Il barista era l’uomo più grande e grosso dell’Hub. Aveva una faccia lunga e sottile, un torace e una pancia come un barile di carne e ossa. Buttava fuori gli ubriachi sospingendoli verso la porta a colpi di pancia, saltando loro attorno, facendoli avanzare come un danzatore del ventre sgraziato ed elefantesco. Notizie degne di fiducia paragonavano i colpi ai calci di un mulo. Marvin Allixter, un magro nervoso prossimo ai quaranta, avrebbe voluto dirgli che era una canaglia, uno sleale mangiasoldi, ma frenava prudentemente la lingua.
Il barista rigirò la bolla avanti e indietro, esaminando da ogni lato la piccola creatura imprigionata. Splendeva e luccicava come un prisma, giallo sole, smeraldo, malva struggente, vermiglio, tutti i colori più puri. «Venti franchi,» disse senza entusiasmo.
«Venti franchi?» Allixter batté entrambi i pugni sul banco con fare drammatico. «Adesso tu stai scherzando.»
«Nessuno scherzo,» borbottò il barista.
Allixter si sporse in avanti con serietà, pensando di appellarsi alla ragione di quell’uomo. «Adesso, Buck, guarda qui. La bolla è un puro cristallo di roccia, vecchio di forse un milione di anni. E bada, i Kickerjee scavano per un anno intero, si ritengono fortunati se ne trovano uno o due, e anche allora solo in un grosso pezzo di quarzo. Sgobbano e lucidano girano e voltano, e uno scivola di mano e va in frantumi, la bolla si spacca, il piccolo cola lentamente fuori e muore.»
Il barista si girò per versare due whisky lisci a una coppia di sogghignanti magazzinieri. «Troppo fragile. Se lo comprassi e uno di questi ubriachi lo rompesse, avrei perso venti franchi.»
«Venti franchi?» chiese Allixter costernato. «Non è cifra da pronunciare assieme a questo gioiellino. Diamine, per venti franchi venderei prima il mio orecchio.»
«D’accordo.» Buck il barista agitò giocosamente un coltello.
Allora Allixter pensò di fare leva sulla cupidigia dell’uomo. «Questo stesso oggetto mi costa cinquecento franchi alla fonte.»
Il barista gli rise in faccia. «Voi ragazzi della squadra teletrasporto cantate tutti la stessa canzone. Trovate un gingillo da qualche parte vicino alle stazioni, lo riportate indietro di contrabbando attraverso il teletrasporto, raccontate una frottola fantasiosa su quanto vi costa, e lo rifilate al primo babbeo che vi ascolta.» Si versò un bicchiere d’acqua e lo bevve strizzando l’occhio ai magazzinieri.
«Già una volta sono stato fregato. Ho comprato un animaletto da Hank Evans, diceva che sapeva ballare, diceva che conosceva tutte le danze dei nativi di Kalong, e davvero sembrava che sapesse ballare. Ho dato come anticipo quarantadue franchi per quell’animale. Poi ho scoperto che aveva i piedi piagati per la nuova gravità, e stava saltellando da un piede all’altro per alleviare il dolore. Erano queste le danze.»
Allixter si mosse a disagio, gettò un’occhiata alla porta da sopra la spalla. Sam Schmitz, lo spedizioniere, già da un’ora stava facendo ronzare il suo distintivo, e Sam era un uomo impaziente. Si riappoggiò al banco, sfoggiando un’aria indifferente. «Guarda attraverso quali colori passa questo birbantello… ecco! Quel rosso! Hai mai visto niente di così luminoso? Pensa che effetto farebbe al collo di una signora!»
Kitty, la bionda e fasciatissima entraîneuse, disse in un contralto mozzafiato: «Credo che sia incantevole. Io sarei orgogliosa di portarlo.»
Il barista prese di nuovo in mano la bolla. «Io non ne conosco di signore.» La esaminò dubbioso. «È davvero un gingillo grazioso. Bene, forse sgancerò venti franchi.»
Lo schermo alle sue spalle ronzò. Accese audio e doppio visore assieme senza aspettare prima l’identificazione dell’autore della chiamata, poi spostò di fianco la propria mole. Allixter non ebbe il tempo di abbassare la testa. Sam Schmitz lo fissò faccia a faccia.
«Allixter!» latrò Schmitz. «Hai cinque minuti per venire a rapporto. Dopo, me ne infischio!» Lo schermo rimase vuoto.
Allixter osservò da sotto le scure sopracciglia aggrottate il barista che lo guardava placidamente. «Visto che vai di fretta,» disse Buck, «facciamo venticinque franchi. È un ciondolo carino.»
Allixter si alzò, continuando a fissare il barista. Fece passare la bolla da una mano all’altra. Buck tese le braccia allarmato. «Piano… potrebbe rompersi.» Affondò una mano nella cassa. «Ecco i tuoi venticinque franchi.»
«Cinquecento,» disse Allixter.
«Non posso,» disse il proprietario del bar.
«Fai quattrocento.»
Buck scosse la testa, fissando Allixter con occhi astutamente stretti. Allixter si voltò, uscì dal bar senza una parola. Il barista aspettò immobile come una statua. La faccia lunga e scura di Allixter si affacciò alla porta. «Trecento.»
«Venticinque franchi.»
Allixter contorse la faccia in un’espressione di agonia e se ne andò.
Nella via si fermò. Il deposito, un edificio enorme a forma di cubo, si levava a picco nel sole invernale, dominando i quartieri periferici piuttosto malfamati dell’Hub. Dalla sua base si dipartivano i magazzini, scintillanti massicciate di alluminio lunghe ognuna un quarto di miglio. Camion e rimorchi strofinavano il muso contro le campate laterali come sanguisughe rosse e azzurre.
I tetti dei magazzini servivano da ponti di carico, dove caricatori flessibili stipavano le stive delle navi spaziali con prodotti provenienti da un centinaio di mondi. Allixter rimase a guardare un momento l’attività, sapendo che per tutta l’attività visibile, nove decimi del traffico passavano non visti sul teletrasporto, diretti a stazioni terrestri continentali, a stazioni tra i pianeti, tra le stelle.
«Accidenti!» disse Allixter. Andò senza fretta al transito sull’angolo considerando la piccola bolla. Forse avrebbe dovuto venderla, venticinque franchi significavano ventiquattro franchi di guadagno. Respinse l’idea. Un uomo poteva portare solo tanto così sul teletrasporto, e gli spettava un profitto decente per la sua impresa.
La bolla era in effetti una sorta di creatura marina che era stata buttata dal mare sulle spiagge rosa di… Allixter non ricordava il nome del pianeta, ma il codice della stazione era 9-3-2. La rimise nella sacca, entrò nel vano del transito, sterzò, salì e sbucò d’un tratto sul ponte del deposito amministrativo.
A pochi passi c’era il cubicolo di vetro dove Sam Schmitz, il Caposervizio e Spedizioniere, sedeva su un alto sgabello. Allixter fece scivolare indietro un pannello, e disse: «Salve, Sam,» con voce gentile. Schmitz aveva una faccia tonda e grassoccia, rossa e feroce. Aveva la mandibola sporgente e l’espressione generale di un bulldog.
«Allixter,» disse Schmitz, «sarai sorpreso. Qui attorno stiamo diventando più severi. Voi ragazzi della squadra riparazioni vi siete messi in testa l’idea di essere un pugno di aristocratici, responsabili solo davanti a Dio. Questo è un errore. Tu dovevi essere in servizio di emergenza tre ore fa. Per due ore il Capo mi ha masticato il fondoschiena perché voleva un meccanico. Ti trovo nel bar di Buck. Io voglio essere buono con voi ragazzi, ma dovete rigare diritto.»
Allixter ascoltava senza concentrazione, annuendo al momento giusto. Dove avrebbe potuto provare a vendere la bolla? Forse avrebbe dovuto aspettare di avere una settimana di ferie, e portarla giù a Edmonton o a Chicago. O meglio ancora l’avrebbe messa da parte fino a quando avesse accumulato qualche altro oggetto, e poi sarebbe andato a Parigi, o a Città del Messico, dove girava un sacco di soldi. Schmitz si fermò per riprendere fiato.
«C’è niente sul ruolino di marcia, Sam?» chiese Allixter.
La reazione lo fece trasalire. Il mento di Sam tremolò per la collera. «Dannazione! Di cosa credi che abbia parlato negli ultimi cinque minuti?»
Allixter riandò indietro disperatamente con la memoria, racimolando una parola qui, una frase là. Si massaggiò la guancia e la mascella sottile, e disse: «Non ho afferrato proprio tutto, Sam. Forse se provassi e ripetermelo… Esattamente qual è la lamentela?»
Sam levò le braccia al cielo, disgustato. «Vai a trovare il Capo. Ti farà lui il quadro della situazione. Io sono esausto.»
Allixter attraversò il ponte, girò per un corridoio, si fermò davanti a un’alta porta verde con lettere di bronzo che dicevano: DIRETTORE DI SERVIZIO E MANUTENZIONE. AVANTI.
Spinse il bottone. La porta si aprì e Allixter entrò nell’ufficio esterno. La segretaria alzò lo sguardo. «Il Capo mi sta aspettando,» disse Allixter.
«Non è un segreto.» Poi disse nella griglia: «Scotty Allixter è qui.» Ascoltò all’auricolare, fece cenno ad Allixter, e fece scattare la serratura della porta interna. Allixter la fece scivolare indietro ed entrò nell’ufficio. L’aria, come sempre, aveva un odore acre di medicinali che irritava il naso di Allixter.
Il Capo era un uomo di bassa statura, costruito secondo uno schema angolare. La sua pelle era grinzosa e gialla, disseccata come un limone vecchio. Gli occhi erano delle palline nere che scattavano come per una sorta di elettricità interna. Rade ciocche di capelli crespi gli crescevano sulla testa, alcune bianche, alcune nere, senza ordine apparente. La pelle del collo era rugosa come quella di un alligatore, e il lato destro era deturpato fino al mento bitorzoluto da una spessa striscia di tessuto cicatriziale. Allixter non aveva mai visto il Capo ridere, non l’aveva mai sentito parlare se non con una secca, monotona voce nasale.
Senza preliminari, il Capo disse: «Schmitz probabilmente ti ha già fatto il quadro d questo lavoro.»
Allixter si sedette. «A essere franco, Capo, non ho afferrato bene.»
Il Capo parlò come se dovesse spiegare a un idiota le buone maniere a tavola, piano, con enunciazioni attente. «Sei già stato alla Stazione Rhetus?»
«Codice sei meno quattro meno nove. Certamente. Hanno una nuova installazione Mammut.»
«Ebbene, sei meno quattro meno nove arriva fuori fase.»
Le folte sopracciglia diritte di Allixter si levarono ad arco. «Così presto? Diamine, abbiamo appena…»
«La storia è questa,» disse il Capo seccamente. «Il teletrasporto è arrivato, raschiando appena sullo spigolo terminale del sintonizzatore. Ho calcolato una diminuzione di trentuno centesimi per cento nella fase.»
Allixter si grattò il mento. «Ha l’aria di esserci una perdita nel selettore.»
«È possibile,» convenne il Capo.
«O forse hanno un nuovo spedizioniere che sta giocando con le rettifiche.»
«Per essere certi di cogliere in pieno nel segno voglio mandarti su sei meno quattro meno nove, con una diminuzione della stessa percentuale con cui è arrivato.»
Allixter sussultò. «Sembra pericoloso. Se il codice non colpisce direttamente i contatti arriverò su Rhetus in condizioni ben misere.»
Il Capo si spinse all’indietro nella poltrona. «È lavoro per un uomo di servizio. Tu sei di emergenza. Quindi tocca a te.»
Allixter guardò corrucciato fuori dalla finestra, oltre le distese nebbiose del Grande Lago Slave. «Qui c’è qualcosa di sospetto. Quello è un Mammut nuovo, e lavorano di precisione.»
«Vero.»
Allixter scoccò al Capo un’occhiata rigorosa. «Sicuro che era Rhetus?»
«Innanzitutto non ho mai detto che lo fosse. Ho detto che il codice era sei meno quattro meno nove.»
«Hai un quadro di quel codice?»
Senza parlare il Capo gli buttò uno schema dell’oscillografo.
«Ampiezza sei, frequenze quattro e nove,» disse Allixter accigliato. «Quasi sei, quasi quattro e nove. Non sono precise. Ma sono abbastanza prossime da colpire i contatti.»
«Esatto. Bene, prendi la tua attrezzatura, sali nel teletrasporto, revisiona quella installazione.»
Preoccupato, Allixter si tirò il mento gaelico a forma di cuneo. «Forse…» Fece una pausa.
«Forse cosa?»
«Sai cosa penso?»
«No.»
«Mi sembra che potrebbe essere una stazione amatoriale, oppure una banda di dirottatori. Il teletrasporto di Rhetus tratta carichi di valore. Ora se una banda riuscisse a deviare il teletrasporto verso la propria stazione…»
«Se pensi così puoi portarti una pistola.»
Allixter si sfregò le mani nervosamente. «Mi sembra un lavoro per la polizia, Capo.»
Il Capo lo scrutò con gli scattanti occhi neri. «A me sembra che il codice abbia un calo di trentuno centesimi percento. Forse uno sciocco sta schiacciando i bottoni sbagliati su quel Mammut. Voglio che tu vada a spianare la faccenda. Per che cosa credi di ricevere mille franchi al mese?»
Allixter bofonchiò qualcosa sull’infinito valore della vita umana. Il Capo disse: «Se non ti piace, conosco meccanici migliori di te a cui piacerebbe.»
«Mi piace,» disse Allixter.
«Metti il Tipo X.»
Le folte sopracciglia nere di Allixter divennero due punti interrogativi. «Rhetus ha una buona atmosfera. Il Tipo X è anti-alogeno…»
«Metti il Tipo X. Non corriamo rischi superflui. Supponiamo che sia una installazione illegale. Portati anche il Linguaid. E una pistola.»
«Vedo che siamo della stessa opinione,» disse Allixter.
«Non dimenticare l’accumulatore di riserva, e controlla il tuo erogatore. Evans ha riferito di un tubo che perde sull’unità supplementare. L’ho fatta dichiarare inagibile, ma forse non è l’unica.»
Lo spogliatoio dei meccanici era deserto. In un cupo silenzio Allixter indossò il Tipo X: prima una spessa tuta intera connessa a elementi termici, poi una guaina sottile di pellicola inerte per isolarlo da un’atmosfera forse pericolosa, alti stivali di metallo e gomma al silicone intrecciati, impenetrabili al caldo, al freddo, all’umidità e ai danni meccanici. Una cintura assicurata con cinghie attorno alla vita e alla spalla fungeva da supporto per la borsa degli attrezzi, un erogatore e l’unità di controllo umidità, due accumulatori nuovi, un coltello a lama fissa con fodero, una pistola tipo JAR, e una torcia termica.
In corridoio incontrò Sam Schmitz. «Carr è ai bottoni. Sta verificandoti la taratura del codice…»
Una porta scorrevole con la scritta PERICOLO, VIETATO ENTRARE si aprì per loro, ed entrarono nel deposito centrale, uno stanzone lungo pieno di suoni, attività, polvere, e soprattutto di mille odori insoliti, zaffate di aromi speziati, balsami e afrori di mille prodotti extraplanetari che arrivavano sulla vicina cinghia.
Il soffitto luminoso emanava un bagliore bianco e freddo che fugava ogni ombra. In quella luce non c’era riverbero né occultamento; ogni articolo sulle cinghie si esponeva minuziosamente agli occhi dei controllori. Le pareti, suddivise in blocchi dal soffitto al pavimento, erano dipinte a colori differenti per meglio distinguere le campate dove varie partite, temporaneamente accatastate, attendevano la rispedizione.
Una stretta piattaforma chiusa da vetrate tagliava il deposito in due. Avanti e indietro dalla piattaforma alle cinghie, gli impiegati in camiciotti da lavoro azzurri e bianchi scattavano a controllare le merci in arrivo su un lato e in partenza sul lato opposto, ceste, sacchi, casse, balle, borse, rastrelliere e scatole.
Macchinari, parti metalliche in lingotti e sagome stampate, invii di frutta e verdura dalla Terra venivano inoltrati alle colonie, alle fattorie, alle miniere. Altri invii esotici da altri mondi arrivavano per allettare e stimolare i sofisticati di Parigi, Londra, Benares, Sahara City. Taniche d’acqua, botti di quercia di whisky, bottiglie verdi di vino, case prefabbricate, aeromobili, motoscafi per i laghi delle Tanagra Highlands. Legni bellissimi, riccamente venati e caratterizzati, dalle paludi di latifoglie di un pianeta giungla; metalli preziosi, minerali, cristalli, vetri, sabbie, tutto passava sulle cinghie, avvicinandosi o allontanandosi dalle cortine gemelle di oro brunito, colpite da tremolanti raggi di luce, all’estremità opposta dello stanzone.
A un capo della cortina della cinghia in uscita, un omone biondo sedeva in una cabina sopraelevata, masticando nervosamente della gomma. Allixter e Schmitz scansarono la cinghia in entrata, oltrepassarono la piattaforma degli impiegati, e approfittarono della cinghia in uscita per raggiungere la cabina dell’operatore.
Carr tirò indietro una leva e la cinghia si fermò lentamente. «Tutto pronto per la partenza?»
«Sì, tutto sistemato,» disse Schmitz allegramente. Saltò su nella cabina mentre Allixter se ne stava incupito a fissare la cortina. «Come va tua moglie, Carr?» chiese Schmitz. «Ho sentito che si è presa una dermatite da qualcosa che hai portato a casa sui vestiti.»
«Sta bene,» disse Carr. «È stato quel kapok di Deneb Kaitos. Adesso vediamo, devo stabilire questo codice falso. Ehi, Scotty,» gridò rivolto a Allixter, «hai già fatto testamento? È come saltare giù da un aeroplano stringendosi il naso e sperando di cadere in acqua.»
Allixter fece un gesto noncurante. «Roba di tutti i giorni, Carr, ragazzo mio. Regola quei quadranti, ho intenzione di tornare, stasera.»
Carr scosse la testa in contrita ammirazione. «Ti pagano mille franchi per questo, fratello, tocca a te. Ho visto qualche cosa venire fuori dal teletrasporto quando le registrazioni sono un po’ fuori fase. Pannelli di legno compensato arrivano come fazzoletti di mussolina, un agitatore a turbina diventa circa un gallone di ruggine dall’aspetto buffo.»
Allixter strinse le labbra sui denti, e fece schioccare le nocche.
«Eccolo,» disse Carr. Una lampadina rossa sul pannello si accese, tremolò, ondeggiò in un arancione fumoso, passò a un bianco abbagliante. «È arrivato.»
Schmitz si sporse dalla cabina. «Okay, Allixter, è tutto tuo.»
Allixter si infilò il casco, lo chiuse ermeticamente, gonfiò la tuta. Carr ridacchiò nell’orecchio di Schmitz: «Scotty è cupo forte per questa faccenda.»
Schmitz sogghignò. «Ha paura di sbucare nel magazzino di qualche dirottatore.»
Carr gli rivolse uno sguardo blandamente curioso. «È vero?»
Schmitz sputò. «Diavolo, no. Sta andando su Rhetus, a regolare la taratura del codificatore. Così è come la vedo io.» Sputò ancora. «Naturalmente potrei sbagliarmi.»
Allixter sollevò il casco e urlò a Schmitz: «Farai meglio a portarmi giù il Linguaid.»
Schmitz gli rispose con un ghigno. «Non sai parlare Inglese? È tutto quello che sentirai su Rhetus.»
«Il Capo dice di prendere il Linguaid. Perciò tiralo fuori.»
Un ronzio risuonò sul pannello di Carr. Carr grugnì. «Dagli il suo analizzatore. Non posso tenere ferma la cinghia tutto il giorno. Il vecchio Hannegan sta strillando che deve far partire la sua uva per Centauri.»
Schmitz disse bruscamente poche parole in una griglia e pochi secondi dopo uscì un corriere dall’officina facendo rotolare davanti a sé il Linguaid, una scatola nera sospesa tra due ruote.
«Fai attenzione con quel congegno,» disse Schmitz. «Costa un occhio, ed è l’unico equipaggiamento decente che abbiamo da quando Olson ha fuso il Semantalizzatore. Non lasciarlo su Rhetus.»
«Ti preoccupi maledettamente per quel Linguaid,» borbottò Allixter, «e nemmeno un soldo per il vecchio Scotty Allixter.»
Riabbassò il casco, e facendo rotolare il Linguaid davanti a sé, attraversò la cortina.
Allixter si trovò su una piattaforma bianca come un osso, scoperta sotto il cielo. Sentì un rimescolio di tetro trionfo. «Sono ancora vivo. Non sono un fazzoletto di mussolina, e nemmeno un gallone di ruggine. Suppongo che il Capo abbia visto giusto, devo dargliene atto. Ma…»
Allixter guardò il paesaggio, una pianura grigia e nera. A precisi intervalli, da terra si levavano massicce rotonde di cemento, molte delle quali erano in frantumi come a causa di un’esplosione interna.
«Questo non è Rhetus, non è nessun luogo vicino a Rhetus. E quelli non sono uomini e non sono Rhetulani…» Rivolse uno sguardo ansioso all’impianto del teletrasporto, un tipo che non aveva mai visto, un cilindro di nebbia dorata marrone scuro. Sembrava turbinare lentamente attorno a un vortice.
Dove si trovava, in tutto l’universo? Guardò il cielo, viola caliginoso risplendente di una miriade di soli lontani, fortuite gocce di fuoco colorato. Era giorno, oppure notte? Scrutò l’orizzonte con occhi angosciati, sudando dentro la pellicola ad aria. Le prospettive erano strane, l’illuminazione era strana, le ombre erano strane. Ovunque guardasse, ogni cosa era strana, nello stato selvaggio e non umano tipico dei mondi remoti.
«Sono nei guai,» pensò Allixter. «Sono perduto.»
Era un paesaggio squallido, una pianura offuscata tempestata di enormi rovine grigie. Dov’erano crollati i muri si vedevano dei macchinari, ruote, assi, file di ingranaggi e circuiti complessi, custodie e scatole schiacciate. Tutto era rotto, silenzioso, corroso.
Allixter riportò l’attenzione sul cilindro di dorata nebbia marrone. Quella era la cortina di arrivo, ma dov’era l’impianto per rimandarlo indietro? Di solito le due cose stavano assieme. Le creature allineate intorno al brodo esterno della piattaforma bianca si avvicinarono, apparentemente con indecisione e perplessità. Allixter non fece alcun movimento per prendere la pistola tipo JAR. Pensava che se fosse stato possibile incrociare una foca e un uomo, e piantare una palma nana di penne rosse e verdi sullo scalpo della prole, quello sarebbe stato il risultato.
Nell’avvicinarsi, osservandolo con grandi occhi dalla superficie opaca, emettevano dei suoni per comunicare, squittii, toni che ricordavano il fischiare del vento, sibili, che producevano intrappolando una sacca d’aria sotto le ascelle, e comprimendola fino a farla uscire da un lembo di pelle.
«Salute a voi, amici,» disse Allixter. «Io sono il rappresentante della Manutenzione Teletrasporto, e ho l’impressione di essere stato trasportato in una griglia totalmente differente, un milione di anni luce dalla Terra, se non di più. Temo di essere completamente separato dalle stazioni che conosco, e nemmeno il diavolo in persona saprebbe dirmi come tornare a casa.»
Mentre parlava i nativi smisero di emettere suoni, poi cominciarono di nuovo. Allixter si morse le labbra, rise per un amaro divertimento. Fece rotolare avanti e indietro il Linguaid con affetto, mormorando: «E Sam Schmitz voleva spedirmi qua fuori mezzo nudo!»
Abbassò un paio di gambe per stabilizzare il Linguaid, e tolse l’otturatore dallo schermo. «Vieni avanti, Joe,» disse facendo cenno alla creatura che stava leggermente davanti alle altre. «Proviamo a capirci l’un l’altro.»
Joe lo fissava senza rispondere. Allixter ripeté il gesto con maggiore cura. Joe scivolò avanti su gambe sinuose. «Joe, vedo che sei una creatura intelligente,» disse Allixter. «Andremo d’accordo.»
Regolò i comandi sul Ciclo A. Lo schermo si accese, dapprima bianco; poi apparvero delle figure geometriche, un cerchio, un quadrato, un triangolo, una linea e un punto.
Joe guardava intensamente, e gli altri gli si affollarono alle spalle. Allixter indicò il cerchio e disse: «Cerchio,» poi il quadrato e disse: «Quadrato,» e così via per le altre forme. Poi, facendo segno a Joe, premette il tasto di registrazione e indicò il cerchio.
Joe taceva.
Allixter lasciò andare il tasto, ripeté la serie di frettolosi insegnamenti. Di nuovo premette il tasto per la registrazione, e indicò il cerchio. Joe spremette un suono di cornamusa da sotto l’ascella. Allixter indicò le altre figure e Joe emise altri suoni.
Incoraggiato, Allixter procedette al Grado Due, l’Enumerazione. Lo schermo mostrò dei simboli che rappresentavano i numerali agglomeranti: una serie di linee, un puntino nella prima linea, due puntini nella seconda linea, tre nella terza, quattro nella quarta, e così fino a venti. Joe, attento al suo compito, emise dei suoni per i numeri. Poi lo schermo mostrò una moltitudine casuale di puntini, e Joe emise un altro suono.
Poi Allixter provò i colori. Joe fissò impassibile lo schermo. Rosso: nessuna risposta. Verde: nessuna risposta. Viola: nessuna risposta. Allixter scrollò le spalle. «Qui non ci intenderemo mai. Voi vedete a raggi infrarossi, o forse ultravioletti.»
Il ciclo passò a situazioni più complicate. Un puntino si spostava velocemente per lo schermo, seguito da un puntino che si spostava lentamente. La sequenza venne ripetuta, e Allixter indicò il primo puntino. Joe emise un suono. Allixter indicò il puntino lento e Joe emise un altro suono.
Dalla base dello schermo una linea si levò fino quasi in cima. Un’altra linea si sollevò di circa un pollice. Joe emise dei suoni che Allixter sperò fossero «lungo» e «corto», oppure «alto» e «basso».
Un cerchio si gonfiò fino quasi oltre il bordo dello schermo, e accanto vi apparve un cerchio minuscolo. I suoni di Joe per «grande» e «piccolo» entrarono nel dispositivo di memoria.
Di lì a poco le situazioni comparative si esaurirono, e lo schermo mostrò oggetti da designare con un nome: montagne, un oceano, un albero, una casa, una fabbrica, fuoco, acqua, un uomo, una donna. Poi fu la volta di oggetti più complicati: una turbina in una struttura di plastica per dare l’idea di un macchinario; il disegno convenzionale di una dinamo con un circuito esterno arrotolato su una sbarra, dal quale si irradiava un campo magnetico, poi lo stesso circuito interrotto, e lampi come di fulmine che attraversavano l’interspazio. Allixter indicò i lampi, e il Linguaid registrò il suono di Joe per l’elettricità.
Duecento nomi fondamentali vennero così registrati. Poi il ciclo passò alle relazioni interpersonali. La macchina era stata progettata per essere usata dagli uomini, e il totale delle situazioni raffigurava uomini. Allixter sperò che non insorgesse confusione.
Prima venne mostrato un uomo che aggrediva un altro uomo, colpendolo con un bastone. La vittima cadeva con il cranio fracassato. Allixter indicò; l’analizzatore archiviò la parola per morto, o cadavere. Poi l’assassino rivolse una faccia inferocita fuori dallo schermo, corse avanti con il bastone levato pronto a colpire. Joe fece un salto indietro, squittendo. Allixter, sogghignando, ripeté la sequenza, e l’analizzatore annotò la parola per nemico o assalitore, o forse aggressione.
Passò un’ora; una ventina di situazioni venne rappresentata e analizzata. Con il passare del tempo Allixter ebbe la sensazione che i nativi mostrassero segni di nervosismo. Gettavano occhiate inquiete in ogni direzione, gesticolavano con agitati svolazzamenti dell’appendice che avevano sulla testa.
Allixter scrutò l’orizzonte, ma nel perimetro della sua visione non si scorgeva alcuna minaccia. Comunque, per una sorta di simpatia, sentì i propri nervi tendersi, e trovò difficile concentrarsi sul Linguaid.
Il Ciclo A venne completato. Tutte le parole e le situazioni del vocabolario fondamentale erano state registrate, sebbene astrazioni utili e forse essenziali, come interrogativi e pronomi, fossero ancora assenti dall’archivio.
Allixter commutò la macchina dal Ciclo A in Conversazione. Parlò nel microfono, attento ad usare solo le parole del vocabolario fondamentale. «Desiderare ritorno attraverso macchina. Condurre macchina per uscire.»
Il Linguaid assorbì le parole, trovò la loro controparte negli squittii, nei sibili, nei suoni sgraziati registrati e diede loro voce attraverso l’altoparlante.
Joe ascoltò concentrato, poi guardò Allixter senza espressione. Le sue spalle fremettero. L’aria passò stridendo e crepitando dalla pelle sotto le ascelle.
Il Linguaid consultò gli archivi, diede voce alle parole: «Chiamare macchina… Desiderare… Uomo macchina… Macchina rotta… Uomo venire attraverso macchina… Male…»
Ovviamente Joe aveva detto più parole, ma il Linguaid traduceva soltanto i suoni che poteva confrontare sugli schemi registrati.
Allixter disse: «Usare parole date macchina.»
Joe lo fissò con i grandi occhi opachi. L’alto pennacchio di piume rosse e verdi si accasciò con aria scoraggiata. Fece un ulteriore sforzo. «Uomo chiamare lontano costruttore macchina. Uomo venire. Desiderare amico costruire macchina.»
Allixter guardò frustrato l’orizzonte scialbo, guardò il risplendente cielo viola dove non c’era mai né notte né giorno. Pensò di far scorrere il Ciclo B sul Linguaid, un processo che avrebbe messo a dura prova sia la sua pazienza che quella di Joe, ma che avrebbe potuto consentirgli di localizzare l’impianto per ritornare sulla Terra.
Tentò ancora una volta. «Desiderare ritorno attraverso macchina. Condurre a macchina per uscire.» Indicò la dorata cortina marrone. «Vedere macchina entrare. Desiderare macchina uscire.»
Qualcosa non andava. Il nervosismo che già prima Allixter aveva notato si accentuò. I nativi si acquattarono sulla piattaforma bianca in palle lisce, con la cresta avvolta tutt’attorno come un ombrello chiuso a metà. Allixter cercò Joe. Joe era ai suoi piedi, rannicchiato e compatto come i suoi compagni.
In preda a un’improvvisa angoscia, con uno scatto Allixter fece sparire l’iride dallo schermo, e chiuse il coperchio sui controlli. Un edificio poco lontano attirò il suo sguardo. Il macchinario all’interno si muoveva, frantumando, pestando, schiantando. L’elettricità, o comunque un flusso di energia, formò un arco tra i vecchi contatti.
Assi corrosi tremarono e si contorsero, si tesero fino al limite di rottura. Le ruote gemettero e fischiarono sui supporti asciutti. Senza preavviso l’edificio esplose. Pezzi di cemento e di metallo volarono via in un folle groviglio, e caddero fragorosamente in tutte le direzioni. Rottami più piccoli si sparsero per la piattaforma, e i nativi emisero dei suoni sgraziati per il terrore.
Alcuni frammenti colpirono Allixter, rimbalzarono sulla pellicola elastica. Gli venne in mente che non sapeva ancora nulla dell’atmosfera, che se la pellicola fosse stata perforata avrebbe potuto essere avvelenato.
Dalla borsa tirò fuori uno spettrometro, e lasciò entrare dell’aria nella camera a vuoto. Premette il pulsante di radiazione e lesse le linee scure sullo sfondo riflettersi su una scala standard. Fluoro, cloro, bromo, fluoruro di idrogeno, biossido di carbonio, vapore acqueo, argo, xeno, cripto, certo un ambiente poco salubre per i suoi simili, pensò. Osservò con attenzione le strutture. Se avesse potuto ottenere qualche analisi di quei metalli, avrebbe rivoluzionato l’industria anticorrosiva, e avrebbe guadagnato un milione di franchi in una notte.
Guardò ancora l’edificio esploso, ormai in completa rovina. D’un tratto divenne bianco incandescente, e il calore non sembrava disperdersi ma aumentare. I rottami contorti si fusero in una pozza di scorie ribollenti. Il terreno nelle immediate vicinanze fumò, riarse, crollò nella pozza di lava che si andava ingrandendo.
Allixter pensò: Quella è energia pura, e se è fortemente radioattiva, per me è tempo di schizzare via.
Spinse il Linguaid di fronte a sé fino al bordo della piattaforma, pronto a saltare giù sulla superficie grigia e nera due piedi più in basso. Dietro di lui i nativi erano ancora rannicchiati, palle di soffice pelle di foca, ordinatamente ricoperte dal pennacchio.
Joe si mosse, alzò gli occhi, vide Allixter. Avanzò saltellando sulle corte gambe flessibili, emettendo suoni incalzanti. Allixter girò l’interruttore sul Linguaid.
«Pericolo, pericolo, male, profondo, morte,» disse il Linguaid con intonazioni calme ed efficienti.
Allixter balzò indietro dal bordo. Joe gli si fermò a fianco, gettò un frammento di roccia a terra. Il frammento sollevò uno sbuffo di polvere soffice, e subito sparì alla vista. Allixter sbatté le palpebre.
Se non fosse stato per la grazia di Dio anche Scotty Allixter sarebbe finito lì dentro, pensò. Là fuori era un oceano di ceneri, un morbido batuffolo. Con occhi diversi guardò la pianura grigia e livellata, dalla quale gli edifici esplosi sorgevano come isole. Scrollò le spalle. Superava la sua comprensione. Sapeva di molti uomini che avevano perso la ragione tentando di comprendere i paradossi e le peculiarità delle stazioni esterne.
Un’improvvisa intuizione lo colpì. Scorse con lo sguardo la circonferenza della piattaforma bianca come un osso. Era come una zattera sul mare grigio, con al centro il cilindro che vorticava lentamente. Ma allora come ci erano arrivati i nativi? Poteva essere che anch’essi fossero arrivati attraverso il cilindro da un altro mondo?
Le dita morbide di Joe si mossero stentatamente sul suo braccio. Squittì muovendo le spalle in un movimento sciolto ed esperto a pompa, e il Linguaid tradusse: «Via. Venire. Condurre grande macchina.»
Allixter disse, speranzoso: «Desiderare macchina uscire. Desiderare ritornare. Condurre macchina uscire.»
Joe spremette altri suoni. «Venire… seguire. Amico venire cadavere grande macchina. Grande macchina distruggere amico. Grande macchina desiderare amico. Venire… seguire. Costruire grande macchina.»
Allixter pensò che qualunque cosa fosse, non poteva essere peggio che starsene fermo su quella piattaforma.
Joe armeggiò con una grata, la scostò, e discese per una ripida fuga di scalini. Spingendo il Linguaid davanti a sé, Allixter lo seguì.
Il corridoio si fece buio. Allixter accese la lampada frontale. Più avanti vide due dorate cortine marroni, l’entrata distinta dall’uscita grazie a una lieve differenza nel dorato tremolio interno.
Joe attraversò la cortina di uscita, scomparve. Mentre Allixter esitava, fece capolino dalla cortina di entrata, lo chiamò con un cenno che denotava una certa querula insistenza, e di nuovo scomparve attraverso la cortina di uscita.
Allixter sospirò. Spingendo avanti il Linguaid, passò.
Allixter si trovò in un ampio corridoio piastrellato di bianchi quadri vetrosi. Davanti a lui Joe scivolò attraverso un’alta arcata vagamente romanica. Lo seguì e uscì in un padiglione a cielo aperto. Il pavimento era costituito dalle stesse piastrelle vetrose, quadrati di sei piedi di lato. Era privo di mobilio e suppellettili. Lungo il bordo del pavimento, colonne sottili come cannucce di pipa sostenevano un frontone sproporzionatamente pesante, e Allixter si fermò trepidante, aspettandosi quasi che tutta la costruzione si incurvasse e cadesse in frantumi ai suoi piedi.
Si diresse cautamente verso il centro del padiglione, notando sotto il pavimento un tremore come per un enorme macchinario. Con rinnovata apprensione valutò la stabilità delle colonne, e non fu rassicurato nel vederle vibrare e ondeggiare. Joe sembrava ignaro del pericolo. Guardingo Allixter si avvicinò al bordo del padiglione, aspettandosi a ogni istante che il frontone collocato tanto precariamente sui suoi sostegni gli atterrasse sulla testa.
La veduta era diversa da quella che spaziava sullo scialbo mare di cenere. Da lì il panorama, sebbene strano e ultraterreno, possedeva un certo fascino ossessionante. Una lunga vallata tenebrosa giaceva annidata tra due basse colline. A due o tre miglia di distanza, in fondo alla valle, c’era un lago calmo come vetro, e lo specchio della superficie rifletteva lo sciame di soli multicolori.
Sulle colline crescevano arbusti purpurei simili alle vigne terrestri, e nella valle risaie verde scuro divise in blocchi rettangolari si stendevano a perdita d’occhio. A circa metà lago scorse quello che gli parve un villaggio, una fila di ordinati casotti aperti sia di fronte che sul retro, sotto una linea di verdi alberi affusolati colore del vischio, simili ai pioppi di Lombardia.
Ci fu un rumore improvviso, un terrificante fragore che riecheggiò per tutta la valle. Joe stridette, indietreggiò, si rannicchiò tremando in mezzo al padiglione. Allixter, sebbene con la pelle d’oca per paura che il frontone crollasse e lo schiacciasse, non riuscì a strapparsi dallo spettacolo nella valle.
La collina alla sua destra si era aperta in una vasta frattura lunga almeno un miglio e larga forse cento iarde. Un sipario di fuoco bianco si levò dal baratro ed esplose obliquamente proprio in mezzo alla vallata. Il calore disseccò la pelle della faccia di Allixter, che si rifugiò dietro a una delle sottili colonne. La colonna vacillò e ondeggiò davanti ai suoi occhi.
«Puah!» si disse Allixter. «Questo pianeta è un misero posto per organizzarci una vacanza. Non mi stupisco che sia in rovina!»
Joe, fattosi piccolo per il timore, gli si avvicinò come un cane impaurito in cerca di conforto. Allixter sogghignò suo malgrado. «Adesso capisco perché questi ragazzi si comportano come se fossero spaventati a morte. Non si può sapere dove capiterà la prossima esplosione.»
Osservò Joe con maggiore concentrazione: una faccia rotonda dagli occhi opachi, sotto un ridicolo copricapo, una faccia priva di espressione, umana per caso; braccia rotonde frangiate di peli neri, rotonde gambe sinuose collegate al tronco come tubi a una caldaia.
Allixter rifletté sui motivi che potevano spingere Joe. Quali che fossero, quali pensieri attraversassero gli organi del pensiero di quella creatura, erano certamente indescrivibili in termini terrestri. «Abbiamo qualcosa in comune, Joe,» disse Allixter. «Nessuno di noi due vuole venire ridotto a pezzettini.»
Da quella situazione si poteva trarre un’ombra di buonumore, pensò Allixter. Gli schemi mentali di Joe non erano quelli di un predatore evoluto. Secondo il Teorema di Gram i carnivori che si evolvevano in una civiltà mantenevano la ferocia e la durezza del loro prototipo. Gli erbivori tendevano alla placidità, alla disciplina e alla convenzione, mentre gli onnivori erano stravaganti, soggetti a disturbi nervosi e imprevedibili emozioni.
Joe tirò Allixter per un braccio. Allixter resistette un momento, poi si rilassò e lo seguì. «Non c’è scopo a ostacolarti; non arriverò mai a casa. Forse persino adesso mi stai guidando al teletrasporto, e, ora che mi ricordo, devo dare un’occhiata se trovo qualche piccolo gingillo da riportare indietro. Un uomo non può diventare ricco con mille franchi al mese.»
Percorse il cielo risplendente con occhi curiosi. «Devo essere nel cuore di un ammasso stellare, forse oltre la Via Lattea. Sono molto lontano da casa. È la cupidigia che mi ha portato qua fuori, il vecchio difetto. Oh, insomma, andiamo a vedere cosa vuole il vecchio Joe.»
Joe lo condusse attorno al padiglione lungo un vialetto di sottili lastre di pietra. Allixter le sentì vibrare e pulsare sotto i piedi come per l’impulso di un potente macchinario vicino. Dietro al padiglione si levava una collina. Da essa sporgeva un edificio di pietra, con la parte inferiore dentro il fianco della stessa.
I muri erano masse enormi e rugginose di muratura gialla grigiastra, tempestata e fasciata da barre di metallo come una fortezza. Il vialetto di lastre di pietra giunse alla fine. Si incamminarono sulla terra nuda, che pulsava e batteva ancora più pesantemente. Joe si fermò davanti a una spessa porta, leggermente socchiusa, che vibrava sui cardini.
Joe squittì, e Allixter accese il Linguaid.
«Grossa macchina male. Costruire bene. Pericolo. Grossa macchina distruggere amico uno. Amico due,» e così dicendo batté il petto di Allixter. «Amico due. Uomo costruire venire attraverso buco. Andare vedere grossa macchina. Pericolo. Distruggere amico. Grosso pericolo. Grossa macchina nemica. Fare grosso distruggere.»
Allixter si avvicinò prudentemente alla porta. «Non fai sembrare il programma molto invitante.» Sbirciò dalla fessura in una grande stanza spoglia. Il pavimento era lastricato a grandi quadrati di lucida pietra rossa di otto piedi di lato. Le pareti erano rivestite dal pavimento al soffitto con pannelli rettangolari, evidentemente rimovibili. Nel punto in cui uno dei pannelli era stato tolto, Allixter scorse masse di meccanismi squisitamente complicati e delicati.
Una guida sembrava fare il giro della stanza; sul limitare del campo visivo di Allixter un carrello sosteneva un’alta scatola nera. Dai comandi e dal montaggio dei quadranti su un lato, la scatola mobile era apparentemente un altro massiccio meccanismo.
Tali erano gli aspetti inorganici della stanza, e Allixter li notò con un’unica occhiata. Poi dedicò l’attenzione a un altro oggetto, a un tempo più interessante e maggiormente carico di implicazioni riguardanti il suo futuro. Era un cadavere sul pavimento, un uomo con il cranio fracassato.
La faccia dell’uomo morto era scarna e di colore giallo verdastro. Il corpo era sottile, la pelle molto tesa sulle ossa puntute. L’effetto generale era quello di un uccello esotico cui fossero state crudelmente strappate tutte le piume, ammazzato e gettato in un mucchio.
Pareva che il corpo fosse rimasto a terra in quello stato per diversi giorni, e Allixter fu contento, grazie alla pellicola ad aria, di non essere costretto a respirare l’aria della stanza.
Respirare… esaminò ancora una volta il cadavere. Non si vedeva nessuna apparecchiatura per la respirazione, né un casco. L’uomo aveva potuto respirare gli alogeni che rendevano il pianeta velenoso per un Terrestre. Strano, rifletté Allixter. Joe lo spinse avanti. «Andare. Grossa macchina distruggere. Pericolo.»
Allixter si tenne indietro. «Desiderare vivere. Desiderare evitare pericolo. Paura.»
Joe disse: «Vedere.» Aprì la porta, scivolò dentro muovendosi lateralmente. Mentre faceva il giro della stanza pompava furiosamente con le spalle, spremendo un costante flusso di suoni acuti.
«Joe,» disse Allixter ammirato. «Se fossimo sulla Terra ti porterei in Scozia, e ti arruolerei con le Guardie della Regina, dove suoneresti la cornamusa solista senza la cornamusa. Accidenti, che figurone faresti con il kilt di Cameron.»
Joe non smise un momento di emettere suoni fino a quando raggiunse di nuovo Allixter fuori dalla porta.
«Andare,» disse Joe. «Parlare, pericolo assente. Silenzio, pericolo.» Batté sul petto di Allixter. «Uomo costruire grossa macchina venire attraverso buco, costruire grossa macchina.»
I primi barlumi dell’illuminazione raggiunsero Allixter. «Credo di capire. Là dentro c’è una specie di macchina che vuoi farmi aggiustare. È pericolosa se non viene aggiustata, ed è pericolosa mentre sono là dentro, a meno che non continui a parlare.» Gli sfuggì una risata acuta che sembrava più un latrato.
«Schmitz dovrebbe vedermi adesso. Mi chiama il Silenzioso Scot, e adesso mi metterò a chiacchierare e blaterare come una ghiandaia. Oh, insomma.» Sospirò. «Mille franchi al mese sono una sicurezza per la mia vecchiaia, finché sopravvivo al mio lavoro. E non morirò mai di fame…»
Guardò di nuovo nella stanza, mordendosi un labbro in frustrato silenzio, e desiderando di aver posto le domande nel linguaggio dei nativi.
«Potrei essere il migliore meccanico del mondo,» disse Allixter, «ma arrivare fresco fresco su una macchina extraterrestre, senza sapere cosa non funziona, senza nemmeno sapere cosa dovrebbe fare, questo è il modo in cui è morto il vecchio Willy Johnson.»
Joe lo sollecitò ansiosamente. In lontananza udì un grande tonfo, lo scoppio di un’esplosione enorme. Joe rabbrividì, squittì in preda all’agitazione, aprì a ventaglio le penne del copricapo in tutte le direzioni.
«Un uomo non muore che una volta,» rifletté Allixter, «e se è il mio turno, almeno il Capo e Schmitz non avranno la soddisfazione di saperlo.»
Spalancò la porta con una spinta, e stava per entrare nella stanza quando Joe indicò sopra la sua testa e squittì: «Pericolo.»
Allixter guardò in alto. Vide un grande martello, che oscillando dall’articolazione composta da una superficie sferica posta in una cavità in mezzo al soffitto, era rimasto inclinato contro la parete; apparentemente era lo strumento che aveva fracassato il cranio al cadavere sul pavimento.
«Pericolo,» disse Joe. «Parlare molto.»
Allixter entrò nella stanza, spingendo il Linguaid davanti a sé. «Vorrei essere a casa,» disse ad alta voce. «Vorrei sapere dove mi ha portato il teletrasporto. Così vicino eppure così lontano, ed eccomi qui a dipendere dalla mia voce per mantenermi in vita, come un canarino.»
Il Linguaid, selezionando le parole traducibili, squittiva e rantolava così che la stanza risuonava di un miscuglio di suoni.
Allixter pensò: «Perché dovrei parlare, quando c’è un parlatore meccanico perfettamente efficiente qui a portata di mano?» Spinse il Linguaid in mezzo alla stanza, spostò l’indice in modo che ripetesse il Ciclo A, assieme alle interpolazioni registrate di Joe. Adesso, pensò, ci sarebbero stati suoni sufficienti da distrarre chiunque.
Occhieggiando diffidente il martello sospeso, Allixter studiò la stanza. Era fuori di dubbio che c’erano in corso delle riparazioni al macchinario quando la morte aveva fermato la mano del meccanico. I pannelli erano stati rimossi dalla parete, e la facciata dell’unità mobile era stata smontata. Camme varie, ingranaggi, assi, assemblaggi di indescrivibile natura montati in piccole scatole, erano ordinatamente disposti su un vassoio accanto a una rastrelliera di attrezzi. A quanto pareva il meccanico aveva appena cominciato quando — Allixter rivolse uno sguardo ansioso al martello immobile.
No, pensò Allixter, troppo precario, troppo rischioso.
Si arrampicò sull’unità mobile. Appollaiato sulla sommità prese dalla cintura la torcia termica che gli serviva sia come arma che come attrezzo. Allungandosi sull’apertura diresse la torcia sull’asse. L’asse prese fuoco, il metallo si fuse in uno spruzzo di scintille, il martello cadde con gran fracasso, mancando il Linguaid per pochi pollici. Allixter si batté una mano sulla fronte, incastrò di nuovo la torcia nella cintura.
Una voce emise dei suoni nella lingua nativa, strillando, sibilando, gemendo, protestando. Allixter ridiscese in fretta sul pavimento, si guardò attorno cercando l’origine della voce. Il sudore gli scendeva giù per la schiena, formando rivoletti lungo la spina dorsale.
Era solo nella stanza.
La voce continuò, e dopo un momento ne localizzò la provenienza: un diaframma di metallo dalla parte opposta della stanza. Direttamente sopra di esso una lente sfaccettata di circa sei pollici di diametro era montata in modo da sporgere leggermente all’interno della stanza.
Spinse il Linguaid lì vicino, disse: «Amico, amico. Venire fuori, vedere.» Doveva essere un compagno del cadavere, pensò Allixter, forse qualcuno che osservava a distanza attraverso la lente sfaccettata.
Chiunque fosse, disse in inglese: «Costruire molte parole incrociate. Costruire parole attraverso macchina.»
Evidentemente l’osservatore era un essere intelligente, pensò Allixter. Benissimo, Ciclo B. Diede inizio alla sequenza ma la voce non fece alcun tentativo di fornire parole per l’automa. Disse invece: «Uomo parlare. Uomo parlare.»
«Ha…hmm,» disse Allixter rivolto a se stesso. «Il ragazzo è piuttosto ragionevole, vuole imparare l’inglese. Sembra che tocchi a me parlare, invece che a lui. Suppongo che questo sia compreso nel mio salario, anche se in verità ho firmato il contratto come meccanico, e non come un dannato linguista. Oh, insomma…»
Si mise all’opera, e fornì parole inglesi per le sequenze rappresentate e per le relazioni.
Il Ciclo B, con i pronomi, venne completato. Iniziò il Ciclo C. La voce disse: «Più parole, più veloce. Tutto viene capito e ricordato.»
«Hmm,» mormorò Allixter, «ho tra le mani un vero e proprio genio. Il ragazzo ha una mente che è come una spugna. Benissimo, gli darò tutto quello che è in grado di assorbire.» E descrisse le situazioni sullo schermo nei minimi dettagli, integrando i primitivi concetti con materiale aggiuntivo, nominale e verbale.
In due ore aveva completato i Cicli C, D, E, e F, normalmente il lavoro di un mese.
Spegnendo l’interruttore, disse: «E ora, amico mio, dovunque tu sia, dovresti essere capace di parlarmi, e forse potrai rispondere ad alcune domande.»
La sua stessa voce gli rispose dall’altoparlante. Allixter fece tanto d’occhi per la sorpresa. «Chiedi, gli archivi forniranno informazioni. Questa è la loro funzione.»
«Innanzitutto…» Allixter fece una pausa. Cosa c’era innanzitutto? Mentre ci pensava udì un cigolio, un sibilo. Sopra la sua testa il manico mozzo oscillò verso di lui. Se il martello fosse stato ancora sospeso, Allixter sarebbe stato simile al cadavere sul pavimento.
Allixter si acquattò allarmato. «Chi sta cercando di uccidermi? Perché? Tutto ciò che voglio è tornare sulla Terra.»
L’altoparlante disse con calma disarmante: «Le strumentazioni protettive cercano di ucciderti perché il circuito inibitore è disorganizzato.»
«E come dovrei riuscire a sopravvivere?» chiese Allixter con uno sguardo preoccupato al cadavere.
«Un impulso costante emesso dall’unità di attenzione toglie energia al monitor B-sub C e mantiene aperto il relè. Per tutto il tempo in cui fornisci materiale che tiene occupata l’attenzione, i congegni di protezione automatici non funzionano.»
«Ce la metterò tutta,» disse Allixter. «La conversazione è sicura?»
«Finché tiene occupata l’attenzione. Tre secondi sono il tempo critico. Tale è il tempo necessario per fare fluire la carica oltre i condensatori del relè.»
«Tu chi sei? Chi sta parlando?»
«La voce è l’unità automatica della Macchina del Pianeta.»
«E questa cos’è?» chiese Allixter perplesso.
Il messaggio venne ripetuto. Allixter ristette stupefatto e sgomento. «Allora se ho capito bene sei una specie di… robot?»
«Sì.»
Tre secondi passarono rapidamente. In fretta Allixter chiese: «Qual è la tua funzione? Cosa fai?»
«Quando la macchina in riparazione coordina gli impianti dislocati in tutto il mondo che accumulano energia dai soli, la funzione è di applicare tale energia agli usi designati.»
«Che sono?»
«Estrazione meccanica di metalli preziosi, scorificazione, affinazione, leghe e parti metalliche finite di macchinari, gestione di cisterne fotosintetiche producenti composti di fluorosilicio e fluoro-carbonio, combinazione e fabbricazione di articoli in Classificazione Zo, programmazione Ba-Diciannove tramite Pec-Venticinque. Quando i prodotti sono completi, vengono consegnati al pianeta padrone Plagigonstok attraverso il traduttore.»
Allixter colse nella spiegazione un accenno di schiarimento. «Allora credo di capire che questo pianeta è la colonia di un altro mondo? Plagi… Plagi… qualcosa. E i nativi, dove si inseriscono?»
«I nativi forniscono manodopera non specializzata e versatile dove necessario. Vengono pagati con prodotti di prima necessità.»
Allixter scoccò un’occhiata al cadavere. «Dove sono tutti i… come li chiami?»
«La domanda è inesatta.»
«Che tipo di uomo è quella creatura morta sul pavimento, di che razza?»
«È un Plag, un Signore dell’Universo.»
Allixter sbuffò. «Ce ne sono altri nelle vicinanze?»
«Ce ne sono dodici in condizioni simili a questo.»
Un brivido leggero corse lungo il collo di Allixter. «Cosa vuoi dire, condizioni simili?»
«Funzioni corporee interrotte per disorganizzazione dei centri mentali.»
«Morti?»
«Morti.»
«Tu li hai uccisi?»
«Le strumentazioni protettive li hanno uccisi.»
«Perché?»
«Il circuito inibitore non funziona. La macchina ha l’ordine fondamentale di non uccidere i Plag. Questo ordine è interrotto. Adesso la macchina uccide i Plag liberamente senza inibizioni, e distrugge casualmente gli impianti dei Plag.»
«Allora perché non uccidi i nativi?»
«Gli inibitori riguardanti gli autoctoni sono ancora attivi. La macchina protegge gli autoctoni. La macchina uccide forme di vita aliene che entrano in questa stanza, il centro mentale della macchina. Tu sopravvivi solo per caso; le unità di attenzione, togliendo energia ai monitor B-sub C, mettono in disparte gli sterminatori.»
Allixter fece una smorfia. «Da qualche parte c’è una grave svista.»
La macchina rimase in silenzio. Allixter aspettava una risposta. Un secondo… due secondi. Si rese conto con un po’ di urgenza che la macchina rispondeva solo alle domande, che i circuiti non erano regolati per scambiare due chiacchiere con dei passanti casuali.
Senza riflettere, disse: «Sì. No. Ho visto robot, e macchine calcolatrici, e meccanismi automatici, ma niente come te. Sei un bel pezzo di macchina, non trovi?»
«Sì.»
Un secondo… due secondi. La mente di Allixter era vuota.
«Ah. I Plag hanno costruito tutti questi macchinari?»
«I Plag hanno organizzato le parti fondamentali, consistenti nei segmenti di programmazione, ingegneria, meccanica, energia e operatività, e hanno delineato i fini ultimi desiderati. Gli elementi sussidiari sono stati concepiti dal segmento di programmazione, progettati dal segmento di ingegneria, costruiti nella fabbrica centrale. Ora l’intero pianeta è una rete di vari agenti che il segmento di programmazione considera utili.»
«Perché tutti quegli scoppi? Gli edifici che esplodono, i fianchi delle colline che sputano fuori fiamme?»
«Gli impianti che beneficiano i Plag vengono distrutti. Esistono agenti distruttivi. Precedentemente gli inibitori li controllavano. Adesso gli inibitori sono esclusi. Gli agenti distruttivi si attivano a caso.»
Allixter sogghignò. «Ai Plag non piacerà tutto questo, non credi?»
«Informazione accurata non disponibile.»
«Come faranno i Plag ad aggiustare la macchina?»
«Nessuna informazione. Appena i Plag arrivano vengono uccisi.»
«E come mai i nativi mi stavano aspettando alla cortina di entrata?»
«Informazione precisa non disponibile. Esiste la possibilità che abbiano inviato un messaggio su Plagigonstok richiedendo una squadra di servizio, e che aspettassero risposta.»
«Ah!» Allixter annuì sapientemente. «Da quanto tempo la macchina è guasta? E perché l’uomo di servizio Plag non l’ha riparata subito prima che peggiorasse?»
«Quando la macchina è guasta l’unità di manutenzione si muove lungo la guida fino al punto che interessa la rottura, e compie le necessarie sostituzioni. Il meccanico di servizio non ripara mai la macchina. È troppo complessa. In questo caso l’unità di manutenzione era guasta, e il meccanico era impegnato nella sua riparazione. Allora il circuito inibitore si è fuso. Gli ordini fondamentali si sono attivati, e gli sterminatori hanno ucciso il Plag.»
Allixter sospirò. Poi, ricordando che sospirare occupava del tempo, disse: «Come posso prolungare questo limite di tempo di tre secondi? Non posso restare qui per sempre a farti domande.»
«Puoi fornire dei problemi per tenere occupate le unità di attenzione, o meglio puoi riparare il circuito inibitore oppure l’unità di manutenzione.»
«E mentre sono al lavoro tu mi uccidi?»
«Sì.»
«Perché una gallina attraversa la strada?»
«Presumibilmente le motivazioni e le restrizioni relative all’eventuale azione raggiungono un equilibrio che consiglia il movimento piuttosto che la stasi.»
«Quando due e due fanno tre?»
La voce disse: «L’unità di attenzione sarà occupata con il problema per sei minuti. Questo è il tempo necessario per esaminare tutte le condizioni possibili secondo tutti i programmi matematici inseriti nel nucleo.»
Allixter guardò l’orologio. «Bene. Nel frattempo avrò modo di inventare qualcosa.»
Si rilassò, ammaccò la pellicola del casco per massaggiarsi la fronte. Sei minuti… avrebbe mai dormito di nuovo? E la vecchia vita sulla Terra! Con malinconia e nostalgia pensò al bardi Buck, nell’Hub, i volti familiari attorno all’ovale di noce, i grandi boccali di vetro con la spuma traboccante…
Si costrinse a ritornare al presente. A quanto pareva il suo futuro sarebbe stato dedicato a intrattenere quel robot planetario con enigmi, indovinelli, e passatempi matematici. Almeno, pensò Allixter con un ghigno acido, sapeva come bloccarla per più di tre secondi. La cosa da fare era trovare il guasto e riparare la macchina. Cosa diavolo non andava? Il circuito inibitore? L’unità di manutenzione? Erano entrambi guasti, una situazione spiacevole. Il sistema di riparazione serve a mantenere operativo il macchinario, ma non c’era niente per riparare il sistema di riparazione.
Andò a zonzo per la stanza, esaminò l’interno dove era stato rimosso il pannello dalla parete. Una complessità dopo l’altra, forme non familiari, conduttori e fili di circuiti stampati, ranghi su ranghi. Ci sarebbe voluto un mese di lavoro solo per tracciare un angolo del meccanismo.
Raccolse un attrezzo. Parola mia, pensò Allixter, qui c’è davvero un bell’equipaggiamento. Ora, se potessi brevettare questo arganetto tascabile, potrei guadagnare un milione tranquillamente. E questo cos’è? È una sega, perdiana. Non l’avrei mai creduto… Accidenti, potrei conficcare questo braccio per una iarda ovunque, e i denti trapasserebbero anche la lega più dura. Bravi, questi Plag.
Però, questo dispositivo conduttore, abbiamo la stessa cosa sulla Terra. Stesso disegno, identico… strano. Una di quelle coincidenze insolite che si notano quando si va avanti e indietro da un mondo all’altro… Mio Dio, il tempo. Guardò l’orologio. Cinque secondi.
Ma non correva un pericolo immediato. Il robot aveva parecchio da riferire. «Archiviato sotto indici di risolubilità esiste un certo numero di situazioni in cui due unità di una sostanza e due unità di un’altra sostanza, mischiate, risultano in tre unità di una sostanza finale. Questi casi non sono rigorosi, e possono venire accantonati. Comunque nel caso di…» La voce si lanciò in una monotona terminologia matematica che per Allixter non significava nulla.
Ascoltò per cinque minuti, ma il fluire di simboli non dava segno di finire. Continuando a prestarvi attenzione con metà orecchio, si mise a camminare avanti e indietro studiando la stanza. Le piastrelle rosse del pavimento erano di una sostanza gommosa, posata con precisione microscopica.
Allixter ne tagliò una scheggia con il coltello e la lasciò cadere nella borsa. Gli avrebbe fruttato una fortuna, una volta tornato sulla Terra, gommaresistente al fluoro. Le sue dita urtarono un oggetto duro e rotondo, una forma non familiare. La tirò fuori.
Ah, il piccolo cristallo marino che brillava con una luminosità così affascinante. Solo ventiquattro ore prima aveva raccolto quella piccola sfera sulla spiaggia di — che pianeta era? — e adesso… Allixter sorrise amaramente. Mille franchi al mese per fare da balia a un robot impazzito fino alla guarigione, per vagabondare su uno strano pianeta grigio in cerca del teletrasporto che lo riportasse sulla Terra. Poteva essere sottoterra, poteva essere diecimila miglia a nord, a est, a sud, a ovest.
Vide la porta. Era rimasta leggermente socchiusa. Si avvicinò per spalancarla. Se le cose si fossero messe male avrebbe potuto ritirarsi. La porta si mosse, e si chiuse con uno scatto.
Allixter imprecò. Piccoli demoni traditori! Nella stanza c’era silenzio. Si rese conto che la voce si era fermata. Al suo posto risuonò un forte sibilo.
Si contrasse angosciato. «Cosa succede?»
La sua stessa voce dall’altoparlante disse: «Il sistema di protezione è stato attivato. Stai per essere soffocato da un’atmosfera di azoto puro.»
«Capisco,» disse Allixter. Tastò con cautela la superficie della pellicola ad aria. «Non mi va di venire ucciso. Forse faremmo meglio a concentrarci su…»
Un’esplosione scosse il macchinario, e fece vibrare Allixter dalla testa ai piedi. All’esterno udì gli squittii angosciati degli indigeni. «Buon Dio, cos’è questo?»
«Il programma di spazzamento e semplificazione rurale, disinibito dalle precauzioni di sicurezza, sta livellando inutili resti di operazioni concluse. Un grande numero di fabbricati e…» la voce ronzò e gorgogliò. «Nessuna parola in archivio per il concetto. Gli impianti industriali dei Plag vengono distrutti, in archivio non c’è nessun ordine che si opponga alla demolizione…»
«Per l’amor di Dio non distruggere il teletrasporto,» disse Allixter in fretta. «È con quello che devo ritornare a casa!»
«Ordini sistemati in archivio appropriato,» disse la voce secca.
«Faremo meglio a rimettere in funzione il tuo circuito inibitore prima…» Un crepitio di esplosioni come la scarica di una filza di petardi lo interruppe bruscamente. Allixter continuò con voce scossa: «Stavo dicendo, prima che tu faccia davvero del male.»
Allixter chiese: «Qual è il modo più veloce in cui il circuito può essere rimesso in condizioni operative?»
Il robot rispose: «L’unità di manutenzione è programmata per aggiustare, sintonizzare, lubrificare e sostituire le parti usurate del circuito in quattro punto tre sei minuti. Un meccanico Plag può portare a termine lo stesso lavoro in ventisei ore.»
Allixter guardò accigliato l’unità di riparazione mobile. «Qual è il modo migliore per far funzionare la macchina riparatrice?»
«Nessun dato sull’estensione del danno.»
«Sei un bel robot,» disse Allixter con sarcasmo, «non sai nemmeno cosa succede davanti a tuo naso.»
C’era forse una traccia di mordacità quasi umana nella risposta? «Il sistema ottico della macchina non può penetrare il pannello opaco.»
«Fino a che punto della guida puoi vedere?»
«Un raggio due punto sei sette, come indicato in caratteri bianchi, è ottimale.»
Allixter tirò su col naso. «Non so leggere quei caratteri. Sono nella scrittura dei Plag.»
«Informazione opportunamente archiviata,» fu l’atono riconoscimento.
«Adesso sposto l’unità,» disse Allixter. «Dimmi dove puoi vederla. Nel frattempo,» disse pensosamente, «puoi compilare una lista di numeri primi terminanti nelle cifre sette nove sette.»
L’altoparlante emise un suono belante che una volta di più sembrava avere sfumature quasi umane. Allixter appoggiò la spalla contro l’unità mobile.
L’unità si mosse lentamente lungo la guida. Finalmente l’altoparlante disse: «Ottimale.» Poi: «La lista dei primi cento numeri primi terminanti nelle cifre date è la seguente…»
«Archiviali,» disse Allixter. «Fai attenzione a questa macchina. E non cercare di uccidermi mentre sono impegnato. Sei d’accordo?»
La voce atona disse: «Il meccanismo di protezione agisce indipendentemente.»
«Okay,» disse Allixter. «Sembra che la matematica ti interessi. Prova a fare una lista di numeri primi che moltiplicati per i numeri primi immediatamente precedenti e susseguenti, diano un prodotto che elevato alla sesta potenza, e diviso per sette omettendo il resto, dia un numero primo terminante nelle cifre uno uno uno.»
L’altoparlante singhiozzò e brontolò.
«Questi calcoli verranno effettuati,» disse Allixter, «quando la tua attenzione non sarà concentrata sul lavoro di riparazione. Ora, cosa devo fare per prima cosa?»
«Rimuovi i pannelli su entrambi i lati.»
Allixter obbedì.
«Togli il perno di mezzo pollice dalla banda di rame, tira via lo spillo dalla camma dell’asse, taglia la saldatura del morsetto portante…»
La macchina era ben lubrificata, ben progettata. Dopo mezz’ora di lavoro, Allixter scoprì la causa dell’avaria: un’articolazione a L che si era bloccata alla giuntura.
«Fai scattare all’indietro le spirali doppie con l’attrezzo nell’angolo del vassoio. Stringi l’asse con il morsetto, gira di novanta gradi; i rebbi si separeranno, rilasciando la parte rotta.»
Allixter fece come gli era stato ordinato, e la parte offesa venne via.
«Il materiale è tutto standardizzato,» disse la macchina. «L’articolazione di ricambio si trova nel terzo armadietto dalla parte opposta della stanza.»
«Tieniti impegnato con quella listarella di numeri mentre vado a prendere il supporto,» disse Allixter.
Il dispositivo di memoria ha una capacità di otto bilioni di cifre,» annunciò il robot. «Il dispositivo adesso è pieno a metà.»
«Quando il dispositivo è pieno scaricalo e ricomincia da capo.»
«Istruzioni archiviate.»
Allixter attraversò il pavimento, passò vicino al corpo accartocciato del Plag. Con improvvisa curiosità lo rigirò con la punta del piede, e lo guardò in faccia. Era definitamente umano in tutte le caratteristiche primarie, anche se il naso e il mento erano lunghi e bitorzoluti, la pelle di un giallo peculiare da gallina spennata, i capelli come lana di acciaio. La creatura indossava un indumento di velluto verde scuro, lucido e smagliante dove la luce lo colpiva direttamente.
«Questo è strano,» disse Allixter fra sé tirando un anellino di metallo. «Una cerniera. La prima che vedo su un indumento extraterrestre. Ora se solo fosse equipaggiato con qualcosa di meglio, potrei portarlo indietro, brevettarlo, tirarne fuori un milione, e poi quando il Capo dirà: «Fai questa dannata commissione, aggiusta quel dannato teletrasporto, pulisci il naso a quel morto di fame di un Mafekinasian,» io gli risponderò: «Capo, quei mille franchi con i quali mi insulti tutti i mesi…»«
Fissò il Plag morto, studiò la faccia, la cerniera, e poi, tirando indietro le labbra per il disgusto, perquisì il corpo.
Nelle tasche non c’era niente, tranne un paio di piccoli oggetti di metallo simili a chiavi e un taccuino rilegato in fibra scribacchiato con dell’inchiostro nero-verde. Nella borsa c’era qualche piccolo utensile.
Fischiettando piano, Allixter trovò l’articolazione a L, e ritornò all’unità di riparazione. «Robot.»
«Presente.»
«Questo circuito inibitore è saltato interamente, è totalmente inoperativo?»
«No.»
Allixter attese, ma il robot, avendo risposto alla domanda, non trovava ragione di parlarne diffusamente. Annuì saggiamente. «Non pensavo. Qualunque organismo con il tuo potere e la tua responsabilità dovrebbe avere tanti inibitori positivi quasi quante sono le possibilità di azione. Giusto?»
«Giusto.»
«Per esempio, l’inibitore che si oppone all’uccisione dei nativi è attivo. E così l’inibitore che ti impedisce di far saltare tutti i tuoi fusibili. E mi sembra che se davvero avessi una necessità impellente, avresti ben poca difficoltà a uccidermi. In altre parole il semplice eccitamento delle tue unità di attenzione non disturberebbe un inveterato impulso di uccidere un alieno presumibilmente ostile.»
Il robot chiese: «Quante volte desideri che i dispositivi di memoria vengano riempiti di numeri primi terminanti in uno uno uno e scaricati?»
«Il problema ti sta annoiando?»
«Concetto incomprensibile.»
«Bene… giusto per il piacere della novità, considera ogni piede quadrato del pianeta singolarmente, e calcola le possibilità che un meteorite di dieci libbre, con una variabilità di sei once per eccesso o per difetto, colpisca ogni piede quadrato nei prossimi dieci minuti.»
L’altoparlante rimase in silenzio, eccettuato un vago ronzio. Allixter continuò a perfezionare il disegno che stava prendendo forma nella sua mente. Era vasto, aveva una portata e implicazioni tanto grandiose che all’inizio lo trovò incredibile.
Allixter ritornò vicino al cadavere, guardò di nuovo la sua faccia immobile. Si rivolse all’altoparlante. «Quali sezioni dell’inibitore sono saltate?»
«Frammenti R otto sessantasei novantadue attraverso R nove undici novantuno.»
«E questi riguardano i Plag?»
«Sì.»
«A tal punto che senza l’inibitore che ti impedisce di danneggiare un Plag o una costruzione dei Plag, adesso è più che probabile, se non certo, che distruggerai ogni Plag sul pianeta?»
«Sì.»
Allixter meditò un momento. «Dov’è il teletrasporto spaziale in uscita?»
«Sul lato nord di questo edificio una porta di metallo giallo dà su un vasto magazzino. Sul retro della stanza c’è il terminale.»
«Qual è la posizione per Plagi… Plagi…» Allixter scosse la testa. «Il pianeta dei Plag?»
«Fase dieci, frequenze nove e tre.»
«In quali unità?»
«Unità Plag.»
«Traducile in unità Terrestri.»
«Fase otto punto quattro due, frequenze sette punto cinque otto e due punto cinque tre.»
Ha, pensò Allixter. Ci sarebbero state delle sorprese, molte sorprese, in alto loco. Se volevano buttare fumo negli occhi degli umani, dovevano scegliere qualcun altro, non Scotty Allixter. Ma c’era ancora un aspetto da prendere in considerazione. «Qual è la posizione sul quadrante per la stazione terrestre?»
L’altoparlante fece una serie di suoni stridenti.
«Descrivi la posizione in inglese.»
«Quadrante uno in cima, regolato sul simbolo somigliante a una B sdraiata sul lato piatto. Quadrante due, regolato sul simbolo somigliante a una N all’interno di un ovale. Quadrante tre, regolato sul simbolo consistente di due triangoli concentrici.»
Allixter si frugò in tasca in cerca di un foglio di carta, tirò fuori la bolla dai colori cangianti, la rimise via, trovò il taccuino, scrisse l’informazione, e lo infilò di nuovo nella borsa.
«Ora,» disse Allixter, «pensiamo al dispositivo inibitore. Voglio eliminare le particolari inibizioni che adesso sono saltate completamente e definitivamente. Qual è il modo più semplice?»
«Accanto al pannello c’è una serie di quadranti e uno stantuffo. Regola correttamente il quadrante, premi lo stantuffo. L’atto cancella il significato dai frammenti.»
«Bene,» disse Allixter. «Allora quando i circuiti verranno riparati saranno ancora vuoti?»
«Corretto.»
«Eccellente.» Allixter si diresse ai quadranti. «Adesso dimmi come trovo la posizione esatta.»
Il robot descrisse i simboli. Allixter regolò i quadranti, premette lo stantuffo, regolò i quadranti, premette, regolò i quadranti fino a che ebbe il polso indolenzito.
«Ora, quelle inibizioni sono definitivamente cancellate?»
«Sì.»
«E distruggerai ogni Plag che metterà piede sul pianeta?»
«La macchina non ha istruzioni contrarie. I Plag verranno annientati.»
«Come creo nuove inibizioni?»
«Connettiti a un frammento vacante, esprimi verbalmente l’ordine.»
«Connettimi con un frammento vacante.»
«Contatto effettuato.»
«È proibito uccidermi.»
«Il comando è in conflitto con l’ordine base. L’ordine è stato mantenuto dal circuito monitor.»
Allixter digrignò i denti contrariato. «Come diavolo faccio a tornare a casa, allora? Non appena ti lascio solo prenderai provvedimenti per uccidermi.»
«Il problema contiene variabili imprevedibili.»
«Grazie lo stesso,» disse Allixter. «In altre parole è meglio che lo risolva da solo. Okay… vediamo. Stai sempre lavorando a quel problema che ti ho dato?»
«Sì.»
«Quanto ti manca alla fine?»
«Sono approssimativamente a metà.»
«Sei veloce.»
«I calcoli di quel genere sono in gran parte automatici.»
«Hmm.» Allixter si massaggiò il mento attraverso la pellicola ad aria. «Contatto con un frammento inibitore vacante.»
«Contatto effettuato.»
«Non provocare la distruzione di alcuna installazione che potrebbe danneggiare i nativi o interferire con il loro sostentamento.»
«Istruzioni registrate.»
Allixter esitò, lanciò un’occhiata all’unità di riparazione mobile, la guardò dubbioso dall’alto in basso. «Se rimetto insieme questa macchina, riappenderà quel martello al suo posto?»
«Sì.»
Allixter fece una smorfia. «Bene… continuiamo.»
Sostituì il meccanismo dell’unità di riparazione secondo le istruzioni del robot, rimise a posto i pannelli di rivestimento. L’unità mobile rimase zitta e ferma. «Come la facciamo partire?» chiese Allixter.
«La scatola dei comandi sul retro è munita di un interruttore primario. Spostalo verso il basso.»
Allixter esitò. C’erano troppe possibilità imprevedibili. Astutamente, chiese: «Qual è il primo lavoro che affronterà l’unità di riparazione?»
«Sostituirà le sezioni danneggiate dei dispositivi di inibizione.»
«Ma adesso sono vuoti?»
«Sì.»
«E allora?»
«Lubrificherà il supporto KB quattrocento otto, che è caldo, e sostituirà un isolante surriscaldato nel Sistema di Risoluzione Paradossi.»
«Quando riappenderà il martello?»
«Tra diciotto punto nove minuti.»
«Hmm,» meditò Allixter. «È un tempo sufficiente per farmi uscire da questa stanza, ma altrimenti… Riuscirò a regolare il quadrante sul teletrasporto, e a lasciare il pianeta prima che avvenga qualche altra azione violenta?»
«Il problema contiene variabili imprevedibili.»
Allixter passeggiò avanti e indietro. «Se tengo occupata l’attenzione della macchina riuscirò ad andarmene. Se no, verrò giustiziato come alieno indesiderabile. Tutti i robot dovrebbero avere degli hobby, qualcosa che li tenga occupati, fuori dai guai. Ora, forse…» Esitò. «Mi costerà dei soldi.» Ci pensò attentamente. «Ma cosa sono pochi franchi paragonati al valore della mia vita?»
Tirò fuori dalla borsa la sfera di quarzo, e la piccola creatura di cristallo all’interno splendette, balenò, scintillò di colori cangianti, giacinto, rosa, verde mare. Allixter posò la sfera sull’orlo di un cornicione che gli arrivava al mento. «Riesci a vedere la piccola sfera?»
«Sì.»
«Vedi quei colori?»
«Sì.»
«Osserva questa sfera e quei colori. Questo sarà il tuo hobby, per divertirti durante le solitarie ore della notte. Devi prevedere il prossimo colore che apparirà. Quando sbagli rivedi i tuoi calcoli ed effettua una nuova previsione.»
«Istruzioni registrate,» disse il robot.
Allixter sfiorò la liscia sfera di quarzo. «Ora, mio piccolo gioiello, sii capriccioso quanto ti pare. Scommetto su ogni pezzettino di vita libera che sconfiggerai e confonderai una macchina, per quanto complessa e sapiente. Perciò splendi in tutti i tuoi incantevoli colori, e falli brillare con impeto e abilità, come sai fare tu.» Fece scattare l’interruttore sull’unità di riparazione mobile.
La porta era ancora chiusa a chiave. Allixter l’aprì bruciando la serratura con la torcia termica, uscì sul vialetto di lastre di pietra che si affacciava sulla grigia vallata caliginosa. Sopra la sua testa bruciavano miriadi di soli, sfere colorate di fuochi diversi, vicine e lontane nel cielo viola.
«Il nord è da quella parte,» disse Allixter. «Ecco là il magazzino, e la porta dorata…»
Il deposito dell’Hub era immerso nel silenzio quando Allixter sbucò dal teletrasporto. La cinghia in uscita trasportava solo qualche ventina di cassette di uva verde e bianca, una dozzina di cisterne di ossigeno dipinte di verde, tutto destinato a una stazione mineraria su un asteroide ricco di metalli preziosi ma senz’aria.
La cinghia in entrata era vuota, e l’operatore, dopo aver fatto passare Allixter, ritornò alla sua rivista.
Allixter passò a fianco dell’ufficio dello spedizioniere con la testa bassa, ma Schmitz lo scorse e fece scivolare indietro il pannello di vetro. «Ehi, Scotty,» abbaiò. «Torna qui e consegnami il rapporto. Credi che questa sia Liberty Hall? Non hai letto le regole?»
Allixter si fermò, poi tornò indietro.
«Tieni,» disse Schmitz gettandogli un modulo giallo. «Riempilo, e dopo questa volta vorrei non doverti più dire sempre cosa devi fare. Dopotutto, ho anche il mio lavoro a cui badare. Voi ragazzi mi riducete uno straccio, arrivate e sparite subito, come un gruppo di ragazzine all’ora del tè. Poi quando mi vengono a chiedere chi è stato dove e chi ha fatto cosa…»
«Ascoltami, Sam,» disse Allixter. «Vorrei usare il tuo telefono.»
Schmitz alzò gli occhi sorpreso. «Fai pure, usalo. Non mi importa. Finché mi tratti come si deve va tutto bene. Usa il mio telefono, qualunque cosa. Fai quello che devi fare, e io non mi lagnerò. Mio Dio, amico! Dov’è il Linguaid? Il Capo ce ne dirà di cotte e di crude se…»
«L’ho lasciato nel deposito.» Allixter sfogliò l’elenco telefonico. Sollevò lo sguardo. Schmitz lo stava guardando intensamente, i brillanti occhi azzurri scintillavano come rondelle galvanizzate nella faccia rossa e tonda.
Allixter chiuse l’elenco. «No, credo che aspetterò. Buona giornata a te, Sam Schmitz.»
«Ehi!» ruggì Schmitz. «Il rapporto!»
«Torno subito.»
«Quand’è subito? Non dimenticare che sono responsabile di tutto questo, sono io che vengo trattato male quando voi ragazzi combinate dei pasticci…»
Allixter gli rispose con una voce suadente: «Dammi quindici minuti, Sammy caro. Ti scriverò un rapporto che vorrai portare a casa da incorniciare.»
Quindici minuti passarono. Schmitz era agitato, ringhiava, faceva passare il mansionario. «Quel dannato Allixter è il peggiore. Gli Scozzesi sono tutti pazzi, bevono troppa di quella robaccia marrone che chiamano whisky. Grazie a Dio c’è la birra… Ehi, però, credo che sia tornato.»
I quattro uomini assieme ad Allixter indossavano delle uniformi grigie, e sembravano curiosamente uguali. Erano tutti alti, sobri nello stile, controllati nei movimenti. I volti erano uniformemente smussati, gli occhi acuti e indagatori, le labbra strette.
«Dio non voglia!» latrò Sam Schmitz. «È il Servizio Internazionale di Sicurezza. Adesso cosa è andato a fare Allixter?» Automaticamente allungò la mano verso il bottone collegato al telefono del Capo.
«Fermo, Schmitz!» urlò Allixter. «Lascia stare quel telefono!»
Uno degli uomini del SIS aprì la porta del cubicolo di Schmitz, gli fece un cenno. «Credo sia meglio che tu venga con noi.»
Protestando loquacemente Schmitz li seguì, saltellando e rimbalzando sulle gambe corte per tenere il passo. Gli uomini del SIS si disposero due su ogni lato della grande porta verde con le lettere di bronzo. Allixter spinse il bottone, la porta scivolò indietro, ed entrò. La segretaria alzò gli occhi. «Di’ al Capo che sono tornato,» disse Allixter.
Esitando la segretaria premette il bottone. «Scotty Allixter a rapporto.»
Ci fu una pausa. «Fallo entrare.»
La segretaria sbloccò la serratura, Allixter si diresse alla porta interna. Allora gli uomini del SIS entrarono nell’ufficio. Uno andò rapidamente alla scrivania, dove la segretaria aveva fatto un movimento veloce verso i comandi dell’altoparlante, e le afferrò il braccio.
Allixter aprì la porta. L’aria che odorava di laboratorio chimico gli soffiò in faccia. Entrò seguito dal plotone del SIS.
Il Capo, seduto alla scrivania con la schiena alla luce, si agitò un poco, poi si calmò. «Cosa significa?» chiese atono.
Il luogotenente del SIS disse: «Sei in arresto.»
«Per quale motivo?»
«Furto di articoli di rilevante valore, spionaggio, entrata illegale, tanto per cominciare. Potranno esserci ulteriori accuse quando l’indagine sarà completata.»
«Avete un mandato?»
«Certamente.»
«Vediamolo.»
Il luogotenente avanzò con una cartella rilegata in azzurro. Il Capo diede un’occhiata alla pagina stampata, incurvò sardonicamente la bocca. Allixter pensò: Tutti gli anni che sono venuto in quest’ufficio, che ho parlato con quest’uomo, l’ho guardato, e solo adesso lo vedo così com’è, la creatura di un altro mondo con la pelle d’oca gialla che respira un gas velenoso.
Allixter notò d’un tratto che l’atmosfera, acre e che sapeva di medicinale come al solito, aveva acquistato un nuovo, aspro odore. Urlò: «Allontanatevi, quel demonio ci sta avvelenando!»
Il Capo si mosse con rapidità, balzò in piedi.
Il luogotenente gli si avvicinò. «Fermo, o sparo.»
Allixter spalancò la porta e si mise in salvo. Dallo spigolo della scrivania del Capo schizzò un piano di fumoso fuoco giallo e bruciò i quattro uomini a metà. Allixter si ritrasse con un brivido dagli ioni crepitanti, che deviati dalla parete di metallo passarono a un pollice dalla sua vita.
Allixter aveva riposto gli attrezzi. Era disarmato. Corse al telefono della segretaria, che si era appiattita contro la parete, tramortita e con gli occhi vitrei. Allixter premette il pulsante di emergenza, gridò: «Omicidio, nell’ufficio manutenzione del terminale del teletrasporto.» Sentì un movimento furtivo all’interno dell’ufficio del Capo, guardò disperatamente verso la porta esterna. Per fuggire doveva attraversare la linea di fuoco dall’ufficio interno.
Lenti passi si stavano avvicinando. Con voce strozzata, Allixter disse: «Infila solo la punta del tuo lungo naso, e te la stacco…»
I passi si trascinarono cautamente. Il Capo si stava spostando vicino alla parete opposta per colpire Allixter con un tiro ad angolo. Si trovava perciò sull’altro lato della porta, lontano dal pulsante di scorrimento. Allixter premette il pulsante, la porta si chiuse. Si precipitò a quella esterna. Fece appena in tempo a uscire che una pistola tipo JAR risuonò alle sue spalle e la parete del corridoio andò in frantumi.
Allixter attraversò di corsa il corridoio, fino al deposito ancora silenzioso. Passò tra bidoni da cinquanta galloni di acetone, attraversò con un salto la piattaforma quasi vuota degli impiegati, si precipitò nella cabina dell’operatore.
Senza fiato, lottando per riuscire a parlare lentamente e distintamente, disse: «Questa è un’emergenza. Riguarda il SIS… Apri i contatti per quanto lontano possono andare, metti a punto questo codice: fase otto punto quattro due, frequenze sette punto cinque otto e due punto cinque tre.»
L’operatore gli rivolse un’occhiata meravigliata. «Che diavolo di codice è quello? Non ho mai sentito…»
«Chiudi la bocca!» ringhiò Allixter. «Imposta quel codice! E instrada tutto quello che trovi perché venga consegnato nel deposito.»
L’operatore si strinse nelle spalle, girò i quadranti. «Otto punto quattro due… cos’erano gli altri riferimenti?»
«Sette cinque otto! Due cinque tre! Per l’amor di Dio, muoviti!»
L’operatore fece scattare l’interruttore di attivazione. Allixter saltò giù, si mise vicino alla dorata cortina marrone nel punto dove la cinghia saliva rotolando dal pavimento.
Dieci secondi… Quindici secondi. Fissò lo sguardo nella nebbia marrone, tremolante e percorsa da raggi di luce, fino a che… un movimento. Apparve il Capo, che si guardava dietro le spalle. Voltò la testa, gli si spalancò la bocca.
Allixter saltò, lo prese da dietro, lo gettò sulla cinghia. La pistola tipo JAR del Capo cadde con un tonfo. Allixter l’afferrò, si alzò in piedi.
«E adesso, vecchio mio, puoi anche rilassarti. Ti ho beccato in pieno. Mi dispiacerebbe aprirti in due con un colpo.»
Allixter divenne il centro di un rispettabile pubblico al bar di Buck. La birra scorreva liberamente, le importazioni migliori dalla Germania e dall’Olanda, e c’era sempre una mano pronta a coprire il conto.
La storia era stata raccontata parecchie volte, ma c’erano degli ascoltatori per i quali alcuni aspetti della faccenda non erano completamente chiari. Tra questi il più insistente era Sam Schmitz.
«Allixter, ascolta,» disse con voce lamentosa. «Arrivi a tutta birra nel mio ufficio, e io non dico una parola. Io sono sincero con te, come sempre, ma avresti potuto ficcarmi in un mare di guai. Avevi ragione, adesso lo riconosco, ma supponi di avere avuto torto? Allora eravamo tutti e due in un casino. Insomma, non mi sembra che fosse la cosa giusta da fare.»
«Schmitz,» disse Allixter con immenso buon umore, «stai dicendo stupidaggini.»
«Ma come facevi a essere così sicuro che era il Capo? Non capisco come hai potuto anche solo immaginare che ci fosse qualcuno nell’Hub. Tu dici che hai dedotto questo e immaginato quello, ma ancora non ha senso.»
«Guardala in questo modo, Sam.» Allixter si bagnò la gola con mezza pinta di Hochstein Lager. «Sono stato mandato fuori per una chiamata fasulla. Per un po’, dopo che sono atterrato su quel pianeta, ho pensato che fosse un vero sbaglio. Ma ho cominciato a pensare. Un sacco di piccoli particolari mi tormentava in continuazione. Il Capo aveva insistito che portassi il Linguaid. Ma perché mai avrei dovuto avere bisogno del Linguaid su Rhetus? La risposta era che il Capo sapeva che mi sarei imbattuto in nativi che parlavano da sotto le ascelle.
«E poi perché si è assicurato che la pellicola ad aria fosse del Tipo X, a prova di alogeno? L’atmosfera di Rhetus è biossido di carbonio, argo, elio, un poco di ossigeno, e di solito portiamo soltanto i caschi. Perché? Perché sapeva che l’atmosfera dove sarei andato sarebbe stata piena di fluoro.
«E quando ho visto il Plag morto sul pavimento sono stato assillato da altri particolari. Indossava abiti con una cerniera terrestre. Non una simile allo stile terrestre, ma una cerniera identica in ogni suo aspetto.»
«Avrebbe potuto essere una coincidenza,» disse Buck, il barista grande e grosso con la faccia rossa.
Allixter annuì. «Avrebbe potuto. Ma cosa mi dite della penna a sfera con cui scriveva quel tizio, e dello schizzetto che si portava nella borsa degli attrezzi?»
«Cos’è uno schizzetto?» chiese Kitty, la bionda entraîneuse dalla mascella quadrata.
Barnard, un altro meccanico della manutenzione, disse subito: «Un attrezzo nuovo, nuovo fiammante. Noi adesso ce lo portiamo dietro al posto del filo elettrico. Quando vogliamo far passare della corrente tra due punti, schiacciamo il grilletto sullo schizzetto, esce una sostanza appiccicosa che si attacca al primo punto. Lo tiriamo su, giù, in giro, ovunque vogliamo che vada, lo appoggiamo al secondo punto, molliamo il grilletto, e abbiamo un legame permanente. La parte esterna si ossida in un ottimo isolante, e dove la metti sta.»
Kitty bevve la birra di Schmitz segnalando così di avere capito.
«Comunque,» continuò Allixter, «quando ho visto tutte queste cose sparse, ho pensato fra me che abbastanza sicuramente c’era stato qualche contatto con la Terra. E doveva essere stato univoco, perché sulla Terra non avevo mai visto nessuno giallo e col naso lungo come un Plag.
«E allora ho pensato al Capo. Assomigliava proprio al cadavere, forse un poco più vivace. E ho pensato ancora. Mi sono ricordato degli altri particolari. Poi quando il robot mi ha detto che i suoi circuiti erano inceppati in modo da ammazzare automaticamente i Plag, mi sono immaginato tutto.»
«E poi?» chiese Schmitz.
«I Plag volevano mantenere il teletrasporto aperto per il pianeta… non so come si chiama. Non sarei sorpreso di sapere che sfruttano un certo numero di questi mondi sussidiari, tutti equipaggiati col loro robot che munge il pianeta di tutto ciò che vale, e trasporta i prodotti su Plag… Plagi… caspita, non sono mai riuscito a pronunciare quella parola. Plagigonstok… Ecco.
«Insomma, il robot era programmato in modo da uccidere i Plag non appena si presentavano. Perciò era indispensabile far arrivare un meccanico di un’altra razza per aggiustare il robot. Io ero quel meccanico.»
«Proprio l’ultima risorsa,» grugnì Buck.
Allixter allargò le braccia. «Cosa avevano da perdere? O avrei aggiustato il robot, o sarei stato ucciso. L’unica altra possibilità era mandare una nave da guerra a distruggere il robot, e perdere così una delle loro vantaggiose attività. Così si sono messi in contatto con il Capo, e gli hanno detto di mandare sul posto il suo meccanico migliore con tutto il necessario per aggiustare il robot.»
Schmitz levò pensierosamente il bicchiere per bere, e vide che era vuoto. Scoccò un’occhiata a Kitty, che si stava cotonando i capelli. «Buck, versami un’altra birra. Mi pare che il Capo avrebbe potuto darti qualche accenno su quello che dovevi aspettarti.»
«Così che potevo tornare con la torta? No di certo. In questo modo, se fossi tornato, avrei pensato che tutta la faccenda era stato uno straordinario incidente.»
«E come facevi a sapere su quale codice avrebbe cercato di scappare il Capo?» chiese Barnard.
Allixter inarcò le folte sopracciglia nere con aria saputa. «Dunque… Vi ho detto che quando ho visto tutto quell’equipaggiamento di stile terrestre sparso in giro ho avuto la certezza. Ma forse avevo fatto un errore, forse avevamo davvero montato un teletrasporto su quel pianeta dei Plag. Così ho chiesto al robot qual era il codice.
«Quando me l’ha dato ho capito che non era sulla nostra lista, non era nemmeno nelle nostre unità. Evidentemente i Plag hanno scoperto da soli il sistema di teletrasporto, e hanno organizzato una rete per conto loro. In qualche modo hanno scoperto che noi avevamo un teletrasporto, e hanno fatto entrare illegalmente un loro rappresentante, che è diventato il Capo. Forse ce ne sono in giro degli altri.»
«C’è una cosa che non capisco,» disse Barnard. «Come faceva il Capo a respirare? Quest’aria avrebbe dovuto soffocarlo.»
Allixter svuotò il boccale prima di rispondere. Buck lo avvicinò alla spina, e glielo rimise davanti traboccante di spuma. «Hai mai notato la cicatrice sul collo del Capo?» chiese Allixter.
«Certo. Una cosa orribile. Deve essersela fatta con un Barlow, di quelli lunghi e affilati.»
«Non era una cicatrice. Era un tubo per la respirazione, che passava sotto la pelle e arrivava fino in gola. Gli forniva il fluoro, e portava via il gas dell’acido fluoridrico perché venisse assorbito da un filtro. Non che la nostra aria gli avrebbe fatto del male, ma certo non gli avrebbe fatto del bene.»
Schmitz scosse la testa. «Pensavo che gli avrebbe bruciato la gola.»
Barnard rise. «Ti ricordi quella volta che gli hai offerto uno di quei toscani neri tutti storti?»
«Già,» si rattristò Schmitz. «Ha detto che non capiva come potessi fumare una di quelle cose e sopravvivere.»
Allixter disse: «Non avrebbe certo avuto bisogno di tutto il volume di ossigeno che respiriamo noi. Poche libbre gli sarebbero durate per molto tempo. Naturalmente c’era un’inevitabile perdita attraverso la bocca e il naso…»
Barnard batté un pugno sul banco. «Ho sempre detto che l’ufficio del Capo puzzava come un ospedale!»
«Mi domando cosa succederà adesso,» disse Schmitz addolorato. «Il governo manderà una commissione su Plag… Plagi… tu sai dove?»
«Beh,» disse Allixter, che adesso era considerato come la fonte di tutta la conoscenza. «Non posso esserne sicuro. Ci hanno derubato spudoratamente, quei Plag. Tutte le nostre idee, gli utensili, le tecniche, hanno preso tutto. In sé non è una cosa così negativa, ma si sono accertati che non ricevessimo in cambio niente.
«E così la funzione del Capo era questa, di inviare merci; poteva entrare nel deposito quando non c’era in giro nessun altro, oppure poteva spedirle dal portello segreto che teneva in ufficio per poter scappare. Spediva le merci, le pagava tramite una corporazione prestanome, con il platino o l’uranio che estraggono a basso costo su qualche pianeta robotizzato. O forse stampavano soldi falsi. Quelli del SIS dicono che hanno trovato una valigia di biglietti da cento franchi nuovi di zecca nell’ufficio del Capo.»
«Ecco chi mi ha sommerso la cassa!» ruggì Buck. «Ho perso un migliaio di franchi in biglietti senza valore!» L’enormità dei crimini del Capo adesso gli sembrava chiara come l’alba. Dimenò le spalle, ognuna grossa come un sacco di frumento. «Accidenti a quella miserabile lucertola dal naso lungo, mi piacerebbe… mi piacerebbe squartarlo con le mie stesse mani! Mille franchi mi è costato!»
«Una sfortuna,» disse Allixter con voce distratta. «Anche a me è costato cinquecento franchi quando ho dovuto abbandonare quel prezioso gioiellino. Meno male che mi è capitato di raccogliere questo scarabeo là fuori su quel pianeta grigio. Fluorite gialla di prima qualità, un pezzo incantevole, ed è il sacro sigillo degli indigeni.
«Ce n’è soltanto uno uguale a questo. Il Direttore del Museo dei Mondi Esterni ha detto che sarebbe disposto a darmi ottocento franchi, ma dovrei aspettare un mese perché possa fare approvare un ordine di acquisto. Buck, lo lascio a te per seicento, e ti tieni il guadagno.»
Buck prese in mano l’ottaedro. «Sacro sigillo? Mah! Sembrano un sacco di raspate di gallina. Ti do cinque franchi, e forse posso scaricarlo a un ubriaco per dieci.»
Allixter riprese la fluorite con un’espressione di dignità offesa. «Cinque franchi? Ti venderei il mio orecchio destro, prima!»