso di gestire una serie di industrie su Ballenkarch. Così noi Mang e il nostro mondo altamente industrializzato veniamo coinvolti. Vediamo nel piano dei Druidi una minaccia al nostro benessere.»

«E come tutto questo coinvolge me?» chiese Joe con esasperata pazienza.

«In generale, il mio lavoro di emissario,» disse Hableyat, «è di promuovere gli interessi del mio mondo. A questo fine ho bisogno di una grande quantità di informazioni. Quando sei arrivato qui un mese fa sei stato oggetto di un’indagine. Abbiamo seguito le tue tracce fino a un lontano pianeta del lontano sole Thuban. Prima di allora, le tue tracce si perdono.»

Con incredula rabbia, Joe disse: «Ma tu conosci il mio pianeta natio! Te l’ho detto la prima volta che ti ho visto. La Terra. E hai detto di avere parlato con un altro Terrestre, Harry Creath.»

Hableyat annuì con foga. «Esattamente. Ma mi è venuto in mente che la «Terra» come luogo di origine offre un comodo anonimato.» Sbirciò scaltramente Joe. «Sia per te che per Harry Creath.»

Joe tirò un respiro profondo. «Sai di Harry Creath più di quanto mi hai fatto credere.»

Hableyat parve sorpreso che Joe considerasse il fatto eccezionale. «Certo. È necessario che io conosca molte cose. Ora questa «Terra» di cui parli, la sua identità, è davvero più che verbale?» E fissò Joe con fare inquisitore.

«Ti assicuro che lo è,» disse Joe con pesante sarcasmo. «Siete così lontani su questo ciuffo di stelle che avete dimenticato il resto dell’universo.»

Hableyat annuì, tamburellò con le dita sul tavolo. «Interessante, interessante. Questo porta alla luce un risvolto piuttosto nuovo.»

Impaziente, Joe disse: «Io non vedo nessun risvolto, né vecchio né nuovo. Il mio problema, così com’è, è personale. Io non ho nessun interesse nelle vostre imprese, e ancora meno voglio esservi coinvolto.»

C fu un aspro bussare alla porta. Hableyat si alzò in piedi con un grugnito di soddisfazione. Ecco cosa stava aspettando, pensò Joe.

«Ti ripeto,» disse Hableyat, «che non hai scelta. Sei coinvolto malgrado tu desideri il contrario. Vuoi vivere?»

«Certo che voglio vivere.» Joe quasi balzò in piedi quando il bussare si ripeté.

«Allora conferma tutto quello che dico, per quanto possa sembrarti inverosimile. Hai capito?»

«Sì,» disse Joe rassegnato.

Hableyat pronunciò una parola brusca. I due guerrieri scattarono in piedi come uomini meccanici. «Aprite la porta.»

La porta si aprì. Sulla soglia c’era il Tearca con espressione adirata. Dietro di lui stavano una mezza dozzina di Druidi in vesti di differenti colori: Ecclesiarchi, Suttearchi, Presbiteri, Gerofanti.

Hableyat si era trasformato. Il suo comportamento si accentuò. La sua benignità si addolcì in ossequiosità, le buone maniere divennero una levigata untuosità. Avanzò trotterellando come se la visita del Tearca lo colmasse di immenso orgoglio e delizia.

Il Tearca torreggiava sulla porta, girando per la stanza gli occhi fiammeggianti, che passarono sopra ai due guerrieri e si posarono su Joe.

Sollevò una mano, puntò solennemente un dito. «Ecco l’uomo! Un fellone assassino! Prendetelo, vedremo la sua fine prima che sia passata un’ora.»

I Druidi incedettero con portamento altero in un rapido fruscio di vesti. Joe allungò la mano per prendere l’arma. Ma i due guerrieri Mang, muovendosi così destramente e agilmente che sembrarono non essersi mossi affatto, bloccarono lo specchio della porta. Un Druido dagli occhi brucianti in una veste verde e marrone tese la mano per scostarli.

Ci fu un guizzo di luce azzurra, un crepitio, una sbigottita esclamazione, e il Druido fece un salto indietro, tremando per l’indignazione. «È caricato di elettricità statica!»

Hableyat avanzò sollecito, tutto costernazione e spavento. «Tua Eminenza, cosa succede?»

L’espressione del Tearca era di ampio disprezzo. «Fatti da parte, Mang, richiama i tuoi demoni elettrici. Voglio quell’uomo.»

«Ma Eminenza, Eminenza,» esclamò Hableyat, «tu mi sgomenti. Può mai essere che io abbia preso un criminale al mio servizio?»

«Tuo servizio?»

«Sicuramente tua Eminenza sa che al fine di perseguire una politica realista il mio governo impiega un certo numero di osservatori non ufficiali?»

«Spie tagliagola!» ruggì il Tearca.

Hableyat si accarezzò il mento. «Se è questo il caso, tua Eminenza, sono disilluso, poiché le spie dei Druidi su Mangtse si tengono uniformemente in ombra. Esattamente di cosa è accusato il mio servitore?»

Il Tearca sporse la testa e disse con amabile fervore: «Te lo dico io cosa ha fatto: ha ucciso uno dei tuoi stessi uomini, un Mang! C’è sangue giallo dappertutto sul pavimento della camera di mia figlia. E dove c’è sangue, c’è morte.»

«Tua Eminenza!» esclamò Hableyat. «Questa è una grave notizia! Chi è morto?»

«Come faccio a saperlo? Ti basti che un uomo è stato ucciso e che questo…»

«Ma tua Eminenza! Quest’uomo è stato in mia compagnia tutto il giorno. La notizia che mi rechi è allarmante. Significa che un rappresentante del mio governo è stato aggredito. Temo che ci saranno dei disordini nel Lathbon. Dove hai visto questo sangue? Nella camera di tua figlia, la Sacerdotessa? E lei dov’è? Forse può fare un po’ di luce sulla faccenda.»

«Non so dove sia.» Il Tearca si girò e puntò un dito. «Alamaina, trova la Sacerdotessa Elfane. Desidero parlarle.» Poi rivolto ad Hableyat: «Devo capire che prendi questo fellone di una spia sotto la tua protezione?»

Hableyat rispose con cortesia. «I nostri ufficiali della sicurezza sono stati solleciti nel provvedere alla sicurezza dei Druidi rappresentanti di tua Eminenza su Mangtse.»

Il Tearca girò sui tacchi e se ne andò a grandi passi in mezzo alle sagome incappucciate dei Druidi.

«E così adesso sono una spia Mang,» disse Joe.

«Cosa avesti preferito?» gli chiese Hableyat.

Joe ritornò al suo posto. «Per qualche motivo che non riesco a immaginare sei determinato ad aggregarmi alla tua squadra.»

Hableyat fece un gesto di disapprovazione.

Joe lo fissò un momento. «Assassini i tuoi stessi uomini, abbatti il Tearca nel salotto di sua figlia, e in qualche modo scopro che sono ritenuto responsabile. Non è possibile che tu abbia programmato tutto?»

«Su, su, su,» mormorò Hableyat.

«Posso contare ulteriormente sulla tua cortesia?» chiese Joe educatamente.

«Certamente. Nel modo più assoluto.» Hableyat aspettava sollecito.

Audacemente, senza contare davvero sull’assenso di Hableyat, Joe disse: «Portami al terminale. Fammi salire sul postale per Ballenkarch che parte oggi.»

Hableyat, sollevando saggiamente le sopracciglia, annuì. «Una richiesta molto ragionevole, e che io sarei poco gentile a respingere. Sei pronto a partire subito?»

«Sì,» disse Joe seccamente, «sono pronto.»

«E hai fondi sufficienti?»

«Ho cinquemila stipule datemi dalla Sacerdotessa Elfane e da Manaolo.»

«Ah! capisco. Allora erano proprio ansiosi di andarsene.»

«Mi hanno fatto quell’impressione.»

Hableyat alzò bruscamente gli occhi. «C’è un’emozione repressa nella tua voce.»

«Il Druido Manaolo suscita in me una grandissima avversione.»

«Ah!» disse Hableyat strizzandogli maliziosamente l’occhio. «E la Sacerdotessa Elfane suscita sentimenti del tutto opposti? Oh, giovincelli! Se solo potessi riavere la mia giovinezza, allora sì che mi divertirei!»

Con toni precisi, Joe disse: «I miei piani futuri non prevedono né Manaolo né Elfane.»

«Solo il futuro può dirlo,» intonò Hableyat. «Adesso allora… al terminale.»


Non ci fu alcun segnale che Joe potesse percepire, ma dopo tre minuti, durante i quali Hableyat se ne stette appollaiato in silenzio sulla sedia, un’aeromobile pesante e bene equipaggiata scivolò lungo l’appezzamento di terreno. Joe andò cautamente alla finestra e guardò la fiancata del palazzo. Il sole era basso. Le ombre delle varie balconate, dei piani di atterraggio, e degli intagli, correvano oblique sulla pietra, creando una confusione di forme nella quale avrebbe potuto nascondersi qualsiasi cosa.

Sotto c’era il garage, e il suo cubicolo. Non c’era niente di valore là dentro; le poche centinaia di stipule che aveva risparmiato dal suo salario di autista poteva lasciarle dov’erano. Più oltre sorgeva l’Albero, una massa gigantesca che la sua vista non poteva comprendere in un solo sguardo. Per vederlo da un’estremità all’altra doveva girare la testa da destra a sinistra. La forma era incerta da quella distanza ravvicinata di circa un miglio. Alcuni rami ondeggianti carichi di foglie sovrastavano il palazzo.

Hableyat lo raggiunse alla finestra. «Continua a crescere. Un giorno crescerà oltre la sua forza, o forse oltre la forza del suolo. Si piegherà e cadrà con il rumore più terribile mai udito sul pianeta. E il suo crollo sarà il giorno del giudizio per i Druidi.»

Guardò attentamente la facciata del palazzo dall’alto in basso. «Adesso cammina in fretta. Una volta sull’aeromobile sei al sicuro da qualunque tiratore nascosto.»

Di nuovo Joe frugò le ombre con lo sguardo. Poi cautamente uscì sul terreno. Sembrava molto vasto, molto vuoto. Lo attraversò fino all’aeromobile, con un prurito sotto la pelle. Entrò dalla porta e l’aeromobile vacillò sotto il suo peso. Hableyat balzò dentro accanto a lui.

«Molto bene, Juliam,» disse Hableyat all’autista, un vecchissimo Mang con gli occhi tristi, la faccia piena di rughe, e i capelli ormai chiazzati di marrone per l’età. «Partiamo per il terminale. Piattaforma Quattro, credo. Il Belsaurion per Giunzione e Ballenkarch.»

Juliam schiacciò il pedale elevatore. L’aeromobile si sollevò e partì. Il palazzo si rimpicciolì sotto di loro, e si alzarono lungo il tronco bigio dell’Albero, fin sotto il primo ombrello di fronde.

L’aria di Kyril di solito era densa di caligine fumosa, ma quel giorno il sole obliquo splendeva frizzante attraverso un’atmosfera perfettamente limpida. La città di Divinal — un’eterogeneità di palazzi, uffici amministrativi, templi, alcuni magazzini bassi — era completamente raccolta tra le radici dell’Albero, e lasciò subito spazio a una pianura dolcemente ondulata, affollata di fattorie e villaggi.

Le strade convergevano da ogni direzione verso l’Albero, e lungo queste strade camminavano scialbi Laici, uomini e donne, in pellegrinaggio. Joe li aveva osservati una volta entrare nella Fenditura Ordinale, una breccia tra due grandi radici arcuate. Figure minuscole, come formiche, si soffermavano, si voltavano a guardare ancora una volta la terra grigia prima di proseguire all’interno dell’Albero. Ogni giorno arrivavano a migliaia da tutti gli angoli di Kyril, vecchi e giovani. Uomini smunti dagli occhi scuri, infiammati per la pace dell’Albero.

Attraversarono una pianura coperta di piccole capsule nere. Su un lato un gruppo di uomini nudi eseguiva esercizi di callistenia, saltando e ruotando in perfetto tempismo.

«Lì puoi vedere la flotta spaziale dei Druidi,» disse Hableyat.

Joe lo guardò bruscamente per vedere se stesse indulgendo al sarcasmo, ma la faccia grassoccia era immobile.

«Sono ben addestrati per la difesa di Kyril, che significa per la difesa dell’Albero. Naturalmente chiunque desideri distruggere i Druidi con la forza penserebbe di distruggere l’Albero, demolendo così il morale dei nativi. Ma per distruggere l’Albero una flotta dovrebbe arrivare relativamente vicina a Kyril, diciamo entro centomila miglia, per un bombardamento appena accurato.

«I Druidi mantengono uno schermo di quelle navicelle alla distanza di un milione di miglia. Sono costruite rozzamente, ma sono molto veloci e agili. Ognuna è munita di una testata nucleare; in realtà sono navicelle suicide, e fino a oggi è comunemente riconosciuta la loro efficacia nella difesa dell’Albero.»

Joe restò un momento in silenzio. Poi disse: «Queste navicelle vengono costruite qui, su Kyril?»

«Sono piuttosto semplici,» disse Hableyat con velato disprezzo. «Un guscio, una propulsione, un serbatoio di ossigeno. Non ci si aspetta certo che i soldati Laici esigano o apprezzino la comodità. C’è un gran numero di queste navicelle. Perché no? Il lavoro è gratuito. L’idea del costo non ha significato per i Druidi. Credo che l’equipaggiamento dei comandi sia importato da Beland, e così il dispositivo di innesto. Per il resto le navicelle vengono costruite a mano qui su Kyril.»

Il campo pieno di navicelle grandi come scarafaggi si inclinò e svanì a poppa. Di fronte apparve il muro di trenta piedi che circondava il terminale. La lunga stazione di vetro si stendeva su un lato del rettangolo. Su un altro lato c’era una fila di palazzi sontuosi, gli uffici consolari degli altri pianeti.

Dall’altra parte del campo, nella quarta di cinque campate, era fermo un vascello di medie dimensioni adibito al doppio carico di merci e passeggeri, e Joe vide che era pronto al decollo. Il boccaporto di carico era stato chiuso con rinforzi, i vagoncini di carico stavano tornando indietro e solo una passerella collegava la nave alla terra.

Juliam sistemò l’aeromobile in un’area di parcheggio sul lato della stazione. Hableyat posò una mano sul braccio di Joe.

«Forse, per la tua stessa sicurezza, potrebbe essere più sensato che provveda io al tuo passaggio. Il Tearca potrebbe avere architettato qualche guaio. Non si sa mai di cosa si interessano questi imprevedibili Druidi.» Saltò giù dall’aeromobile. «Allora meglio che tu resti qui, fuori vista; io torno subito.»

«Ma il denaro per il passaggio…»

«Una sciocchezza, una sciocchezza,» disse Hableyat. «Il mio governo ha più denaro di quanto riesca a spenderne. Permettimi di investire duemila stipule in un fondo di buona volontà a favore della nostra leggendaria Madre Terra.»


Joe si rilassò dubbioso sul sedile. Duemila stipule erano duemila stipule e l’avrebbero aiutato a ritornare sulla Terra. Se pensava di farlo sentire obbligato, Hableyat si sbagliava. Si agitò sul sedile. Meglio scendere mentre la via era libera. Cose come quella non accadevano senza qualche spiacevole equivoco. Alzò una mano verso la porta e incontrò lo sguardo di Juliam. Juliam scosse la testa.

«No, no, signore. Il Signore Hableyat sarà subito di ritorno e i suoi desideri erano che tu rimanessi fuori vista.»

In uno spasmo di sfida, Joe disse: «Hableyat può attendere.»

Balzò giù dall’aeromobile e ignorando la voce querula di Juliam si diresse verso la stazione. La sua rabbia si placò camminando, e nella livrea verde bianca e nera si sentì eccessivamente appariscente. Hableyat aveva la scortese abitudine di avere costantemente ragione.

Un’insegna sul marciapiede diceva: Vestiti di tutti i mondi. Cambiati qui. Arriva alla tua destinazione abbigliato alla moda.

Joe entrò. Attraverso la vetrina avrebbe visto Hableyat lasciare la stazione per ritornare all’aeromobile. Il proprietario aspettava quietamente i suoi ordini, un uomo alto e ossuto di una razza imprecisata con una faccia ampia e cerulea e grandi occhi schietti azzurro pallido.

«Il Signore desidera?» chiese in un tono uniforme che ignorava la livrea da servitore che Joe si stava levando.

«Sbarazzarmi di questi. Dammi qualcosa di adatto per Ballenkarch.»

Il negoziante si inchinò. Osservò gravemente la figura di Joe, andò a un attaccapanni, e gli portò un completo che gli fece sbattere gli occhi: pantaloni rossi, una giacca azzurra attillata e senza maniche, una voluminosa blusa bianca. Dubbioso, Joe disse: «Non è esattamente… non è inferiore, vero?»

«È un abbigliamento tipico di Ballenkarch, Signore, tipico cioè tra i clan più civilizzati. I selvaggi indossano pelli e sacchi.» Rigirò il completo per mostrarglielo davanti e dietro. Per quanto semplice, non indica alcun rango particolare. Un valvassore porta una spada al fianco sinistro. Un grande della Corte di Vail-Alan indossa una fascia nera in aggiunta. Gli abiti di Ballenkarch, Signore, sono contraddistinti da una vistosità piuttosto barbarica.»

«Dammi un semplice completo da viaggio grigio,» disse Joe. «Mi cambierò nello stile di Ballenkarch quando arriverò.»

«Come desideri, Signore.»

Il completo da viaggio era più di suo gusto. Con profonda soddisfazione Joe chiuse le cerniere lampo lungo le cuciture, coprì le caviglie e i polsi, allacciò la cintura.

«E un elmo di che stile, Signore?»

Joe fece una smorfia. Gli elmi erano comme il faut nell’ordine sociale di Kyril. A laici, zotici, e servi era negata l’affettazione di un elmo complesso e luccicante. Indicò un copricapo basso, di metallo lucente, con una tesa vasta e inclinata. «Quello, se va bene.»

Il negoziante piegò il corpo quasi in una U capovolta. «Sì, tua Eminenza.»

Joe gli lanciò un’occhiataccia, poi osservò l’elmo che aveva scelto, un bell’elmetto luccicante, utile solo come copricapo decorativo. Era alquanto simile a quello indossato dall’Ecclesiarca Manaolo. Alzò le spalle, se lo calcò in testa, trasferì il contenuto delle tasche: pistola, denaro, portafogli con i documenti di identificazione. «Quanto ti devo?»

«Duecento stipule, tua Eminenza.»

Joe gli diede un paio di banconote, uscì sotto il portico. Mentre camminava si rese conto che il suo passo era più fermo, che in effetti si stava pavoneggiando. Il cambiamento dalla livrea con il completo grigio e il borioso elmo aveva trasformato il suo umore. Stato d’animo, fiducia in se stesso, voglia di vincere, erano distinzioni assolutamente intangibili, eppure in definitiva determinanti. E adesso doveva trovare Hableyat.

E Hableyat era proprio davanti a lui, e camminava sottobraccio a un Mang in uniforme verde azzurra e gialla; parlavano in modo molto serio ed espressivo. Joe desiderò di essere in grado di leggere sulle labbra. I due si fermarono alla rampa che scendeva nel campo. L’ufficiale Mang si inchinò brevemente, si girò, e tornò a passo di marcia sotto il portico. Hableyat scese lemme lemme la rampa, e cominciò ad attraversare il campo.

Joe si scoprì a pensare che gli sarebbe piaciuto sentire cosa avrebbe detto Juliam, e quali sarebbero stati i commenti di Hableyat sulla sua assenza. Se correva fino in fondo al portico, saltava oltre il muro, e faceva di corsa il giro de! parcheggio, sarebbe riuscito ad avvicinarsi all’aeromobile da dietro, probabilmente non visto.

Facendo seguire l’azione al pensiero si voltò e corse per tutta la lunghezza del terrazzo, incurante degli sguardi perplessi. Si calò su! tappeto erboso verde azzurro e proseguì nascosto vicino al muro, tenendo il maggior numero possibile di velivoli tra sé e il rilassato Hableyat. Raggiunse l’aeromobile, e si buttò carponi senza essere visto da Juliam, che stava invece fissando Hableyat.

Juliam fece scorrere indietro la porta. Hableyat disse allegramente: «E adesso, amico mio, ogni cosa è…» Si bloccò. Poi si rivolse aspramente a Juliam. «Dov’è? Dov’è andato?»

«È andato via,» disse Juliam, «poco dopo di te.»

Hableyat borbottò una sillaba mordace. «La confusa imprevedibilità dell’uomo! Gli ho dato precise istruzioni di rimanere qui.»

«Gli ho rammentato le tue istruzioni,» disse Juliam. «Mi ha ignorato.»

«È questa la difficoltà,» disse Hableyat, «nel trattare con uomini di intelletto limitato. Non ci si può fidare che agiscano logicamente. Mille volte preferirei lottare con un genio. I suoi metodi, almeno, sarebbero prevedibili… Se Erra Kametin lo vede tutti i miei piani falliranno. Oh,» gemette, «quello sciocco impetuoso e ostinato!»

Juliam tirò su col naso ma tenne a freno la lingua. Hableyat parlò in tono incisivo: «Vai, guarda sotto il portico. Se lo vedi rimandalo qui in fretta. Io aspetterò qui. Poi telefona a Erra Kametin… sarà al Consolato. Identificati come Aglom Quattordici. Ti farà altre domande, e tu gli rivelerai che eri un agente di Empoing, che adesso è morto, e che hai importante informazioni per le sue orecchie.

«Vorrà che tu ti presenti di persona, ma gli dirai che temi la controffensiva dei Druidi. Gli dirai di avere definitivamente identificato il corriere, il quale viaggerà con l’oggetto in questione sul Belsaurion, e gli darai una veloce descrizione di quest’uomo. Poi torna qui.»

«Sì, Signore.»

Joe udì lo strascichio dei piedi di Juliam. Si ritrasse furtivamente, si nascose dietro una lunga berlina azzurra, si alzò in piedi. Guardò Juliam attraversare il campo, poi per un’altra strada ritornò all’aeromobile ed entrò.

Gli occhi di Hableyat scintillavano, ma parlò con voce indifferente. «Eccoti qui, giovanotto. Dove sei stato? Ah, abiti nuovi, a quanto vedo. Molto prudente, molto saggio, anche se ovviamente era rischioso farsi vedere sotto il portico.»

Infilò la mano in tasca, ne tolse una busta. «Ecco il tuo biglietto, Ballenkarch via Giunzione.»

«Giunzione? Cosa o dove è Giunzione?»

Hableyat congiunse la punta delle dita, e con esagerata puntigliosità disse: «Kyril, Mangtse e Ballenkarch, come forse ben sai, formano un triangolo approssimativamente equilatero. Giunzione è un satellite artificiale nel suo centro. È situato anche lungo la linea di traffico Mangtse — Thombol — Beland, sulla perpendicolare al passaggio del Sistema Esterno di Frums, e costituisce così una comoda stazione secondaria o punto di trasferimento.

«Per molti aspetti è un luogo interessante: il metodo di costruzione è unico, gli sforzi per intrattenere i visitatori raggiungono gli eccessi, i famosi Giardini di Giunzione, la natura cosmopolita della gente che vi si incontra. Sono certo che lo troverai un viaggio interessante.»

«Immagino proprio di sì,» disse Joe.

«Ci saranno spie a bordo, veramente ce ne sono ovunque. Non si può fare un passo senza inciampare in una spia. Le loro istruzioni al tuo riguardo possono o meno comprendere l’esercizio della violenza. Io ti consiglio la massima vigilanza, anche se, come ben saprai, un assassino abile non può essere opportunamente evitato.»

Con tetro umorismo, Joe disse: «Ho una pistola.»

Hableyat incrociò il suo sguardo con limpida innocenza. «Bene, eccellente. Ora, la nave può partire in qualsiasi momento. È meglio che tu salga a bordo. Io non verrò con te, ma ti augurerò buona fortuna da qui.»

Joe saltò a terra. «Grazie per i tuoi sforzi,» disse pacatamente.

Hableyat levò una mano per ammonirlo. «Non ringraziarmi, prego. Sono contento di poter aiutare un mio simile quando è nei guai. Tuttavia c’è un piccolo servigio che vorrei tu mi rendessi. Ho promesso a un amico, il Principe di Ballenkarch, un esemplare dell’incantevole erica di Kyril, e forse vorrai consegnargli questo piccolo vaso con i miei omaggi.»

Hableyat gli mostrò una pianta in un vaso di terracotta. «Te la metto in questa borsa. Ti prego di fare attenzione. Innaffiala una volta alla settimana, se vuoi.»

Joe accettò la pianta nel vaso. Il fischio della sirena della nave risuonò per tutto il campo. «Svelto, allora,» disse Hableyat. «Forse ci rivedremo un giorno.»

«Addio,» disse Joe. Si girò e si diresse verso la nave, ansioso di imbarcarsi.

I passeggeri ritardatari provenienti dalla stazione stavano attraversando il campo. Joe notò una coppia lontana non più di cinquanta piedi — un giovane alto dalle spalle larghe con la faccia di un satiro maligno, una ragazza snella dai capelli scuri — : Manaolo e la Sacerdotessa Elfane.


La struttura a telai della piattaforma di imbarco era una rete nera contro il cielo nuvoloso. Joe salì la consunta scala di legno fino al ponte superiore. Dietro a lui non c’era nessuno. Nessuno lo osservava. Infilò la mano sotto un travetto a L e appoggiò la pianta nel vaso sulla flangia, fuori vista. Qualunque cosa fosse, era pericolosa. Non voleva averci nulla a che fare. Gli equivoci di Hableyat potevano costare cari.

Joe sorrise. «Intelletto limitato» e «sciocco impetuoso e ostinato». C’era un antico aforisma sul fatto che chi origlia non sente parlare bene di sé: sembrava applicarsi alla perfezione al suo caso.

Sono stato chiamato in modi peggiori, pensò Joe. E quando arriverò su Ballenkarch non farà nessuna differenza…

Davanti a lui Manaolo e Elfane attraversarono la piattaforma, sempre diritti con quella determinazione fissa e consapevole caratteristica dei Druidi. Salirono la passerella, svoltarono nella nave. Joe fece una smorfia. Le gambe snelle di Elfane, che si muovevano ammiccando sulle scale, gli avevano mandato brividi agrodolci lungo i nervi. E la schiena orgogliosa di Manaolo… era come prendere due droghe con effetti esattamente opposti.

Joe maledisse il vecchio Hableyat. Immaginava davvero che sarebbe stato così ossessionato dall’infatuazione per la Sacerdotessa Elfane da sfidare Manaolo? Joe sbuffò. Vecchio ipocrita troppo maturo! In primo luogo non aveva la minima indicazione che Elfane potesse considerarlo un possibile amante. E dopo che Manaolo le aveva messo le mani addosso… gli si contrassero i muscoli dello stomaco. Sempre che, si corresse doverosamente, la sua fedeltà a Margaret gli permettesse tanto interesse. Aveva abbastanza problemi da solo senza attirarsene altri.

Alla passerella c’era uno steward in un’uniforme rossa attillata. File di alamari d’oro trilobati gli decoravano le gambe, all’orecchio portava attaccata una radio, e il microfono era premuto contro la gola. Era membro di una razza che Joe non conosceva: capelli bianchi, articolazioni sciolte, occhi verdi come smeraldi.

Joe si sentì crescere dentro la tensione; se il Tearca sospettava che intendeva andarsene da quel pianeta, sarebbe stato fermato.

Lo steward guardò il suo biglietto, annuì cortesemente, gli fece cenno di accomodarsi. Joe passò dalla passerella al nero scafo convesso, entrando nel doppio portello in ombra. A una scrivania provvisoria sedeva il commissario di bordo, un altro uomo della razza con i capelli bianchi. Come lo steward, indossava un completo scarlatto che sembrava una seconda pelle. In più portava spalline di vetro e uno zucchetto scarlatto.

Tese a Joe un registro. «Il tuo nome e l’impronta del pollice, prego. Ci tolgono ogni responsabilità in caso di incidenti che avvengano durante il viaggio.»

Joe firmò, premette il pollice sullo spazio indicato mentre il commissario di bordo esaminava il suo biglietto. «Passaggio di prima classe, Cabina Quattordici. Bagaglio, Eminenza?»

«Non ne ho,» disse Joe. «Immagino che ci sia un negozio a bordo, dove posso comprare della biancheria.»

«Sì, tua Eminenza, sì, certo. Ora, se vuoi gentilmente accedere alla tua cabina, uno steward ti assicurerà per il decollo.»

Joe diede un’occhiata al registro che aveva firmato. Immediatamente prima della sua firma lesse in una scrittura alta e spigolosa Druido Manaolo kia Benlodieth, e poi in una grafia rotonda e inclinata verso sinistra Alnietho kia Benlodieth. Aveva firmato come sua moglie — Joe si morsicò un labbro. Manaolo era assegnato alla cabina 12, Elfane alla 13.

In sé non era una cosa strana. Quelle navi da carico e passeggeri, a differenza dei grandi postali solo per passeggeri che partivano dalla Terra in ogni direzione, offrivano poche comodità per i viaggiatori. Le cosiddette cabine erano degli stanzini con un’amaca, dei cassetti, e minuscoli servizi igienici pieghevoli.

Uno steward nell’uniforme attillata, questa volta di colore azzurro lucciola, disse: «Da questa parte, Signore Smith.»

Per incutere rispetto tutto quello di cui un uomo aveva bisogno era un cappello di latta, pensò Joe.

Seguì lo steward oltre la stiva, dove i passeggeri di terza classe erano già avvolti nelle loro amache immersi nel sonno ipnotico, poi attraversò una stanza che univa bar e ristorante. La parete di fronte mostrava due file di porte, con una balconata reticolale sotto la seconda fila. La numero 14 era l’ultima porta della fila superiore.

Mentre lo steward guidava Joe oltre la numero 13, la porta venne spinta da parte, e Manaolo uscì prepotentemente. Aveva il volto pallido, gli occhi spalancati in una curiosa forma ellittica a mostrare il disco intero della retina nerissima. Era evidentemente in preda a una furia cieca. Scansò Joe con una spallata, aprì la porta della numero 12, ed entrò.

Joe si allontanò lentamente dalla ringhiera. Per un istante tutto il buon senso, tutta la razionalità, lo abbandonarono. Era una sensazione curiosa, mai provata prima. Un’avversione illimitata ed elementale che nemmeno Harry Creath aveva mai suscitato. Si girò piano sulla passerella.

Elfane era sulla porta della sua cabina. Si era tolta il mantello azzurro, e indossava il morbido abito bianco: una ragazza dai capelli scuri, il volto sottile, mobile e vivace, immusonito nella rabbia. I suoi occhi incontrarono quelli di Joe. Per un attimo si fissarono negli occhi, i loro volti a due passi di distanza.

L’odio nel cuore di Joe venne sostituito da un’altra emozione, una meravigliosa elevazione nell’aria pulita, una delizia, un fermento. Gli occhi di lei si contrassero stupiti, socchiuse la bocca come per parlare. Joe si domandò con una strana sensazione di cedimento se l’avesse riconosciuto. I loro precedenti contatti erano stati così noncuranti, così impersonali. Con gli abiti nuovi era un uomo nuovo.

Elfane si girò e chiuse la porta. Joe proseguì fino al numero 14, dove lo steward lo chiuse con una rete nell’amaca per il decollo.


Joe si svegliò dal sonno ipnotico. Disse: «Qualunque cosa tu stia cercando, non ce l’ho. Hableyat ti ha dato una falsa dritta.»

L’uomo nella cabina restò immobile, con la schiena rivolta a Joe.

Joe disse ancora: «Non muoverti, ti ho puntato contro la pistola.»

Si alzò di scatto dall’amaca ma la rete lo trattenne. Al rumore dei suoi sforzi l’intruso si gettò uno sguardo al disopra della spalla, abbassò la testa, e scivolò fuori dalla cabina come un fantasma.

Joe protestò aspramente, ma non udì più alcun suono. Gettando da parte la rete corse alla porta, guardò fuori nel salone. Era deserto.

Tornò indietro e chiuse la porta. Essendosi appena svegliato dal sonno ipnotico non aveva avuto una chiara visione del suo visitatore: un uomo basso e tarchiato, che si muoveva su articolazioni disposte ad angoli insolitamente ottusi. Aveva scorto fugacemente la faccia dell’Uomo, ma tutto quello che Joe rammentava era un colore giallognolo, come se il sangue che scorreva sotto la pelle fosse giallo vivo. Un Mang.

Adesso si comincia, pensò Joe. Dannato Hableyat, farmi fare da specchietto per le allodole! Prese in considerazione di fare rapporto al capitano, che non essendo né Druido né Mang poteva non essere comprensivo nei riguardi di chi non rispettava la legge. Ma decise di no. Non aveva niente da riferire, soltanto un intruso nella sua cabina. Il capitano difficilmente avrebbe sottoposto tutti i passeggeri alla psicolettura per scoprire un ladruncolo.

Joe si sfregò la faccia, sbadigliò. Di nuovo fuori nello spazio, per l’ultima tappa del suo viaggio. A meno che, naturalmente, Harry non se ne fosse andato altrove.

Alzò la protezione antiraggi davanti al portello, e guardò nello spazio. Più avanti, in direzione del volo, uno schermo respingente assorbiva le radiazioni che la nave oltrepassava o incrociava. Altrimenti l’energia, aumentata in frequenza e durezza dall’azione Doppler dovuta alla velocità della nave, l’avrebbe ridotto istantaneamente in cenere.

La luce separata da un fascio gli mostrava le stelle più o meno alla loro grandezza normale, e la prospettiva cambiava e ruotava sotto i suoi occhi, mentre le stelle fluttuavano, vorticavano, andavano alla deriva come granellini di polvere in un raggio di luce. Verso poppa l’oscurità era totale: nessuna luce poteva raggiungere il vascello. Joe lasciò cadere lo scuretto. La scena gli era familiare a sufficienza. Adesso avrebbe fatto un bagno, si sarebbe vestito, avrebbe mangiato…

Guardandosi allo specchio notò un’ombra di barba ispida. Il rasoio era su uno scaffale di vetro sopra al lavabo smontabile. Joe allungò la mano, la fermò di scatto a un pollice dal rasoio. Quando era entrato per la prima volta nella cabina era appeso a un gancio sulla paratia.

Joe si allontanò piano dalla parete, con i nervi a fior di pelle. Di certo il suo visitatore non si era fatto la barba. Abbassò gli occhi sul pavimento, e vide un tappetino di ottone ritorto e intrecciato. Si chinò, e notò un pezzo di filo di rame che univa il tappetino al tubo di scolo.

Con cautela raccolse il rasoio in una scarpa, e lo portò alla cuccetta. Una fascia di metallo circondava l’impugnatura, con una punta che entrava nella scatola vicino all’unità che prendeva la corrente dal campo generale della nave.

A lungo andare, pensò Joe, doveva ringraziare Hableyat, che l’aveva così gentilmente salvato dal Tearca e l’aveva messo a bordo del Belsaurion con una pianta in un vaso.

Joe suonò per lo steward. Arrivò una giovane donna, coi capelli bianchi come gli altri membri dell’equipaggio. Indossava un indumento corto e multicolore arancione e azzurro che la copriva come uno strato di vernice. Joe buttò il rasoio nella fodera di un cuscino. Le disse: «Porta questo all’elettricista. È molto pericoloso, ha un corto circuito. Non toccarlo. Non lasciare che nessuno lo tocchi. E… vuoi per favore portarmi un altro rasoio?»

«Sì, Signore.» E se ne andò.

Finalmente lavato, rasato e ben vestito per quanto gli permetteva il suo limitato guardaroba, se ne andò a zonzo per il salone, a grandi passi nella gravità ridotta della nave. Quattro o cinque uomini e donne sedevano nel salottino lungo una parete, impegnati in una circospetta conversazione.

Joe restò un momento a guardare. Creature peculiari e artificiali, pensò, gli esseri umani dell’Era Spaziale, fragili e così completamente formali che la conversazione non era altro che uno scambio di levigate affettazioni. Così sofisticati che niente poteva scandalizzarli tanto quanto l’ingenua sincerità.


Tre Mang sedevano nel gruppo: due uomini, uno vecchio e l’altro giovane, entrambi nelle ricche uniformi della fazione Rossa di Mangtse; e una giovane donna Mang di una bellezza un po’ pesante, evidentemente la moglie del giovane ufficiale. L’altra coppia, come le creature che gestivano la nave, apparteneva a una razza di umani devianti che Joe non conosceva. Erano come le illustrazioni che aveva visto in un libro di fate, da bambino: creature fragili ed eteree, con gli occhi grandi, la pelle sottile, vestite di abiti strani e ampi.

Joe scese le scale fino al ponte principale e apparve un ufficiale della nave, presumibilmente il capo degli steward. Facendo un gesto cortese in direzione di Joe, parlò rivolgendosi a tutto il gruppo. «Vi presento il Signore Joe Smith del pianeta…» esitò, «…del pianeta Terra.»

Si girò verso gli altri del gruppo. «Erru Kametin» — il più vecchio dei due ufficiali Mang — «Erru Ex Amma e Erritu Thi Amma, di Mangtse.» Si girò verso le creature simili a fate. «Prater Luli Hassimassa e la sua signora Hermina di Cil.»

Joe si inchinò educatamente, si sedette a un’estremità del salottino. Il giovane ufficiale Mang, Erru Ex Amma, chiese incuriosito: «Ho capito bene che rivendichi la Terra come tuo pianeta madre?»

«Sì,» disse Joe quasi con violenza. «Io sono nato nel continente conosciuto come Nord America, dove è stata costruita la prima nave che ha lasciato la Terra.»

«Strano,» mormorò il Mang, studiando Joe con un’espressione prossima all’incredulità. «Ho sempre considerato le chiacchiere sulla Terra una superstizione nata nello spazio, come le Lune del Paradiso e la Stella Drago.»

«Posso assicurarvi che la Terra non è una leggenda,» disse Joe.

«In qualche modo nel corso delle migrazioni verso altri pianeti, tra le guerre e i programmi planetari di propaganda, l’esistenza reale della Terra è stata messa in discussione. E noi viaggiamo molto raramente in questa parte esterna della galassia.»

La donna fata parlò con un’acuta voce musicale che ben si addiceva al suo aspetto fragile come una farfalla notturna. «E sostieni che noi tutti — tu, i Mang, noi Cil, i Beland che gestiscono la nave, i Druidi, i Frunsan, i Thabliti — che tutti noi in definitiva siamo derivati dal ceppo terrestre?»

«Questa è la verità.»

Una voce metallica disse: «Ciò non è completamente vero. I Druidi sono stati il primo frutto dell’Albero della Vita. Questa è la dottrina stabilita, e ogni altra asserzione non accompagnata da prove è falsa.»

Con voce attenta, Joe disse: «Hai diritto alla tua credenza.»

Lo steward si fece avanti. «Ecclesiarca Manaolo kia Benlodieth di Kyril.»

Ci fu un momento di silenzio dopo le presentazioni. Poi Manaolo disse: «Non solo ho il diritto alla mia credenza, ma devo protestare contro la propagazione di idee erronee.»

«Anche questo è un tuo privilegio,» disse Joe. «Protesta quanto ti pare.»

Incontrò gli occhi neri di Manaolo, e dietro a quegli occhi gli parve di non vedere alcuna umana comprensione, alcun pensiero, solo emozione e volontà ostinata.

Alle spalle di Manaolo notò un movimento; era la Sacerdotessa Elfane. Venne presentata alla compagnia, e senza parlare si sedette accanto a Hermina di Cil. L’atmosfera adesso era cambiata, e sebbene non facesse altro che mormorare arguzie con Hermina, la sua presenza dava un gusto piccante, una scintilla, un aroma speziato…

Joe contò: otto con lui, quattordici cabine, mancavano ancora sei passeggeri. Uno degli altri tredici aveva cercato di ucciderlo — un Mang.

Due Druidi uscirono dalle cabine 2 e 3, e vennero presentati: uomini anziani, con la faccia da pecore, in viaggio per compiere una missione su Ballenkarch. Si portavano appresso un altare portatile, che subito rizzarono in un angolo del salone, e cominciarono una serie di riti silenziosi davanti a una piccola rappresentazione dell’Albero. Manaolo li osservò senza interesse per un momento o due, poi distolse lo sguardo.

Ne mancano quattro, pensò Joe.

Lo steward annunciò il primo pasto del giorno, e in quel momento un’altra coppia uscì dalle cabine, due Mang in abbigliamento non militare, avvolti in ampie vesti di seta colorata, con leggeri mantelli e corsaletti ingioiellati. Si inchinarono formalmente alla compagnia, e poiché lo steward stava preparando il tavolo pieghevole, presero posto senza venire presentati. Cinque Mang, pensò Joe. Due soldati, due civili, una donna. Due cabine ancora celavano i loro occupanti.


La cabina numero 10 si aprì, e una donna anziana estremamente alta uscì lentamente sulla balconata. Era calva come un uovo, e la sommità della testa era piatta. Aveva un naso grande e ossuto, occhi neri e sporgenti. Indossava una mantellina nera, e su ogni dito di entrambe le mani portava un gioiello enorme.

Uno in meno. La porta della cabina numero 6 rimaneva chiusa.

Il pasto venne servito da un menu sorprendentemente vario, per accontentare i palati di molte razze. Joe, nel suo viaggio di pianeta in pianeta attraverso la galassia, aveva necessariamente smesso di fare lo schizzinoso. Aveva mangiato materia organica di ogni concepibile colore, consistenza, odore e sapore.

Ad alcuni elementi familiari sapeva dare un nome — felci, frutti, funghi, radici, rettili, insetti, pesci, molluschi, lumache, uova, sacchi sporiferi, mammiferi e uccelli — ma non era in grado di definire né di riconoscere almeno altrettanti elementi, la cui unica pretesa sul suo appetito stava nell’esempio altrui.

Il suo posto a tavola era proprio di fronte a Manaolo e Elfane. Notò che non parlavano, e più di una volta sentì su di sé gli occhi di lei, che interrogavano e analizzavano, a metà furtivi. È sicura di avermi già visto, pensò Joe, ma non si ricorda dove.

Dopo il pasto i passeggeri si separarono. Manaolo si ritirò nella palestra dietro il salone. I cinque Mang si sedettero a giocare con bastoncini di diversi colori. I Cil salirono alla passeggiata lungo la nera nervatura della nave. L’alta diavolessa si sedette in poltrona, fissando inespressiva nel vuoto.

Anche a Joe sarebbe piaciuto fare un po’ di esercizio in palestra, ma la presenza di Manaolo era un deterrente. Scelse una pellicola dalla biblioteca della nave e si preparò a ritornare nella sua stanza.

La Sacerdotessa Elfane gli disse con voce sommessa: «Signore Smith, vorrei parlarti.»

«Certamente.»

«Vuoi venire nella mia stanza?»

Joe si guardò sopra la spalla. «Tuo marito non ne sarà infastidito?»

«Marito?» Riuscì a mettere nella voce un’enorme quantità di disprezzo e adirato disgusto. «La relazione è puramente nominale.» Si fermò e guardò altrove, apparentemente rammaricandosi delle parole appena dette. Poi continuò con voce fredda: «Vorrei parlarti.» Si voltò e si diresse verso la sua cabina.

Joe ridacchiò piano. Quella bisbetica non conosceva altro mondo al di fuori di quello nel suo cervello, non concepiva che potessero esistere altre volontà opposte alla sua. Adesso era divertente, ma che demonio quando fosse invecchiata! Gli venne in mente che sarebbe stata un’esperienza piacevole perdersi con lei su un pianeta disabitato, domare la sua pervicacia, schiudere la sua coscienza.

La seguì con comodo nella sua cabina. Elfane si sedette sulla cuccetta. Joe prese posto sulla panca. «Allora?»

«Hai detto che la tua patria è il pianeta Terra, la mitica Terra. È vero?»

«Sì, è vero.»

«Dov’è la Terra?»

«Verso il Centro, forse a un migliaio di anni luce.»

«Com’è la Terra?» Elfane si sporse in avanti, con un gomito sul ginocchio, il mento nell’incavo della mano, osservandolo con occhi colmi di interesse.

Joe, improvvisamente turbato, alzò le spalle. «Mi fai una domanda alla quale non posso rispondere con una parola. La Terra è un mondo molto vecchio. Ovunque ci sono edifici antichi, città antiche, tradizioni. In Egitto sorgono ancora le grandi piramidi, costruite dai primi uomini civilizzati. In Inghilterra un circolo di pietre scheggiate, Stonehenge, è la reliquia di una razza quasi altrettanto vecchia. Nelle caverne di Francia e Spagna, in lunghi cunicoli sottoterra, ci sono disegni di animali, graffiati da uomini a malapena usciti dalla stessa condizione delle bestie che cacciavano.»


Elfane trasse un profondo respiro. «Ma le vostre città, la vostra civiltà, sono diverse dalle nostre?»

Joe assunse un’espressione saggia. «Naturalmente sono diverse. Non esistono due pianeti uguali. La nostra è una cultura antica, stabile, stagionata, benevola. Le nostre razze si sono fuse, e io sono il risultato della loro fusione. In queste regioni esterne gli uomini sono stati esclusi e separati, e si sono differenziati di nuovo. Voi Druidi, che fisicamente siete molto vicini a noi, corrispondete all’antica razza caucasica del ramo mediterraneo.»

«Ma non avete un Grande Dio, un Albero della Vita?» «Attualmente,» disse Joe, «sulla Terra non c’è una religione organizzata. Siamo liberi di esprimere la nostra gioia di essere vivi in qualunque modo ci piaccia. Alcuni riveriscono un creatore cosmico, altri riconoscono semplicemente le leggi fisiche che controllano l’universo, ma il risultato è quasi identico. L’adorazione di feticci, antropoidi, animali o vegetali — come il vostro Albero — si è estinta da molto tempo.»


Elfane si drizzò a sedere di scatto. «Tu… tu deridi la nostra sacra istituzione.»

«Spiacente.»

La ragazza si alzò in piedi, poi si sedette, ingoiando la collera. «Tu mi interessi per molti aspetti,» disse risentita, come per giustificare a se stessa la propria tolleranza. «Ho la particolare sensazione di conoscerti.»

Joe, per un impulso che rasentava il sadismo, disse: «Ero lo chauffeur di tuo padre. Ieri tu e tuo… marito avevate in mente di uccidermi.»

Elfane rimase paralizzata in una rigidità simile a stupore, e lo fissò con la bocca socchiusa. Poi si rilassò, rabbrividì, si ritrasse. «Tu… sei tu…»

Ma Joe scorse qualcosa dietro di lei, su uno scaffale sopra la cuccetta: una pianta in un vaso, quasi identica a quella che lui aveva lasciato su Kyril.

Elfane vide la direzione del suo sguardo. Chiuse d’un tratto la bocca. Poi ansimò: «Allora tu sai!» Era quasi un sussurro. «Uccidimi, distruggimi, sono stanca della vita!»

Si alzò in piedi, allargando le braccia indifesa. Joe si alzò, mosse un passo verso di lei. Era come un sogno, un tempo oltre il confine della ragione, senza logica, causa, effetto. Gli occhi di lei si spalancarono, ma non più per la paura. Joe le posò le mani sulle spalle. Era calda e sottile, pulsante come un uccello.

La giovane si ritrasse, si sedette di nuovo sul letto. «Non capisco,» disse con voce rauca. «Non capisco nulla.»

«Dimmi,» disse Joe con voce quasi altrettanto rauca. «Chi è questo Manaolo per te? È il tuo amante?»

Elfane non rispose; poi finalmente scosse appena la testa. «No, non è nulla. È stato mandato su Ballenkarch per una missione. Io ho deciso che volevo liberarmi dei rituali. Volevo l’avventura, e non mi importava nulla delle conseguenze. Ma Manaolo mi spaventa. È venuto da me ieri… ma avevo paura.»

Joe sentì un meraviglioso spumeggiare intorno al cuore. Gli apparve l’immagine di Margaret, con la bocca imbronciata nell’accusa. Joe sospirò pentito. Il suo stato d’animo mutò. Il volto di Elfane era di nuovo quello di una giovane Sacerdotessa Druida.

«E la tua attività qual è, Smith?» gli chiese freddamente. «Sei una spia?»

«No, non sono una spia.»

«Allora perché stai andando su Ballenkarch? Solo le spie e gli agenti vanno su Ballenkarch. Druidi e Mang o i loro mercenari.»

«È una questione di natura personale.» Guardandola rifletté che la stessa vivace Sacerdotessa Elfane aveva gaiamente proposto di ucciderlo solo il giorno prima.

Elfane notò il suo esame, inclinò la testa in una smorfia buffa e capricciosa, il trucco di una ragazza consapevole del proprio fascino, un trucco di seduzione. Joe rise, si interruppe, restò in ascolto. C’era stato un suono raschiante contro la parete. Elfane seguì il suo sguardo.

«È la mia cabina!» Joe scattò in piedi, aprì la porta, rimbalzò sulla balconata, spalancò la porta della sua cabina. Erra Ex Amma, il giovane ufficiale Mang, gli stava di fronte, con un ghigno ampio e senza allegria che rivelava denti gialli e puntuti. Aveva una pistola puntata alla vita di Joe.

«Indietro!» ordinò. «Indietro!»

Joe indietreggiò lentamente sulla balconata. Guardò giù nel salone. I quattro Mang erano impegnati nel loro gioco. Uno dei civili alzò gli occhi, mormorò qualcosa agli altri e tutti voltarono la testa e guardarono in su. Joe scorse il lampo di quattro facce giallo limone. Poi tornarono al loro gioco.

«Entra nella cabina della Druida,» disse Ex Amma. «Muoviti!» Agitò la pistola, continuando a sorridere con quel sorriso bestiale come di una volpe che mostri le fauci.

Joe indietreggiò ancora nella cabina di Elfane, passando rapidamente con gli occhi dalla pistola alla faccia del Mang.

Elfane ansimò, sospirò di terrore. Il Mang vide il vaso con la piantina che spuntava dal terriccio. «Ahhhh!»

Si rivolse a Joe. «Contro il muro.» Mosse leggermente la pistola in avanti, fece una smorfia di anticipazione, e Joe seppe di stare per morire.

La porta si aprì; ci fu un sibilo. Il Mang si irrigidì, si piegò all’indietro in un arco di agonia, sollevò la testa, la mascella si tese in un urlo senza voce, e cadde a terra.

Hableyat era sulla soglia, sorridendo compassato. «Sono davvero spiacente di aver dovuto arrecare questo disturbo.»


Gli occhi di Hableyat andarono alla pianta sullo scaffale. Scosse la testa, fece schioccare la lingua, rivolse a Joe uno sguardo di rimprovero. «Mio caro amico, hai contribuito a rovinare un piano molto accurato.»

«Se mi avessi chiesto,» disse Joe, «se volevo donare la vita al successo dei tuoi piani, avrei potuto risparmiarti un mucchio di affanno.»

Hableyat belò la sua risata senza muovere un muscolo della faccia. «Sei affascinante. Sono felice che tu sia ancora con noi. Ma ora temo che ci sarà una lite.»

I tre Mang stavano marciando in un’unica fila bellicosa lungo la balconata: il vecchio ufficiale, Erru Kametin, in testa, seguito dai due civili. Erru Kametin si arrestò rigidamente, con i peli irti come un cagnaccio rabbioso. «Signore Hableyat, questo è puro oltraggio. Hai interferito con un ufficiale dell’Estensione che compiva il suo dovere.»

««Interferito»?» protestò Hableyat. «L’ho ucciso. In quanto al suo «dovere»… da quando un dissoluto rapportatore delle Correnti Rosse viene messo sullo stesso piano con un membro dell’Ampianu Generale?»

«Abbiamo ricevuto i nostri ordini direttamente dal Magnerru Ippolito. Tu non hai la minima supercessione…»

«Il Magnerru Ippolito, se rammenti,» disse Hableyat conciliante, è responsabile di fronte al Lathbon, che assieme alle Acque Azzurre fa parte del Generale.»

«Un branco di codardi dal sangue bianco!» gridò l’ufficiale. «Tu e tutte le Acque Azzurre!»

La donna Mang sul ponte principale, che si era sforzata in tutti i modi di vedere cosa stava succedendo sulla balconata, strillò. Poi si udì la voce metallica di Manaolo. «Miserabili cani bastardi!»

Balzò sulla balconata, forte e flessuoso, tremendo nella sua furia. Con una mano afferrò il civile per la spalla e lo scagliò sulla passerella, e fece lo stesso con l’altro. Sollevò Erru Kametin, lo gettò di peso giù dalla balconata. Cadendo piano per la gravità ridotta, Erru Kametin atterrò con un grugnito. Manaolo si rivolse ad Hableyat, che alzò una mano in segno di protesta.

«Un momento, Ecclesiarca, ti prego di non usare la forza sulla mia povera corpulenza.»

Il volto bestiale non mostrò il minimo tremito di emozione. Il ricomporsi del suo corpo fu la risposta alle parole di Hableyat.

Joe tirò il fiato, fece un passo avanti, sferrò un sinistro, un destro secco, e Manaolo si ritrovò a terra, dove giacque guardando Joe con gli occhi neri come la morte.

«Spiacente,» mentì Joe. «Ma Hableyat ha appena salvato la vita a me e a Elfane. Dagli comunque il tempo di parlare.»

Manaolo saltò in piedi, senza una parola entrò nella cabina di Elfane e chiuse la porta a chiave. Hableyat si voltò e fissò Joe con sguardo faceto. «Ci siamo restituiti la cortesia.»

Joe disse: «Mi piacerebbe sapere cosa sta succedendo. No, ci ho ripensato, voglio badare ai fatti miei. Ho già i miei guai. Vorrei che tu tenessi i tuoi per te.»

Hableyat scosse la testa lentamente, come in perplessa ammirazione. «Per essere uno con le intenzioni che hai dichiarato ti tuffi proprio nel folto della mischia. Ma se vuoi venire nella mia cabina ho un’eccellente acquavite che costituirà la base di un piacevole rilassamento.»

«Veleno?» Si informò Joe.

Hableyat scosse gravemente la testa. «Solo un ottimo brandy.»


Il capitano del vascello indisse un incontro dei passeggeri. Era un uomo grosso e pesante con capelli bianchissimi, una faccia piatta e bianca, liquidi occhi verdi, una bocca rosa e sottile. Indossava l’attillato indumento dei Beland, colore verde scuro con spalline di vetro e una fascia scarlatta sopra ogni gomito.

I passeggeri sedevano affondati nei divani: i due Mang civili; la donna, con gli occhi rossi per il gran piangere; Erru Kametin; Hableyat, sereno e pacato in un’ampia veste di bianco tessuto opaco, e Joe accanto a lui; accanto a Joe era seduta la donna calva e sparuta nel suo abito nero, che emanava un odore dolciastro che non era né floreale né animale; poi venivano i Cil, poi i due Druidi, placidi e tranquilli, poi Elfane e per ultimo Manaolo, che indossava uno strabiliante indumento di raso verde chiaro con strisce d’oro sulle gambe. Un leggero elmo piatto era disinvoltamente appollaiato sui riccioli scuri.

Il capitano parlò con tranquillità: «Sono consapevole che esiste uno stato di tensione tra i mondi di Kyril e Mangtse. Ma questa nave è proprietà di Beland, e noi siamo decisi a rimanere disinteressati e neutrali.

«Questa mattina c’è stato un omicidio. Per quanto sono stato in grado di scoprire, Erru Ex Amma è stato scoperto a perquisire la cabina del Signore Smith, e quando è stato colto sul fatto ha spinto Smith nella cabina della Sacerdotessa Alnietho,» usò il nome con il quale Elfane aveva firmato sulla lista dei passeggeri, «dove ha minacciato di ucciderli entrambi. Il Signore Hableyat, nel lodevole sforzo di evitare un incidente interplanetario, è arrivato e ha ucciso il suo compatriota Erru Ex Amma.

«Gli altri Mang hanno protestato, e sono stati coinvolti in una lotta violenta dall’Ecclesiarca Manaolo, che ha anche tentato di aggredire il Signore Hableyat. Il Signore Smith, preoccupato che Manaolo, nella sua ignoranza del reale stato della situazione, ferisse il Signore Hableyat, ha colpito Manaolo con un pugno. Io credo che questo sia essenzialmente il nocciolo della faccenda.»

Fece una pausa. Nessuno parlò. Hableyat si gingillava girando gli indici uno attorno all’altro, con il turgido labbro inferiore rilassato, pendulo. Joe era conscio di Elfane seduta rigida e silenziosa, e sentì una lenta occhiata di Manaolo vagare su di lui, sulla faccia, le spalle, le gambe.

Il capitano continuò: «Per quanto ho appurato, il colpevole, in questo caso Erru Ex Amma, è stato punito con la morte. Gli altri sono colpevoli solo di carattere irascibile. Ma non intendo certo incoraggiare ulteriori incidenti. In una eventuale simile occasione i protagonisti verranno ipnotizzati e assicurati alle loro amache per tutta la durata del viaggio.

«Secondo la tradizione di Beland le nostre navi sono terreno neutrale, e la nostra attività fiorente nasce da questa reputazione. Non tollererò che venga messa a rischio. Le liti, personali o interplanetarie, devono attendere che vi troviate affrancati dalla mia autorità.» Si inchinò pesantemente. «Grazie per la vostra attenzione.»

I Mang immediatamente si alzarono, la donna diretta alla sua cabina a piangere, e i tre uomini al loro gioco con i bastoncini colorati; Hableyat alla passeggiata. La donna alta e magra rimase seduta senza muoversi fissando il punto da dove fino a poco prima aveva parlato il capitano. I Cil si avviarono verso la biblioteca della nave. I missionari Druidi si avvicinarono a Manaolo.

Elfane si alzò, stiracchiò le braccia giovani e sottili, lanciò una rapida occhiata a Joe, poi all’ampia schiena di Manaolo. Infine si decise, attraversò la stanza fino a Joe, si accomodò sul divano accanto a lui. «Dimmi, Signore Smith, di che cosa ti ha parlato Hableyat quando ti ha portato nella sua stanza?»

Joe si mosse a disagio al suo posto. «Sacerdotessa, io non posso essere una spia maldicente tra Druidi e Mang. In questo caso particolare non abbiamo parlato di nulla di molto importante. Mi ha chiesto della mia vita sulla Terra, era interessato all’uomo che sono venuto a cercare fin qui. Gli ho descritto qualcuno dei pianeti su cui mi sono fermato. Abbiamo bevuto una generosa dose di brandy, e questo è praticamente tutto.»

Elfane si morse un labbro con impazienza. «Non riesco a capire perché Hableyat ci ha protetti dal giovane Mang… Cosa ci guadagna? È un Mang proprio come gli altri. Morirebbe piuttosto che permettere ai Druidi di conquistare la sovranità su Ballenkarch.»

Joe disse: «Tu e Manaolo non starete andando a conquistare la sovranità su Ballenkarch?»

Elfane lo fissò con gli occhi spalancati, poi tamburellò con le dita su una gamba. Joe sorrise fra sé. La presunzione di chiunque altro di avere un’autorità illimitata avrebbe suscitato in lui una seria irritazione. La presunzione di Elfane… Joe, incantato e stregato, la considerava un’intrigante leziosaggine. Rise.

«Perché ridi?» gli chiese lei sospettosa.

«Mi ricordi una gattina vestita con gli abiti della bambola… molto orgogliosa di se stessa.»

Elfane avvampò, i suoi occhi mandarono scintille. «Così… tu ridi di me!»

Dopo un istante di contemplazione, Joe le chiese: «Non ridi mai di te stessa?»

«No. Certo che no.»

«Provaci qualche volta.» Si alzò in piedi e andò in palestra.


Joe si fece una bella sudata in una corsa a ostacoli sul cilindro rotante, poi saltò giù e si sedette ansimando sulla panca. Manaolo entrò lentamente nella palestra, percorse il pavimento con lo sguardo, poi si soffermò su Joe. Ecco che arrivano i guai, pensò Joe.

Manaolo si guardò alle spalle, poi si girò, attraversò la stanza in tre passi. Si fermò fissando Joe dall’alto. La sua faccia non era la faccia di un uomo, ma un’immagine fugace e irreale scorta negli inferi.

Disse: «Ti mi hai toccato con le tue mani.»

«Toccato, per l’inferno!» disse Joe. «Ti ho mandato gambe all’aria.»

La bocca di Manaolo, tanto tenera da potere essere quella di una donna, ma anche dura e muscolosa, si abbassò agli angoli; le spalle fremettero. Si chinò in avanti e sferrò un calcio. Joe si piegò in due in silenziosa agonia, stringendosi il basso ventre. Manaolo indietreggiò leggermente, mollò un altro calcio sotto la mascella di Joe.

Joe scivolò lento e fiacco a terra. Manaolo si chinò velocemente, un piccolo aggeggio metallico gli scintillava in mano. Joe sollevò debolmente il braccio, Manaolo lo allontanò con un calcio. Agganciò lo strumento di metallo nelle narici di Joe, lo fece scattare. Due coltellini a uncino tagliarono la cartilagine. Una nuvola di polvere ustionò la carne.

Manaolo saltò indietro, gli angoli della bocca ancora più bassi e rientranti. Girò sui tacchi e uscì baldanzosamente dalla stanza.


Il dottore di bordo disse: «Ecco, non è troppo grave. Avrai le due cicatrici per un po’, ma non dovrebbero vedersi molto.»

Joe esaminò il proprio riflesso nello specchio, il mento contuso, il naso incerottato. «Insomma… ho ancora un naso.»

«Hai ancora un naso,» confermò legnosamente il dottore. «Fortuna che ti ho curato in tempo. Ho già avuto qualche esperienza con quella polvere. È un ormone che favorisce la crescita della pelle. Se non l’avessi eliminato, le spaccature sarebbero state permanenti, e avresti tre lembi di pelle in mezzo alla faccia.»

«Spero che sia chiaro,» disse Joe, «che è stato un incidente. Non vorrei disturbare il capitano con un rapporto, e spero che nemmeno tu lo farai.»

Il dottore si strinse nelle spalle, si girò e ripose gli strumenti. «Strano incidente.»

Joe ritornò nel salone. I Cil stavano imparando il gioco con i bastoncini colorati, e chiacchieravano allegramente con i Mang. I missionari Druidi, uno vicino all’altro, stavano eseguendo un complicato rito sull’altare portatile. Hableyat era sdraiato comodamente su un divano, esaminandosi le unghie con ogni evidente soddisfazione. La porta della cabina di Elfane si aprì, Manaolo uscì, percorse con agio la balconata e scese le scale. Rivolse a Joe un’occhiata inespressiva, e svoltò verso la passeggiata.

Joe si sistemò accanto a Hableyat, si toccò delicatamente il naso. «È ancora lì.»

Hableyat annuì compostamente. «Sarà come nuovo tra una settimana o due. Quei medici Beland sono capaci, davvero capaci. Invece su Kyril, dove i dottori non esistono, un Laico avrebbe applicato un impiastro di qualche sostanza orribile, e la ferita non sarebbe mai guarita.

«Infatti c’è un gran numero di Laici con il naso spaccato in tre. Dopo la morte, questa è una delle punizioni preferite dai Druidi.» osservò Joe da sotto le palpebre socchiuse. «Sembri essere molto meno preoccupato di quanto consentirebbero le circostanze.»

«Non sono compiaciuto.»

«Lascia che ti illustri un aspetto della psicologia dei Druidi,» disse Hableyat. «Nella mente di Manaolo l’averti inflitto quella ferita ha concluso la faccenda. È stato l’atto finale e decisivo nella lite tra voi due. Su Kyril i Druidi agiscono senza paura di ritorsioni, in nome dell’Albero. Dà loro un peculiare senso di infallibilità. Ora, accenno a questo semplicemente per farti notare che Manaolo sarebbe sorpreso e oltraggiato se tu perseguissi ulteriormente la faccenda.»

Joe alzò le spalle.

Hableyat disse con voce querula: «Non dici niente, non fai minacce, non c’è rabbia nella tua voce.»

Joe sorrise con le labbra tirate. «Non ho avuto molto tempo per altro all’infuori dello stupore. Dammi tempo.»

Hableyat annuì.

«Ah, capisco. Sei rimasto sconvolto dall’aggressione.»

«Direi di sì.»

Hableyat annuì ancora, una serie di piccoli scatti assennati che gli fece tremolare il doppio mento. «Cambiamo argomento, allora. Mi interessa la tua descrizione dei Druidi europei precristiani.»

«Dimmi una cosa,» disse Joe. «Che cos’è quel vaso che provoca tanto scompiglio? Una specie di messaggio, o di formula, o di segreto militare?»

Hableyat spalancò gli occhi. «Messaggio? Segreto militare? Che cosa sono questi? No, mio caro amico, per quanto ne so il vaso è proprio un vero vaso, e la pianta una vera pianta.»

«Perché tutta quell’agitazione allora? E perché cercare di affibbiarmene una uguale?»

Hableyat disse, meditabondo: «A volte nelle questioni di portata planetaria si rende necessario sacrificare la convenienza di una singola persona per l’eventuale vantaggio di molti. Tu dovevi portare la pianta per depistare i miei compatrioti pistoleri da quella custodita dai Druidi.»

«Non capisco,» disse Joe. «Non lavorate entrambi per lo stesso governo?»

«Oh, certo,» disse Hableyat. «I nostri scopi sono identici: la glorificazione e la prosperità del nostro beneamato pianeta. Nessuno è più devoto di me. Ma c’è un disaccordo piuttosto strano nel sistema Mang, che divide i Militari delle Correnti Rosse dai Commercianti delle Acque Azzurre. Esistono come due anime in un corpo, due mariti sposati alla stessa moglie.

«Entrambi amiamo Mangtse. Entrambi ci serviamo di mezzi peculiari per dimostrare questo amore. Fino a un certo punto cooperiamo, ma solo finché ci conviene. Siamo in ultima istanza responsabili solo di fronte al Lathbon, e un gradino più in basso di fronte all’Ampianu Generale, nel quale entrambi vantiamo dei membri. Sotto molti punti di vista l’intesa funziona; talvolta è prezioso avere a disposizione due modi diversi di avvicinarsi a un problema.

«In generale la fazione Rossa è diretta ed energica. Essi credono che il modo migliore di porre fine alle nostre difficoltà con i Druidi sia di conquistare il pianeta a seguito di un’operazione militare. Noi Acque Azzurre sosteniamo che molti uomini verrebbero uccisi, molte materie prime distrutte, e se per qualche miracolo avessimo infine la meglio sulle orde dei Laici resi pazzi dalla religione, avremmo distrutto qualsiasi utilità che Kyril avrebbe potuto avere per noi.

«Capisci,» disse facendo un cenno ragionevole con la testa, «con un ceto contadino produttivo Kyril è in grado di fornire i materiali grezzi e il lavoro manuale per le nostre industrie Mang. Noi formiamo un accoppiamento naturale, ma l’attuale politica dei Druidi costituisce un fattore di disturbo. Ballenkarch industrializzato e governato dai Druidi sconvolgerebbe l’equilibrio. Adesso la fazione Rossa vuole distruggere i Druidi. Noi Acque Azzurre speriamo di influenzare una graduale metamorfosi su Kyril verso un’economia incanalata nella produzione, anziché nell’Albero.»

«E come vi proponete di riuscirci?»

Hableyat agitò un dito solenne. «In confidenza, mio caro amico, lasciando che i Druidi procedano indisturbati con i loro intrighi.»

Joe corrugò la fronte, toccandosi distrattamente il naso. «Ma… il vaso con la pianta come entra nel quadro?»

«Quello,» disse Hableyat, «è ciò che i poveri Druidi, i quali perseguono un unico scopo, credono essere il più convincente strumento del loro piano. Io spero che sarà uno degli strumenti della loro sconfitta. Così intendo fare in modo che quel vaso arrivi su Ballenkarch, dovessi anche uccidere venti Mang miei simili a tal fine.»

«Se stai dicendo la verità, del che dubito…»

«Ma mio caro amico, perché dovrei mentirti?»

«…comincio a capire qualcosa di questo manicomio.»


Giunzione: un poliedro di un miglio di diametro, fluttuante in una luminescenza diffusa. Una dozzina di navi spaziali succhiavano come sanguisughe, e lo spazio circostante era fitto di puntini di luce come lucciole, uomini e donne in tute spaziali che andavano alla deriva nel vuoto, avventurandosi per dieci, venti, trenta miglia, sentendo la maestà dello spazio profondo.

Non sembravano esserci formalità connesse all’atterraggio, un fatto che sorprese Joe, ormai abituato a controlli e ricontrolli elaborati, indici, numeri di riserva, ispezioni, quarantene, lasciapassare, visti, rivisti, firme e controfirme. Il Belsaurion avvicinò il muso a un posto vacante, si agganciò al dispositivo di tenuta con campi di colla mesonica e si fermò.

I passeggeri ipnotizzati nella stiva dormivano indisturbati.

Il capitano Beland indisse di nuovo una riunione dei passeggeri. «Ora ci troviamo a Giunzione, e ci resteremo per trentadue ore, il tempo di prendere a bordo la posta e il carico. Alcuni di voi sono già stati qui prima. Non ho bisogno di ammonirvi alla prudenza e alla discrezione.

«Per coloro che visitano Giunzione per la prima volta dirò che non si trova sotto la giurisdizione di nessun pianeta, che la sua legge sta al capriccio del proprietario e del suo sovrintendente, e che il loro principale interesse è nell’estrarre denaro dalle vostre tasche attraverso piaceri e passatempi di varia natura.

«Perciò vi consiglio di stare alla larga dalle case da gioco. Alle donne suggerisco di non entrare nel Parco dei Profumi da sole, perché significa che desiderate una scorta pagata. Gli uomini che si recheranno all’Ordine Tre lo troveranno costoso e forse pericoloso. Sono stati riferiti casi di omicidio a scopo di rapina. Un uomo tenuto occupato da una ragazza è facile bersaglio per un coltello. Inoltre sono state filmate delle persone impegnate in atti discutibili, e le pellicole sono state usate per ricattarle.

«Infine non lasciate che il desiderio per l’eccitazione e il brivido vi trascini nell’Arena, perché potete facilmente essere costretti a salire sul ring per affrontare un guerriero esperto. Una volta pagato l’accesso vi rendete disponibili alla scelta di chiunque sia il vincitore del momento. È stupefacente quanti visitatori casuali, sotto l’influenza di droghe, alcolici, della brama di eccitazione o della pura spavalderia, osino sfidare l’Arena. In molti vengono uccisi, o feriti gravemente.

«Con gli avvertimenti ho finito. Non desidero allarmarvi. Ci sono parecchi piaceri legittimi nei quali potete indulgere. I Diciannove Giardini sono rinomati in tutto l’Universo. Nel Celestium potete pranzare col cibo del vostro pianeta, ascoltando la musica di casa vostra. I negozi lungo l’Esplanade vendono qualsiasi cosa possiate desiderare a prezzi davvero ragionevoli.

«E così con queste parole vi lascio a voi. stessi. Trentadue ore da adesso e partiamo per Ballenkarch.»

Si ritirò. Ci fu un generale tramestio di piedi. Joe notò che Manaolo seguiva Elfane alla sua cabina. I due missionari Druidi ritornarono al loro altare portatile, apparentemente senza nessuna intenzione di sbarcare. L’ufficiale Mang, Erri Kametin, scese a passo di marcia con la giovane vedova alle calcagna, e dietro a loro andarono i due Mang in abiti civili.

La vecchia smunta e calva non si mosse di un pollice dalla sua poltrona, e restò seduta a fissare il pavimento. I Cil, ridacchiando e saltellando, si precipitarono giù dalla nave. Hableyat si fermò davanti a Joe, con le mani grassocce allacciate dietro la schiena. «Ebbene, amico mio, intendi scendere a terra?»

«Sì,» disse Joe. «Probabilmente lo farò. Sto aspettando di vedere cosa fanno la Sacerdotessa e Manaolo.»

Hableyat dondolò sui talloni. «Stai lontano da quel tipo, è il consiglio migliore che posso darti. È un esempio vizioso di megalomania, spinta — posso aggiungere — al massimo dall’ambiente che lo circonda. Manaolo considera se stesso divino e consacrato, letteralmente e realmente, a un grado che nessuno di noi due può immaginare. Manaolo non conosce né giusto né sbagliato. Conosce soltanto pro e contro Manaolo.»

La porta della cabina 13 si aprì. Manaolo e Elfane uscirono sulla balconata. Manaolo, davanti a Elfane, portava un pacchetto. Indossava una corazza cesellata d’oro e di lucente metallo, e un lungo mantello verde, ricamato a foglie gialle, gli scendeva dietro le spalle. Senza guardare né a destra né a sinistra scese le scale, attraversò il salone e uscì dal portello.

Elfane si fermò in fondo alle scale, lo seguì con lo sguardo, scosse la testa in un gesto di evidente fastidio. Poi si girò e raggiunse Joe e Hableyat dall’altra parte del salone.

Hableyat inclinò rispettosamente la testa, gesto che Elfane ricambiò freddamente. Poi disse a Joe: «Voglio che tu mi conduca a terra.»

«È un invito oppure un ordine?»

Elfane sollevò le sopracciglia perplessa. «Significa che voglio che tu mi porti a terra.»

«Benissimo,» disse Joe alzandosi in piedi. «Ne sarò felice.»

Hableyat sospirò. «Se soltanto fossi giovane e bello…»

Joe sbuffò. «Bello?»

«…nessuna giovane signora così incantevole dovrebbe chiedermelo due volte.»

Elfane, con voce contratta, disse: «Credo sia giusto farti sapere che Manaolo ha promesso di ucciderti se ti scopre a parlare con me.»

Ci fu silenzio. Poi Joe disse in una voce che risuonò strana alle sue stesse orecchie: «E così la primissima cosa che fai è di venire qui a chiedermi di portarti a terra.»

«Hai paura?»

«Non sono un temerario.»

Elfane si girò di scatto e si diresse al portello. Hableyat disse incuriosito: «Perché l’hai fatto?»

Joe sbuffò esasperato. «È una sobillatrice. Ha la ridicola convinzione che io rischierò di farmi abbattere da un Druido pazzo furioso soltanto per il privilegio di accompagnarla in giro.» La guardò lasciare la nave, sottile come una betulla nella mantellina blu. «Ha ragione,» disse Joe. «Io sono proprio quel tipo di dannato sciocco.»

E partì correndo al suo inseguimento. Hableyat li guardò andarsene assieme, sorrise tristemente, si fregò le mani. Poi, slacciando la fibbia che gli opprimeva la pancia, si sedette di nuovo sul divano, e con aria sognante seguì le devozioni dei due Druidi al loro altare.


Stavano percorrendo un corridoio fiancheggiato da piccoli negozi. «Ascolta,» disse Joe, «sei una Sacerdotessa Druida, che mozzerebbe con indifferenza la testa a un cittadino, oppure sei una bella ragazza che è uscita per un appuntamento?»

Elfane scosse altezzosamente la testa, tentò di darsi un contegno dignitoso e mondano. «Sono una persona molto importante e un giorno sarò Supplicante per l’intera Contea di Kelminester. Una piccola contea, è vero, ma la guida di tre milioni di anime di fronte all’Albero sarà nelle mie mani.»

Joe le rivolse uno sguardo disgustato. «E non si troveranno bene lo stesso anche senza di te?»

Elfane rise, si rilassò per un istante e divenne un’allegra ragazza dai capelli scuri. «Oh… probabilmente. Ma sono costretta a mantenere le apparenze.»

«Il guaio è che dopo un poco comincerai a credere a tutta quella roba.»

Elfane per un attimo non disse nulla. Poi, maliziosamente: «Perché ti stai guardando in giro con tanta attenzione? Questo corridoio è davvero così interessante?»

«Sto cercando quel demonio di Manaolo,» disse Joe. «Sarebbe proprio da lui appostarsi in una di queste zone d’ombra e poi saltare fuori e pugnalarmi.»

Elfane scosse la testa. «Manaolo è andato giù all’Ordine Tre. Ha tentato di fare di me la sua amante ogni notte del viaggio, ma non ho alcun desiderio di lui. Questa mattina ha minacciato che a meno che non mi arrendessi si sarebbe dato alla dissolutezza all’Ordine Tre. Gli ho detto chiaro e tondo di farlo, che forse allora la sua virilità non sarebbe stata così ardentemente diretta contro di me. Se n’è andato tutto stizzito.»

«Manaolo sembra sempre essere in uno stato di dignità offesa.»

«È un uomo che esalta molto il suo rango,» disse Elfane. «Adesso scendiamo qui. Voglio…»

Joe la prese per un braccio, la fece voltare, la fissò negli occhi sbigottiti col naso a un pollice dal suo.

«Ascolta, signorina. Non ho intenzione di cercare di affermare la mia virilità, ma nemmeno di trotterellare di qua e di là dietro a te, portandoti i pacchettini come un autista.»

Sapeva che era la parola sbagliata.

«Autista, ah! Allora…»

«Se non ti piace la mia compagnia,» disse Joe, «adesso è il momento di andartene.»

Dopo un momento, gli chiese: «Come ti chiami, oltre a Smith?»

«Il mio nome è Joe.»

«Joe… sei un uomo notevole. Molto strano. Tu mi stupisci, Joe.»

«Se vuoi venire con me — un autista, un meccanico, un ingegnere civile, un piantatore di muschio, un barista, un istruttore di tennis, uno scaricatore di porto, una dozzina di altre cose — allora andiamo ai Diciannove Giardini a vedere se vendono una birra terrestre.»

I Diciannove Giardini occupavano una fetta proprio in mezzo alla costruzione, composta da diciannove sezioni a forma di cuneo intorno a una piattaforma centrale che serviva da ristorante.

Trovarono un tavolo libero, e con grande sorpresa di Joe venne loro servita birra in boccali ghiacciati da un quarto senza alcun commento.

«Se così piace a tua Divinità,» disse Elfane umilmente.

Joe sogghignò imbarazzato. «Non hai bisogno di esagerare. Dev’essere un tratto druidico, essere una valanga che travolge ogni cosa in un modo, nel modo opposto, in tutti i modi. Ebbene, cosa volevi?»

«Niente.» Si girò sulla sedia, guardò verso i giardini. A quel punto Joe si rese conto che volente o nolente, bene o male che fosse, era follemente innamorato. Margaret? Sospirò. Era lontanissima, un migliaio di anni luce.

Anche lui guardò verso i diciannove giardini, con la flora di diciannove pianeti diversi, ognuno con le sue caratteristiche sfumature di colore: nero, grigio e bianco di Kelce; arancioni, gialli, intenso verde limone di Zarjus; i soffici rosa, verde, azzurro e giallo pastello dei boccioli che crescevano sui pianeti piccoli e tranquilli di Jonapah; cento ricchi toni di verde, rosso vivo, azzurro cielo… Joe trasalì, quasi scattò in piedi.

«Cosa succede?» chiese Elfane.

«Quel giardino laggiù… quelle sono piante terrestri, oppure io sono una scimmia con la coda ad anelli colorati.» Si alzò, andò alla ringhiera, e Elfane lo seguì. «Gerani, caprifogli, petunie, zinnie, rose, cipressi italiani, pioppi, salici piangenti. E un prato. E un ibisco…» Guardò la targhetta descrittiva. «Pianeta Gea. Ubicazione incerta.»

Ritornarono al tavolo. «Ti comporti come se avessi nostalgia di casa,» disse Elfane con voce offesa.

Joe sorrise. «Ne ho… molta nostalgia. Dimmi qualcosa di Ballenkarch.»

Elfane assaggiò la birra, la fissò sorpresa, fece una smorfia.

«A nessuno piace la birra la prima volta che la beve,» disse Joe.

«Dunque… non so davvero molto di Ballenkarch. Fino a pochi anni fa era completamente selvaggio. Nessuna nave ci si fermava perché gli autoctoni erano cannibali. Poi l’attuale principe ha unito tutti i continenti più piccoli in una nazione. È successo in una notte. Molta gente è stata uccisa.

«Ma adesso non ci sono più assassinii, e le navi possono atterrare in relativa sicurezza. Il Principe ha deciso di industrializzarlo, e ha importato molti macchinari da Beland, Mangtse e Grabo, oltre la corrente. A poco a poco sta estendendo il suo dominio sul continente principale, riportando vittorie sui capi, ipnotizzandoli o uccidendoli.

«Ora devi capire che i Ballenkart non hanno nessuna religione, e noi Druidi speriamo di legare a noi il loro nuovo potere industriale attraverso una fede comune. Allora non dipenderemo più da Mangtse per le merci confezionate. I Mang naturalmente non sono molto d’accordo, e allora…» Spalancò gli occhi. Allungò una mano, gli strinse il braccio. «Manaolo! Oh, Joe, spero che non ci veda!»

Il velo di cautela di Joe si lacerò. Era impossibile che riuscisse a essere umile, adesso che l’oggetto del suo amore temeva per la sua incolumità.

Si appoggiò allo schienale della sedia, osservò Manaolo arrivare a grandi passi sulla terrazza come un eroe di Demonlandia. Una donna dalla carnagione color tortora, con una calzamaglia arancione, babbucce a punta di stoffa azzurra e copricapo ugualmente di stoffa azzurra, era appesa al suo braccio. Nell’altro braccio aveva il pacchetto che aveva portato fuori dalla nave. Con un fremito dei suoi occhi smorti riconobbe Elfane e Joe, cambiò direzione senza cambiare espressione, sembrò continuare a passeggiare, e con noncuranza estrasse uno stiletto dalla cintura.

«Ci siamo,» mormorò Joe. «Ci siamo!» Si alzò in piedi.

Gli avventori seduti a bere o a pranzare si sparpagliarono. Manaolo si fermò a una iarda di distanza, sulla faccia scura c’era lo spettro di un sorriso. Appoggiò il pacchetto sul tavolo, poi avanzò con disinvoltura e affondò lo stiletto con una semplicità quasi ingenua, come se si aspettasse che Joe restasse fermo a farsi accoltellare. Joe gli gettò in faccia la birra, gli colpì il polso con il boccale e lo stiletto cadde a terra tintinnando.

«E adesso,» disse Joe, «ho intenzione di picchiarti fino a lasciarti con un briciolo di vita.»

Manaolo giaceva a terra. Joe, ansimando, gli si mise a cavalcioni. La fasciatura sul naso si era rotta, e il sangue gli colava dal naso e sul mento. La mano di Manaolo cadde sullo stiletto. Con un grugnito represso fece per colpire. Joe gli afferrò il braccio e diresse l’arma lontano da sé e nella spalla di Manaolo.

Manaolo grugnì ancora, si strappò la lama dalla spalla. Joe gliela tolse di mano, trapassò l’orecchio di Manaolo conficcandola nel pavimento di legno, dove la fece affondare tempestandola di pugni; poi si alzò in piedi e rimase a guardarlo.

Manaolo si mosse un po’ in modo sgraziato, come un pesce, poi giacque immobile, esausto. Una squadra di uomini impassibili con una lettiga si fecero strada tra la folla, rimosse lo stiletto, caricarono Manaolo, e lo portarono via. La donna dalla pelle color tortora gli corse accanto. Manaolo le parlò. Lei si volse, corse al tavolo, prese il pacchetto, ritornò sempre di corsa dove gli inservienti stavano mettendo Manaolo su un veicolo a ruote, e gli depose il pacchetto sul petto.

Joe si lasciò cadere sulla sedia, prese la birra di Elfane, bevve a lungo.

«Joe,» sussurrò Elfane. «Sei… ferito?»

«Sono blu e nero dappertutto,» disse Joe. «Manaolo è un tipo manesco. Se non ci fossi stata tu me la sarei svignata. Ma,» disse con un sorriso impastato di sangue, «non potevo farmi vedere da te che me la svignavo davanti al mio rivale.»

«Rivale?» Sembrava sorpresa. «Rivale?»

«Per te.»

«Oh,» disse in tono incolore.

«Adesso non dire ‘Io sono la Reale Sacerdotessa Druida Divina Onnipotente’!»

Elfane alzò lo sguardo stupita. «Non stavo pensando a questo. Stavo pensando che Manaolo non è mai stato il tuo… rivale.»

Joe disse: «Devo darmi una ripulita e cambiarmi d’abito. Vuoi venire con me oppure…»

«No,» disse Elfane, con la stessa voce incolore. «Resterò qui nel frattempo. Voglio… voglio pensare.»


Trentuno ore. Il Belsaurion stava per decollare. I passeggeri tornarono a bordo alla spicciolata per essere registrati dal commissario di bordo.

Trentuno ore e mezzo. «Dov’è Manaolo?» chiese Elfane al commissario. «È tornato a bordo?»

«No, Eminenza.»

Elfane si morsicò un labbro, torcendosi le mani. «È meglio che controlli all’ospedale. Non partirete senza di me, vero?»

«No, Eminenza, certamente no.»

Joe la seguì fino a un telefono. «Ospedale,» disse Elfane alla voce meccanica. Poi: «Voglio avere informazioni sull’Ecclesiarca Manaolo, che è stato ricoverato ieri. È stato dimesso?… Va bene ma in fretta. La sua nave sta aspettando per decollare…» Si girò a dire due parole di commento a Joe. «Sono andati a controllare nella sua stanza.»

Trascorse un momento; poi Elfane si chinò sul ricevitore. «Cosa! No!»

«Cosa succede?»

«È morto. È stato assassinato.»

Il capitano accettò di trattenere la nave fino a quando Elfane fosse ritornata dall’ospedale. Corse all’ascensore con Joe alle calcagna. All’ospedale venne indirizzata a un’infermiera di Beland, magra e con i capelli bianchi stretti in una crocchia severa.

«Sei sua moglie?» chiese l’infermiera. «Se è così vuoi prendere accordi per disporre del corpo?»

«Non sono sua moglie. Non mi importa cosa fate con il corpo. Dimmi, cosa ne è stato del pacchetto che aveva con sé?»

«Nella sua stanza non ci sono pacchetti. Ricordo che ne aveva uno quando è arrivato, ma adesso non c’è più.»

«Che visite ha avuto?» chiese Joe.

«Non lo so con certezza. Ma suppongo di poterlo scoprire.»

Gli ultimi visitatori di Manaolo erano tre Mang, che avevano firmato sul registro con nomi sconosciuti. L’inserviente di corsia aveva notato che uno di essi, un uomo anziano dall’atteggiamento rigidamente militare, era uscito dalla stanza con un pacchetto.

Elfane si appoggiò alla spalla di Joe. «Quello era il vaso con dentro la pianta.» Joe la strinse fra le braccia, le accarezzò la testa bruna. «E adesso ce l’hanno i Mang,» disse disperata.

«Scusami se sono eccessivamente curioso,» disse Joe. «Ma cosa c’è in quel vaso che lo rende tanto importante?»

Elfane lo guardò, prossima alle lacrime, e infine disse: «La seconda creatura vivente più importante dell’universo. L’unico germoglio vivente dell’Albero della Vita.»

Lentamente ripercorsero il corridoio, piastrellato di azzurro, verso la nave. Joe disse: «Non sono solo curioso, sono anche stupido. Perché prendersi il disturbo di portare un germoglio dell’Albero della Vita in giro per tutto il creato? A meno che, naturalmente…»

Elfane annuì. «Come ti ho detto volevamo costituire un vincolo con i Ballenkart, un vincolo religioso. Questo germoglio, il Figlio dell’Albero, sarebbe stato il simbolo vitale.»

«Allora,» disse Joe, «i Druidi si sarebbero infiltrati gradatamente, gradatamente avrebbero preso dominio, fino a quando Ballenkarch fosse diventato un altro Kyril. Cinque bilioni di miserabili servi della gleba, un milione o due di Druidi che vivono nel lusso, e un Albero.» La guardò con aria critica. «Non c’è nessuno su Kyril che consideri il sistema… insomma, sbilanciato?»

Elfane lo fulminò con uno sguardo indignato. «Sei un completo Materialista. Su Kyril il Materialismo è un’offesa punibile con la morte.»

««Materialismo» che significa «distribuzione dei profitti»,» suggerì Joe, «o forse «incitamento alla ribellione».»

«La vita è la soglia della gloria,» disse Elfane. «La vita è lo sforzo che determina il posto di ognuno sull’Albero. I lavoratori industriosi diventano foglie alte nella Scintillanza. Il fannullone deve arrancare per sempre nella fanghiglia scura come una radichetta.»

«Se il Materialismo è quel peccato che pensi, perché i Druidi se la spassano tanto, che significa vivere in una così vezzeggiata sontuosità? Non è strano che coloro che hanno più da perdere col «Materialismo» siano quelli che più vi si oppongono.»

«Chi sei tu per criticare?» esclamò Elfane incollerita. «Un barbaro selvaggio come i Ballenkart! Se fossimo su Kyril le tue parole impulsive verrebbero messe a tacere alla svelta!»

«Sei ancora la solita dea di latta, vero?» disse Joe sprezzante.


In un oltraggiato silenzio Elfane lo precedette con andatura rigida e maestosa. Joe sogghignò tra sé, e la seguì sulla nave.

Il blocco del portello si aprì. Elfane si fermò di colpo. «Il Figlio è perduto, probabilmente distrutto.» Guardò Joe di traverso. «Non c’è ragione per cui io debba proseguire fino a Ballenkarch. Il mio dovere è di ritornare a casa e fare rapporto al Collegio dei Tearchi.»

Joe si massaggiò il mento dispiaciuto. Aveva sperato che quell’aspetto della faccenda non le venisse in mente. Esitante, non sapendo esattamente quanta rabbia Elfane sentisse nei suoi confronti, disse: «Ma tu hai lasciato Kyril con Manaolo per sfuggire alla vita di palazzo. I Tearchi verranno a sapere ogni dettaglio della morte di Manaolo attraverso le loro spie.»

Elfane lo studiò con un’espressione indecifrabile per i suoi sensi terrestri. «Vuoi che prosegua con te?»

«Sì, lo voglio.»

«Perché?»

«Temo,» disse Joe piegando tristemente le labbra, «che tu mi colpisca emotivamente, in modo molto intenso e piacevole. E questo a dispetto della tua filosofia distorta.»

«Questa era la risposta giusta,» dichiarò Elfane. «Benissimo, proseguirò. Forse,» disse con aria importante, «forse riuscirò a persuadere i Ballenkart ad adorare l’Albero su Kyril.»

Joe trattenne il respiro per timore di ridere e offenderla così ancora una volta. Elfane lo guardò cupamente. «Vedo che mi trovi divertente.»

Hableyat era in piedi accanto alla scrivania del commissario di bordo. «Ah, vedo che siete di ritorno. E gli assassini di Manaolo sono scappati con il Piglio dell’Albero?»

Elfane rimase paralizzata per lo stupore. «Come lo sapevi?»

«Mia cara Sacerdotessa,» disse Hableyat, «il più piccolo ciottolo che cade nella pozza manda le sue increspature fino alla lontana sponda. In verità, mi accorgo di essere forse più vicino di te alla realtà della situazione.»

«Cosa vuoi dire con questo?»

Il portello si chiuse, e lo steward educatamente disse: «Decolliamo tra dieci minuti. Sacerdotessa, Signori, posso assicurarvi alle vostre cuccette contro l’accelerazione?»


Joe si risvegliò dal sonno ipnotico. Rammentando il risveglio precedente si alzò di scatto nella rete, perlustrò la cabina. Ma era da solo e la porta era chiusa con la chiave, col catenaccio, e sbarrata come l’aveva lasciata prima di prendere la pillola e di avviare gli schemi ipnotici sullo schermo.

Saltò giù dall’amaca, si fece un bagno, la barba, infilò il nuovo completo di gabardine azzurro che aveva comprato a Giunzione. Uscì sulla balconata e trovò il salone quasi al buio. Evidentemente si era svegliato presto.

Si fermò davanti alla porta della cabina 13, pensò a Elfane che giaceva calda e rilassata all’interno, i capelli scuri sparsi sul cuscino, il viso ammorbidito dall’assenza di dubbi e orgogliose affettazioni. Mise la mano sulla porta. Era come se qualcosa ce la trascinasse. Con uno sforzo di volontà ritrasse il braccio, si girò, e si avviò lungo la balconata. Si fermò di scatto. Qualcuno era seduto nel grande salotto vicino al portello panoramico. Si sporse in avanti, scrutò nell’oscurità. Hableyat.

Joe proseguì lungo la balconata, scese le scale. Hableyat fece un breve gesto di saluto. «Siediti, amico mio, e unisciti a me nelle contemplazioni che precedono il pasto.»

Joe si sedette. «Ti sei svegliato presto.»

«Al contrario,» disse Hableyat. «Non mi sono sottomesso al sonno. Sono seduto qui in questo salotto da sei ore, e tu sei la prima persona che vedo.»

«Chi ti aspettavi?»

Hableyat concesse che un’espressione prudente gli si formasse sulla faccia gialla. «Non mi aspettavo nessuno in particolare. Ma da alcune abili domande e indagini a Giunzione ho scoperto che la gente non è tutta quello che sembra. Ero curioso di osservare ogni attività alla luce di questa nuova conoscenza.»

Joe disse con un sospiro: «Dopotutto, non sono affari che mi riguardano.»

Hableyat agitò il dito grassoccio. «No, no, amico mio. Tu sei modesto. Tu dissimuli. Io temo che tu sia rimasto assai avvinto nei casi dell’incantevole giovane Sacerdotessa, e non possa perciò essere ritenuto disinteressato.»

«Mettila in questo modo. Non mi importa se i Druidi riescono oppure no a portare la loro pianta su Ballenkarch. E non capisco esattamente perché sei così ben disposto ad aiutare i loro sforzi.» Rivolse ad Hableyat un’occhiata di stima. «Se io fossi nei Druidi riconsidererei tutta la questione.»

«Ah, mio caro amico,» disse Hableyat raggiante, «tu mi fai un complimento. Ma io mi muovo al buio. Vado a tentoni. Ci sono sottigliezze che ancora non ho compreso. Ti sorprenderebbe sapere della doppiezza di alcune nostre conoscenze.»

«Bene, sono disposto a venire sorpreso.»

«Per esempio, la vecchia calva vestita di nero, seduta a fissare nel vuoto come una che è già morta, cosa pensi di lei?»

«Oh, un buzzago innocuo e poco attraente.»

«Ha quattrocento dodici anni. Suo marito, secondo il mio informatore, ha elaborato un elisir di lunga vita quando lei aveva quattordici anni. Lei l’ha assassinato, e solo vent’anni fa ha perduto la freschezza della sua gioventù. In tutto questo tempo ha avuto amanti a migliaia, di tutte le forme e dimensioni, di ogni sesso, razza, sangue, e colore. Negli ultimi cento anni la sua dieta è consistita quasi esclusivamente di sangue umano.»

Joe affondò nel divano, si sfregò la faccia. «Vai avanti.»

«Sono venuto a sapere che uno dei miei compatrioti è di gran lunga più in alto per rango e autorità di quanto avessi supposto, e devo perciò muovermi con molta cautela. Ho scoperto che il Principe di Ballenkarch ha un agente a bordo di questa nave.»

«Continua,» disse Joe.

«Ho appreso anche — come forse ti ho accennato prima che decollassimo da Giunzione — che la morte di Manaolo e la perdita del suo vaso di fiori forse non sono state una tragedia senza conforto dal punto di vista dei Druidi.»

«Come mai?»


Hableyat alzò gli occhi pensieroso verso la balconata. «Ti è mai passato per la mente,» chiese piano, «che Manaolo era una strana scelta come corriere in una missione di tanta importanza?»

Joe corrugò la fronte. «Immaginavo invece che gli fosse stato assegnato questo incarico per via del suo rango, che secondo Elfane è — era — piuttosto considerato. Un Ecclesiarca, inferiore solo al Tearca.»

«Ma i Druidi non sono completamente inflessibili, né completamente stupidi,» disse Hableyat pazientemente. «Sono riusciti a controllare cinque bilioni di uomini e donne con nient’altro che un albero gigantesco per quasi mille anni. Non sono ottusi.

«Il Collegio dei Tearchi senza dubbio conosceva Manaolo per quello che era, un egocentrico vanaglorioso. Decisero che sarebbe stato lo specchietto ideale per le allodole. Io, che non avevo colto la complessità del piano, ho pensato che Manaolo a sua volta aveva bisogno di un’esca per distogliere l’attenzione da lui. A questo proposito ho scelto te.

«Ma i Druidi avevano previsto la difficoltà della missione, e avevano preso provvedimenti. Manaolo venne fatto partire con un alberello spurio, e investito esattamente dello stesso grado di ostentata segretezza. Il vero Figlio dell’Albero è stato inviato in un altro modo.»

«E quest’altro modo?»

Hableyat si strinse nelle spalle. «Posso solo fare delle ipotesi. Forse la Sacerdotessa l’ha astutamente nascosto sulla propria persona. Forse il germoglio è stato affidato al bagagliaio, anche se ne dubito per la paura delle spie. Immagino che il germoglio sia in custodia di un rappresentante di Kyril… Forse su questa nave, forse su un’altra.»

«E allora?»

«E allora mi siedo qui e osservo, per vedere se qualcuno condivide i miei sospetti. Finora tu sei il primo che è apparso.»

Joe sorrise debolmente. «E che conclusioni ne trai?»

«Nessuna.»

Apparve lo steward dai capelli bianchi, braccia e gambe particolarmente aggraziati nel vestito attillato. Vestito? Joe, per la prima volta, guardò attentamente. Lo steward chiese: «Signori, desiderate fare colazione?»

Hableyat annuì. «Io sì.»

Joe disse: «Prenderò della frutta.» Poi, incoraggiato dalla scoperta della birra a Giunzione, aggiunse: «Suppongo che non abbiate del caffè.»

«Credo che possiamo trovarne un poco, Signore Smith.»

Joe si rivolse a Hableyat. «Non indossano molti vestiti. Quella che hanno addosso è vernice!»

Hableyat parve divertito. «Certo. Non hai mai saputo che i Beland indossano più vernice che vestiti?»

«No,» disse Joe. «I vestiti li ho sempre dati per scontati.»

«Questo è un grave errore,» disse Hableyat solennemente. «Quando hai a che fare con una qualsiasi creatura o manifestazione o personalità su un pianeta sconosciuto, non dare mai niente per scontato! Quand’ero giovane ho visitato il mondo di Xenchoy su Kim, e lì commisi lo sbaglio di sedurre una delle ragazze native. Una creatura deliziosa con pampini intrecciati ai capelli. Rammento che si sottomise prontamente ma senza entusiasmo.

«Nel momento in cui ero più indifeso tentò di pugnalarmi con un lungo coltello. Protestai, e lei ne fu sbalordita. In seguito scoprii che su Xenchoy solo una persona intenzionata al suicidio avrebbe posseduto una ragazza fuori dal vincolo del matrimonio, e poiché non esiste alcun onere per il suicidio, né per l’impudicizia, realizza così il sogno di tutta l’umanità, morire in estasi.»

«E la morale?»

«È certamente chiara. Le cose non sono sempre quello che sembrano.»

Joe si rilassò sul divano, meditando, mentre Hableyat canticchiava sottovoce una fuga Mang su quattro toni, accompagnandosi con le sei tavolette che portava appese al collo come un ciondolo, ognuna delle quali vibrava al tocco di una nota diversa.

È evidente che o sa o sospetta qualcosa, pensò Joe, che è chiaro come la mia faccia e io non riesco a vederlo. Hableyat una volta ha detto che ho un intelletto limitato, forse ha ragione. Di certo mi ha dato sufficienti indizi. Elfane? Lo stesso Hableyat? No, stava parlando del Figlio dell’Albero. Davvero un sacco di eccitamento per un vegetale. Hableyat pensa che sia ancora a bordo, questo è chiaro. Ebbene, io non ce l’ho. Lui non ce l’ha, altrimenti non parlerebbe così tanto. Elfane è all’oscuro. I Cil? L’orribile vecchia? I Mang? I due missionari Druidi?

Hableyat lo stava osservando attentamente. Quando Joe si drizzò a sedere di scatto, Hableyat sorrise. «Adesso hai capito?»

«Sembra ragionevole,» disse Joe.

Tutti i passeggeri erano seduti ancora una volta nel salone, ma adesso c’era un’atmosfera diversa. La prima parte del viaggio aveva sofferto di una certa tensione, ma si era trattato di un vago fastidio, di una questione di simpatie e antipatie personali, dominate forse dalla personalità di Manaolo.

Adesso le relazioni individuali sembravano sommerse in un più vasto odio razziale. Erru Kametin, i due civili Mang — procuratori del comitato politico delle Correnti Rosse, così Joe apprese da Hableyat — e la giovane vedova Mang sedevano vicino alla clessidra impegnati nel loro gioco con i bastoncini colorati, scoccando occhiate di fuoco all’imperturbabile Hableyat dall’altra parte della stanza.

I due missionari Druidi erano chini sul loro altare in un angolo buio del salone, occupati con riti interminabili davanti alla rappresentazione dell’Albero. I Cil, offesi dall’assenza di attenzione alle loro eleganti capriole, se ne stavano sulla passeggiata. La donna in nero sembrava sempre come morta, con gli occhi che si spostavano di un ottavo di pollice per volta. Forse una volta ogni ora sollevava una mano trasparente fino alla testa liscia come vetro.

Joe si trovò travolto da correnti psicologiche incrociate, come una pozza sferzata contemporaneamente da venti provenienti da ogni direzione. Prima di tutto c’era la sua missione personale su Ballenkarch. Strano, pensò Joe, mancavano solo giorni, ore, a Ballenkarch e adesso la sua missione sembrava svuotata di ogni urgenza. Possedeva solo una limitata quantità di emozioni, volontà, energia, e sembrava averne investito una grande parte in Elfane. Investito? Gli erano state strappate, spremute, divelte.

Joe pensò a Kyril, all’Albero. Ai palazzi di Divinai raggruppati attorno alla massa subplanetaria del tronco, alle distese infinite di misere fattorie e villaggi maleodoranti, ai pellegrini che a spalle curve e occhi spenti entravano nel tronco, con l’ultimo gesto di trionfo, lo sguardo retrospettivo al paesaggio piatto e grigio.

Pensò alla disciplina dei Druidi, imposta con la morte. E tuttavia la morte non era nulla da temere su Kyril. La morte era comune come nutrirsi. La soluzione dei Druidi a ogni dilemma, la valanga che tutto travolge, l’approccio universale all’esistenza. La moderazione era una parola con poco significato per uomini e donne senza nessun limite a capricci, appagamenti o eccessi.

Considerò ciò che sapeva di Mangtse, un piccolo mondo di laghi e isole trasformate e pianificate in parchi naturali, un popolo innamorato delle circonvoluzioni intricate, con un’architettura di curve fantasiose, sinuosi ponti di legno su corsi d’acqua e canali, viste pittoresche e affascinanti nell’antica luce gialla del piccolo sole sfocato.

Poi le fabbriche, ordinate, efficienti, sistematiche, sulle isole industriali; e i Mang, un popolo elaborato, involuto e sottile come i loro ponti scolpiti. C’era Hableyat, nella cui anima Joe non aveva mai guardato, nemmeno per un solo istante. C’erano le ardenti Correnti Rosse, inclini all’imperialismo: medievalisti, secondo un termine terrestre.

E Ballenkarch? Niente, se non che era un mondo barbaro, con un principe intento a sviluppare un complesso industriale nello spazio di una notte. E da qualche parte su quel pianeta, tra i selvaggi del sud o tra i barbari del nord, c’era Harry Creath.

Harry aveva affascinato Margaret, e se n’era andato a cuor leggero, lasciandosi alle spalle uno scompiglio emozionale che non poteva trovare pace senza il suo ritorno. Due anni prima Harry si era trovato a poche ore di distanza su Marte. Ma quando Joe era arrivato per riportarlo sulla Terra per una chiarificazione, Harry era già partito. Fumante di rabbia per il ritardo, ma tenace e forte della sua ossessione, Joe aveva persistito.

Su Thuban aveva perso le sue tracce, quando la sciabola corta di un ubriaco l’aveva spedito all’ospedale per tre mesi. Poi altri mesi di angoscianti ricerche e indagini, e finalmente era venuto a galla il nome di un oscuro pianeta: Ballenkarch. Adesso Ballenkarch era vicino, e da qualche parte sul pianeta c’era Harry Creath.

E Joe pensò, All’inferno anche Harry! Perché Margaret non era più al centro dei suoi pensieri. Adesso c’era una Sacerdotessa, sfacciata e senza scrupoli. Joe immaginò se stesso e Elfane a esplorare gli antichi luoghi della Terra, Parigi, Vienna, San Francisco, la Valle di Cashmir, la Foresta Nera, il Mare del Sahara.

Poi si chiese se Elfane si sarebbe adeguata. Sulla Terra non c’erano sgobboni inebetiti da uccidere o battere o vezzeggiare come animali. Forse erano vere le parole di Hableyat: Le cose non sono sempre quello che sembrano. Elfane all’apparenza era fondamentalmente una creatura simile a lui, come caratteristiche generali. Forse non aveva mai capito con esattezza la profondità dell’egotismo dei Druidi. Benissimo, allora, l’avrebbe scoperto.

Hableyat alzò mitemente gli occhi quando Joe si alzò in piedi. «Se fossi in te, amico mio, penso che aspetterei. Almeno un altro giorno. Dubito che a quest’ora abbia già apprezzato completamente la sua solitudine. Credo che apparirle davanti adesso, specialmente con quel cipiglio bellicoso, provocherebbe soltanto il suo antagonismo, e ti classificherebbe assieme al resto dei suoi nemici. Lasciala nel suo brodo ancora un giorno, e poi lascia che sia lei a venire da te, sulla passeggiata oppure in palestra, dove ho notato che trascorre un’ora tutti i giorni.»

Joe riaffondò nel divano. Disse: «Hableyat, tu mi confondi.»

Hableyat scosse tristemente la testa. «Ah, ma sono trasparente.»

«Prima su Kyril mi salvi la vita. Poi cerchi di farmi uccidere.»

«Solo per una spiacevole necessità.»

«Talvolta penso che tu sia amichevole, comprensivo…»

«Ma certo!»

«…proprio adesso mi hai letto nella mente e mi hai dato un consiglio paterno. Ma non sono mai perfettamente sicuro del fine per cui mi usi tanto riguardo. Così come l’oca che viene ingrassata per il paté de fois gras non comprende la sconfinata generosità del suo padrone. Le cose non sono sempre quello che sembrano.» Rise brevemente. «Non credo che tu voglia dirmi per quale macello mi stai ingrassando.»

Hableyat fece un gesto perplesso. «In questo momento non sono affatto ambiguo. Non fingo, e non mi nascondo dietro ad altro che sincerità. Il mio interesse per te è genuino ma, ne convengo, tale interesse non mi impedisce di sacrificarti a un fine più grande. Non c’è alcuna contraddizione. Io tengo separati i miei gusti e le mie avversioni personali dal lavoro. E così sai tutto di me.»

«Come faccio a sapere quando stai lavorando e quando no?» Hableyat allargò le braccia. «È una domanda alla quale nemmeno io posso rispondere.»

Ma Joe non era interamente insoddisfatto. Si mise comodo sul divano, e Hableyat allentò la fascia attorno alla vita grassoccia.

«La vita a volte è molto difficile,» disse Hableyat, «e molto improbabile, molto esigente.»

«Hableyat,» disse Joe, «perché non torni con me sulla Terra?» Hableyat sorrise. «Potrei anche dar retta al tuo suggerimento… se le Correnti Rosse sconfiggono le Acque Azzurre nell’Ampianu.»

Erano passati quattro giorni dalla partenza da Giunzione, e mancavano tre giorni a Ballenkarch. Joe, appoggiato alla ringhiera della passeggiata nel ventre della nave, sentì un passo lento avvicinarsi lungo la struttura. Era Elfane. Aveva il volto pallido e tormentato, gli occhi grandi e luminosi. Si fermò esitante di fianco a Joe, come se stesse solo facendo una pausa durante la passeggiata.

Joe disse: «Salve,» e ritornò a guardare le stelle.

Con una minima variazione della posizione Elfane gli fece capire di essersi fermata definitivamente, di essersi unita a lui. Gli disse: «Hai tentato di evitarmi, quando ho più bisogno di parlare con qualcuno.»

Joe disse, inquisitorio: «Elfane… sei mai stata innamorata?»

La sua espressione era stupefatta. «Non capisco.»

Joe grugnì. «Solo un’astrazione terrestre. Con chi vi accoppiate su Kyril?»

«Oh, persone che ci interessano, con le quali ci piace stare, che ci rendono consci del nostro corpo.»

Joe guardò di nuovo le stelle. «L’argomento è un po’ più profondo.»

La voce di Elfane era sommessa e divertita. «Capisco molto bene, Joe.»

Joe girò la testa. Elfane stava sorridendo. Labbra turgide e mature, un volto appassionato, gli occhi scuri e ardenti. La baciò, come un uomo assetato che beva.

«Elfane…?»

«Sì?»

«Su Ballenkarch… invertiamo la rotta e puntiamo sulla Terra. Niente più preoccupazioni, niente più complotti, niente più morti. Ci sono così tanti posti che voglio mostrarti, i luoghi antichi della vecchia Terra, che è ancora così fresca e dolce.»

Elfane si mosse tra le sue braccia. «C’è il mio mondo, Joe, e la mia responsabilità.»

Teso, Joe disse: «Sulla Terra lo vedrai come è veramente, spregevole sterco, degradante per i Druidi quanto è miserabile per gli schiavi.»

«Schiavi? Essi servono l’Albero della Vita. Tutti serviamo l’Albero della Vita in modi diversi.»

«L’Albero della Morte!»

Elfane si sciolse senza calore dal suo abbraccio. «Joe… è qualcosa che non posso spiegarti. Noi siamo legati all’Albero. Siamo i suoi figli. Tu non capisci la grande verità. C’è un universo, con l’Albero al suo centro, e i Druidi e i Laici servono l’Albero, impotenti di fronte allo spazio pagano.

«Un giorno sarà diverso. Tutti gli uomini serviranno l’Albero. Noi nasceremo dal suolo, serviremo e lavoreremo e finalmente daremo la nostra vita nell’Albero e diverremo foglie nella luce eterna, ognuno al suo posto. Kyril sarà la meta, il luogo sacro della galassia.»

Joe protestò. «Ma voi date a questo vegetale — un vegetale enorme, ma comunque un vegetale — un’importanza maggiore che all’umanità. Sulla Terra lo faremmo a pezzi come legna da ardere nella stufa. No, questo non è vero. Ci costruiremmo attorno una pista a spirale, faremmo fare delle escursioni e venderemmo hot dog e bibite sulla cima. Lo useremmo, invece di lasciarci ipnotizzare dalla sua mole.»

Elfane non l’aveva ascoltato. «Joe… puoi essere il mio amante. E vivremo la nostra vita su Kyril, e serviremo l’Albero e uccideremo i suoi nemici…» Si fermò di colpo, sbalordita dall’espressione di Joe.

«Questo non è bene… per nessuno di noi due. Io tornerò sulla Terra. Tu resta laggiù, trovati un altro amante che uccida i tuoi nemici per te. E faremo tutti e due ciò che vogliamo. Ma l’altro non sarà incluso.»

Elfane si voltò e si appoggiò alla ringhiera, fissando tetramente le stelle a mezzanave. Dopo un poco disse: «Sei mai stato innamorato di un’altra donna?»

«Niente di serio,» mentì Joe. E poi: «E tu… hai avuto altri amanti?»

«Niente di serio…»

Joe la guardò di scatto, ma sul suo viso non c’era traccia di umorismo. Sospirò. La Terra non era Kyril.

Elfane disse: «Quando atterreremo su Ballenkarch cosa farai?»

«Non lo so, non ho ancora deciso. Di certo niente che abbia a che fare con Druidi e Mang, questo almeno lo so. Alberi e imperi posso esplodere tutti insieme per quello che mi riguarda. Ho già i miei problemi…» La sua voce si abbassò, si spense.

Vide se stesso incontrare Harry Creath. Su Marte, con la mente ancora piena di Margaret — su Io, Pluto, Altair, Vega, Giansar. Polaris, Thuban, e anche di recente su Jamivetta e Kyril — non si era reso conto dell’aspetto donchisciottesco e ridicolo del suo viaggio.

Adesso l’immagine di Margaret aveva iniziato a farsi indistinta, ma per quanto indistinta sentiva ancora lo scampanio tintinnante della sua risata. Con un’improvvisa vampata di imbarazzo seppe che Margaret si sarebbe divertita parecchio a sentirlo raccontare le sue avventure, così come avrebbe provato sbalordimento, incredulità e forse appena un poco di disprezzo.

Elfane lo stava guardando incuriosita. Joe ritornò al presente. Strano, come Elfane sembrasse concreta e reale in contrasto con i suoi pensieri randagi. Elfane non avrebbe trovato niente di divertente in un uomo errante per l’universo per amore di lei. Al contrario si sarebbe indignata se non l’avesse fatto.

«Cosa farai su Ballenkarch allora?» gli chiese.

Joe si massaggiò il mento, fissò le stelle che cambiavano continuamente posizione. «Credo che andrò a fare una visitina a Harry Creath.»

«E dove lo cercherai?»

«Non lo so. Prima proverò nel continente civilizzato.»

«Nessun luogo su Ballenkarch è civilizzato.»

«Il continente meno barbaro, allora!» disse Joe paziente. «Se lo conosco, sarà nel mezzo della mischia.»

«E se è morto?»

«Allora mi girerò e tornerò a casa con la coscienza pulita.»

Margaret avrebbe detto: «Harry morto?» Vide il suo mento rotondo alzarsi impertinente. «In questo caso perde per abbandono. Prendimi, mio cavalleresco amore, e portami via sulla tua navicella bianca.»

Lanciò un’occhiata furtiva a Elfane, d’un tratto consapevole del profumo agre e fiorito d’incenso che aveva addosso. Elfane era elettrizzante per quanta vitalità aveva, per ciò che pensava e lo stupore che provava. Prendeva la vita e le emozioni seriamente. Certo Margaret aveva con le cose un rapporto più leggero, rideva con maggiore facilità, non era dedita a uccidere i nemici della sua religione. Religione? Joe rise brevemente. Margaret conosceva appena la parola.

«Perché ridi?» chiese Elfane sospettosamente.

«Stavo pensando a una vecchia conoscenza,» disse Joe.

Ballenkarch! Un mondo di violente tempeste grigie e luce splendente. Un mondo di colori fiammeggianti e paesaggi impetuosi; di scogliere rocciose che si levavano come muri nel cielo; di foreste, buie, alte, segregate; di savane nell’erba più verde alta fino alle caviglie, attraversate da fiumi lenti e possenti. Alle basse latitudini le giungle si affollavano e si urtavano, calpestavano la vegetazione più debole, ammucchiavano humus miglio su miglio, fino a quando l’elevazione così raggiunta agiva da freno al loro rigoglio.

E tra i passi montani, in mezzo alle foreste, vagando attraverso le pianure, rullavano i carri vivacemente dipinti dei clan di Ballenkarch. Erano grandi uomini dalla voce tuonante, vestiti di armature di acciaio e cuoio, che spargevano sangue in vendette e duelli.

Vivevano in un’atmosfera epica di scorrerie, massacri, battaglie contro gli alti bipedi neri della giungla, spaventosi e semi intelligenti. Come armi usavano spade, lance, balestre che lanciavano pietre grosse come un pugno. Il loro linguaggio, separato da mille anni dalla corrente della civiltà galattica, era un miscuglio a malapena comprensibile, e scrivevano in pittogrammi..

Il Belsaurion scese su una pianura verde immersa nella luce del sole. In lontananza la pioggia scendeva a veli da un nero tumulto di nubi, e un arcobaleno sontuoso si inarcava sopra a una foresta di alti alberi verdazzurri.

Un grezzo padiglione di tronchi e lamiera ondulata serviva da deposito e da salad’aspetto, e, quando finalmente il Belsaurion si acquietò con un fremito, un vagoncino uscì sbuffando su otto ruote cigolanti in mezzo all’erba e si fermò a fianco della nave.

«Dov’è la città?» chiese Joe rivolto a Hableyat.

Hableyat ridacchiò. «Il Principe non consente ad alcuna nave di atterrare più vicino di così ai suoi insediamenti, per paura dei mercanti di schiavi. Questi corpulenti Ballenkart sono molto richiesti come guardie del corpo su Frums e Perkins.»

Il portello che dava all’esterno venne aperto. L’aria fresca, odorosa di terra umida, pervase la nave. Lo steward annunciò a tutto il salone: «I passeggeri che desiderano sbarcare possono farlo. Vi consigliamo di non lasciare le vicinanze della nave fino a quando sarà pronto il trasporto per Vail-Alan.»

Joe si guardò attorno in cerca di Elfane. Stava parlando con veemenza ai due missionari Druidi, che l’ascoltavano con un’espressione di testarda ostinazione. Elfane si adirò, si allontanò con rabbia, si diresse marciando, pallida in volto, al portello e uscì. I Druidi la seguirono, bisbigliando tra loro.

Elfane si avvicinò al guidatore del veicolo a otto ruote. «Desidero essere portata subito a Vail-Alan.»

Il guidatore la guardò inespressivo. Hableyat le toccò un gomito. «Sacerdotessa, un’aeromobile arriverà tra breve per portarci a Vail-Alan molto più rapidamente di questo veicolo.»

Elfane si voltò e si allontanò a passi veloci. Hableyat si chinò vicino al guidatore, che sussurrò poche frasi. Il volto di Hableyat mutò impercettibilmente: una contrazione muscolare, l’approfondirsi della piega sulla guancia. Vide Joe che lo guardava, subito riprese i suoi modi da uomo d’affari, e il guidatore tornò a essere inespressivo.

Hableyat si allontanò da solo con fare preoccupato. Joe lo raggiunse. «Allora,» disse sarcastico, «quali sono le novità?»

Hableyat disse: «Molto brutte, molto brutte davvero.»

«Come mai?»

Hableyat esitò un istante, poi sbottò nel primo schietto sfogo di emozioni che Joe l’avesse visto esprimere. «I miei avversari in patria sono molto più forti di quanto credessi nel Lathbon. Il Magnerru Ippolito in persona è a Vail-Alan. Ha raggiunto il Principe, ed evidentemente ha rivelato qualche spiacevole verità riguardo ai Druidi. Così adesso vengo a sapere che i progetti per una cattedrale e un monastero dei Druidi sono stati abbandonati e che Wanbrion, un Suttearca, è sorvegliato a vista.»

Esasperato Joe studiò l’imponente Hableyat. «Ebbene, non è quello che volevi? Sicuramente un Druido come consigliere del Principe non sarebbe d’aiuto ai Mang.»

Hableyat scosse tristemente la testa. «Amico mio, te la si può dare a bere facilmente come ai miei militanti compatrioti.»

«Suppongo di essere ottuso.»

Hableyat staccò le mani dai fianchi come per rivelare a Joe ogni cosa solo con un gesto. «È talmente ovvio.»

«Spiacente.»

«In questo modo i Druidi hanno in mente di assimilare Ballenkarch a loro stessi. I miei avversari su Mangtse, conosciute le loro intenzioni, si precipitano a opporvisi con le unghie e coi denti. Non considerano le implicazioni, le probabili eventualità. No, poiché è un piano dei Druidi deve essere contrastato. E con un programma che secondo la mia opinione metterà Mangtse in grave imbarazzo.»

«Capisco a cosa alludi,» disse Joe, «ma non come funziona.»

Hableyat lo considerò con espressione divertita. «Mio caro amico, la venerazione umana non è affatto infinita. Direi che i Laici di Kyril profondono il massimo sul loro Albero. Così, quale sarebbe la reazione alla notizia dell’esistenza di un altro Albero divino?»

Joe sogghignò. «Dividerebbero in due la loro venerazione verso il primo albero.»

«Naturalmente sono incapace di valutare la diminuzione, ma in ogni caso sarà considerevole. Dubbi ed eresie prenderanno piede, e i Druidi si accorgeranno che i Laici non sono più ciechi e fiduciosi e innocenti. Essi si identificano con l’Albero. Appartiene a loro, è unico nel suo genere, solitario nell’universo.

«Poi, improvvisamente, su Ballenkarch esiste un altro Albero, piantato dai Druidi, e girano voci secondo le quali la sua presenza è motivata politicamente.» Sollevò espressivamente le sopracciglia.

«Ma i Druidi, controllando Ballenkarch e queste nuove industrie possono sempre finire vittoriosi.»

Hableyat scosse la testa. «Amico mio, Mangtse è potenzialmente il mondo più debole dei tre. Questo è il punto cruciale di tutta la faccenda. Kyril ha la manodopera, Ballenkarch ha la ricchezza minerale e agricola, una popolazione aggressiva, una tradizione guerresca. In qualunque associazione tra mondi Ballenkarch alla fine sarà il coniuge cannibale che divora la sua sposa.

«Pensa ai Druidi, gli epicurei, i padroni sofisticati di cinque bilioni di schiavi. Immaginateli che tentano di dominare Ballenkarch. È ridicolo. Nel giro di cinquant’anni i Ballenkart caccerebbero a frustate i Tearchi dai cancelli di Divinai, e brucerebbero l’Albero nel rogo della vittoria.

«Considera l’alternativa: Ballenkarch legato a Mangtse. Un periodo di tribolazioni, profitti per nessuno. E allora i Druidi non avranno scelta, dovranno piegare la schiena e lavorare. Senza le industrie di Ballenkarch dovranno per forza introdurre su Kyril nuovi sistemi, fabbriche, industrie, istruzione. Alla vecchia maniera.

«I Druidi potrebbero perdere le redini del potere, o forse no, ma Kyril rimarrebbe un gruppo industriale integrato, e costituirebbe il mercato naturale per i prodotti di Mangtse. Perciò capisci, eliminati entrambi i mercati di Kyril e Ballenkarch, la nostra economia Mang scemerebbe, soffrirebbe. Saremmo costretti a riconquistare i nostri mercati con un’azione militare, e potremmo perdere.»

«Capisco tutto ciò,» disse Joe lentamente, «ma non conduce da nessuna parte. Esattamente tu cosa vuoi?»

«Ballenkarch è autosufficiente. In questo momento né Mangtse né Kyril possono esistere da soli. Formiamo una coppia naturale. Ma come vedi i Druidi non sono soddisfatti dell’affluenza di ricchezza. Ne esigono dell’altra, e credono di ottenerla controllando le industrie di Ballenkarch.

«Io voglio evitare questo, e voglio anche evitare un accordo tra Mangtse e Ballenkarch, che sarebbe prima facie contro natura. Io desidero vedere un nuovo regime su Kyril, un governo impegnato a migliorare il potere di produzione e di acquisto dei Laici, un governo impegnato nell’alleanza naturale con Mangtse.»

«Peccato che i tre mondi non possano costituire un consiglio comune.»

Hableyat sospirò. «L’idea, per quanto felice, è violentemente contrastata da tre realtà. Prima, la politica attuale dei Druidi; seconda, l’ascendente della fazione Rossa su Mangtse; e terza, le ambizioni del Principe di Ballenkarch. Se tutte e tre queste realtà cambiassero, una tale unione potrebbe consumarsi. Io per esempio l’approverei, perché no?» Parve meditare fra sé, e dietro la blanda maschera gialla Joe scorse il volto di un uomo molto stanco.

«Cosa sarà di te adesso?»

Hableyat strinse mestamente le labbra. «Se la mia autorità è realmente stata soppiantata ci si aspetterà che io mi uccida. Non essere sorpreso, è un costume Mang, un modo per sottolineare la disapprovazione. Temo di non avere ancora molto da stare al mondo.»

«Perché non ritorni su Mangtse e ripari il tuo steccato politico?»

Hableyat scosse la testa. «Non è nel nostro costume. Puoi anche sorridere, ma dimentichi che le società esistono per un accordo generale riguardante certi simboli, necessità alle quali bisogna obbedire.»

«Ecco che arriva l’aeromobile,» disse Joe. «Se fossi in te, invece di commettere suicidio, cercherei di inventare un piano per portare il Principe dalla tua parte. Sembra che sia lui la chiave. Lo corteggiano entrambi, Druidi e Mang.»

Hableyat scosse di nuovo la testa. «Non il Principe. È un uomo bizzarro, un misto tra un bandito, un giullare e un visionario. Sembra che consideri il nuovo Ballenkarch come un gioco interessante, un’allegra ricreazione.»


L’aeromobile atterrò, un mezzo di trasporto panciuto e bisognoso di una riverniciata. Due uomini grandi e grossi in brache rosse lunghe fino al ginocchio, ampie giubbe azzurre e berretti neri, scesero baldanzosamente dall’aeromobile, con l’espressione placidamente arrogante dell’élite militare.

«Il Principe manda i suoi saluti,» disse il primo all’ufficiale Beland. «Ha sentito che tra i passeggeri ci sono degli agenti stranieri, perciò tutti coloro che sbarcano verranno condotti subito al suo cospetto.»

Non ci furono ulteriori discorsi. Sull’aeromobile salirono in gruppo Elfane e Hableyat, i due Druidi con il loro altare portatile, i Mang scoccando gialle occhiate fulminanti a Hableyat, e Joe, tutti diretti su Ballenkarch. I Cil e la vecchia vestita di nero avrebbero continuato il loro viaggio fino a Castlegran, Cil o Beland, e nessuno venne scaricato dalla stiva.

Joe attraversò la fusoliera e si lasciò cadere accanto a Elfane, che si girò e gli mostrò un volto che sembrava privato di tutta la sua giovinezza. «Che cosa vuoi da me?»

«Niente. Sei arrabbiata con me?»

«Sei una spia Mang.»

Joe rise, a disagio. «Oh… perché sono in confidenza con Hableyat?»

«Cosa ti ha mandato a dirmi adesso?»

La domanda prese Joe alla sprovvista, e lo mise di fronte a tutta una serie di speculazioni. Era possibile che Hableyat lo stesse usando per trasmettere ai Druidi attraverso Elfane le idee che gli interessavano?

Disse: «Non so se volesse che tu lo venissi a sapere: Ma mi ha spiegato perché vi ha aiutato a portare qui il vostro Albero, e mi sembra convincente.»

«In primo luogo,» disse Elfane caustica, «non abbiamo più l’Albero. Ci è stato rubato a Giunzione.» I suoi occhi si ingrandirono, e lo guardò con subitaneo sospetto. «Anche questo è stato opera tua? È mai possibile che…»

Joe sospirò. «Sei determinata a pensare il peggio di me. Benissimo. Se tu non fossi così dannatamente bella e seducente penserei due volte peggio di te. Ma stai pensando di irrompere dal Principe con quei due Druidi dalla faccia color latte, e credi di potertelo avvolgere attorno al dito mignolo. Forse puoi farlo. So benissimo che non ti fermeresti davanti a nulla. E adesso mi toglierò dal petto il peso di quello che mi ha detto Hableyat, e di quest’informazione puoi farci ciò che ti pare.»

La fissò con sguardo penetrante, sfidandola a parlare, ma Elfane gettò indietro la testa e fissò gli occhi fuori dal finestrino.

«Crede che se riuscirai in questa missione, allora tu e i tuoi Druidi finirete per fare la parte del secondo violino a questi rozzi Ballenkart. Se non riuscirai, ebbene, i Mang probabilmente prevederanno qualcosa di spiacevole per te personalmente, ma i Druidi — secondo Kableyat — alla fine ne usciranno in vantaggio.»

«Vattene,» disse Elfane con voce strozzata. «Non fai che spaventarmi. Vattene.»

«Elfane, dimentica tutta questa storia di Druidi, Mang e Albero della Vita, e io ti riporterò sulla Terra. Sempre che riesca a lasciare vivo questo pianeta.»

Elfane gli mostrò le spalle. L’aeromobile ronzò, vibrò, si alzò in aria. Il paesaggio si distese sotto di loro: montagne massicce spruzzate e screziate di neve e ghiaccio, praterie lussureggianti con l’erba lucente di un verde prismatico, vivido e sgargiante. Attraversarono la catena montuosa. L’aeromobile sobbalzò e avanzò a scossoni nell’aria ineguale, poi scese obliqua verso un mare interno.

Un insediamento, chiaramente nuovo, agli albori della sua esistenza, era cresciuto sulla sponda di quel mare. Tre importanti bacini, e una dozzina di grossi edifici rettangolari con le pareti di vetro e il tetto di luccicante metallo, formavano il cuore della città. Un miglio oltre la città un promontorio boscoso dominava il mare, e all’ombra di quel promontorio atterrò l’aeromobile.

La porta si aprì. Uno dei Ballenkart fece un cenno brusco. «Da questa parte.»

Joe seguì Elfane a terra e vide davanti a sé un edificio lungo e basso con la facciata di vetro che dava sul panorama del mare e della pianura. Il soldato Ballenkart fece un altro gesto perentorio. «Alla Residenza,» disse seccamente.

Risentito Joe si diresse all’edificio, pensando che quei soldati erano ben miseri emissari di disponibilità. Camminando gli si tesero i nervi. L’atmosfera non era certo di benvenuto, e notò che la tensione stringeva tutti in una morsa. Elfane si muoveva come se avesse le gambe rigide. La guancia di Erru Kametin splendeva color giallo vivo lungo la mascella.


In fondo al gruppo Joe notò Hableyat che parlava con urgenza ai due missionari Druidi. Sembravano riluttanti. Hableyat alzò la voce. Joe lo udì dire: «Qual è la differenza? In questo modo avete almeno una possibilità, che vi fidiate oppure no delle mie motivazioni.» I Druidi finalmente sembrarono acconsentire. Hableyat marciò vivacemente in testa al gruppo e disse a voce alta: «Basta! Questa impudenza non deve continuare!»

I due Ballenkart si girarono di scatto, sorpresi. Con espressione dura, Hableyat disse: «Andate a chiamare il vostro padrone. Non sopporteremo oltre questo trattamento indegno.»

I Ballenkart sbatterono le palpebre, leggermente mortificati nel vedere messa in dubbio la loro autorità. Erru Kametin, con sguardo di fuoco, disse: «Cosa stai dicendo, Hableyat? Stai cercando di comprometterci agli occhi del Principe?»

«Deve imparare che noi Mang teniamo in gran conto la nostra dignità. Non ci muoveremo da qui finché non verrà a salutarci come si conviene a un ospite cortese.»

Erra Kametin rise sprezzante. «Resta qui, allora.» Si avvolse nel mantello scarlatto, si girò, e proseguì verso la Residenza. I Ballenkart si consultarono, e uno accompagnò i Mang. L’altro sorvegliò Hableyat con occhi truculenti. «Aspetta che il Principe venga a saperlo!»

Il resto del gruppo aveva girato un angolo. Hableyat tirò fuori con disinvoltura la mano da sotto il mantello, e scaricò un tubo addosso alla guardia. Gli occhi della guardia divennero colore del latte, e l’uomo crollò a terra.

«È soltanto stordito,» disse Hableyat a Joe, che si era voltato per protestare. E ai Druidi: «Svelti.»

Tenendo sollevate le vesti corsero a un vicino mucchietto di terra soffice. Uno scavò un buco con un bastone, l’altro aprì l’altare, e ne trasse teneramente la miniatura dell’Albero. Un piccolo vaso circondava le sue radici.

Joe sentì Elfane boccheggiare. «Voi due…»

«Silenzio,» scattò Hableyat. «Occupati dei tuoi interessi, se sei saggia. Questi sono Arcitearchi, entrambi.»

«Manaolo… un inganno!»

Le radici scesero nel buco. La terra venne pressata attorno alla pianticella. I Druidi chiusero l’altare, si spolverarono le mani, e ritornarono a essere monaci dalla faccia inespressiva. E il Figlio dell’Albero era ritto nel suolo di Ballenkarch, immerso nella calda luce gialla. Se non lo si guardava con particolare attenzione, sembrava solo un altro arbusto.

«E adesso,» disse Hableyat placidamente, «possiamo proseguire per la Residenza.»

Elfane fulminò con lo sguardo Hableyat e i Druidi, con occhi brucianti di rabbia e di umiliazione. «E per tutto questo tempo avete riso di me!»

«No, no, Sacerdotessa,» disse Hableyat. «Mantieni la calma, te ne imploro. Avrai bisogno di tutto il tuo ingegno quando affronterai il Principe. Credimi, la tua parte è stata molto utile.»

Elfane si volse alla cieca, come per correre via verso il mare, ma Joe la trattenne. Per un attimo Elfane lo fissò negli occhi, con i muscoli come filo spinato. Poi si rilassò, come svuotata di ogni vigore. «Va bene, ci andrò.»

Continuarono, e incontrarono a metà strada una squadra di sei soldati evidentemente mandati a fare loro da scorta. Nessuno badò al corpo privo di sensi della guardia.

Al portale vennero sottoposti a una perquisizione, rapida ma così dettagliata e completa da suscitare adirate proteste dai Druidi e uno strillo oltraggiato da Elfane. L’arsenale così scoperto era sorprendente: piccole armi coniche su entrambi i Druidi, il tubo stordente di Hableyat e uno stiletto a serramanico, la pistola di Joe, un piccolo tubo lurido che Elfane portava infilato nella manica.

Il soldato indietreggiò, fece un gesto. «Siete autorizzati a entrare nella Residenza. Badate di osservare le comuni forme di rispetto.»

Attraversando un’anticamera dipinta di animali grotteschi e semidemoniaci, entrarono in un grande salone. Le travi del soffitto erano tronchi enormi, sbozzati a mano e intagliati con decorazioni convenzionali, le pareti erano rivestite di canne intrecciate. Su ogni lato file di piante verdi e rosse correvano lungo la parete, e il pavimento era coperto da un soffice tappeto di fibra tessuto e tinto in uno strabiliante disegno scarlatto, nero e verde.

Sul lato opposto all’entrata c’era un palco, fiancheggiato da due massicce balaustre di legno rosso ruggine, e un seggio enorme a foggia di trono dello stesso legno rossiccio. Il trono era vuoto.

Venti o trenta uomini erano sparsi per il salone, uomini grandi e grossi, abbronzati dal sole, qualcuno con un paio di baffi ispidi; si muovevano con imbarazzo, a disagio, come se non fossero usi ad avere un tetto sopra la testa. Tutti indossavano brache rosse lunghe fino al ginocchio. Alcuni portavano bluse di vari colori, mentre altri erano a petto nudo, con mantelli di pelliccia nera gettati dietro le spalle. Tutti avevano delle pesanti sciabole alla cintura, e tutti fissavano i nuovi arrivati senza benevolenza.

Joe guardò da una faccia all’altra. Harry Creath non sarebbe stato lontano da Vail-Alan, il centro dell’attività. Ma non era in quella sala.


Accanto al palco, in gruppo, c’erano i Mang delle Correnti Rosse. Erra Kametin parlò alla donna in un aspro falsetto. I due procuratori ascoltavano in silenzio, girati a metà da un’altra parte.

Un cerimoniere con una lunga chiarina di ottone entrò nella stanza e suonò una vivace fanfara. Joe sorrise debolmente. Come una commedia musicale: guerrieri in uniformi sgargianti, ostentazione, pompa, formalità…

Di nuovo la fanfara, squillante, eccitante.

«Il Principe di Vail-Alan! Sovrano per prelazione su tutta la superficie di Ballenkarch!»

Un uomo biondo, esile vicino ai Ballenkart, salì con passo svelto sul palco, e si sedette sul trono. Aveva una faccia tonda e ossuta con rughe spiritose attorno alla bocca, mani nervose e incapaci di stare ferme, un’aria di allegra intelligenza, di impazienza irrequieta. Dalla folla salì un rauco «Aaaaah» di venerazione.

Joe annuì lentamente senza sorpresa. Chi altri?

Harry Creath mosse a scatti gli occhi per la stanza. Si posarono su Joe, lo oltrepassarono, tornarono indietro. Per un minuto lo fissarono esterrefatti.

«Joe Smith! In nome del cielo, cosa stai facendo quaggiù?»

Quello era il momento per il quale aveva percorso mille anni luce. E adesso la mente di Joe si rifiutava di funzionare correttamente. Balbettò le parole che aveva ripassato per due anni, in mezzo a tribolazioni, pericoli, fastidi, le parole che esprimevano l’ossessione di due anni: «Sono venuto a prenderti.»

Le aveva dette, era vendicato. La testardaggine che era quasi autosuggestione era stata placata. Ma le parole erano state pronunciate, e la faccia mobile di Harry esprimeva stupore. «Quaggiù? Tutta questa strada… per prendere me?»

«Esatto.»

«Prendermi per fare cosa?» Harry si appoggiò allo schienale e la larga bocca si aprì in un ghigno.

«Ebbene… hai lasciato una questione in sospeso sulla Terra.»

«Nessuna che io sappia. Dovresti farmi un breve riassunto per rinfrescarmi la memoria.» Si rivolse a una guardia alta con una faccia che sembrava di sasso. «Hai fatto perquisire queste persone per vedere se avevano armi?»

«Sì, Principe.»

Harry ritornò a Joe con una smorfia di scuse giocose. «C’è troppa gente interessata a me. Non posso ignorare i rischi ovvi. Allora, stavi dicendo che vuoi che ritorni sulla Terra. Perché?»

Perché? Joe pose la domanda a se stesso. Perché? Perché Margaret credeva di essere innamorata di Harry, e Joe credeva che fosse innamorata di un sogno. Perché Joe pensava che se Margaret avesse potuto frequentare Harry per un mese, invece che per due giorni, se avesse potuto vederlo nella vita di tutti i giorni, se avesse potuto riconoscere che l’amore non era una serie di salti e brividi come una corsa sulle montagne russe, che il matrimonio non era un ciclo mozzafiato di scappatelle…

In breve, se la testolina graziosa e frivola di Margaret avesse potuto essere scossa e liberata da tutte quelle scempiaggini, allora in quella testolina ci sarebbe stato posto per Joe. Era così? Era sembrato facile, precipitarsi su Marte in cerca di Harry, solo per scoprire che Harry era partito per Io. E da Io a Pluto, il trampolino del viaggio. E poi la volontà, la testardaggine, avevano iniziato a impadronirsi di lui. Via da Pluto, avanti, sempre più lontano. Poi Kyril, Giunzione, e adesso Ballenkarch.

Joe arrossì, intensamente consapevole della presenza di Elfane alle sue spalle, che lo osservava con occhi intelligenti e riflessivi. Aprì la bocca per parlare, la richiuse. Perché?

Gli occhi erano fissi su di lui, gli occhi di tutti quelli riuniti nel salone. Occhi curiosi, disinteressati, ostili, indagatori, gli occhi placidi di Hableyat, gli occhi penetranti di Elfane, gli occhi beffardi di Harry. E nella mente confusa di Joe si fece strada un fatto inconfutabile: che avrebbe fatto la figura dell’asino più totale nella storia dell’universo se avesse detto la verità.

«Qualcosa a che fare con Margaret?» chiese Harry senza misericordia. «Ti ha mandato lei?»

Joe vide Margaret come in una visione, che li fissava entrambi ironicamente. Girò gli occhi su Elfane. Era un mascalzone, ostinato, intollerante, troppo veemente e appassionato nel volere il suo bene. Ma era sincero e onesto.

«Margaret?» Joe rise. «No. Niente a che fare con Margaret. Per la verità ho cambiato idea. Stattene pure lontano dalla Terra.»

Harry si rilassò leggermente. «Se aveva a che fare con Margaret… ebbene, sei arrivato un po’ in ritardo.» Allungò il collo. «Dove diavolo è? Margaret!»

«Margaret?» mormorò Joe.

Margaret uscì sul palco accanto a Harry. «Ciao, Joe,» come se si fossero salutati il pomeriggio precedente, «Che bella sorpresa.»

Stava ridendo dentro di sé, sommessamente. Anche Joe sorrise, sardonico. Benissimo, avrebbe mandato giù la sua medicina. Sostenne il loro sguardo, e disse: «Congratulazioni.» Si rese conto che Margaret stava vivendo nella pura realtà la vita che sosteneva di voler vivere: eccitazione, intrigo, avventura. E sembrava che le stesse a pennello.

Harry gli stava parlando. Joe d’un tratto divenne consapevole della sua voce. «Capisci, Joe, è una cosa meravigliosa quella che stiamo facendo quaggiù, un mondo meraviglioso. È ricco di metalli preziosi di prima qualità, legna, prodotti organici, forza lavoro. Ho un quadro in mente, Joe: Utopia.

«Ho alle spalle un bel gruppo di ragazzi, e stiamo lavorando insieme. Sono ancora un po’ rustici ma vedono questo mondo come lo vedo io, e sono disposti a correre il rischio con me. Per cominciare, naturalmente, ho dovuto sbattere un po’ di teste una contro l’altra, ma adesso sanno chi è il capo e andiamo d’accordo.» Harry girò amorevolmente lo sguardo sulla folla di Ballenkart, ognuno dei quali avrebbe potuto strangolarlo con una mano.

«Ancora vent’anni,» disse Harry, «e non crederai ai tuoi occhi. Cosa non faremo a questo pianeta! È meraviglioso, Joe, te lo dico io. Adesso scusami, per pochi minuti. Ci sono degli affari di stato.» Si sistemò sul suo seggio, e passò lo sguardo dai Mang ai Druidi.

«Potremmo anche discuterne adesso. Vedo che è tutto fresco e maturo nelle vostre menti. Ecco il mio vecchio amico Hableyat.» Strizzò l’occhio a Joe. «Vecchia volpe. A cosa devo la visita, Hableyat?»

Hableyat avanzò impettito. «Tua Eccellenza, mi trovo in una posizione peculiare. Non ho avuto modo di comunicare con il mio governo, e non conosco con certezza l’estensione della mia autorità.»

Harry disse a una guardia: «Trova il Magnerru.» E a Hableyat: «Il Magnerru Ippolito è arrivato fresco da Mangtse, e sostiene di parlare con la voce del vostro Ampianu Generale.»

Da un’arcata laterale si avvicinò un Mang, robusto e con la faccia quadrata, luminosissimi occhi neri, pelle giallo limone, labbra arancione vi vo. Indossava una veste scarlatta ricamata con un orlo purpureo a scacchi verdi, e un cappello cubico nero.

Erru Kametin e gli altri Mang del suo gruppo si inchinarono profondamente, rendendo omaggio con le braccia spalancate. Hableyat fece un cenno rispettoso col capo, un sorriso stereotipato sulle labbra grassocce.

«Magnerru,» disse il Principe Harry. «Hableyat vuole sapere fin dove arriva la sua libertà nel prendere decisioni politiche.»

«Nessuna,» disse il Magnerru con voce stridula. «Assolutamente nessuna. Hableyat e le Acque Azzurre sono state screditate nell’Ampianu, e il Lathbon è dalla parte delle Correnti Rosse. Hableyat non ha altra voce che la sua, e anch’essa verrà presto messa a tacere.»

Harry annuì. «Allora sarebbe saggio, prima del suo decesso, udire quali sono le sue opinioni.»

«Mio Sire,» disse Hableyat, la faccia ancora immobile nella sua maschera gioviale, «le mie parole sono triviali. Preferisco udire le dichiarazioni del Magnerru e dei due Arcitearchi che sono con noi. Mio Sire, posso affermare che i maggiori di Kyril sono al tuo cospetto: gli Arcitearchi Oporeto Implan e Gameanza. Essi sapranno presentare destramente il loro pensiero.»

«La mia modesta residenza è piena di celebrità,» disse Harry.

Gameanza si fece avanti guardando il Magnerru con occhi che brillavano. «Principe Harry, ritengo la presente atmosfera inadatta a discutere di politica. In qualunque momento tu lo desideri — quanto prima, tanto meglio — ti comunicherò la tendenza della politica dei Druidi assieme alle mie opinioni riguardanti la situazione politica ed etica.»

Il Magnerru disse: «Parla pure con quel lumacone senza guscio e con la bocca secca. Ascolta i suoi sforzi per introdurre lo schiavismo su Ballenkarch. Poi rimandalo nel suo fetido mondo grigio nella stiva di una nave bestiame.»

Gameanza si irrigidì. La sua pelle sembrò diventare irsuta. Con voce acuta e tagliente disse a Harry: «Sono a tua disposizione.»

Harry si alzò in piedi. «Bene, ci ritiriamo mezz’ora per discutere le vostre proposte.» Levò una mano all’indirizzo del Magnerru. «Tu avrai lo stesso privilegio, quindi sii paziente. Parla dei vecchi tempi con Hableyat. Mi pare di capire che prima occupava il tuo posto.»

Quando Harry saltò giù dal palco e lasciò il salone l’Arcitearca Gameanza lo seguì, e così fece l’Arcitearca Oporeto Implan. Margaret agitò disinvolta una mano verso Joe. «Ci vediamo.» E scivolò via attraverso un’altra porta.

Joe trovò una panca su un lato della stanza, e vi si sedette stancamente. Davanti a lui, come un quadro vivente, c’erano i rigidi Mang, lo squisito cosino di carne e ossa che era Elfane, Hableyat — all’improvviso distratto e impotente — e i Ballenkart nei loro sontuosi costumi, turbati, confusi, non abituati agli alterchi a base di mordaci battute, che si guardavano l’un l’altro a disagio da sopra le spalle robuste, borbottando.

Elfane voltò la testa, girò lo sguardo per la stanza. Vide Joe, esitò, poi attraversò la stanza e andò a sederglisi accanto. Dopo un po’ disse altezzosamente: «Stai ridendo di me, ti stai beffando di me.»

«Non me ne sono accorto.»

«Hai trovato l’uomo che stavi cercando,» disse con le sopracciglia inarcate. «Perché non fai qualcosa?»

Joe alzò le spalle. «Ho cambiato idea.»

«Perché quella donna coi capelli gialli — Margaret — è qui?»

«In parte.»

«Non me ne hai mai parlato.»

«Non credevo che ti interessasse.»

Elfane fissò impassibile un punto dall’altra parte della stanza. Joe disse: «Sai perché ho cambiato idea?»

Elfane fece segno di no con la testa. «No. Non lo so.»

«Per causa tua.»

Elfane si girò con occhi di fuoco. «E così è stata la donna bionda a farti venire quaggiù.»

Joe sospirò. «Ogni uomo può essere un dannato stupido una volta nella vita. Almeno una volta…»

Elfane non era soddisfatta. «Suppongo che adesso, se io ti mandassi a cercare qualcuno non ci andresti. Suppongo che lei contasse per te più di me adesso.»

Joe emise un gemito. «Oh, Signore! Innanzitutto tu non mi hai mai dato motivo di pensare che tu… oh, all’inferno!»

«Ti ho proposto di essere il mio amante.»

Joe la fissò esasperato. «Mi piacerebbe…» Si ricordò che Kyril non era la Terra, che Elfane era una Sacerdotessa, e non una ragazza del college.

Elfane rise. «Ti capisco benissimo, Joe. Sulla Terra gli uomini sono abituati a fare le cose a modo loro, e le donne sono abitanti ausiliari, E non dimenticare, Joe, che non mi hai mai detto una cosa… che mi ami.»

Joe ringhiò: «Avevo paura.»

«Prova.»

Joe provò, e con immensa felicità apprese che, nonostante mille anni luce di distanza, e due culture alle estremità opposte, le ragazze erano ragazze. Sacerdotesse o studentesse.

Harry e l’Arcidruido Gameanza ritornarono nella stanza, e sulla faccia del Druido era stampata un’espressione risoluta. Harry disse al Magnerru: «Forse vuoi essere tanto buono da scambiare qualche parola con me?»

Il Magnerru batté le mani con ira repressa contro la veste, e seguì Harry nelle camere interne. Evidentemente l’approccio informale non trovava risposta in lui.

Hableyat si sedette accanto a Joe. Elfane guardò impassibile da una parte. Hableyat aveva un’espressione preoccupata. Le guance gialle pendevano flaccide, le palpebre gli scendevano stanche sugli occhi.

Joe disse: «Su con la vita, Hableyat, non sei ancora morto.»

Hableyat scosse la testa. «Gli schemi di tutta la mia vita stanno cadendo a pezzi.»

Joe lo guardò attentamente. Era forse esageratamente tetro, i sospiri erano un po’ troppo dolenti? Diffidente, disse: «Devo ancora conoscere il tuo programma concreto.»

Hableyat scrollò le spalle. «Sono un patriota. Desidero vedere il mio pianeta prosperare e crescere in ricchezza. Sono un uomo imbevuto della cultura del mio mondo; non so concepire modo di vivere migliore, e desidero vedere questa cultura espandersi, arricchirsi delle culture di altri mondi, adattando il bene, sconfiggendo il male.»

«In altre parole,» disse Joe, «sei un imperialista accanito quanto i tuoi amici militari. Solo che i tuoi metodi sono diversi.»

«Temo che tu mi abbia definito correttamente,» sospirò Hableyat. «E per di più temo che in questa era l’imperialismo militare sia quasi impossibile, e che l’imperialismo culturale sia l’unica forma praticabile. Un pianeta non può venire soggiogato e occupato con successo da un altro pianeta. Può essere devastato, raso al suolo, ma la logistica della conquista è praticamente insuperabile. Temo che le avventure proposte dalle Correnti Rosse esauriranno Mangtse, rovineranno Ballenkarch e spianeranno la strada per un imperialismo religioso dei Druidi.»

Joe sentì Elfane irrigidirsi. «E perché mai sarebbe peggiore dell’imperialismo culturale dei Mang?»

«Mia cara Sacerdotessa,» disse Hableyat, «non potrò mai esporre argomentazioni abbastanza persuasive da convincerti. Dirò solo una cosa: che i Druidi producono molto poco con un’enorme potenzialità; che vivono sulle spalle di una massa sofferente; e che spero che il sistema non venga mai esteso tanto da includere me tra i Laici.»

«E nemmeno me,» disse Joe.

Elfane scattò in piedi. «Siete delle persone spregevoli!»

Joe sorprese se stesso allungando una mano e tirandola a sedere con un tonfo. Elfane lottò per un poco, poi si calmò.

«Lezione numero uno di cultura terrestre,» disse Joe allegramente. «È maleducazione discutere di religione.»

Un soldato entrò a precipizio nel salone, ansimando, con la faccia contorta per il terrore. «È orribile… fuori, lungo la strada… Dov’è il Principe? Chiamate il Principe… una crescita terribile!»

Hableyat balzò in piedi, con un’espressione vigile e acuta. Corse agilmente fuori dalla porta, e dopo un secondo Joe disse: «Vado anch’io.»

Elfane, senza una parola, lo seguì.


Joe ebbe l’impressione violenta di un’assoluta confusione. Una folla disordinata di uomini si accalcava attorno a un oggetto che non riuscì a identificare, una cosa rannicchiata, verde e marrone, che sembrava dimenarsi e sollevarsi.

Hableyat si fece strada in mezzo alla gente in circolo, con Joe al suo fianco e Elfane premuta contro la schiena di lui. Joe guardò meravigliato. Il Figlio dell’Albero?

Era cresciuto, diventato più complesso. Non assomigliava più all’Albero di Kyril. Il Figlio si era adattato a un nuovo scopo, la protezione, la crescita e la flessibilità.

Joe pensò a un gigantesco dente di leone. Una palla bianca e lanuginosa si manteneva a venti piedi dal suolo su uno stelo sottile e ondeggiante, circondato da un cono rovesciato di fronde piatte e verdi. Alla base di ogni fronda sporgeva un viticcio verde, striato e chiazzato di nero. Stretti nei viticci c’erano i corpi di tre uomini.

Hableyat emise un grido spezzato. «Quella cosa è un demonio,» e batté la mano contro la borsa. Ma la sua arma era stata requisita dalle guardie della Residenza.

Un capitano Ballenkart, la faccia pallida e contorta, caricò il Figlio agitando la sciabola. La palla lanuginosa ondeggiò un poco verso di lui, i viticci scattarono all’indietro come le zampe di un insetto, poi si mossero tutti assieme, avvolsero strettamente l’uomo, gli segarono la carne. L’uomo urlò, poi tacque, si irrigidì. I viticci si illuminarono di rosso, pulsarono, e il Figlio si alzò ancora.

Altri quattro Ballenkart, agendo in cupo accordo, caricarono il Figlio, seguiti da altri sei. I viticci colpirono, scattarono, e dieci corpi giacquero bianchi e rigidi al suolo. Il Figlio si espanse come se ne venisse magnificato.

La voce leggera e sicura del Principe Harry disse: «Fatevi da parte… Su, avanti, fatevi indietro.»

Harry si fermò a guardare la pianta, venti piedi fino in cima alle fronde, mentre la palla bianca e lanuginosa si elevava altri dieci piedi sopra di esse.

Il Figlio si avventò, con un’astuzia simile all’intelligenza. I viticci si spiegarono, intrappolarono una dozzina di uomini ruggenti, li trascinarono vicini a sé. E allora la folla impazzì, ondeggiò avanti e indietro in spasmi alterni di rabbia e paura, infine caricò in una mischia stridente.

Le sciabole scintillarono, rotearono, mozzarono. Sopra a tutti la palla bianca e lanuginosa ondeggiava senza fretta. Era ragionevole, sentiva, programmava, con una consapevolezza vegetale, calma, impavida, con un unico proposito. I suoi viticci strisciavano, si torcevano, stringevano, tornavano a defluire. E il figlio dell’Albero cresceva in altezza e in corposità.

Gli ansimanti superstiti della folla caddero all’indietro, fissando impotenti il terreno cosparso di cadaveri. Harry fece segno a una delle sue guardie personali. «Portate fuori un cannone termico.»

Gli Arcitearchi si fecero avanti, protestando. «No, no, quello è il Sacro Germoglio, il Figlio dell’Albero.»

Harry non prestò loro attenzione. Gameanza gli ghermì un braccio con un’insistenza allarmata. «Richiama i tuoi soldati. Nutrilo solo di criminali e di schiavi. In dieci anni sarà gigantesco, un Albero magnifico.»

Harry se ne liberò con uno strattone, fece un cenno col capo a un soldato. «Porta via questo maniaco.»

Un proiettore su ruote venne fatto rotolare fuori dalla Residenza, e venne fermato a cinquanta piedi dal Figlio. Harry fece segno. Un raggio bianco e denso di energia sputò contro il Figlio. «Aaah!» sospirò la folla, in una gratificazione che rasentava la voluttà. Ma il sospiro esultante tacque di colpo. Il Figlio beveva l’energia come la luce del sole, e cresceva e diventava sempre più lussureggiante. A cento piedi torreggiava la palla bianca e lanuginosa.

«Puntatelo contro la cima,» disse Harry ansiosamente.

La barra di energia salì lungo l’esile stelo, si concentrò sulla sommità della pianta, che si corruscò, gocciolò, si ritrasse.

«Non gli piace!» gridò Harry. «Continuate a inondarlo!»

Gli Arcitearchi, trattenuti dietro la folla, ulularono in un’agonia che pareva la loro: «No, no, no!»

La palla bianca ritrovò l’equilibrio, e sputò un fiotto di energia. Il proiettore esplose, scagliando teste e braccia e gambe in ogni direzione.


D’un tratto ci fu un silenzio di morte. Poi cominciarono i gemiti, che si tramutarono in urla improvvise quando i viticci scattarono in avanti per nutrirsi.

Joe tirò indietro Elfane, e un viticcio la mancò per un passo. «Ma io sono una Sacerdotessa Druida,» disse in preda a un ottuso stupore. «L’Albero protegge i Druidi. L’Albero accetta solo i pellegrini Laici.»

«Pellegrini!» Joe rammentava i pellegrini di Kyril, stanchi, impolverati, con le piaghe ai piedi, malati, che entravano dal portale all’interno dell’Albero. Rammentava la pausa al portale, l’ultimo sguardo verso la terra grigia, e su verso il fogliame prima di girarsi e di entrare nel tronco. Giovani e vecchi, di tutte le condizioni, migliaia ogni giorno…

Ormai Joe doveva piegare il collo all’indietro per vedere la cima del Figlio. Il flessibile stelo centrale si stava irrigidendo, la piccola palla bianca ondeggiava e si torceva e scrutava il suo nuovo dominio.


Procedendo a fatica, Harry si avvicinò a Joe. La sua faccia era una maschera bianca. «Joe… questa è la creatura più empia che ho visto su trentadue pianeti.»

«Io ne ho vista una più grande, su Kyril. Mangia i cittadini a migliaia.»

Harry disse: «Questa gente si fida di me. Credono che io stesso sia una specie di dio, solo perché conosco un po’ di ingegneria terrestre. Devo uccidere quell’abominio.»

«Non hai intenzione di metterti con i Druidi, allora?»

Harry sogghignò. «Per che razza di gonzo mi hai preso, Joe? Non ho intenzione di mettermi con nessuno di loro. Che venga un accidente a tutti e due i loro governi. Li ho tenuti a bada, li ho illusi per avere il tempo di sistemare le cose. Non sono ancora soddisfatto, ma di certo non mi aspettavo una cosa simile. Chi diavolo ha portato qui quella cosa?»

Joe taceva. Elfane disse: «È stata portata da Kyril per ordine dell’Albero.»

Harry la fissò esterrefatto. «Mio Dio, quella cosa parla anche?»

Elfane disse, vagamente: «Il Collegio dei Tearchi legge la volontà dell’Albero grazie a vari segni.»

Joe si grattò il mento.

«Bah,» disse Harry. «Una decorazione fantasiosa per una bella piccola tirannia un po’ stretta. Ma non è questo il problema. Quella cosa deve essere uccisa!» E borbottò: «E mi piacerebbe beccare anche la bestia più grande, se avessi fortuna.»

Joe sentì e guardò Elfane aspettandosi di vederla infiammarsi di collera. Ma Elfane se ne stava in silenzio, osservando il Figlio.

Harry disse: «Sembra che si sviluppi rigogliosamente nutrendosi di energia… Il calore è escluso. Una bomba? Proviamo a farlo saltare in aria. Mando qualcuno giù al magazzino a prendere dell’esplosivo.»

Gameanza riuscì a liberarsi, arrivò correndo con la veste grigia che gli sbatteva intorno alle gambe. «Eccellenza, noi protestiamo con veemenza per la vostra aggressione contro quest’Albero!»

«Spiacente,» disse Harry sarcastico. «Io lo chiamo bestia assassina.»

«La sua presenza simbolizza il legame tra Kyril e Ballenkarch,» giustificò Gameanza.

«Simbolizza la mia caviglia. Togliti quella spazzatura metafisica dalla mente, amico. Quella cosa è un uccisore di uomini, e non voglio averlo tra i piedi. Vi compatisco per il mostro gigantesco che avete sul vostro pianetucolo, anche se immagino che non dovrei farlo.» Guardò Gameanza dall’alto in basso. «Avete fatto piuttosto buon uso dell’Albero. È stato il vostro buono pasto per un migliaio di anni. Beh, questo sta per andarsene. Ancora dieci minuti e sarà un acro di schegge.»

Gameanza roteò sui tacchi, si allontanò marciando di venti piedi, e lì si fermò a discutere sottovoce con Oporeto Implan. Dieci libbre di esplosivo legate a un detonatore vennero sollevate contro il grosso trinco dell’Albero. Harry sollevò la pistola a radiazioni che avrebbe proiettato frequenze di innesco.

Colto da un pensiero improvviso, Joe balzò avanti, gli afferrò il braccio. «Aspetta un minuto. Supponi di farne un acro di schegge… e se ognuna delle schegge si mette a crescere?»

Harry mise a terra il proiettore. «Questa è un’idea macabra.»

Joe indicò con un gesto la campagna. «Tutte queste fattorie, sembrano ben curate, moderne.»

«Seguono le più recenti tecniche terrestri. E allora?»

«Non lascerai che i tuoi gorilla strappino le erbacce a mano?»

«Certo che no. Abbiamo una dozzina di diserbanti differenti… ormoni…» Si interruppe all’improvviso, batté una mano sulla spalla di Joe. «Diserbanti! Ormoni della crescita! Joe, ti farò Segretario dell’Agricoltura!»

«Prima,» disse Joe, «vediamo se quella roba ha effetto sull’Albero. Se è un vegetale impazzirà.»

Il Figlio dell’Albero impazzì.

I viticci si attorcigliarono, si contorsero, schioccarono. Il capo bianco e lanuginoso sputò a casaccio archi crepitanti di energia in ogni direzione.

Le fronde si sollevarono grottescamente fino a duecento piedi in pochi secondi, poi si afflosciarono al suolo. Venne portato un altro proiettore termico. Adesso il Figlio resisteva solo debolmente. Il tronco si carbonizzò; le fronde si disseccarono e annerirono.

Dopo alcuni minuti il Figlio dell’Albero era un moncone maleodorante.

Il Principe Harry si sedette sul trono. Le facce pallide degli Arcitearchi Gameanza e Oporeto Implan erano avvolte nei cappucci. I Mang della fazione Rossa aspettavano in gruppo su un lato del salone, in un rigido ordine di precedenza, prima il Magnerru in corazza cesellata e veste scarlatta, poi Erru Kametin, e dietro di lui i due procuratori.

Harry, con la sua voce chiara e leggera, disse: «Non ho molto da annunciare, se non che da diversi mesi a oggi c’è stata una diffusa incertezza sulla direzione nella quale salterà Ballenkarch, verso Mangtse oppure verso Kyril.

«Ebbene,» si mosse sul trono e posò le mani sui braccioli, «tali speculazioni sono state interamente nella mente dei Druidi e dei Mang, perché qui su Ballenkarch non c’è mai stata indecisione alcuna. Una volta per tutte non ci assoceremo a nessuno dei due pianeti.

«Noi ci svilupperemo in una direzione diversa, e credo che finiremo con l’avere il mondo più bello da questa parte della Terra. Per quanto riguarda il Figlio dell’Albero non ritengo nessuno personalmente responsabile. Voi Druidi avete agito, io credo, secondo i vostri migliori lumi. Siete vittime delle vostre credenze, quasi quanto i vostri Laici.

«Un’altra cosa: seppure non scenderemo a compromessi politici, siamo in affari. Commerceremo. Costruiremo utensili, martelli, seghe, chiavi, saldatori. Tra un anno cominceremo a costruire apparecchiature elettriche. Tra cinque anni avremo uno spazioporto sulle sponde del Lago Alan.

«Tra dieci anni trasporteremo le nostre merci su ogni stella che vedete nella notte, e forse qualcun’altra. Perciò, Magnerru, tu puoi ritornare e riferire il mio messaggio al vostro Ampianu Generale e al Lathbon. In quanto a voi Druidi dubito che desideriate fare ritorno. Potrebbero esserci dei bei tumulti su Kyril per quando arriverete.»

«Cosa significa?» chiese Gameanza bruscamente.

Harry torse la bocca. «Consideratela un’intuizione.»


Dal solarium privato di Harry, l’acqua del Lago Alan risplendeva delle mille sfumature del tramonto. Joe era seduto su una poltroncina. Accanto a lui c’era Elfane, in un semplice abito bianco.

Harry passeggiava nervosamente avanti e indietro, parlando, gesticolando, millantando. Nuove fornaci di riduzione a Palinth, cento scuole nuove, centrali elettriche per la nuova classe agricola, armi per l’esercito.

«Hanno ancora quel tocco barbarico,» disse Harry. «Amano combattere, amano la sfrenatezza, le loro feste di primavera, le loro notti passate a ballare intorno al fuoco. È nato e cresciuto dentro di loro e non potrei toglierlo nemmeno se provassi.»

Ammiccò a Joe.

«I lanciafiamme li mando contro i clan di Vail Macrombie, che è l’altro continente. Prendo due piccioni con una fava. Sfogano la loro belligeranza contro i cannibali Macrombie e gradatamente conquistano il continente. È sanguinoso, certo, ma soddisfa un bisogno che hanno nell’anima.

«I giovani li educheremo in modo diverso. I loro eroi saranno gli ingegneri invece dei soldati, e ogni cosa dovrebbe risolversi all’incirca nello stesso periodo. La nuova generazione crescerà mentre i loro padri staranno rastrellando Matenda Cape.»

«Molto ingegnoso,» disse Joe. «E a proposito di ingegnosità, dov’è Hableyat? Non lo vedo da qualche giorno.»

Harry si lasciò cadere in poltrona. «Hableyat se n’è andato.»

«Andato? Dove?»

«Ufficialmente, non lo so, specialmente quando ci sono dei Druidi in mezzo a noi.»

Elfane si agitò. «Io non… non sono più una Druida. È una cosa che ho strappato da dentro di me. Adesso sono una…» sollevò gli occhi su Joe, «una cosa?»

«Una profuga,» disse Joe. «Una trovatella dello spazio. Una donna senza terra.» Si rivolse di nuovo a Harry. «Meno misteri. Non può essere così importante.»

«Ma lo è! Forse.»

Joe scrollò le spalle. «Fai come vuoi.»

«No,» disse Harry. «Te lo dirò. Hableyat, come sai, è in disgrazia. È out, e il Magnerru Ippolito è in. La politica dei Mang è complessa e criptica, ma sembra che dipenda parecchio dal prestigio, dalla dignità. Il Magnerru ha perduto la faccia qui su Ballenkarch. Se Hableyat riesce a compiere una qualche impresa notevole, tornerà in campo. Ed è a nostro vantaggio che il potere su Mangtse sia in mano alle Acque Azzurre.»

«Ebbene?»

«Ho dato a Hableyat tutti gli ormoni diserbanti che avevamo, circa cinque tonnellate. Li ha fatti caricare su una nave che ho messo a sua disposizione ed è partito.» Harry fece un gesto stravagante. «Dove stia andando… non lo so.»

Elfane sospirò piano e a lungo sottovoce, rabbrividì, girò lo sguardo sul Lago Alan al tramonto, rosa, oro, lavanda, turchese. «L’Albero…»

Harry si alzò in piedi. «Ora di cena. Se il suo piano è questo — spruzzare l’Albero con gli ormoni — dovrebbe essere un bello spettacolo.»

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